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Il Comunista negato

Un soggetto in bilico tra regresso e coazione a ripetere

di Giovanni Mazzetti

page 1Presentazione quaderno n. 7/2017

Quando cadde il muro di Berlino, e i paesi del cosiddetto comunismo reale attraversarono un profondo cambiamento sbarazzandosi dei preesistenti regimi, l’Associazione per la Redistribuzione del lavoro aveva appena avviato il suo cammino con la pubblicazione dei primi due libri dedicati ai profondi mutamenti che stavano intervenendo nel processo della riproduzione del lavoro. Ma il rivoluzionamento politico in corso, col crollo della prima disastrosa esperienza di comunismo, imponeva di non eludere un confronto approfondito con quanto stava accadendo. Il gruppo di ricerca dell’epoca si concentrò così su un’analisi delle cause del crollo di quei regimi e sulle ripercussioni che probabilmente avrebbero avuto sui paesi del mondo occidentale. Questo lavoro, durato tre anni, portò alla pubblicazione di due testi: Dalla crisi del comunismo all’agire comunitario (Editori Riuniti) e L’uomo sottosopra (Manifestolibri), oltre alla pubblicazione di numerosi saggi su giornali e riviste tesi ad approfondire singoli aspetti della questione.

Nonostante quelle riflessioni avessero una buona circolazione non trovarono un terreno favorevole al loro attecchimento, né sollecitarono una confutazione critica. D’altronde, invece di sfociare in un nuovo approccio culturale, la crisi del comunismo si trasformò pian piano in un progressivo sfilacciamento delle precedenti convinzioni e dei valori che le accompagnavano.

Il saggio che offriamo con questo quaderno, dopo una piccola revisione stilistica, fu pubblicato nel giugno del 1992 dalla rivista Democrazia e diritto, del Centro per la Riforma dello Stato. In qualche modo anticipava il fenomeno che si è poi verificato, di una progressiva dissoluzione di ogni progetto alternativo a quello che era entrato in crisi in quegli anni.

Se si tiene presente che solo qualche anno prima un terzo degli italiani aveva votato per il Partito Comunista e quest’organizzazione godeva di un popolo di 1.500.000 di militanti, l’esito di quelle vicende può apparire incomprensibile. Nel saggio si spiega, invece, perché esso sarebbe stato inevitabile se quei militanti e quei simpatizzanti non avessero saputo comprendere la crisi che aveva investito la società all’epoca, della quale la caduta dei regimi dell’Est costituiva solo un sintomo.

* * * *

Spostiamoci per un momento nella Cecoslovacchia degli anni che precedono il crollo del comunismo, e facciamoci guidare per le vie di Praga da un attento osservatore, che dopo il crollo diverrà il Presidente della repubblica di quel paese. II quadro che ci rappresenta è il seguente: «II direttore di un negozio di verdura ha messo in vetrina fra le cipolle e le carote lo slogan: "Proletari di tutto il mondo unitevi!". Perché lo ha fatto?», si chiede e ci chiede la nostra guida. «Che cosa voleva far sapere al mondo? È davvero personalmente infiammato dall'idea dell'unione fra i proletari di tutto il mondo”. Ed osserva in risposta: «io penso che la stragrande maggioranza degli erbivendoli... non riflettano sul testo degli slogan esposti nelle loro vetrine e tanto meno che essi vogliano rendere manifesto qualcosa della loro visione del mondo... Questo non significa che il loro gesto non ha nessuna motivazione e nessun significato e che con questo slogan non dicano niente a nessuno. Questo slogan ha la funzione di segnale e come tale trasmette un messaggio preciso anche se segreto. A parole suonerebbe così: io erbivendolo XY sono qui e so che cosa devo fare; mi comporto come ci si aspetta che mi comporti; di me ci si può fidare e non mi si può rimproverare nulla; io sono ubbidiente e ho quindi diritto ad una vita tranquilla. Naturalmente — sottolinea il nostro accompagnatore — questo messaggio ha il suo destinatario; è indirizzato "su", ai superiori degli erbivendoli; al tempo stesso è lo scudo con cui l'erbivendolo si difende da eventuali delatori. Nel suo vero significato, allora lo slogan si innesta direttamente nell'esistenza dell'erbivendolo; è lo specchio di ciò che lo interessa nella vita. Ma qual è questo interesse?».

 

L'illusione di essere una persona

«Riflettiamo. Se all'erbivendolo ordinassero di esporre lo slogan: "io ho paura e per questo obbedisco senza fiatare", egli non sarebbe così remissivo nei confronti del contenuto semantico del messaggio, anche se questa volta coinciderebbe perfettamente con il significato segreto dello slogan. Verosimilmente l'erbivendolo rifiuterebbe di esporre nella propria vetrina un’indicazione così esplicita della sua umiliazione, non gli piacerebbe, si vergognerebbe. È un uomo e deve quindi fare i conti con la dignità dell'uomo. Per superare questa complicazione — osserva ancora la nostra guida — la sua professione di lealtà deve acquistare la forma di un segnale che, almeno nell'apparenza del testo, richiami ai termini più elevati di una convinzione disinteressata. All'erbivendolo si deve dare la possibilità di dire: "Perché alla fin fine, i proletari di tutto il mondo non potrebbero unirsi?"». E conclude: «Il segnale, quindi, aiuta a nascondere all’uomo i "bassi" fondamenti della sua obbedienza e quindi anche i "bassi" fondamenti del potere. Li cela dietro la facciata di qualcosa di "elevato". Questo qualcosa di "elevato" è l'ideologia. L'ideologia come modo apparente di rapportarsi al mondo, che dà all'uomo l'illusione di essere una persona con una identità, dignitosa e morale, e così gli rende facile il non esserlo; l'ideologia come imitazione di qualcosa di metapersonale e di disinteressato che gli permette di ingannare la propria coscienza e di mascherare davanti al mondo e davanti a se stesso la sua condizione reale e il suo inglorioso "modus vivendi". Si tratta di una legittimazione produttiva — ma al tempo stesso dignitosa — verso "su" e verso "giù", "di qua e di là", verso gli uomini e verso Dio... L’alibi che va bene per tutti: dal direttore del negozio di verdure, che può nascondere la propria paura di perdere il posto dietro un presunto interesse per l'unione dei proletari di tutto il mondo, fino al più alto funzionario che può ammantare il proprio interesse a conservare la poltrona con parole come "essere al servizio della classe operaia". La funzione originaria dell'ideologia è allora quella di fornire all'uomo, in quanto vittima e sostegno del sistema post-totalitario, l'illusione di essere in sintonia con l'ordine umano e con l’ordine dell'universo”.

La descrizione è insieme vivida e profondamente convincente nel descrivere i rapporti sociali prevalenti nei paesi del cosiddetto “comunismo reale”. Ma Vaclav Havel, forse a causa del tipo di lotta che è stato costretto a condurre negli anni in cui scrive, sembra non scorgere altri elementi essenziali del contesto che ci rappresenta, elementi che tuttavia, a nostro avviso, giocano, come vedremo più avanti, un ruolo altrettanto importante nella costituzione della forma del potere sociale che egli — giustamente — critica. Ma soffermiamoci, per ora, su quella parte della realtà che egli ha colto.

Ciò che Havel scorge è chiaro. Egli sperimenta, giustamente, un senso di estraneità nei confronti di quel rito, costituito dall'inserimento tra le cipolle e le carote di un cartello che riproduce l'esortazione con la quale si chiude Il manifesto di Marx e di Engels. II doppio senso di questo rito viene colto con grande acume. Da un lato, l’erbivendolo agisce come se, con il suo comportamento, volesse affermare il sussistere di un legame tra la sua particolare e limitata attività di erbivendolo e il più generale problema dell'emancipazione dei lavoratori. È come se, attraverso il cartello, egli pretendesse di «elevare» la propria partecipazione alla riproduzione sociale, costituita dalla mera vendita di frutta e verdura, a “parte integrante” di un processo universale. Ma questa determinazione, secondo Havel, resta, e non può non restare, meramente esteriore rispetto a ciò che l'erbivendolo concretamente fa. Il segnale che invia è, per quanto riguarda il contenuto, un segnale al quale non corrisponde alcuna realtà materiale, e la cui efficacia resta tutta nell'idea, nella rappresentazione; vale a dire è esclusivamente simbolica. C'è pero un altro versante della realtà sul quale le cose procedono diversamente, anche se ciò non è necessariamente presente alla coscienza dell'erbivendolo. E infatti, collocando il cartello, egli non fa altro che conformarsi opportunisticamente ad un insieme di condizioni sociali esterne, che si limita a considerare come «appropriate», e con le quali interagisce in modo da poter continuare indisturbato nello svolgimento della propria particolare attività commerciale. Il (meta) significato dell’azione, che Havel coglie attraverso l’analisi critica, non sta dunque nel contenuto del segnale, ma nel fatto che il segnale viene emesso a conferma del contesto. Ciò che comporta la negazione del sussistere di una contraddizione tra la propria esperienza di sé come soggetto attivo, vitale, che l’erbivendolo direttore esprime, e l'oggetto al quale la sua espressione si riferisce, il contesto sociale, nel quale la sua vita prende forma. Mettendo il cartello in mostra l’erbivendolo, che è e rimane erbivendolo, si sente uomo. Nel tutelare il proprio particolare interesse, ed assicurarsi il godimento della casuale condizione positiva che il procedere sociale gli ha assegnato in sorte, lo dichiara come immediatamente corrispondente all'interesse generale, così come viene configurato nei rapporti di potere prevalenti.

 

Superamento del comunismo post-totalitario e libertà

Se si torna oggi, dopo il crollo del comunismo, in quegli stessi negozi descritti da Havel si troverà, qua un crocifisso appeso alla parete, là una madonna appoggiata sul bancone, altrove una bandiera nazionale incorniciata dentro un quadro o lo stesso ritratto del presidente Havel incollato su una vetrina. Abbandonati i simboli e gli slogan di una forma del potere sostanzialmente fondata sull'autoinganno, i cecoslovacchi hanno cominciato ad esporre i simboli di quello che sentono come un loro proprio spontaneo potere. Ma questi simboli consentono realmente, all'erbivendolo e agli altri, per il solo fatto di essere stati spontaneamente scelti, di andare al di là di un comportamento ideologico?

II “potere” al quale l’erbivendolo si riferisce esponendo oggi eventualmente la foto del presidente Havel o un'immagine sacra, è il potere di non dover più sottostare ai precedenti vincoli, corrispondenti all'oppressione del regime comunista. Ma c'è anche un senso positivo nell'uscita da quell’oppressione? Una possibile interpretazione di questo specifico superamento del comunismo era stata anticipata dallo stesso Havel: «Immaginiamo che un bel giorno qualcosa si ribelli nel nostro erbivendolo e che egli la smetta di esporre gli slogan solo perché piace a qualcuno; smetta di andare a votare sapendo che proprio non si tratta di elezioni; cominci a dire nelle riunioni quello che pensa veramente e trovi in sé la forza di solidarizzare con quelli con cui la sua coscienza lo porta a solidarizzare. Con questa ribellione l'erbivendolo esce dalla "vita della menzogna"; rifiuta il rituale e viola le regole del gioco; ritrova la propria identità e la propria dignità soffocate; realizza la propria libertà». Il potere conquistato sarebbe dunque il potere di sentirsi liberi. Ma basta l'acquisizione di questa nuova condizione affinché l'erbivendolo trascenda realmente l'orizzonte ideologico? La mera negazione dell'oppressione è cioè veramente già una libertà positiva, una situazione nella quale l'erbivendolo possa sentirsi coerentemente appagato? È cioè vero ciò che viene sostenuto da Havel: che «con il suo gesto l'erbivendolo ... ha dimostrato ad ognuno che è possibile vivere nella verità»?

 

La semplificazione del problema della libertà

Per giungere alla convinzione che basti sbarazzarsi delle preesistenti imposizioni per «vivere nella verità» occorre credere che la vita nella “verità” sia una condizione immanente all'uomo, e non un qualcosa che deve essere di volta in volta prodotto; bisogna cioè credere che le vie di una vita socialmente produttiva possano essere senz'altro imboccate da ciascun individuo, una volta che vengono rimossi quelli che vengono sperimentati come impedimenti meramente esteriori.

Un simile approccio, nel quale l'uomo ritiene di dover essere coerente unicamente con se stesso, e che questa sua coerenza garantisca già di per sé spontaneamente il bene comune, non costituisce un qualcosa di universalmente presente nella storia dell'umanità, bensì rappresenta la base di uno specifico modo di procedere nella riproduzione della vita sociale. Un modo di procedere che ha dominato nel mondo occidentale nel corso degli ultimi due secoli e che possiamo analiticamente definire come «egoistico” o privatistico. Questo comportamento, che per una fase storica determinata ha costituito un enorme fattore di progresso sociale ed una manifestazione di libertà, non consente però un'elaborazione pratica illimitata del complesso problema del rapporto che intercorre tra individuo e società. Problema che, almeno nel mondo economicamente avanzato, si presenta in questa fase come prioritario e come nuovo fulcro sul quale agire per affrontare il problema attuale della libertà. L'individuo privato non può infatti affrontare coerentemente questo problema perché ha una rappresentazione mitica della propria condizione. Mentre, da un lato, “è ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato”, dall'altro lato pone questo suo comportamento come pienamente corrispondente a quella che egli immagina come “natura» umana. Per questo la mera rimozione degli ostacoli esteriori gli appare di per sé sufficiente ad assicurargli «la libertà”.

Lo stesso Havel, d'altronde, accarezza in qualche modo questa illusione. La sua convinzione di fondo è infatti che nel procedere autonomo degli individui non si annidi alcuna contraddizione, e ciò perché la vita, non solo quella umana, tenderebbe solo “al pluralismo». “Fra le intenzioni del sistema post-totalitario e le intenzioni della vita — sostiene in merito — c'è un abisso profondo. Mentre per sua natura la vita tende al pluralismo, alla varietà dei colori, a organizzarsi e a costituirsi in modo indipendente, tende, insomma, a realizzare la propria libertà, il sistema post-totalitario esige monolitismo, uniformità, disciplina; mentre la vita tende a creare strutture inverosimili sempre nuove, il sistema post-totalitario le impone le situazioni più verosimili”. Sulla base di questa ipotesi, il procedere ideologico appare connesso sempre e soltanto con l'accettazione della sottomissione ad un potere esteriore, con la subordinazione a condizioni della propria riproduzione che non sono state “scelte” dal singolo individuo.

Ma, a nostro avviso, proprio la pretesa che l'individuo singolo possa realmente godere di un libero sviluppo limitandosi a badare al solo libero sviluppo proprio — vale a dire la convinzione che gli individui singoli riescano ad “organizzarsi e costituirsi in modo indipendente”, realizzando la loro libertà attraverso la semplice rimozione di limitazioni esteriori — costituisce l'espressione di un procedere ideologico. Ed anzi, come cercheremo di dimostrare, questa pretesa costituiva la base sociale del comportamento dell’erbivendolo anche quando, sottomettendosi al comunismo post- autoritario, metteva in bella mostra lo slogan di Marx tra le cipolle e le carote.

 

Lo svolgimento della vita tra libertà e necessità

Prima di procedere sul terreno dell'analisi riferita al contesto sociale, fissiamo un punto fermo. Non è affatto vero che la vita si organizzi in generale nel modo descritto da Havel. Vale a dire che, se Havel ha perfettamente ragione nel sostenere che non è rispondente alle condizioni dello sviluppo il limitarsi ad adattarsi sempre passivamente alle condizioni sociali che vengono imposte sul singolo individuo dall'ambiente sociale circostante, è però altrettanto illusorio il pretendere di poter procedere come se tali condizioni puramente e semplicemente non esistessero, cioè come se l’individuo potesse essere realmente trattato come un ente libero per principio.

Un'argomentazione più infondata, più incapace di rendere conto dello svolgersi del rapporto tra omeostasi e cambiamento, inerente a qualsiasi forma vitale, difficilmente potrebbe essere data. Nella realtà, infatti, la vita tende a realizzare, prima ancora della propria libertà, la propria necessità, e il fatto che questa semplice verità abbia ancora bisogno di essere enunciata criticamente esprime bene il grado di perversione ideologica che caratterizza la nostra epoca.

Vediamo come Konrad Lorenz descrive il problema che qui ci interessa: “I processi di acquisizione immediata di informazioni... non sono processi di adattamento... ma piuttosto sono funzioni di strutture fisiologiche, nervose e sensoriali, che hanno già subito fino in fondo il loro processo di adattamento. Essi sono tanto poco suscettibili di modificazioni individuali quanto, e anche meno, delle strutture preposte non all'acquisizione di informazioni, ma all’accumulo di energia. Anche il ripetuto succedersi di informazioni momentanee non deve lasciare traccia alcuna nell’apparato fisiologico che presiede alla loro acquisizione, perché il loro compito precipuo, che consiste nel mantenere costantemente informato l’organismo sulle rapide modificazioni del suo ambiente, può essere assolto solo quando si preservi la loro capacità di revocare il messaggio appena inoltrato per sostituirlo con un altro, spesso opposto al primo”. “A ciò bisogna aggiungere — prosegue Lorenz — un'ulteriore considerazione, ancora più importante: i meccanismi che, immunizzati contro ogni mutamento, ci permettono, sulla base di messaggi sensoriali presenti, di dare "giudizi" immediati sul mondo circostante, costituiscono la base di ogni esperienza! La loro funzione è precedente ad ogni esperienza ed è addirittura indispensabile perché si possa avere un'esperienza in genere... La prestazione di una struttura saldamente adattata costa sempre la perdita di alcuni gradi di libertà. I meccanismi della conoscenza immediata, di cui stiamo trattando, non fanno eccezione a questa regola. Attraverso speciali forme di adattamento delle loro strutture fondamentali, finalizzate all'ottenimento di un tipo del tutto particolare di informazione, la maggior parte di essi è legata ad un programma estremamente rigido. L'apparato calcolatore insito in essi comprende necessariamente alcune "ipotesi" cui esso si attiene in modo addirittura dogmatico”. Gli individui appartenenti a qualsiasi specie possono cioè riprodursi solo ripetendo innanzi tutto la forma data della propria esistenza, che è ad essi presupposta.

Le forme dell’esistenza possono essere fantasticamente viste come manifestazione di una «libertà» solo se la realtà vitale che viene presa in considerazione non viene colta attraverso il suo concreto svolgimento dinamico. Immaginando l'essere in forma arbitrariamente statica, o addirittura come privo di qualsiasi determinazione concreta, si rappresenta altrettanto arbitrariamente ogni mutamento di forma come “libertà”. Ma nessun essere vivente può realmente esistere in forma statica e tanto meno amorfa. Infatti l'ambiente è in incessante movimento, e quindi qualsiasi ente vitale può costituirsi solo come forma attiva, cioè come processo precostituito di vita. La sua vita non viene “dopo di lui”, bensì è lui.

Ora, non c'è alcuna libertà nel susseguirsi, nella vita di un individuo, di un insieme preordinato di fasi evolutive, le quali costituiscono la forma di vita data di una specifica specie. Ma è proprio questo normale susseguirsi di fasi preordinate che il biologo, l’etologo, così come il sociologo e l’economista, si trovano innanzi tutto di fronte, non appena cercano di studiare analiticamente un qualsiasi organismo vivente. Solo un misticismo spiritualistico, un leggere la realtà in modo poetico anche nel momento in cui si pretende di analizzarla, può spingere ad astrarre da questa realtà, per porre ogni passaggio preordinato che ha luogo come novità autodeterminata.

Ci sono, è vero, nel procedere dei viventi, dei mutamenti di secondo ordine, delle trasformazioni che non sono preordinate. Ma esse corrispondono a delle aperture che intervengono solo subordinatamente, in conseguenza di quelle che i biologi definiscono come “deviazioni” dalla norma. Ma queste aperture non potrebbero nemmeno prospettarsi se non esistesse, come loro stessa base, la riproduzione del patrimonio dato, che rappresenta la condizione stessa di qualsiasi mutamento. D'altra parte, la quasi totalità delle deviazioni è di volta in volta portatrice di forme di vita destinate a soccombere, appunto perché incapaci di confrontarsi adeguatamente con il contesto che storicamente rappresenta la condizione essenziale della forma di esistenza dalla quale ha luogo lo scostamento. Ogni costituirsi in “forma indipendente”, cioè in modo non corrispondente alla necessità, è quindi, prima di ogni altra cosa, un evento potenzialmente foriero di catastrofi, un vero e proprio salto nel vuoto. Solo il mutare del contesto può, eventualmente, trasformare una disgrazia potenziale in una ricchezza, ed aprire la via ad un particolare sviluppo di quella parte della specie che poggia sulla deviazione. Ma non appena il mutamento interviene, quella che momentaneamente appare come «libertà» si trasforma immediatamente in necessità, in condizione immanente; tanto è vero che essa si impone anche sugli altri membri della specie, decretando l'estinzione o l'arretramento gerarchico di quelli che non ne sono portatori.

È dunque ideologico immaginare un rapporto spontaneamente coerente — intrinsecamente riproduttivo — tra l’autonomo agire dei singoli individui e la loro riproduzione come esseri appartenenti ad un organismo sociale, ed è idealistico agire sulla base di questa convinzione. Anzi, in tutte le forme di vita che sono prevalse nell'evoluzione naturale, il rapporto del singolo con la «libertà”, con la possibilità di agire difformemente dal patrimonio acquisito, è stato un rapporto assolutamente antagonistico, perché il rapporto tra necessità e libertà, tra omeostasi e mutamento, è stato elaborato quasi esclusivamente a livello delle specie. (Ciò spiega perché il direttore del negozio di verdure metteva quietamente in mostra lo slogan di Marx, e oggi si sente appagato di mettere in mostro la foto di Havel.) Le deviazioni dalla norma, lungi dall’essere la manifestazione positiva del potere degli individui di riprodursi al di là delle caratteristiche medie della specie cui appartenevano, costituivano il mezzo attraverso il quale la specie, sacrificando la maggior parte degli individui devianti, creava inconsapevolmente le condizioni della propria riproduzione anche in caso di un eventuale mutamento delle circostanze.

 

Il nocciolo della condizione umana: il problematizzarsi del rapporto tra necessità e libertà

L'uomo è il primo essere appartenente ad una specie, per la quale, ad un certo livello del suo sviluppo, si apre una relativa possibilità di introdurre un nesso meno antagonistico tra libertà e necessità, tra omeostasi e mutamento, tra individuo e società. Ma questo nesso non può essere razionalmente compreso immaginando fantasticamente un rovesciamento completo della base di tutti i processi vitali a noi noti ed attribuendo aprioristicamente all’individuo della specie uomo un potere immediato che è lungi, non solo dall'aver conquistato, ma anche dal poter ancora oggi rappresentare in forma razionale. Ma è proprio questo rovesciamento che la mitologia privatistica attua quando pretende di fissare come base coerente della organizzazione della vita umana l'autonomo procedere degli individui singoli.

Per questa mitologia, infatti, ciascun essere umano si presenta come una monade che riposa solo su se stessa, e che sarebbe quindi dotata “internamente”, cioè naturalmente, di quelle che si presentano come facoltà umane in generale. Per questo ciascuno è immaginato come eguale agli altri e dotato del potere di agire liberamente, a prescindere dall’organismo nel quale la sua stessa azione finisce con l'estrinsecarsi e dal contesto nel quale è immerso. Questo particolare modo di sperimentare se stessi e la propria attività è completamente in contrasto con quello medioevale e con tutti gli altri che lo avevano preceduto. Lì ciascun individuo “coincideva” immediatamente con la sua determinatezza sociale. Il suo “stato” era tale che la specifica differenza che lo contraddistingueva nell'esistenza, era costitutiva dell'individualità. Il singolo era cioè inserito in una comunità, la quale, come organo complessivo, lo sovrastava, imbrigliando la sua particolarità, vale a dire la sua differenza, alle funzioni riproduttive dell’organismo sociale nel suo insieme.

Il tempo moderno, la civiltà, opera un'inversione. Instaurando la concorrenza – cioè una forma di cooperazione non preordinata - recide i precedenti vincoli e pone l’individuo stesso come un qualcosa che viene prima del suo stesso “stato”, della sua stessa condizione e delle stesse relazioni che riproduce. Queste ultime non si presentano più, pertanto, come un qualcosa di immanente all'individualità, tale da determinare l'individuo, bensì come un qualcosa di esteriore, di accidentale, che il singolo può cercare di sottomettere al suo controllo e del quale può sempre sbarazzarsi, perché formalmente padrone di se stesso ed a se stante.

L'espressione coerente di questa forma della soggettività interviene con la rivendicazione politica di una “libertà” dai vincoli e dalle limitazioni che hanno caratterizzato le strutture sociali precedenti, e con la rappresentazione di questa libertà come diritto dell'uomo. Ma l'abbattimento di quei vincoli e di quelle limitazioni, che determina una specifica e limitata forma di libertà, viene sperimentata illusoriamente come soppressione di tutti i limiti e di tutti gli ostacoli, come forma generale ed assoluta della “Libertà”. Questa prende allora l’aspetto della rivendicazione di un potere personale, riconosciuto a priori come forma generale positiva della socialità umana, di «regolare le proprie azioni e di disporre dei propri possessi e delle proprie persone, come si crede meglio ... senza chiedere permesso o dipendere dalla volontà di nessun altro”.

La rappresentazione di questo comportamento sociale in una forma capace di conferirgli un valore universale ha avuto dapprima luogo attraverso la sua trasformazione in qualcosa di immanente alla stessa natura umana, e di radicato nei singoli sin dal momento in cui l’uomo è apparso sulla faccia della terra. Per questo la libertà è stata, in un primo momento, rappresentata come un diritto naturale ed inalienabile. “In merito ai diritti dell'uomo — sostiene ad esempio Paine — l’errore di quanti ragionano sui precedenti tratti dall'antichità è di non risalire abbastanza indietro nel passato. Anziché andare fino in fondo ci si arresta a qualche periodo intermedio”. Se si andasse abbastanza indietro, sino alle origini, si troverebbero soggetti dotati di piena e matura capacità di intendere e volere, come singoli di per se stanti. Vale a dire che si troverebbero individui “liberi”, originariamente dotati di un ego poggiante solo su se stesso. È proprio a causa del radicarsi di una simile convinzione che la libertà borghese viene originariamente intesa “come non impedimento, come libertà negativa».

Ha indubbiamente ragione Barcellona nel sottolineare che questa rappresentazione si sviluppa nella convinzione che “ogni uomo sia un'incarnazione dell'intera umanità”, espressione con la quale evidentemente si intende che, come norma, ciascun individuo agisce come se disponesse per natura delle facoltà positive specifiche della specie umana, e fosse sempre e necessariamente in grado di partire da quelle nell'oggettivare se stesso.

Questo modo di sperimentare la propria soggettività dell'individuo egoistico è ben descritto da Bobbio, quando sostiene che questa concezione individualistica è il risultato di una “inversione del rapporto tra individuo e stato”. Nell’approccio privatistico «prima viene l'individuo, si badi l'individuo singolo, che ha valore di per se stesso, e poi viene lo stato. Lo stato è cioè fatto per l'individuo e non l'individuo per lo stato”.

L'individualità preborghese non poggia e non può poggiare su questa libertà monadica, bensì è costruita attorno al riconoscimento del sussistere di una necessità esteriore, che costituisce la forma dell'esistenza dell'organismo sociale, alla quale tutti, seppure con le differenze inerenti al rango e alle funzioni, sono “comunitariamente» sottomessi. Per questo si esprime innanzi tutto come «dovere”, e la libertà si sperimenta come capacità di assumere su di sé questo dovere, al di là degli impulsi che eventualmente tendono a negarlo. Il singolo, d'altra parte, non è neppure lontanamente in grado di sciogliere i vincoli che lo legano agli altri nella comunità. E se cerca di farlo prima che siano sviluppate le forze sulle quali poggerà poi la società borghese, non farà altro che decretare la decadenza sua e dell’organismo del quale partecipa. Le forze riproduttive, attraverso le quali si estrinseca la vita dei singoli, concrescono cioè con ciascuno in una forma unilaterale, che non le rende indifferentemente appropriabili da chiunque e, quindi, generalizzabili. La generalizzazione interviene solo per ed attraverso la mediazione dell'organismo sociale. Ognuno è così vincolato alla propria determinazione sociale (che è immediatamente anche economica), se vuole sopravvivere. E la riproduzione dei singoli ha luogo solo per ed attraverso la comunità. La comunità e la particolarità di ognuno che in essa si esprime vengono dunque sentite come “vera” libertà.

La società borghese rovescia questo assunto, grazie al fatto che, attraverso lo sviluppo delle forze corrispondenti ai rapporti di denaro e di capitale, può porre, dapprima non contraddittoriamente, il singolo indifferenziato come nuova base dell'interazione sociale. Essa separa gli individui che erano precedentemente cresciuti all'interno di legami simbiotici. Ma lo sviluppo che viene realizzato poggiando su questa base sociale determina l'instaurarsi di una fitta rete di relazioni riproduttive tra persone e gruppi che precedentemente vivevano invece separatamente gli uni dagli altri, cosicché la vita di ciascuno viene sempre più a dipendere dalla vita di tutti. Una volta che questi individui hanno creato un insieme molto esteso di nessi materiali di scambio, che ricorrentemente producono effetti contraddittori su vasta scala, per le collisioni conseguenti al procedere autonomo di ognuno, emerge prepotentemente il problema di come sussumere al loro controllo i nessi instaurati. Ciò che secondo Marx corrisponde oggettivamente alla creazione di una forma di comunità superiore rispetto a quelle che hanno dominato nella prima fase dello sviluppo umano.

Per poter procedere produttivamente in questa direzione, gli uomini debbono però spingersi al di là del rapporto di denaro, e sbarazzarsi delle illusioni che ad esso si accompagnano. Essi debbono cioè elaborare produttivamente il concreto rapporto tra il loro essere individuale ed il potere sociale che ad esso si accompagna. Ma è proprio su questo terreno che il procedere sociale attuale, dopo il crollo della prima forma di comunismo, sembra essersi impantanato, a causa di una generale incapacità di affrontare i conflitti inerenti al superamento dei nessi privati attraverso l'affermazione dell'individualismo socialmente consapevole.

 

L'erbivendolo in bilico tra statalismo ed egoismo

Occorre afferrare appieno il senso della critica che stiamo qui svolgendo, tornando momentaneamente al nostro erbivendolo, il quale, se agisce da egoista coerente, si sente ora finalmente libero, nella sua condizione di “erbivendolo” che non deve più sottostare a imposizioni esteriori. Se ed in quanto gli sviluppi sociali in corso corrisponderanno alle sue attese, egli diventerà proprietario del suo negozio, e potrà finalmente entrare nel processo della generale circolazione delle merci attraverso delle scelte autonome. Non dovendo più sottostare ad un insieme di vincoli amministrativi imposti dall'alto, egli potrà cercare di riversare nei momenti di contatto riproduttivo con altri i suoi scopi particolari, perseguire in piena libertà il suo particolare interesse (comperarsi un'auto, una casa, fare dei viaggi, ecc.). E per perseguirlo potrà scegliere autonomamente i tipi di frutta e verdura da acquistare e da porre in vendita, le relative quantità, il modo di presentarle, ecc.

Il prezzo, a differenza della fase in cui era sottomesso al potere post-autoritario, non sarà più la manifestazione della decisione di una struttura gerarchica che sta al di sopra di lui, ma piuttosto il tentativo di affermare un suo proprio potere. Ma è proprio praticando questa forma di potere che l'erbivendolo determina un fenomeno il cui senso normalmente sfugge alla sua coscienza ben più radicalmente di quanto non gli sfuggisse il senso dell'esposizione tra carote e cipolle dello slogan di Marx sull'unione dei proletari.

Fintanto che si limita a cercare la “libertà” all'interno dell'orizzonte appena descritto, egli si comporta in un modo che è altrettanto ideologico della pratica che ha appena dismesso. E ciò anche supponendo che il contesto nel quale ha luogo la riproduzione materiale dell’erbivendolo finisca con l'essere spogliato di tutti i simboli che si riferiscono direttamente ad un ideale potere comune. Non si può infatti ignorare quel simbolo materialissimo — il prezzo — che permane come manifesta- zione concreta della specifica relazione che l’erbivendolo instaura con l'insieme dell’organismo sociale nel quale è inserito. Anche se il procedere ideologico, né più e né meno di come accadeva per il cartello con lo slogan di Marx, implica proprio il misconoscimento della natura simbolica, e quindi sociale del denaro. Oltre a troneggiare sulle carote e sulle cipolle dell'erbivendolo, sulle tombe e sulle case, e su qualsiasi altro oggetto di bisogno, quel simbolo troneggia sul fare dell'uomo fintanto che resta “erbivendolo”, “ingegnere” o “metalmeccanico”, cioè lavoratore salariato o produttore di merci. Esso è il segno materiale dell'assurda pretesa, da parte del singolo, che è e pretende di restate sussunto alla divisione del lavoro naturalmente ereditata, di trovarsi ciononostante in sintonia spontanea con il resto della società, grazie all'operare di forze oggettive – il mercato - che raccoglierebbero efficacemente le istanze ed i bisogni di tutti.

Il significato del comportamento sociale nascosto dietro al rapporto di prezzo è stato esposto con grande chiarezza dagli apologeti del capitalismo. “Se uno scambio tra due è volontario — precisa ad esempio Friedman — esso non avrà luogo che quando entrambe le parti credono di ricavarne un beneficio ... L'intuizione è ovvia nello scambio semplice tra due persone. Molto più difficile è capire come questo principio permetta a tutti gli abitanti della terra di cooperare, facendo i propri interessi individuali. Il sistema dei prezzi è il meccanismo che svolge questo compito senza direzione centrale, senza che gli uomini debbano parlare tra di loro o amarsi. Quando comperi una matita o il tuo pane quotidiano, non sai se la matita è stata fabbricata, o il tuo grano è stato coltivato, da un bianco o da un negro, da un cinese o da un indiano. Di conseguenza il sistema dei prezzi permette alla gente di cooperare pacificamente per un aspetto della loro vita, lasciando che ognuno persegua le proprie attività per quanto riguarda tutto il resto. Il colpo di genio di Adam Smith stava nel riconoscimento che i prezzi che emergevano dalle transazioni volontarie tra compratori e venditori — in breve, in un mercato libero — potevano coordinare l’attività di milioni di persone, ognuna spinta dalla ricerca di un suo vantaggio personale, in modo tale che tutte (!) potessero migliorare la propria posizione. Che l'ordine economico possa emergere come conseguenza non intenzionale delle azioni di molte persone, ognuna spinta dalla ricerca dei propri vantaggi fu allora un'idea sorprendente. E lo è ancora”.

Questa fantasia positiva, che spesso non conquista nemmeno lo statuto di uno svolgimento consapevole della coscienza degli individui singoli, i quali si limitano ad accomodarsi positivamente di fatto nelle nicchie che la spontanea divisione del lavoro eventualmente offre loro, non è affatto diversa dall'illusione dell’erbivendolo di riuscire a partecipare dell'universale processo di emancipazione dei lavoratori limitandosi a mettere una citazione di Marx tra carote e cipolle. Dichiarando che le carote valgono «tanto denaro», l'erbivendolo, che pure si è emancipato dal comunismo post-autoritario, esprime un nesso materiale tra il risultato della sua particolare attività e il generale processo della riproduzione sociale che è qualitativamente analogo al rapporto che instaurava con l'emancipazione dei la- voratori, mettendo uno slogan «rivoluzionario» in vetrina. Il denaro, cioè il nome di prezzo delle cose, è il simbolo fantastico della socialità che emana da un individuo che agisce in maniera solo fantasticamente sociale, in quanto di fatto si accontenta di entrare in forma solo casuale, cioè privata, nel processo della riproduzione sociale. Questo individuo ha un'illusione relativa allo svolgimento della propria vita — quella di essere in sintonia con l'universo nonostante il suo procedere anarchico — che corrisponde perfettamente all'enunciato di Havel sulla natura dell'ideologia. Il fatto che questo enunciato non sia necessariamente presente alla sua coscienza, che egli si limiti a dare un prezzo ai propri prodotti o alla propria capacità di produrre solo perché i suoi predecessori più immediati lo facevano ed i suoi contemporanei lo fanno, non conta. Come l'erbivendolo che si elevava attraverso l'esposizione in buona fede dello slogan, nella realtà era comunque oggettivamente un servo, così l'erbivendolo che si libera del primo rozzo comunismo accontentandosi di restaurare il pieno potere del denaro non è libero, appunto perché cerca ora di strutturare la sua libertà senza tenere in alcun conto la necessità. Egli finisce così con il confondere il problema della propria riproduzione monadica con il problema della riproduzione dell'organismo di cui partecipa, giungendo a ritenere che provvedendo alla prima realizzi spontaneamente ed armoniosamente la seconda. Per questo finisce con l'essere sottomesso ad un insieme di forze oggettive, rappresentate dalle dinamiche connettive dell'organismo, che gli rimangono sconosciute. Egli scopre così che la “liberazione” dal comunismo post-autoritario, invece dell’attesa valanga di effetti positivi, del fiorire della ricchezza, produce una nuova costrizione di tipo impersonale. (Da questo punto di vista è quanto mai eloquente la critica generalmente avanzata nei confronti dei lavoratori dei paesi dell’est di non sapersi sottomettere a sufficienza alle condizioni lavorative dominanti all'ovest). E questa evoluzione si accompagna ad un drammatico calo del reddito nazionale, ad una disoccupazione di massa, al dilagare della criminalità, al moltiplicarsi di forme di conflittualità etnica e religiosa risalenti ad un passato che si credeva tramontato. Vale a dire che, invece dello spontaneo instaurarsi dell'ordine, che l’apologeta dei rapporti privati ingenuamente si attende, interviene il disintegrarsi dello stesso tessuto sociale col sopravvenire di una crisi.

I nipoti di coloro che intrapresero il primo disastroso viaggio verso la comunità sono così ricondotti, in un modo o nell'altro, al punto dal quale i loro nonni, all'inizio del secolo, diedero avvio a quel viaggio sfortunato. Solo un attacco grave di amnesia sociale può infatti far dimenticare che alla base della spinta verso il comunismo vi furono fenomeni sociali molto simili a quelli che si stanno ora verificando nei paesi che hanno abbattuto il sedicente comunismo.

Ma il sentiero che fu spontaneamente imboccato tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo, per cercare di affrontare quei problemi, è ora sbarrato. La meta che si è cercato di raggiungere con il movimento comunista nel corso di questo secolo è nota: realizzare una comunità degli individui mediata dall’intervento dello stato. Raccogliendo i bisogni collettivi che scaturivano contraddittoriamente dallo sviluppo fondato sullo spontaneo dispiegarsi dell'azione privata, si è ritenuto di procedere alla loro soddisfazione sottomettendo la vita ad una forza comune, pubblica, che si strutturava nella forma di una organizzazione politica. Si trattava di un percorso sostanzialmente obbligato, appunto perché, nell'ambito della società nella quale il movimento comunista ha inizialmente preso corpo, il potere sociale consapevolmente posto — contrapposto al potere del denaro, come potere sociale che scaturiva dal non intenzionale procedere comune degli individui — era sperimentato solo nella forma del potere politico. In altri termini, l'unica veste sociale che poteva essere indossata dall'individuo privato, nel momento in cui dismetteva la sua veste privata e cercava di praticare un potere sociale, ferma restando la struttura della sua individualità egoistica, era quella del cittadino. Non riconoscendo in sé alcun potere sociale immediato, l'individuo egoista che si elevava a cittadino poteva porre il potere di un agire sociale solo come un qualcosa di esteriore e di sovrastante, ipostatizzando la comunità immaginata come “stato”.

L'insegnamento di Marx, teso a mostrare i limiti di questa figura sociale, era un insegnamento al quale non corrispondeva ancora il grado di sviluppo raggiunto. La sua analisi del perché il potere politico non rappresenti un potere realmente corrispondente al bisogno della comunità — in quanto ignora completamente il problema dell'emergere delle concrete capacità individuali indispensabili all'oggettivo costituirsi della comunità — era un'analisi che non poteva essere metabolizzata socialmente da individui che erano ancora intenti a spingersi al di là degli stessi legami simbiotici precapitalistici, per diventare coerentemente soggetti privati.

Con il prevalere di un sentimento di sé schizofrenicamente incentrato sulla vita politica “come reale e non contraddittorio costituirsi della vita dell'uomo come genere», in opposizione all'anarchico sviluppo mediato dal denaro, si è cercato “di soffocare il presupposto stesso della vita politica, la società civile e i suoi elementi”. Ciò che è stato “possibile solo attraverso una violenta contraddizione con le stesse condizioni di vita della società politica, solo dichiarando permanente la rivoluzione”. Ed è stato a causa di questo procedere idealistico, che, come Marx aveva previsto, “il dramma politico è finito altrettanto necessariamente con la restaurazione della religione, della proprietà privata, di tutti gli elementi della società civile”.

Nel momento in cui questa restaurazione si compie, e la società civile, con tutte le sue contraddizioni e i suoi limiti, riprende il sopravvento, emergono inevitabilmente un insieme di interrogativi. Se, nel “combattere” contro l'individuo egoista, il cittadino produce effetti così disastrosi, non è forse meglio accomodarsi quietamente all'interno dell’orizzonte privato? Se il tentativo di imbrigliare il potere del denaro attraverso l'intervento dello stato inaridisce così drammaticamente il tessuto sociale, non è forse opportuno sgomberare il campo da qualsiasi bisogno comunitario e lasciare il terreno ad una produzione fondata sullo spontaneo evolvere della proprietà privata? Se non si vuole accondiscendere a questi esiti, esiste un'altra via che può essere imboccata per dar forma ad un agire comunitario che si fondi su un potere meno contraddittorio del potere statale? E se si è convinti dell'esistenza di una simile via alternativa, come può l'individuo che sperimenta il bisogno della comunità concretamente imboccarla, cominciando a trasformarsi in un essere coerentemente sociale?

 

Il problema della negazione

Se, pur restando sul terreno astratto, si vuole affrontare in maniera adeguata questo problema, lo si deve fare, a nostro avviso, muovendo da alcuni quesiti sollevati più volte da Napoleoni. I quesiti in questione, che purtroppo Napoleoni non è stato in grado di risolvere, ruotano attorno ad un problema che possiamo qui richiamare con le stesse parole che egli impiegò sul suo Discorso sull'economia politica: è veramente possibile, nel rappresentare il processo dello sviluppo sociale, riferirsi ad “un soggetto che sia capace di riconoscere nell'oggetto (costituito dal suo stesso prodotto) la propria negatività?”.

Questo interrogativo è, per coloro che sono stati o che ritengono ancora di essere comunisti, un quesito centrale; soprattutto se essi riescono a formularlo in maniera razionale. Ed infatti, se è fuori di dubbio che, salvo rare eccezioni, le persone siano in grado di convenire sugli esiti ultimi della loro precedente azione sociale, quando sono disastrosi, esse possono ciononostante rifiutarsi di considerare la negazione intervenuta come una manifestazione della propria negatività. Con una autoconferma immediata di sé, delle loro presunte capacità come agenti di trasformazione sociale, esse possono infatti cercare di sbarazzarsi immediatamente della loro storia recente, considerando i suoi esiti come un qualcosa di meramente esteriore rispetto alle loro intenzioni, e quindi di inessenziale rispetto alla forma assunta dal loro stesso bisogno. Lo sbocco inevitabile di questa elusione della negazione, come dimostrano anche le vicende di coloro che costituivano il PCI dopo la caduta del muro di Berlino, è la pretesa ideologica di poter dare avvio ad una “nuova vicenda” che, pur prendendo spunto da quello stesso bisogno, viene volontaristicamente vissuta come «nuovo inizio». Pretesa alla quale può altrettanto arbitrariamente contrapporsi un trasformismo falsamente «rifondazionista», che nella realtà è unicamente teso a continuare sulla vecchia via con aggiustamenti solo marginali, spesso limitati ai soli propositi.

Questa conferma autonoma, cioè privata, del proprio essere sociale, è esattamente la stessa che poneva in essere l'erbivendolo praghese nel momento in cui si rifugiava dietro allo slogan di Marx sull’unione dei proletari, per non dover subire la negazione connessa con il disvelamento della sua condizione di vita. Il falso universale costituiva per lui il mezzo di una conferma del “vero” e contingente particolare. Il soggetto che ricorre ad un simile meccanismo difensivo è preda, in genere, di due orientamenti contrapposti — riferiti rispettivamente a sé e al mondo — che coesistono in lui schizofrenicamente senza trovare sbocco in un movimento unificante e che costituiscono la struttura essenziale della libertà egoistica. Da un lato, il valore del suo essere sociale, invece di essere verificato materialisticamente nello svolgimento dei rapporti nei quali il soggetto è immerso, gli si presenta come un qualcosa di interiore, che può essere giudicato solo «dal di dentro”. Dall’altro lato, l'insieme dei rapporti gli appare come un qualcosa che evolve per proprio conto, come mera manifestazione del potere altrui o dello spontaneo procedere delle cose, al quale il soggetto può rapportarsi solo come presupposto della sua stessa azione, e non anche come risultato di essa. In termini sintetici: poiché nell’individuo privato l'io e gli altri sono scissi, la vita sociale non può costituirsi altrimenti che attraverso l'elaborazione di questa scissione.

Perché è indispensabile che ciascun individuo, che è stato comunista, rifugga da questa elusione e fornisca una risposta pratica al quesito di Napoleoni, assumendo su di sé la negazione? Per la semplice ragione che solo questo modo di procedere può consentire di impostare l'analisi degli eventi storici recenti e la verifica delle possibilità di trasformazione sociale eventualmente ancora aperte, senza dover poggiare ulteriormente sulla scissione. In assenza di questa risposta risulta d'altronde impossibile elaborate una rappresentazione razionale del rapporto individuo-società, che deve essere alla base di qualsiasi iniziativa sociale tesa a soddisfare il bisogno della comunità. Se queste nuove iniziative vengono intraprese tenendo conto delle gravi contraddizioni che sono esplose in corrispondenza del modo in cui si è cercato di procedere verso la comunità, non possono prendere le mosse altrimenti che dal tentativo di superare la scissione tra sé e gli altri insita nell'approccio privatistico. In altri termini, la comprensione piena e razionale dell'essere sociale dell'individuo deve costituire l'asse portante di qualsiasi formulazione del bisogno della comunità, ponendo fine al susseguirsi di formulazioni mistiche che ha caratterizzato la storia di questo secolo.

Cerchiamo di definire il problema con la complessità che gli è propria.

 

I tre schemi che definiscono il rapporto individuo-società

Nell'analisi del rapporto individuo-società si sono storicamente contesi il campo tre diversi schemi interpretativi. In un primo schema, di impostazione unilateralmente materialistica, l'organismo sociale appare — naturalisticamente — come l'unica vera realtà e gli individui sono sempre e soltanto degli accidenti. Il procedere sociale viene considerato come un procedere meramente oggettivo; vale a dire che gli esseri umani non fanno e non possono fare la loro storia, ma debbono limitarsi a subirla. Un secondo schema, di impostazione unilateralmente idealistica, rovescia questo assunto. II procedere sociale gli appare — misticamente — come un procedere puramente soggettivo; vale a dire che in esso, non solo gli uomini fanno la storia, ma possono farla secondo il loro libero arbitrio. La descrizione del funzionamento del libero mercato che abbiamo ripreso da Friedman costituisce uno splendido esempio di questo tipo di impostazione. Il terzo approccio, per il quale, come vedremo, l'interrogativo di Napoleoni è centrale, muove dal riconoscimento del fatto che gli “uomini fanno la propria storia”, ma sottolinea anche che essi “non la fanno secondo il loro libero arbitrio, né in circostanze da essi stessi prescelte”. Ciò comporta che, a qualsiasi livello dello sviluppo, gli individui, pur svolgendo un ruolo attivo, non si autocostituiscono né possono autocostituirsi in maniera autonoma, come soggetti «puri», ma sono piuttosto immersi in un insieme di problemi via via diversi, ai quali non possono sottrarsi e che costituiscono parte integrante del loro stesso essere sociale e delle condizioni della loro esistenza. Questo secondo elemento imprime un carattere anche oggettivo al loro stesso procedere, nel senso che “fa” gli individui non meno di quanto gli individui stessi facciano il loro ambiente ed, indirettamente, la loro stessa vita.

Il problema che emerge inevitabilmente, sulla base di quest'ultima rappresentazione, è quello del legame che intercorre tra questi due momenti, perché — qui sta il nocciolo dell'intera questione! — non è detto che tra soggettività ed oggettività debba necessariamente instaurarsi un nesso coerente. Pertanto, se è vero che, per un verso, gli individui sono liberi, è pero anche vero che questa loro libertà non può costituirsi in opposizione alla necessità, cioè alle condizioni esteriori che incidono sull'azione umana, senza determinare per ciò stesso conseguenze contraddittorie.

Il terzo approccio ha preso corpo attraverso una serrata critica dell'unilateralità dei primi due e da un'analisi delle conseguenze contraddittorie del procedere umano mediate dalle forme di esperienza ad essi corrispondenti. Solo con Marx il problema della natura del legame che unisce i due momenti ha però trovato una formulazione matura. Ancora in Feuerbach infatti la tendenza unilateralmente idealistica e quella unilateralmente materialistica coesistono combattendosi, senza riuscire cioè a trovare una sintesi coerente. “Di fronte ai materialisti "puri" — scrive Marx — Feuerbach ha certo il grande vantaggio di intendere come l'uomo sia anche "oggetto sensibile"; ma a parte il fatto che lo concepisce soltanto come "oggetto sensibile" e non come "attività sensibile", poiché anche qui egli resta sul terreno della teoria, e non concepisce gli uomini nella loro connessione sociale, nelle loro presenti condizioni di vita, che hanno fatto di loro ciò che sono, egli non arriva agli uomini realmente esistenti e operanti ma resta fermo all'astrazione "l’uomo", e riesce a riconoscere solo nella sensazione "l'uomo reale, individuale, in carne e ossa". Il che significa che non conosce altri "rapporti umani, dell’uomo con l’uomon se non l'amore e l'amicizia, e per di più idealizzati. Egli non offre alcuna critica dei rapporti attuali della vita. Non giunge mai, quindi, a conoscere il mondo sensibile come l'insieme dell'attività sensibile vivente degli individui che lo formano, e perciò se in luogo di uomini sani, per esempio, vede una massa di affamati scrofolosi, sfiniti e tisici, è costretto a rifugiarsi nella "più alta intuizione" e nell'ideale "compensazione della specie", e dunque è costretto a cadere nell'idealismo proprio là dove il materialista comunista vede la necessità e insieme la condizione di una trasformazione tanto dell'industria quanto della struttura sociale». In breve: “fintanto che Feuerbach è materialista, per lui la storia non appare, e fintanto che prende in considerazione la storia non è materialista. Materialismo e storia sono per lui del tutto divergenti».

Una volta che la prospettiva marxiana è compresa in tutta la sua estensione, muta qualitativamente tanto la natura della soggettività, quanto quella dell'oggettività, poiché entrambe possono essere definite e comprese solo attraverso l'esame dinamico della reciproca interazione, cioè come totalità composita e in continua evoluzione. Secondo gli idealisti «le relazioni tra gli uomini, ogni loro fare o agire, i loro vincoli e i loro impedimenti sono prodotti della coscienza», cosicché il soggetto stesso, non essendo sperimentato nella determinata interazione con il proprio oggetto, preesiste sempre fantasticamente al suo stesso essere. Per questo egli assume una connotazione solo attiva. Secondo i materialisti gli individui sono, invece, solo il prodotto dell'oggettiva dinamica delle circostanze, nei confronti della quale la retroazione degli uomini appare sempre del tutto inconsistente. In tal modo le circostanze stesse non appaiono, come in realtà sono, anche un effetto dell'azione degli individui, bensì precedono sempre fantasticamente questa azione come unico elemento determinante del loro essere. Quest'ultimo assume conseguentemente una connotazione solo passiva.

II riconoscimento del sussistere di un momento oggettivo e di uno soggettivo, di un momento sociale e di uno individuale, uniti tra loro in un continuo processo di azione e retroazione, elimina l'artificiosa semplicità dei due approcci sopra richiamati. Ma la dinamica ad esso corrispondente deve essere colta in relazione all'effettivo procedere degli esseri umani, i quali, in genere, muovono purtroppo proprio dagli assunti delle due impostazioni unilaterali, che non corrispondono alla loro reale condizione. C'è quindi normalmente un agire soggettivo che non tiene conto delle condizioni oggettive e un evolvere oggettivo che non viene recepito a livello soggettivo, ciò che rende tutto maledettamente complicato. Per questo libertà e necessità si strutturano inevitabilmente come opposti. Ed è per questo che, come accennavamo sopra, è molto improbabile che tra i due momenti si instauri una connessione coerente. I problemi che di volta in volta si intrecciano con la riproduzione della vita, che pure si impongono sugli individui, possono cioè non essere da loro sperimentati in maniera adeguata, con la conseguenza che l’influenza dinamica delle circostanze sul procedere sociale finisce col determinare degli esiti che non sono contenuti nelle intenzioni dei soggetti che agiscono. E se possono darsi situazioni nelle quali singoli individui sono in grado di anticipare con chiarezza un insieme di problemi che si prospettano all’orizzonte dell’organismo sociale nel quale sono immersi, può però accadere che la società nel suo complesso non sia ancora giunta al punto in cui quelle soluzioni possono essere realmente metabolizzate attraverso una nuova organizzazione sociale. Insomma, è del tutto normale che, al grado di sviluppo sin qui raggiunto, tra soggettività ed oggettività intervenga uno scarto, cosicché «l'evoluzione sociale [abbia luogo] come un processo naturale retto da leggi che non dipendono dalla volontà, dalla coscienza o dalle intenzioni degli uomini, ma che anzi determinano questa volontà, questa coscienza e queste intenzioni”.

Questo tipo di conclusione non deve essere confuso con quello al quale si giungeva nell'ambito del primo schema. In quello schema, infatti, la società veniva separata in due parti autonome, una soggettiva e l'altra oggettiva, e la seconda veniva in via di principio sollevata al di sopra dell'altra ed era posta come unica determinante possibile del procedere sociale. Il secondo schema invertiva l'ordine, sollevando la soggettività ad unica determinante. Il terzo schema pone invece i due momenti come parti di una totalità, nella quale il ruolo attivo e il ruolo passivo si distribuiscono alternativamente e retroattivamente tra i due poli, i quali possono assumere entrambi, anche se non aprioristicamente, un valore determinante. Il momentaneo prevalere di uno di essi — quello oggettivo — interviene solo in conseguenza del fatto che l'altro — quello soggettivo — non si è ancora sviluppato in misura corrispondente al problema con il quale storicamente si confronta. Questo mancato sviluppo fa sì che l'interazione tra i due livelli, nonostante abbia concretamente luogo e determini effetti reali, non sia sempre corrispondente alle circostanze date, con la conseguente dissipazione di buona parte dell’energia sociale, che pure viene erogata. Se e quando la soggettività riesce invece a sviluppare quell’insieme di capacità corrispondenti ai problemi nei quali è immersa, si presenta essa stessa come una “forza produttiva” sociale, nel senso che riesce – per una fase storica - a «fare» il proprio mondo non meno di quanto sia da esso «fatta». Basti qui richiamare il giudizio positivo che Marx espresse nei confronti dell’economia politica inglese della fine del XVIII secolo e dell'inizio del XIX. Criticando le fantasie romantiche dei proprietari fondiari, essa ha “anticipato e preparato il movimento della realtà, destinato a trasformare il proprietario fondiario in un capitalista assolutamente comune e prosaico, e quindi ha semplificato ed acutizzato il contrasto, accelerandone la soluzione”.

 

L'importanza dell'esperienza della negatività

Come giustamente sottolinea Napoleoni, quello della presenza o meno di un soggetto capace di sperimentare, nel procedere sociale, la propria negatività è l'elemento chiave della teoria marxiana, e ciò perché esso è indispensabile nella concreta costruzione della teoria propria del terzo schema. Esso consente infatti di elaborare un'analisi delle interazioni tra i due momenti del procedere sociale senza dover poggiare su falsi presupposti di una spontanea coerenza reciproca o, all'opposto, di un procedere che possa intervenire in modo disconnesso senza determinare conseguenze catastrofiche.

Pur avendo il merito di aver tenuto fermo il problema, sottolineandone la centralità, Napoleoni, come già accennavamo sopra, non è pero riuscito ad elaborare una soluzione di esso, sentendosi alla fine costretto a criticare Marx. Sembra a noi che ciò sia dovuto al fatto che egli non è realmente giunto a formulare la questione del ruolo della negatività in termini sufficientemente rigorosi e realmente rispondenti all'impostazione marxiana. Cercheremo quindi di affrontarla, seppure in termini necessariamente sintetici, prendendo le mosse proprio dalle sue osservazioni, per valutare se e come sia possibile impostare il problema senza cadere nel suo stesso errore.

Nel Discorso Napoleoni lega il problema dell'esperienza della negatività alla possibilità e alla necessità di uno sviluppo sociale nei seguenti termini. Marx fornisce le categorie occorrenti alla comprensione del processo (di trasformazione del soggetto in oggetto prodotto dal contesto in cui prende corpo), ma non spinge la sua comprensione fino a rappresentarne l'esito. “Tant'e vero che: 1) egli immagina la presenza, nel processo, di un soggetto capace di riconoscere nell'oggetto la propria negatività, quindi di un soggetto in grado di elevarsi al di sopra di questa vicenda di oggettivazione; 2) egli pensa l'uscita dalla situazione data proprio in termini di rafforzamento e compimento di quel dominio dell'uomo, del soggetto, sul mondo, che sta all'origine della conversione del soggetto stesso in oggetto producibile. Se perciò, guardando la realtà con le categorie che Marx ha formulato, si arriva a concludere che la produzione si è richiusa su se stessa, che il soggetto e scomparso, proprio nel momento in cui ha attuato l'universale oggettivazione, questa conclusione è sì in Marx ma non per Marx. Marx, cioè, non può neppure avere il sospetto che la soggettività si possa autodistruggere proprio in forza della propria assolutizzazione; non può cioè sapere che se l'uomo si pone in un rapporto di assoggettamento della "natura esterna ed interna al produttore", egli stesso diventa, alla fine, un prodotto”. Ridotto ai minimi termini, il senso dell'argomentazione è il seguente: nello schema di Marx l'esperienza della negatività sarebbe la condizione necessaria e sufficiente affinché l'uomo produca un mondo corrispondente ai suoi bisogni. Ma chi si trova in una condizione negativa, osserva Napoleoni, non ha altra misura che quella corrispondente alla situazione nella quale è immerso, e quindi non può fare esperienza della negatività. Immaginare una spinta al cambiamento, conseguente a questa esperienza, diventa perciò impossibile.

Questa argomentazione determina il presentarsi di due diversi problemi che Napoleoni tratta però come se costituissero un unico problema. II primo si riferisce alla stessa esperienza della negatività, a come essa intervenga. Il secondo si riferisce invece alla dinamica evolutiva che quell’esperienza sarebbe in grado di innescare. Soffermiamoci dapprima sul primo aspetto.

 

Esperienza della negatività e trasformazione sociale

È fuori di dubbio che Marx immagina la presenza, nel processo riproduttivo, di un soggetto capace di sperimentare la propria negatività. Ma non si può invece concordare sul fatto che per lui questa esperienza equivalga alla immediata conquista di un potere soggettivo di elevarsi al di sopra dell'oggetto – i rapporti sociali dati - che imprime la determinazione negativa. La percezione della negatività svolge cioè il ruolo di condizione necessaria, ma non anche, come invece ritiene Napoleoni, di condizione sufficiente di una appropriazione soddisfacente dell'oggetto. L'esperienza della negatività costituisce infatti, innanzitutto, per Marx una “relazione affettiva con la propria condizione”. Ma “uno può macerarsi, martoriarsi, ecc. tutto il giorno... senza cavare per questo un ragno dal buco... Un semplice negativo non crea nulla”. Al di la della negatività “deve esserci qualcos'altro”. Fintanto che non interviene questo “altro” — cioè “un'attività positiva, creativa” che non è immediatamente contenuta nella situazione — l'oggetto continua inevitabilmente a sovrastare il soggetto, al di là delle passioni che genera in lui.

Napoleoni può essere stato tratto in inganno da un passo del Capitolo VI inedito del Capitate che vale la pena di richiamare brevemente. Nel processo di alienazione, vi si legge: “L'operaio si eleva fin dall'inizio al di sopra del capitalista, perché quest'ultimo è radicato in un processo di alienazione nel quale trova il suo appagamento assoluto, mentre l'operaio, in quanto ne è la vittima, è a priori con esso in un rapporto di ribellione, lo sente come processo di riduzione in schiavitù”. Ora, dire che l'operaio si eleva al di sopra del capitalista non equivale affatto a sostenere che egli si elevi al di sopra del proprio oggetto, ma soltanto che egli ha un ruolo storico che, con l'eventuale procedere dello sviluppo, risulterà più produttivo di quello del capitalista. Per giungere alla conclusione che Napoleoni erroneamente imputa a Marx, si deve essere convinti che l'esperienza della negatività contenga in sé immediatamente un rovesciamento, e che la semplice acquisizione della coscienza di una cosa corrisponda alla conquista del potere di soddisfare il bisogno che quella consapevolezza genera. Tutta la critica di Marx ad Hegel muove però proprio dalla confutazione di questo assunto, perché con esso si nega praticamente l'esistenza stesso del mondo oggettivo. In Marx l'esperienza della negatività non è cioè affatto confusa con l'immediato superamento della condizione che la determina, appunto perché il soggetto marxiano non è lo spirito che si autoconferma comprendendo se stesso.

Chiarito questo punto essenziale, possiamo senz'altro riconoscere che il fraintendimento di Napoleoni ha una giustificazione, perché indubbiamente Marx ipotizza il sussistere di un legame di necessità tra l'esperienza della negazione e l'instaurarsi di un processo attivo di trasformazione. (Anche se non è detto che quest'ultimo vada a buon fine, e cioè consenta al soggetto di elevarsi al di sopra del proprio oggetto). I due processi non sono cioè un solo e medesimo fenomeno, ma risultano pur sempre in unità tra loro. Per questo la negatività appare nel sistema marxiano come “principio motore e generatore”, vale a dire che costituisce un fattore energetico di trasformazione.

Da questo punto di vista è forse opportuno richiamare brevemente un passaggio di La sacra famiglia nel quale Marx delinea il ruolo storico che per un certo periodo sarebbe stato proprio del proletariato. “Proletariato e ricchezza sono opposti. Essi formano come tali un tutto. Entrambi sono figure del mondo della proprietà privata. Ciò che conta è la posizione determinata che entrambi occupano nell'opposizione. Non basta dichiarare che sono due lati di un tutto. La proprietà privata, come proprietà privata è costretta a mantenere nell'esistenza se stessa e con ciò il suo opposto, il proletariato. Essa è il lato positivo dell'opposizione; la proprietà privata che ha in sé il suo appagamento. Il proletariato, invece, come proletariato, è costretto a togliere se stesso e con ciò l'opposto che lo condiziona e lo fa proletario, la proprietà privata. Esso è il lato negativo dell'opposizione, la sua irrequietezza in sé, la proprietà privata dissolta e dissolventesi. La classe proprietaria e la classe del proletariato presentano la stessa autoalienazione umana. Ma la prima classe, in questa autoalienazione, si sente a suo agio e confermata, sa che l’alienazione è la sua propria potenza e possiede in essa la parvenza di un'esistenza umana; la seconda classe, nell’alienazione, si sente annientata, vede in essa la sua impotenza e la realtà di un'esistenza inumana. Per usare un'espressione di Hegel, essa è nell'abiezione la rivolta contro questa abiezione, una rivolta a cui essa è spinta necessariamente dalla contraddizione della sua natura umana con la situazione della sua vita, la quale situazione è la negazione aperta, decisa, completa di questa natura. All’interno dell'opposizione il proprietario privato è dunque il partito conservatore, il proletariato il partito distruttore. Il primo lavora alla conservazione dell'opposizione, il secondo al suo annientamento”.

L'argomento è chiarissimo ed ha perfettamente ragione Napoleoni nel sostenere che l'intera partita della validità delle argomentazioni di Marx sulla possibilità dell'emergere di un razionale movimento di ricerca della comunità si gioca proprio nella verifica di questa ipotesi. Ma questa verifica non può essere tentata alla maniera di Napoleoni.

 

Per comprendere la problematicità del rapporto soggetto-oggetto

Quando Napoleoni affronta l'argomentazione di Marx, incorre nell’errore di leggerla nell'ambito di uno schema logico che è con essa in totale contrasto. Sottostante alle considerazioni critiche di Napoleoni c'è infatti la convinzione che la forma normale del rapporto soggetto-oggetto sia tale che il soggetto, per presentarsi come tale, debba sempre sovrastare il suo oggetto. Vale a dire che egli ipotizza che, come norma, nel rapporto soggetto-oggetto ci si debba trovare di fronte ad un processo unidirezionale — che si svolge in un sol verso — tra ciò che definiamo come soggetto (l'individuo), che viene posto come lato attivo, come ciò che “fa», ed il suo oggetto (il suo prodotto), che viene sperimentato come il lato passivo, come ciò che è «fatto», con un nesso di causa-effetto di tipo fisicalistico. Da questo Napoleoni balza poi a desumere che è insensato il verificarsi di una situazione nella quale l'oggetto possa essere di più che lo stesso soggetto, e che rappresenti uno stravolgimento il fatto che il soggetto stesso sia “fatto” dal proprio oggetto. Una soggettività che non “domina» il proprio oggetto gli appare cioè come una soggettività definitivamente dissolta.

Si pensi al modo in cui, in una lettera a Del Noce, Napoleoni risolve il problema del ruolo del proletariato. “Secondo la primitiva impostazione marxiana, il lavoratore, in quanto ridotto a forza lavoro, non è altro che una porzione, e nemmeno la più importante, del capitale; e lo stesso capitalista non è che "capitale personificato", "capitale in funzione". Dunque, sempre secondo quella impostazione, queste due figure non sono più soggetti ma semplici maschere, o funzioni di un meccanismo che le assimila a sé. L'operazione che Marx doveva compiere, contraddittoriamente alla sua impostazione primitiva, era quella di "restituire" soggettività al proletariato per costituirlo a negazione del sistema. Ora egli pensa di raggiungere questo risultato contrapponendo al proletariato un nemico, che non è più il meccanismo impersonale del mercato e dell’accumulazione, ma è un soggetto determinato, il capitalista; ma è appunto per costituire a soggetto quest'ultimo che Marx ha bisogno di uno strumento che gli veniva fornito dall'economia politica inglese: la teoria ricardiana del valore-lavoro; infatti, sulla base di tale teoria si può affermare che il capitalista mantiene una continuità di fondo, malgrado ogni apparenza in contrario, con lo sfruttatore di tipo "signorile". Il proletariato riacquista così la figura di soggetto attraverso la lotta che lo vede contrapposto ad un altro soggetto”.

Un simile schema ricostruisce in termini niente affatto convincenti lo svolgersi del pensiero di Marx. I soggetti, in Marx, non sono mai rappresentati come soggetti astratti, come generiche persone, che a priori si contrappongono universalmente al mondo come loro oggetto, salvo poi perdere questa universalità per alienazione. Essi sono piuttosto soggetti determinati in una maniera sempre specificamente sociale, cioè in un determinate rapporto reciproco e con le condizioni della loro esistenza, nelle quali si esprimono i loro rapporti. Il rendersi indipendente di questi rapporti, che interviene in conseguenza del procedere dello sviluppo per via prevalentemente naturale, “non va inteso nel senso», in cui lo intende Napoleoni, “che il rentier o il capitalista cessino di essere delle persone; bensì solo nel senso che la loro personalità è condizionata e determinata da rapporti di classe determinatissimi, rapporti di classe che, per una fase storica, risultano senz'altro produttivi, cioè in grado di accrescere l’umanità dell’uomo.

Quello del capitale è infatti per Marx un rapporto di produzione, e il capitalista è “capitale personificato”, in quanto soggetto che pone in essere consapevolmente e volontariamente quel rapporto sociale, come “suo” rapporto. Egli agisce quel rapporto come “meccanismo», e finisce con l'essere ad esso subordinato, solo perché lo tratta come rapporto immanente, cioè come condizione che, appagandolo, gli appare come pienamente e definitivamente corrispondente alla “natura” umana. Per questo egli tende sistematicamente a conservare e a riprodurre quel rapporto. Nel far ciò egli non smarrisce la propria determinata e limitata soggettività, bensì la conferma.

Ma se gli organismi sociali umani non sono mai realtà statiche, ciò è tanto più vero per la società borghese. II suo stesso procedere determina pertanto il continuo emergere di problemi, cosicché lo stesso capitalista finisce col determinare un insieme di cambiamenti nelle condizioni della produzione, e con essi nella struttura delle relazioni sociali. Questi cambiamenti vengono da lui sempre interpretati come svolgimenti omeostatici, proprio perché tesi a riprodurre il suo potere. Ma le condizioni della soluzione dei problemi che via via emergono sono le condizioni di una forma del potere sociale che trascende la soggettività che ha prodotto la società capitalistica, e che può essere coerentemente espressa solo da coloro che non si ritrovano nei rapporti corrispondenti. Il sentimento omeostatico appare quindi a Marx come un sentimento ideologico, perché con il mutare delle circostanze in modo corrispondente alla soluzione dei problemi, muta il soggetto stesso, nonostante la scissione soggetto-oggetto gli consenta di cogliere soltanto il lato omeostatico del suo procedere.

Il proletario, dal canto suo, entra nel processo produttivo dapprima come componente solo passiva, come mera forza lavoro in vendita o venduta. Egli partecipa dunque di una classe che è subordinata, proprio perché composta di soggetti che non sperimentano un loro potere nella situazione sociale data. A differenza dei capitalisti, che si trovano in un rapporto positivo con le condizioni di esistenza della società, essi hanno con quelle condizioni un rapporto di non proprietà. Quando subiscono le conseguenze negative dello svolgimento di un processo riproduttivo deciso e dominato da altri, tendono spontaneamente ad individuare un legame tra la limitata forma di potere sociale (altrui) che si esprime attraverso i rapporti dati e gli esiti che sono costretti a subire. Il superamento della negazione che subiscono assume in loro pertanto la forma del superamento della natura negativa di quei rapporti. Ma affinché questo superamento intervenga realmente, essi debbono produrre quelle capacità umane, che non sono già date, e che corrispondono ad un più elevato grado di socialità. Il fatto che questa componente possa essere temporaneamente nascosta dietro alle specifiche rivendicazioni del proletariato, e quindi non presente alla coscienza dei lavoratori, non conta. Si pensi, ad esempio, all'interpretazione che Marx diede della rivendicazione di un «diritto al lavoro». “Il diritto al lavoro è nel senso borghese un controsenso, un meschino pio desiderio; ma dietro il diritto al lavoro sta il potere sul capitale, dietro il potere sul capitale sta l'appropriazione dei mezzi di produzione, il loro assoggettamento alla classe operaia associata, e quindi l’abolizione del lavoro salariato, del capitale e del loro rapporti reciproci”.

La sottomissione, a differenza di quanto crede Napoleoni, non elimina dunque la componente attiva dell'individualità del proletario; si limita piuttosto ad imprimerle una connotazione determinata. Unificando progressivamente le proprie forze con quelle degli altri lavoratori e rivendicando la soluzione del problemi che via via scaturiscono dallo sviluppo dei rapporti capitalistici, il proletario pone, nel concreto, il problema di una nuova forma della proprietà, cioè il problema di un nuovo rapporto tra la vita dell'individuo e le condizioni materiali della sua stessa esistenza riproduttiva. Perciò l'azione del proletariato — le cui tappe (abolizione del lavoro dei fanciulli, riduzione della giornata lavorativa, istruzione obbligatoria di massa, assistenza sanitaria universalmente garantita, intervento a sostegno del pieno impiego, ecc. ecc.), per ovvi motivi di spazio, non possiamo qui ricostruire — spinge il capitale a superare i suoi stessi limiti, cioè a creare le condizioni di una società capace di poggiare su una base più avanzata. Lo svolgimento di questo processo antagonistico di trasformazione, se non sfocia in una disgregazione del tessuto sociale — ciò che dipende solo dal grado di sviluppo delle conoscenze sociali come forze produttive nuove — conduce ad una situazione nella quale viene prodotta una nuova soggettività. Quest'ultima, pur non essendo esplicitamente contenuta nelle intenzioni del proletariato, si presenta come conseguenza necessaria della sua azione, anche se non viene come tale riconosciuta.

Napoleoni ignora tutto questo movimento, perché vuole, già prima del processo di trasformazione, un soggetto in grado di produrre una realtà che corrisponda al bisogno che prova, senza doversi produrre esso stesso attraverso il tentativo di soddisfare quel bisogno, cioè senza dover subire l'effetto pratico della negazione corrispondente alla sua condizione. Mentre vede ed accetta il lato attivo del soggetto, ignora o rifiuta il lato passivo, che pure ad esso compete. Una simile rappresentazione è pero del tutto estranea a Marx, il quale ritiene che l'attivita rivoluzionaria sia tale, solo perché in essa il mutamento di se stessi ed il mutamento delle circostanze procedono di pari passo, e fanno tutt'uno.

 

Perché il comunista negato è un essere in bilico tra un possibile regresso e la soluzione del problema della cooperazione consapevole

II fatto che Napoleoni non riesca a sperimentare l'esistenza di “un soggetto capace di riconoscere nell'oggetto la propria negatività” non deve essere interpretato idealisticamente. Non è cioè l'espressione di una difficoltà teorica nella quale egli incappa durante lo svolgimento autonomo di un insieme di riflessioni, quanto piuttosto la manifestazione di un problema pratico della nostra epoca.

Non va infatti neanche per un istante dimenticato che, per il fatto stesso di aver posto il quesito, Napoleoni ha rappresentato uno dei momenti più avanzati del movimento recente verso la comunità. Mentre nel suo insieme quel movimento era intrappolato negli orizzonti propri dell'individualità egoistica, e per questo trovava il quesito di Napoleoni così insignificante da non riservargli alcuna attenzione. Ora, se è vero che «le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti... e determinano l'intero ambito di un'epoca storica», non deve stupirci il fatto che la prima forma del comunismo sia stata tentata all'interno di un orizzonte soggettivo pienamente corrispondente alla forma sociale che pure era diretto a superare. Non deve cioè sorprenderci che quel tentativo sia stato estesamente dominato, nella pratica, da una forma della soggettività propria dell'approccio egoistico.

Deve invece sorprenderci e preoccuparci un'altra cosa. Ed esattamente il fatto che, nel momento della catastrofe, il problema della libertà possa tornare a calcare la scena sociale alla maniera di Havel. Presupponendo che il singolo individuo sia libero per natura, e quindi sovrano, si torna infatti ad esplorare la via dello sviluppo sociale in termini esattamente eguali a quelli che Marx criticava ben centocinquant'anni or sono. Il soggetto che si muove in questo ambito, proprio perché continua a riferirsi alla sua limitata individualità ereditata dal passato, come forma ultima ed insuperabile dell'umanità, rimane incapace di svolgere concretamente il processo di autoeducazione, che solo può garantire la progressiva costituzione di una base sociale superiore e la trasformazione dell'errore passato in materia prima per il cambiamento futuro.

Tutti i profondi mutamenti intervenuti nell'arco di questo secolo e conseguenti allo svolgimento della contrapposizione del lavoro salariato al capitale rimangono per quel soggetto ripiegato su se stesso, ed aggrappato ad una rappresentazione della natura umana inerzialmente recepita dal passato, come un qualcosa di meramente esteriore, che poco o nulla ha a vedere con la soluzione dei problemi personali che attualmente gli si presentano. II superamento della concorrenza e l'integrazione dei processi produttivi avviati dal capitale come disgiunte membra, il superamento della contrapposizione tra produzione e consumo posto in essere con la “rivoluzione keynesiana”, il riconoscimento dell'unità immediata uomo-natura conseguente allo sviluppo della scienza, l'infittirsi e l'approfondirsi delle relazioni culturali tra popoli, l'estendersi delle conoscenze sulle dinamiche evolutive degli organismi, costituiscono tutti elementi di ricchezza che egli non riesce ancora a metabolizzare nella sua vita riproduttiva sociale senza porli come realtà esteriori. Venuto alla luce come individuo sussunto alla divisione sociale del lavoro corrispondente al denaro, quel soggetto continua ad agire quel rapporto come forma propria della socialità umana in generale. Il livello più avanzato dei suoi eventuali tentativi di appropriazione delle condizioni della propria esistenza al di là del mercato assume ancora la veste idealistica di una rivendicazione della possibilità di una compera preliminarmente mediata dal riconoscimento di un diritto o della creazione di un ambiente generalmente privo di barriere, o limitazioni, grazie all'opera di un terzo sovrastante come “stato”.

Invece di adoperarsi ad approfondire le invisibili connessioni che esistono tra individuo e sistema, e ad afferrare praticamente le forze interattive attraverso le quali gli individui fanno il sistema, nel mentre il sistema stesso li determina come individui, egli si limita ancora egoisticamente a procedere con una immediata proiezione di sé nel complesso del sistema, ignorando puramente e semplicemente il suo reale essere sociale. Il misticismo domina la sua esistenza sociale in tutta l'estensione. Ma la soddisfazione del bisogno della comunità presuppone che egli riesca a sperimentare come l'individualità proceda sempre dalla socialità e come “l’organizzazione sociale e lo stato risultino costantemente dal processo della vita di individui determinati»; che egli riesca, in altre parole, a vedere «il cordone ombelicale che collega ciascuno alle altre persone e cose del proprio universo”. L'individuo privato non prova questo bisogno. Immaginando di essere ciò che è “per natura», non indaga su questi nessi, e quindi nulla viene a sapere della propria e della altrui individualità e delle forme sociali che ad esse corrispondono. Per lui il rapporto della proprietà privata, così come i simboli materiali che ne costituiscono l'espressione — il denaro e lo stato — non contengono un briciolo di estraneazione. Rappresentano la forma compiuta ed ultima della soggettività umana. Il problema della conquista di una «proprietà individuale”, con la quale Marx fa coincidere il superamento del capitalismo, gli appare così come un problema il cui senso gli sfugge completamente.

Il comunista negato che riconosce ed accetta la propria negatività, pur essendo ancora un individuo egoista può trovarsi tuttavia in vantaggio. Essendo consapevole di aver cercato di agire il lato energetico della scissione, quello attraverso il quale si è provato ad affermare un potere soggettivo antitetico rispetto a quello del denaro, egli può ora finalmente giungere a sperimentare i limiti propri dell'individualità egoistica, come limiti della sua propria individualità. Per questo egli può assumere coerentemente su di sé il ruolo rivoluzionario che, nella storia recente, è stato appannaggio del proletariato.

Ma non ci può essere, in questo passaggio, come in genere spera l'uomo egoista che si rifugia in una socialità solo idealistica, subito un ritrovarsi, un sentirsi “al di fuori della "vita della menzogna"“. Al contrario, un individuo che si muove alla con- quista di un pieno potere personale, prendendo atto dei limiti del proprio concreto essere sociale, in un mondo nel quale tutti fantasticano di essere portatori di un potere immediatamente universale, difficilmente può evitare di sperimentare una drammatica frustrazione. Egli infatti non si troverà affatto in una spontanea armonia con il mondo circostante, ma piuttosto in un profondo e radicale antagonismo con esso. L'isolamento sarà il suo ineludibile punto di partenza, perché in un mondo domi- nato dal narcisismo, una pratica razionalmente tesa ad affermare il bisogno della comunità costituirà di per sé motivo di disconferma, e quindi di contrasto con gli altri. Ma si tratta di una frustrazione necessaria, indispensabile per ricondurre l'individuo con i piedi saldamente poggiati a terra, di modo che egli possa agire la comunità dal lato della necessità piuttosto che da quello della libertà. Perché se è vero che il futuro positivo dell'uomo “sta nell'appropriazione della sua produttività generale, nella sua comprensione della natura e nel suo dominio su di essa, attraverso la sua esistenza sociale”, e se è vero che ciò può essere reso possibile solo dallo “sviluppo dell’individuo sociale, che diviene il grande pilone di sostegno della produzione e della ricchezza”, è pero anche vero che questo progresso non può intervenire fintanto che l'individuo non sente tutta la povertà connessa con la sua sottomissione alla divisione sociale del lavoro e al denaro che le corrisponde.

II comunista negato è quindi ad un bivio. Egli ha di fronte la possibilità di sopportare l'enorme sforzo e l’inevitabile sofferenza connessi con il far venire alla luce l'individuo sociale o la possibilità di rifugiarsi di nuovo all’interno dell'orizzonte privatistico. Chi imbocca la prima via lo fa, indubbiamente, con l'enor- me fardello rappresentato dai problemi che la storia umana gli ha consegnato, ma anche con la forza derivante dalla consapevolezza di partecipare produttivamente a quella storia. Chi imbocca la seconda può anche sentirsi leggero, e pretendere di godere di una libertà immediata. Ma sarà ben presto costretto a sopportare la frustrazione connessa con la disgregazione di quel mondo nel quale pretende di sentirsi a casa. Perché, come dimostrerà l’evoluzione contraddittoria dei rapporti sociali, la sua libertà è e rimarrà ideologica.

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