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paroleecose

Il giovane Marx. Un film

di Federica Gregoratto

201719017 21Sono già passati circa dieci anni dall’inizio dell’ultima crisi finanziaria che ha messo in ginocchio l’economia mondiale, soprattutto occidentale. Una delle trasformazioni sociali, politiche e culturali più evidenti che sta segnando la fase attuale (e terminale?)[1] della società capitalista è la presa di coscienza dei limiti, intrascendibili, e dei fallimenti, irreversibili, del progetto social-democratico e liberale. Le procedure democratiche e il sistema dei diritti non sembrano più soluzioni adeguate, o quantomeno sufficienti, per domare la volontà di potenza e violenza delle classi dominanti, mediare le relazioni con il “diverso”, godere delle libertà rese disponibili dal capitalismo tenendone sotto controllo, allo stesso tempo, le derive (auto)-distruttrici.

A destra, si cercano nuove ricette appellandosi a rozzi demagoghi o a nuove ladies di ferro. L’obiettivo principale è quello di rimuovere tutto ciò che appare sopraggiunto solo di recente: nuove forme di vita e religione arrivate con gli ultimi copiosi flussi migratori, nuove preoccupazioni, per esempio sul futuro del pianeta, cui la scienza ci mette ora di fronte, o nuovi generi sessuali, fluidi, aperti, negoziabili. A sinistra, invece, gli abbozzi di soluzione più interessanti – gli esperimenti di cooperazione di Occupy Wall Street o dei recenti movimenti di lotta contro le nuove destre neoliberali, da Washington a Budapest, da Istanbul a Londra, le forme di solidarietà mediterranea nei confronti di profughi e profughe, le prove con il reddito di base e con la riduzione della giornata lavorativa – non possono fare a meno che appigliarsi teoricamente a certi concetti base formulati molto tempo fa nel solco delle tradizioni socialiste e comuniste. Marx è un, o meglio il riferimento obbligato.

Le jeune Karl Marx (o, in tedesco, Der Junge Karl Marx), diretto dal regista haitiano Raoul Peck e mostrato per la prima volta all’ultima Berlinale, narra la formazione del pensiero marxista negli anni cruciali dal 1842 al 1848 in un modo che, sullo sfondo del contesto appena tratteggiato, acquista una particolare rilevanza. Due scritti sono associati a queste due date, uno sconosciuto ai più, l’altro conosciuto da tutti. Il primo, che il regista sceglie di trasporre nelle immagini dell’ouverture del film, è l’articolo “Debatten über das Holzdiebstahlsgesetz”, pubblicato nella Reinische Zeitung: in queste pagine, il giovane Marx critica la legge, emanata solo pochi anni prima dal governo prussiano, che condanna la raccolta di legna nelle foreste “private”. Ben cinque sesti delle accuse penali in Prussia interessavano “furti” di questo genere, commessi dai poveri contadini alla disperata ricerca di materiale per riscaldarsi. Il secondo testo, ovviamente, è il Manifesto del Partito comunista, redatto da Marx e Engels con l’intento di mettere nero su bianco le basi del neonato movimento.

Le jeune Karl Marx è un film filosofico e letterario, perché mette in primo piano la produzione teorica dei due padri fondatori del comunismo. Altri sono i testi non semplicemente citati, ma la cui stesura diventa parte integrante del plot: per esempio Le tesi su Feuerbach (scritto nel 1845), che Marx e Engels avrebbero buttato giù per sancire la loro nuova amicizia al termine di una notte di eccessi alcolici; o Miseria della filosofia (1947), cui Jenny Marx avrebbe dato un titolo molto più ironico e sibillino. Proprio la scelta dello scritto iniziale e di quello finale, tuttavia, mostrano che la strategia di Peck non è semplicemente storica, ma piuttosto sistematica. Il primo riferimento pone l’accento sulla tematica della cosiddetta accumulazione primitiva, formulata ancora acerbamente negli anni ’40, facendone una chiave di lettura per l’intero pensiero marxiano. Peck sembra qui raccogliere la tesi di quei critici marxisti, come Rosa Luxembourg, o più recentemente Silvia Federici o David Harvey, secondo i quali la violenta espropriazione da parte del capitale delle risorse condivise collettivamente, come i rami caduti dagli alberi, non stia semplicemente all’origine del capitalismo, ma ne rappresenti la condizione fondamentale e costante di riproduzione. Per quanto riguarda la divulgazione delle idee portanti del comunismo, affidata alle pagine del Manifesto più famoso della storia, è evidente che il regista vuole stabilire una continuità tra il momento storico delle sue origini europee e le lotte più recenti che possono dirsi, in qualche modo, ispirate da questa tradizione.

La prova più evidente di una tale continuità la si trova nei titoli di coda, in cui le note di Bob Dylan accompagnano una carrellata gioiosa di scene che ritraggono alcuni degli eventi o personaggi simbolo dell’emancipazione socio-politica nel ventesimo secolo: Che Guevara, il Muro di Berlino, Nelson Mandela, #Occupy. Ma non è tutto. Nel corso del film, altri temi vengono toccati il cui potenziale riflessivo non ha perso affatto di attualità. Due in particolare mi pare importante rilevare: la natura agonistica del movimento, o del partito, e il ruolo della teoria in relazione alla prassi rivoluzionaria.

Il primo punto è probabilmente, se letto in chiave di attualità, il più problematico. Le scene centrali del film sono dedicate alla sofferta mossa politica di Marx e Engels di trasformare la Lega dei Giusti in una decisamente più combattiva, la Lega dei Comunisti. Nel suo discorso durante il congresso di Londra nel giugno 1847, Engels espone gli argomenti in favore della nuova Lega criticando soprattutto il punto di vista astrattamente morale e l’ideologia orientata alla conciliazione universale, all’amore e alla fratellanza che avevano caratterizzato il movimento fino a quel momento. Alla luce di quello che oggi sappiamo sui cosiddetti “socialismi reali”, queste critiche possono apparire problematiche se interpretate semplicemente come rifiuto della morale tout court e giustificazione della violenza. Ma Peck sembra qui piuttosto presentare i propositi di Engels e Marx come il tentativo di fondare la prassi trasformatrice non su astratti punti di vista morali, sull’ideale cristiano della fratellanza o dell’agape, o sulla volontà di raggiungere un’intesa con l’umanità intera. I principi troppo generali e gli ideali non sono infatti in grado di afferrare le condizioni materiali esistenti; le emozioni positive generalizzate, d’altra parte, non possono che tradire un’inefficace ingenuità di fronte alle brutture, nefandezze e sofferenze dell’ordine sociale dato. La conoscenza, innanzitutto empirica, della complessità in cui ci si trova ad agire, l’attenzione strategica per le conseguenze possibili delle azioni, la capacità di sopportare dissenso e incomprensione, la comprensione delle differenze costitutive di un “soggetto” rivoluzionario in trasformazione: queste le caratteristiche necessarie, secondo Peck, per una prassi socio-politica che potremmo anche chiamare, con Dewey, un “comunismo dell’intelligenza.”[2]

Ma quale il ruolo degli intellettuali – e degli scienziati e dei filosofi – in tutto questo? La posizione di Le jeune Karl Marx rispetto a questa annosa questione è chiara. Nessuna lotta socio-politica può rinunciare all’impegno teorico. Uno dei pregi della pellicola, tra l’altro, è l’accurata ricostruzione delle tre fonti principali del pensiero marxiano: l’idealismo tedesco, la teoria economica inglese e il socialismo francese. Il lavoro teorico non è semplicemente un’emanazione, un prodotto o una funzione secondaria della lotta: una certa autonomia della teoria è necessaria affinché essa possa svolgere il suo compito di fornire indicazioni e immagini più o meno dettagliate che orientino l’azione. Allo stesso tempo, la teoria non può arrogarsi nessuna funziona di guida, non può credere di essere superiore all’azione concreta. In una delle scene chiave e centrali del film, Marx e Engels si devono recare umilmente di fronte ad un comitato di lavoratori e cercare di convincerli che sanno di che cosa stanno parlando. Tutto quello che riescono a farsi concedere, giustamente, è di essere messi alla prova: la validità di un impianto teorico può emergere solo grazie al confronto diretto con la realtà – quella realtà che la teoria stessa vuole trasformare. Anche qui si avverte un’eco del pensiero (socialista) deweyano: se vogliamo una teoria al servizio della prassi trasformatrice, essa non può che porsi come fallibile e pertanto rivedibile. Ecco perché, ci dice Raoul Peck poco prima dei titoli di coda nella schermata riassuntiva delle tappe bi(bli)ografiche successive del suo protagonista, Marx non poteva terminare la sua opera magna: l’evoluzione delle condizioni materiali, sociali, politiche e culturali sollecita allo stesso tempo un’evoluzione della teoria, e a Il Capitale si devono aggiungere sempre nuovi capitoli.

Nel suo ultimo libro, Axel Honneth si ripromette di rivitalizzare il progetto socialista riprendendone l’idea chiave, quella di “libertà sociale”, ma anche criticando gli errori commessi dai primi socialisti.[3] Tre sono i retaggi, secondo Honneth, da cui il pensiero socialista dovrebbe prendere congedo per riguadagnare attualità, e dunque riuscire a incanalare la rabbia diffusa contro le condizioni di vita presenti: primo, l’idea che il progresso storico verso l’emancipazione, e dunque il superamento del capitalismo, sia un progresso necessario; secondo, la convinzione che l’esistenza di una classe particolare, il proletariato, sia di sé legata a certi interessi socialisti e comunisti;[4] terzo, la fissazione sull’economico e il disinteresse nei confronti di altre due sfere fondamentali per la condizione umana moderna, ovvero quella politica e quella delle relazioni intime, famigliari, di amore e amicizia. Il film di Peck sembra voler contraddire su tutti i punti l’analisi di Honneth.

Fino ad ora ho cercato in effetti di mostrare come Le jeune Karl Marx rigetti con decisione una visione anacronistica di materialismo storico, facendo della dimensione politica un nodo cruciale della lotta sociale. Come notato in precedenza, il nodo centrale del film, ma anche della formazione di Marx (e Engels), è data dalla sconfitta della corrente moralista all’interno della Lega dei Giusti e la costituzione della Lega Comunista. Uno dei pregi maggiori del film, non emerso fino ad ora, risiede inoltre nell’ampio spazio dedicato alle relazioni intime tra i protagonisti, costitutive per l’attività teorica e politica: il sostegno di Jenny Marx, che va ben oltre il semplice ruolo di moglie devota,[5] la passione di Engels per Mary Burns, che lo spinge a studiare più da vicino le condizioni di lavoro e vita dei lavoratori inglesi, l’affetto, ammirazione e dipendenza reciproca, non scevra di conflitti, tra Marx e Engels, ma anche i complicati sentimenti di Marx per Proudhon, nel film descritto quale mentore che seduce e allo stesso tempo respinge, incoraggia e allo stesso tempo delude. In L’idea di socialismo, e in altre opere, Honneth pensa alla sfera delle relazioni intime come al luogo in cui la libertà sociale – quella forma di libertà di cui gli altri e le altre non sono un limite ma una condizione – si manifesta in modo più immediato e concreto, fornendo in un certo senso un modello da applicare anche altrove. In Le jeune Karl Marx, questa idea è presa sul serio. La vita privata e affettiva di Marx ed Engels non è mostrata come un semplice complemento al, o peggio, come ad un rifugio dalla pubblicità del conflitto intellettuale e politico, ma, al contrario, come al laboratorio in cui idee e strategie vedono la luce, si raffinano e in un certo senso vengono messe alla prova. Il privato non è ridotto immediatamente al politico, ma i due sono intrecciati: non solo le condizioni sociali ed economiche e l’impegno politico influenzano e limitano la sfera affettiva; allo stesso tempo, quest’ultima nutre, mantiene vive, incanala le energie e le forze, sia intellettuali che emotive, che si dispiegano nella lotta. L’accento sul ruolo costitutivo delle relazioni intime non significa però, daccapo, riabilitare un’ideale di amore/amicizia improntato all’armonia, o vincolato a certe istituzioni. In una delle ultime scene, la lavoratrice Mary spiega a Jenny von Westphalen che la libertà, anche quella individuale, è per lei la condizione per continuare a lottare. Per questo non può che rifiutare gli agi, anche economici, che una relazione ufficializzata e socialmente riconosciuta con Engels potrebbe concederle. Così facendo, non solo non si lascia ingabbiare dal ruolo di madre, ma neppure dal modello romantico tradizionale.[6] Così come Marx aveva dichiarato, in faccia al borghese che giustificava il lavoro minorile, “quello che voi chiamate profitto, io lo chiamo sfruttamento”, Mary potrebbe ora dire, prendendo a prestito le parole di Silvia Federici: “loro lo chiamano amore, noi lo chiamiamo lavoro non pagato.”[7]


Note
[1] Secondo Wolfgang Streeck si tratta per l’appunto di una fase terminale: cfr. il suo “How Will Capitalism End?”, New Left Review 87, May-June 2014, pp. 35-64.
[2] Cfr. J. Dewey, Filosofia sociale e politica. Lezioni in Cina (1919-1920), a cura di F. Gregoratto, trad. di C. Piroddi, Rosenberg & Sellier, Torino 2017.
[3] A. Honneth, L’idea di socialismo, trad. di M. Solinas, Feltrinelli, Milano 2016.
[4] La premessa di un legame intimo e necessario tra classe proletaria – che designa quel gruppo di persone che dipendono dal loro lavoro per vivere, e che dunque sono estremamente vulnerabili al potere di coloro che controllano le condizioni di lavoro – e interesse al superamento del sistema capitalistico viene messa efficacemente in discussione anche nel libro di Didier Eribon Ritorno a Reims, in uscita per Bompiani nel 2017.
[5] Il coinvolgimento in prima persona delle donne nella prassi politica in quegli anni era già qualcosa di rivoluzionario, anche tra i socialisti. Sul ruolo di Jenny Marx si veda il bel libro di Mary Gabriel, Love and Capital. Karl and Jenny Marx and the Birth of a Revolution, Back Bay Books, New York/London 2011.
[6] Nel film la posizione di Mary circa questa questione non è posta come necessariamente superiore ad altre alternative. Se la sua scelta di non diventare madre e l’accenno al modello poliamoroso sono esplicitamente presentati come forme di libertà, altrettanto libero è lo stile di vita di Jenny von Westphalen, il cui matrimonio con Marx le ha permesso di rompere con le convenzioni dell’aristocrazia tedesca.
[7] S. Federici, Il punto zero della rivoluzione, a cura di A. Curcio, Ombre Corte, 2014.
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