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sinistra

Se Il Capitale fosse stato scritto oggi

di Pietro Basso (*)

bbbOgni grande opera dell'ingegno umano risente, inevitabilmente, del suo tempo. Questo è vero anche per Das Kapital, un monumento dell'ingegno umano che non perde forza né attualità con il passare del tempo, e semmai, sull'essenziale, ne acquista. E tuttavia chi lo affronta non può non sentire fin da subito, nella forma dell'esposizione anzitutto, l'eco delle dispute scientifiche e culturali di metà Ottocento. Non mi riferisco tanto allo stile della scrittura che ricevette un'impensabile stroncatura senza appello proprio dalla più acuta allieva di Marx, Rosa Luxemburg, che in una lettera del marzo 1917 ebbe a scrivere: "il famosissimo primo volume del Capitale di Marx, con il suo sovraccarico di ornamenti rococo in stile hegeliano, per me adesso è un orrore"1 . Mi riferisco piuttosto alla struttura, alla sequenza della esposizione della materia. E, nello specifico, al modo in cui la materia è organizzata e esposta nel I Libro. Pongo la questione nel modo più chiaro possibile: perché Marx comincia dalla immane raccolta di merci, cioè dal modo di produzione capitalistico già formato, dal capitale-merce come risultato del processo di sviluppo dei rapporti sociali capitalistici, e non invece dalla cosiddetta accumulazione originaria, e cioè dal punto di partenza del modo di produzione capitalistico? Cosa l'ha obbligato a fare questa scelta?

Marx, si sa, riprende nel 1867 lo schema di esposizione usato otto anni prima in Per la critica dell'economia politica, lo scritto che anticipa anche le battute iniziali del Capitale. E quello schema risponde al disegno di esporre una nuova concezione scientifica dei rapporti sociali capitalistici, della posizione che il lavoro, il lavoro salariato, il lavoro che crea valore di scambio, il valore di scambio stesso, il denaro hanno all'interno di detti rapporti. Tale disegno è concepito come il tentativo di sviluppare la scienza dell'economia politica attraverso il procedimento di critica dal suo interno (per dirla con Engels). È questa la vittoria teorica a cui Marx punta per il suo partito. E non era una vittoria facile da riportare. Anzitutto perché l'economia politica fino a Ricardo, pur con le sue incertezze, confusioni, errori (quale scienza non ne ha compiuti?), si era approssimata molto alla comprensione dei "misteri" del nuovo modo di produzione. E poi perché questa nuova formazione economico-sociale viveva in Europa, in quegli anni, il suo trionfo, e a mostrarne il "lato cattivo" erano stati fino ad allora, per lo più, teorici sognatori di un futuro immaginato astrattamente in nome di ideali di giustizia, del tutto a prescindere dai risultati del capitalismo, o affetti da una qualche nostalgia per le forme pre-capitalistiche di produzione, di scambio, di esistenza.

Marx, invece, è in dialogo e insieme in lotta con gli economisti borghesi su basi differenti, storico-materialiste, lontane tanto da astratti ideali di giustizia che da nostalgie del passato. La sua ipotesi di superamento del modo di produzione capitalistico si svolge, come si è detto, dall'interno stesso di esso e della dottrina economica che gli corrisponde. Non per nulla il sottotitolo del Capitale è il medesimo di otto anni prima: critica dell'economia politica, e non semplicemente critica dei rapporti di produzione e riproduzione propri del capitale. Ma da uomo di grandi sfide quale è, Marx non si accontenta di questo. Gli preme molto lanciare un'altra sfida contro coloro che vogliono affossare Hegel, e in particolare il portato rivoluzionario della sua logica dialettica, o che - contro le loro intenzioni - finiscono per svuotarla e ridicolizzarla. È una sfida teorica ad un tempo filosofica e politica, condotta per conto del materialismo storico e del movimento operaio, della "classe che tiene per mano l'avvenire". L'autore di Das Kapital non accetta di fare solo un'opera di scienza economica, di una nuova economia che ha saputo sciogliere le contraddizioni in cui si era impaniata l'economia politica classica, valida di per sé, per il suo rigore, per la capacità di chiarire come stanno e vanno le cose nella più complessa, mistificata ed auto-mistificantesi forma di società mai esistita. Intende anche mostrare che la forza esplosiva del capitalismo, esplosiva sia nel moltiplicare la produttività del lavoro sia nella tensione a creare un compiuto mercato mondiale, apre la strada, con i suoi antagonismi, a una "organizzazione economica superiore della società", al comunismo.

Molti documenti mostrano che Marx era pienamente cosciente delle grandi difficoltà dei primi capitoli del I Libro, e altrettanto preoccupato della cosa fino a riscriverne più volte alcuni passaggi. Mai però, a quel che si sa, ebbe in mente di modificare l'ordine della sua esposizione rispetto allo schema del 1859. Esso rimase l'identico anche quando decise di modificarne il metodo: invece che "salire dall'astratto al concreto" come nell'Introduzione del '57, "salire dal particolare al generale"2 , cioè dalla merce, "forma elementare" della trama sociale capitalistica, verso la identificazione della "legge economica del movimento della società moderna" e delle sue interne contraddizioni. Perché una tale ostinazione a imporre ai suoi lettori una partenza che somiglia alla scalata di una parete di settimo grado senza preventivo riscaldamento? Proprio perché il Marx fondatore dell'economia politica critica vuole arrivare a chiudere definitivamente i suoi conti tanto con le dottrine economiche precedenti quanto con l'ultimo grande prodotto della filosofia, il nocciolo razionale della logica di Hegel, incorporandone i più alti risultati attraverso un'esposizione della materia economica effettuata in maniera dialettica.

Punta a conseguire questo risultato perché considera ancora vive queste due fonti di conoscenza. E sente di doverne rivendicare l'eredità contro gli epigoni dell'una e dell'altra, volgari sperperatori, per superarla. Rimasti impubblicati i Manoscritti economico-filosofici del 1843-1844, i Grundrisse, l'Introduzione alla critica dell'economia politica; essendo stato sostanzialmente ignorato lo scritto Per la critica dell'economia politica; è come se, nel 1867, Marx si presentasse per la prima volta sulla scena pubblica nella veste di scienziato materialista, critico-dialettico, del capitalismo e delle relative dottrine economiche. Ecco perché la sua lotta si svolge a partire dall'esame e dalla acuta rielaborazione delle categorie forgiate dall'economia politica classica intorno alle "cose" più elementari con cui ci si presenta la società del capitale, che in realtà non sono cose, bensì "rapporti tra persone e, in ultima istanza, tra classi": la merce, il valore, il lavoro, il denaro. Con la sua magnifica scomposizione in successione di queste categorie e dei sottostanti rapporti storico-sociali che conduce, passo dopo passo, fino alla soglia del laboratorio segreto della produzione, all'interno del quale si potrà sciogliere l'enigma del plusvalore - il problema centrale la cui soluzione permette di afferrare i nessi interni della produzione capitalistica e il suo ulteriore svolgimento. In questo modo di procedere l'elemento logico del metodo marxiano prevale su quello storico, e i fatti storici sono chiamati in causa, quando lo sono, principalmente per confermare gli assunti teorici. Sicché non è esagerato dire che nel Libro I la storia, con tutti i suoi rumori, compie la sua veemente irruzione soltanto nel cap. 8 dedicato alla giornata lavorativa, insieme con la guerra civile strisciante tra la classe capitalistica e la classe operaia intorno alla durata della giornata lavorativa. Le è permesso entrare in scena solo dopo che sono state messe a punto e a fuoco le lenti necessarie, ovvero le categorie (esse stesse storiche, però), atte a decifrarla.

In questo modo ha deciso di procedere Marx al 1867, o - meglio - già un decennio prima. E tutto ciò che possiamo fare è comprendere il perché la sua è stata una scelta per certi versi, con tutte le sue controindicazioni, obbligata. Questo obbligo deriva a Marx soprattutto dai suoi studi filosofici e delle dottrine economiche compiuti negli anni '40 e '50. È un obbligo che gli viene dal passato. È vero: i quaderni che contengono il materiale delle Teorie sul plusvalore sono stati redatti negli anni 1861-1863, ma la teoria marxiana del valore, del plusvalore e del denaro è già compiuta al 1859. E gli anni successivi al 1863 sono dedicati più alla definizione di un nuovo piano di esposizione della materia raccolta e alla infaticabile stesura e lisciatura del libro della sua vita, che a ulteriori indagini di teoria economica3 . Naturalmente le sue indagini di teoria economica non si sono arrestate, sono proseguite specie intorno alle questioni fondamentali relative alla riproduzione allargata del capitale e alla rendita fondiaria, ma credo si possa affermare che dalla metà degli anni '60 in poi, anche a causa dell'impegno nell'Associazione Internazionale dei Lavoratori, il baricentro degli ininterrotti studi di Marx si sposta dalle dottrine economiche all'indagine storica. Dopo quelli giovanili con il diritto, anche i conti con la filosofia e con l'economia politica sono stati, per l'essenziale, chiusi. Ora è sulla storia delle forme di società antecedenti al modo di produzione capitalistico, sulla dinamica della sua formazione in antagonismo con esse, e sulla transizione dal capitalismo al socialismo, che Marx si concentra progressivamente. Lo spostamento è registrabile già, in prima battuta, nella sua cura dell'edizione francese del Capitale (del periodo 1872-1875), che contiene aggiunte relative quasi esclusivamente alla VII Sezione dedicata all'accumulazione e in particolare all'accumulazione originaria4 . E ora, grazie all'importante libro di Kevin Anderson, Marx at the margins, e alle ricerche di altri studiosi5 , ci è del tutto chiara la crescente applicazione di Marx all'indagine storico-antropologica sulle formazioni sociali pre-capitaliste e sui paesi sottoposti al dominio coloniale europeo. Ed è chiaro l'impatto di questi studi sulla sua concezione generale dei processi storici, sulla stessa ricollocazione del capitalismo in una complessa, non lineare, successione di modi di produzione, oltre che - si capisce - sulle sue posizioni politiche in materia di lotte anti-coloniali.

Ciò detto, vengo alla questione: avrebbe senso oggi, nella esposizione critica di ciò che il capitale è, partire ancora una volta, come nel 1867, dalla merce e dalla sua scomposizione, da quel tipo di fenomenologia? La mia risposta è: decisamente no. Per la semplice ragione che la duplice battaglia con l'economia politica e gli eredi/dissipatori o i liquidatori del pensiero di Hegel, fondamentale nel momento in cui fu data, appartiene interamente al passato. È un capitolo totalmente chiuso. Marx è vivo, i suoi avversari in dottrina del 1867 sono sottoterra da un bel pezzo. E non ci sarà per loro alcuna chance di risorgere. L'economia politica ufficiale ha perduto, non da oggi, ogni possibilità di rivendicare lo statuto di scienza. Lo ha fatto abbandonando la teoria del valore-lavoro, per volgersi in direzione del valore-utilità e poi della utilità marginale, con un capovolgimento soggettivista dell'analisi economica, accompagnata dalla paradossale ipotesi di un sistema in totale equilibrio e di una struttura produttiva statica. Per questa via si è sempre più allontanata dalla realtà effettiva del capitalismo, percorso nel ventesimo e ventunesimo secolo da dinamiche di crescita e di crisi sempre più violente e sregolate, e sempre più dominate dalla ossessiva ricerca del profitto fino al punto da ipotecare, attraverso l'abnorme rigonfiamento del capitale fittizio, lo sfruttamento del lavoro di molte generazioni a venire. L'economia politica classica non aveva avuto timore di guardare in faccia le contraddizioni del capitale. L'economia neo-classica, al contrario, le scansa, le nasconde. E questa linea di marcia si è radicalizzata con l'avvento della dottrina neo-liberista. Come ha notato I. Mészáros, il pensiero del più celebrato dei dottrinari neo-liberali, von Hayek, è un esempio di teoria pseudo-scientifica, astorica, irrazionale fino al punto da respingere la stessa fattibilità di una analisi condotta in termini di causa-effetto e concepire il lavoro come prodotto del capitale, invertendo così un dato elementare di realtà. Quando si arriva ad affermare, come Hayek fa, che "il compito singolare dell'economia è di mostrare agli uomini quanto poco realmente essi sanno su ciò che credono di poter pianificare"; quando non ci si vergogna di sostenere che ogni macro-economia è razionalmente impossibile; siamo fuori, evidentemente, da qualsiasi possibilità di confronto razionale. Siamo nell'apologia più tautologica e cinica del capitale6 . Del resto la più rilevante opera di teoria economica del ventesimo secolo, la Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta di Keynes, ad onta della pretesa del suo autore che la credette rivoluzionaria nel campo della dottrina, è un'opera che, alla fin fine, attiene più alla politica economica che alla teoria economica. Quanto alla comprensione del capitalismo, non aggiunge assolutamente nulla rispetto a ciò che l'economia politica classica e la critica marxiana di essa avevano già detto. Non serviva certo la saggezza di Lord Keynes per scoprire il carattere anti-scientifico della teoria dell'equilibrio economico.

Allo stesso modo la filosofia non mi pare certo resuscitata dal coma profondo in cui è caduta precipitando rovinosamente a valle dalle vette raggiunte con Spinoza, Kant e Hegel. Nulla più della straordinaria fortuna di cui ha goduto, in Italia almeno, Heidegger sta a provarlo. La potenza teorica della sua filosofia sta tutta e solo nel conio di una infinita serie di formule inestricabili e tautologiche, che possono significare infinite cose senza dirne mai precisamente nessuna, nella sua capacità di trasfigurare, adulterare, cancellare ogni singolo problema 'analizzato', nel suo girarsi e rigirarsi in eterni esercizi preliminari che non ci danno mai il contenuto di verità, cioè il contenuto di realtà, delle categorie entro cui si svolgono come tante volute di fumo. Un vero e proprio labirinto da cui si esce esausti e frastornati, senza un solo elemento di conoscenza in più di quelli già posseduti in partenza7 , anzi con un effetto ricercato di allontanamento dall'essere sociale realmente esistente in quel dato tempo, causato dal tentativo di sterilizzare in modo apparentemente indolore ogni capacità critica. Ecco perché non avrebbe senso intraprendere una battaglia con delle oscure ombre prive di vitalità e di significato, né - tanto meno - 'civettare' con il loro linguaggio o, peggio ancora, con il loro metodo. Ecco anche perché la rilettura filosofica del Capitale promossa da Althusser a metà anni '60 è stata così sterile, lasciando in eredità solo un'inconsistente e ancora una volta accademica opposizione tra il 'primo' e il 'secondo' Marx. C'era e c'è bisogno semmai, di una lettura del Capitale più marcatamente storico-sociale, volta a dimostrare come e perché il retroterra di questa opera sia una visione del processo storico dell'avvento del capitalismo come totalità, come economia mondiale, e quanto essa sia stata in grado di anticipare, nell'essenziale, gli svolgimenti contemporanei del capitalismo.

Al 2017 l'esposizione del I Libro, questa è la mia tesi, dovrebbe cominciare con il cap. XXIV, quello sulla accumulazione originaria, privilegiando - nel suo punto di partenza - il metodo storico su quello logico. Perché dal punto di vista della critica dello stato di cose presenti, la prima e più importante contesa teorica che oggi è da condurre è quella intorno alla storicità e caducità del modo di produzione capitalistico, e intorno all'avvitamento catastrofico dei suoi antagonismi con il lavoro sociale e la natura (non umana). Infatti il formidabile, e compattissimo, sforzo ideologico compiuto negli ultimi decenni dai mandarini del capitale globale è stato volto a dimostrare che non esiste una alternativa storica al capitalismo, che esso - pur con i suoi difetti - rimane il modo di organizzazione e riproduzione della vita sociale di gran lunga migliore. Tale, perché corrisponde, in ultima analisi, alla natura umana (si è scoperto perfino un tasso naturale di disoccupazione...). E la più naturale delle sue dimensioni è proprio quella del mercato, a condizione di farlo agire in piena libertà, senza gli intralci posti dai sindacati (cioè dai lavoratori) e dagli stati. Il tracollo del cosiddetto socialismo reale e delle relative giustificazioni teoriche ha creato le condizioni ideali affinché questa colossale catena di menzogne si imponesse ai più, non solo nel campo della teoria, come un incontrovertibile seguito di verità auto-evidenti che non hanno bisogno di essere dimostrate.

Affrontare l'indagine sul capitale partendo dalla sua genesi storica concreta sarebbe oggi di grande utilità per molteplici motivi. Innanzitutto perché consentirebbe di vedere come per Marx il terreno di formazione del modo di produzione capitalistico è fin dagli inizi mondiale, l'Inghilterra e, nello stesso tempo, l'Irlanda, le Indie, la Cina. Nello stesso tempo, ma non nello stesso modo, perché dall'inizio si configura l'esistenza di un 'centro' e delle 'periferie', legati da un meccanismo, quello della accumulazione di capitale, combinato e disuguale. E, a smentita della visione armonica della formazione del mercato mondiale tipica dell'economia politica classica, il colonialismo, il "sistema coloniale", è presentato da Marx come un elemento fondamentale della accumulazione originaria, e tale è rimasto tutt'oggi nelle forme solo in parte nuove di neo-colonialismo finanziario e termo-nucleare. In secondo luogo perché fa toccare con mano, attraverso l'appassionante cronaca storica, quanto il punto di partenza del modo di produzione capitalistico, nonché il suo ritornante modus operandi, sia stato la "separazione tra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro", e "la dissoluzione della proprietà privata fondata sul lavoro personale" - un processo che oggi, sotto i nostri occhi spesso disattenti a ciò che accade nelle campagne del mondo, espelle da esse decine di milioni di piccoli produttori l'anno e li costringe alle migrazioni interne e internazionali. Inoltre, quel grande affresco storico e teorico mostra il ruolo determinante svolto a sostegno del capitale nascente sia dagli stati che dalla violenza statale e privata contro i produttori diretti, gli schiavi neri e i popoli colonizzati, mettendo così in berlina ogni rappresentazione mitico-idilliaca e meramente spontanea di quei natali. In tal modo rende possibile osservare come i metodi caratteristici della cosiddetta accumulazione primitiva si ripetono ancora oggi quando il capitale globale continua a saccheggiare la natura nei continenti di colore e si appropria della loro forza-lavoro composta di contadini e braccianti strappati dalla terra attraverso la coercizione economica e extra-economica, senza sopportarne i costi di formazione e riproduzione. Né finisce qui, perché prendere le mosse dal complesso processo storico-globale di formazione del capitalismo fornisce un aiuto determinante a metterlo in prospettiva, a collocarlo cioè tra un passato pre-capitalistico e un futuro non solo post, ma anti-capitalistico, nel quale la proprietà capitalistica sarà trasformata in "proprietà sociale", fondata "sulla cooperazione e sul possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso". Anche nel cap. XXIV ci imbattiamo nella logica dialettica hegeliana, ma la negazione della negazione è in questo caso riferita, in modo globale, al sistema sociale nel suo complesso.

L'effetto attualizzante del Libro I risulterebbe ulteriormente potenziato, a mio avviso, se prima di addentrarci nella necessaria analisi della merce Marx potesse presentarci anche, come fa nel cap. XXIII, la legge generale, addirittura "assoluta" (parola davvero inusuale in lui!), dell'accumulazione capitalistica, la produzione progressiva di un esercito proletario di riserva tendenzialmente sempre più ampio - la legge che in questo avvio di ventunesimo secolo si impone, nei suoi macroscopici risvolti pratici, anche a chi voglia ostinatamente negare per partito preso gli antagonismi propri di questa forma di società. A loro modo infine, i due grandi capitoli conclusivi del Libro I, con il supplemento utile del cap. XXV, anticipano in certa misura il tema cruciale della riproduzione allargata, del capitale totale sociale, consentendo di gettare uno sguardo sul futuro, sul nostro presente cioè, attraverso il processo di centralizzazione del capitale e il sistema (divenuto ormai ipertrofico) del debito statale.

Del resto, il piano di esposizione completo e definitivo annunciato da Marx nel 1859 prevedeva, oltre i libri sul capitale, la proprietà fondiaria e il lavoro salariato, altri tre libri, che purtroppo non abbiamo, sullo Stato, sul commercio estero e sul mercato mondiale. E che non si sarebbe trattato di semplici accessori, lo si capisce proprio dall'ex-capitolo XXIV, ora diventato (in questa proposta) il nuovo I capitolo del Libro I, quello sulla accumulazione primitiva, che contiene una pagina memorabile in cui sono ben presenti anche i tre libri mancanti del Capitale:

«La scoperta delle terre aurifere e argentifere in America, lo sterminio e la riduzione in schiavitù della popolazione aborigena, seppellita nelle miniere, l'incipiente conquista e il saccheggio delle Indie orientali, la trasformazione dell'Africa in una riserva commerciale di caccia delle pelli nere, sono i segni che contraddistinguono l'aurora dell'era della produzione capitalistica. Questi procedimenti idilliaci sono momenti fondamentali dell'accumulazione originaria. Alle loro calcagna viene la guerra commerciale delle nazioni europee, con l'orbe terracqueo come teatro. La guerra commerciale si apre con la secessione dei Paesi Bassi dalla Spagna, assume proprozioni gigantesche nella guerra antigiacobina dell'Inghilterra e continua ancora nelle guerre dell'oppio contro la Cina, ecc.

I vari momenti dell'accumulazione originaria si distribuiscono ora, più o meno in successione cronologica, specialmente fra Spagna, Portogallo, Olanda, Francia e Inghilterra. Alla fine del secolo XVII quei vari momenti vengono combinati sistematicamente in Inghilterra in sistema coloniale, sistema del debito pubblico, sistema tributario e protezionistico moderni. I metodi poggiano in parte sulla violenza più brutale, come per esempio il sistema coloniale. Ma tutti si servono del potere dello Stato, violenza concentrata e organizzata della società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi.»

In questo dipinto michelangiolesco dell'aurora dell'era capitalistica della storia mondiale si staglia nitida la sanguinaria figura-chiave dello Stato, a demolire anticipatamente la sfacciata apologia della libera iniziativa propria del pensiero neo-liberista, e borghese in generale. Senza lo Stato, senza la sua violenza concentrata e organizzata, esercitata tanto sui piccoli produttori europei quanto - e più brutalmente ancora - sulle popolazioni lavoratrici dei continenti colonizzati, quanto infine sui concorrenti capitalisti, niente capitale! Ieri come oggi. Perché in questa aurora si possono cogliere anche i tratti del lungo, fosco tramonto, in cui siamo immersi, del capitalismo reale, che - nel corso del suo secolare sviluppo - è rimasto retto dalle medesime "leggi di movimento" magistralmente identificate da Marx. Così ristrutturata la partenza della sua esposizione, viene proprio da dire: centocinquanta anni, e non li dimostra affatto!


(*) Testo presentato ad un convegno sui 150 anni dalla pubblicazione del Libro I del Capitale, organizzato alla York University di Toronto da Marcello Musto.

Note

1 Cfr. Rosa Luxemburg, a cura di L. Basso, Mondadori, Milano, 1977, p. 18. La lettera, dell'8 marzo 1917, è spedita all'amico Hans Diefenbach, a cui chiede un giudizio sulla sua Anticritica, presentata implicitamente come esempio di uno stile semplice e calmo.

2 Sottolinea questo passaggio e la complessità del metodo di esposizione adoperato da Marx nel Capitale, M. Musto, Karl Marx. Introduzione alla critica dell'economia politica, Quodlibet, Macerata, 2010, pp. 99 ss. Per R. Rosdolsky è Marx stesso a presentare il suo modo di procedere come un cammino dalla superficie dei rapporti economici "all'intima, essenziale, ma nascosta struttura fondamentale di questi rapporti e al concetto che ad essi corrisponde": Genesi e struttura del "Capitale" di Marx, Laterza, Roma-Bari, 1975, vol. I, pp. 76-77.

3 Negli anni successivi alla pubblicazione del Libro I, lasciando da parte il lavoro di rielaborazione dei materiali per Das Kapital, si segnalano solo due nuovi scritti di 'pura' teoria economica per mano di Marx: Il rapporto tra saggio del plusvalore e saggio del profitto sviluppato matematicamente (del 1875) e le Glosse marginali al "Manuale di economia politica" di Wagner (del 1879-1880).

4 Cfr. la prefazione di Engels alla terza edizione di Das Kapital. È da notare che secondo Marx l'edizione francese della sua opera aveva "un valore scientifico indipendente dall'originale".

5 Penso a R. Dunayevskaya, L. Krader, M. Musto, M. Kraetke, L. Pradella ed altri studiosi ancora.

6 cfr. I. Mészáros, Oltre il Capitale. Verso una teoria della transizione, Edizioni Punto Rosso, Milano, 2016, pp. 129 ss.

7 Riprendo qui alcuni spunti della pungente critica svolta da A. Berardinelli, I rumori dell'Essere. Heidegger, Derrida, Severino, "Diario", anno IV, n. 6, giugno 1988, pp. 49 ss. E tuttavia ha ragione G. La Guardia quando sottolinea che Essere e tempo di Heidegger non è solo vuoto rumore, ha una precisa "ispirazione espressamente antimaterialistica", avendo come suo "obiettivo strategico" (da colpire), per quanto non dichiarato, il marxismo: cfr. Le Dieu caché. Sociologia del dio nascosto, in J. Ferrari (sotto la direzione di), Le Baroque, Figures Libres, Dijon, 2003.
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