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Oltre il Capitale, di István Mészáros

Recensione di Matteo Bifone

Pubblicato su "Materialismo Storico. Rivista di filosofia, storia e scienze umane”, E-ISSN 2531-9582, n° 1/2017, dal titolo "L'egemonia dopo Gramsci: una riconsiderazione" a cura di Fabio Frosini, pp. 435-442. Link all'articolo: http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/1045/971

Se non diversamente indicato, questi contenuti sono pubblicati sotto licenza Creative Commons Attribuzione 4.0 Internazionale.

570aac4f5cf9fIstván Mészáros: Oltre il capitale. Verso una teoria della transizione, a cura di R. Mapelli, Punto Rosso, Milano 2016, pp. 1000, ISBN 9788883511967 (ed. orig. Beyond Capital: Toward a Theory of Transition, Merlin Press, London 1995).

È stato da poco pubblicata da Punto Rosso un’opera molto importante di István Mészáros, uno dei principali seguaci di Lukács ancora in vita, edita per la prima volta nel 1995.

Fin dall’introduzione l’autore afferma che il mondo è ormai pienamente globalizzato e l’espansione del capitale può dirsi conclusa. Le alternative sembrano dunque essere tutte interne ad esso, che esercita ormai il proprio dominio attraverso una piena subordinazione del lavoro. Essendo l’opzione socialdemocratica destinata al fallimento, visto che riconosce il dominio del capitale ma anche quello delle società post-rivoluzionarie nelle quali i mezzi di produzione non sono stati socializzati e si sono imposte sia una gerarchizzazione del lavoro che un’aspra repressione interna (l’autore non concepisce la categoria di capitalismo di Stato né quella di socialismo di mercato), queste alternative possono però giungere solo da movimenti extra- parlamentari dei lavoratori.

Si capisce allora il triplice significato del titolo: andare oltre il Capitale di Marx, andare oltre il capitale come sistema di dominio (e non come sistema economico), andare oltre l’originario progetto marxiano.

 

1. L’ombra dell’incontrollabilità. Il testo parte dall’analisi dell’eredità neohegeliana. Hegel, come Kant, accetta il punto di vista del capitale e considera lo Stato come il supremo regolatore capace di conciliare gli interessi opposti della società civile ma incappa in tal modo in quel dover-essere che aveva rimproverato a Kant. Mészáros sottolinea come non esista in realtà nessuna entità superiore che regoli lo sviluppo: il capitale orienta semmai a sé ogni ambito relazionale grazie al dominio sul lavoro. Se Hegel non riconosce il carattere transitorio del capitalismo, Marx è invece in grado di vedere come l’espansione del capitale favorisca l’aggregazione dei produttori associati, i quali - una volta superate le distinzioni tra lavoratori a diverso tasso di sfruttamento - si mettono nelle condizioni di riprendere il controllo sui mezzi di produzione (una questione fondamentale in tutto il testo).

Il capitale genera problemi strutturali che al suo interno sono irresolubili, tra cui quelli legati all’ambiente e al conflitto di genere. Il rapido riflusso dei movimenti ambientalisti è perciò legato al fatto che esso può accettare solo quelle rivendicazioni che non alterino la struttura del proprio dominio. Nella sua generale tendenza all’incontrollabilità, un intervento che riguardi solo le sue personificazioni non ne altererà invece la struttura, essendo esso in grado di fagocitare tutte le rivendicazioni che non ostacolino il proprio sviluppo.

Lo Stato nasce proprio per la richiesta del capitale di controllare la produzione e rimediare ai guasti che esso stesso produce. Lungi dal costituire una sovrastruttura, è a tutti gli effetti una struttura del capitale. È dunque impossibile superare quest’ultimo senza estinguere lo Stato. Il problema dell’Urss è stato esattamente la pretesa di tentare la socializzazione in un contesto in cui questo passaggio era impedito dalla bassa produttività e di averlo fatto agendo solo sul piano politico attraverso il dominio statale.

La discrasia tra produzione e controllo spingerebbe a ipotizzare un pieno controllo su se stesso da parte del capitale. Il persistente ricorso nella storia a risposte ideologiche, prima tra tutte l’idea della “mano invisibile” di Smith, dimostra però che questo non è possibile, tanto più nell’ottica di un’espansione illimitata. Viste le ripetute crisi del capitale, le quali lungi dal diminuire si facevano sempre più profonde, si è presto capito che per evitare una contestazione generale del sistema si trattava piuttosto di cooptare efficacemente al suo interno parte del movimento socialista. Tra i tentativi più interesanti ci fu in questo senso già nel XIX secolo la proposta di una forma di “socialismo nazionale” che unisse imprenditori e lavoratori. È in realtà la preistoria della rivoluzione manageriale, nella quale il ruolo principale sarà affidato a dei manager esterni capaci di orientare la produzione, mentre la proprietà vedrà diminuire il proprio ruolo.

Per analizzare correttamente la natura del capitale non bisogna confonderlo con le forme storiche precedenti, come fa Hayek il quale considera il capitale la migliore forma di organizzazione della società per l’appagamento dei bisogni. Il sistema si basa invece su un’eguaglianza formale che coincide con la disuguaglianza sostanziale crescente e la questione della legittimazione del suo ordine viene risolta a partire dall’impossibilità per l’uomo comune di entrare in relazione immediata con la natura e dalla sua continua necessità di mediazione. Mészáros passa poi ad analizzare i limiti assoluti del capitale, limiti che gli sono immanenti. Il primo è legato alla conflittualità inter-statuale, generata dal conflitto tra le diverse frazioni del capitale. Lungi dal poter costituire il baluardo della la pace perpetua, lo Stato è un elemento costitutivo di questa conflittualità. Mentre i paesi imperialistici possono imporre a tutti il proprio dominio, qualunque tentativo di resistenza viene tacciato come violazione dell’ordine internazionale e ai paesi del Sud del mondo viene negata ogni possibilità di emancipazione. La discrasia tra il capitale e gli Stati nazionali è perciò evidente e proprio per questo la lotta per l’autodeterminazione dei popoli rimane così importante: l’incapacità di rompere l’ordine del capitale può infatti condurre a una fase di ricolonizzazione del mondo.

Altra questione che tocca i limiti del sistema è quella delle sue condizioni di riproduzione metabolico-sociali. Il capitale non conosce limiti al proprio sviluppo. Se la tendenza all’espansione non è di per sé negativa né positiva, sappiamo però che dopo una prima fase progressiva il capitale ha dimostrato il suo lato distruttivo, subordinando anche scienza e tecnologia ai propri obiettivi.

 

2. L’eredità storica della critica socialista. La seconda parte dell’opera analizza l’eredità socialista, passando però per una analisi critica dell’opera di Lukács. Lukács aveva aderito già dopo la rivoluzione agli ideali comunisti e li ha mantenuti anche dopo le vicende del 1956. Per Mészáros, tuttavia, ha sempre sottovalutato il ruolo giocato dall’espansione del capitale, considerando la vittoria o la sconfitta del proletariato legata solo all’ambito ideologico. La superiorità del capitale rispetto al lavoro starebbe cioè solo nella testa dei lavoratori, così che la crisi del movimento rivoluzionario può essere imputata alle deviazioni riformistiche dei suoi dirigenti. In questo senso, i tentativi di risposta alla crisi del comunismo storico non potevano rimenere che meramente ideologici e volontaristici.

Lukács si concentrerebbe troppo sul piano politico-intellettuale ritenendo che la lotta tra capitale e lavoro si svolga sul piano della coscienza, dunque. Di conseguenza, ipostatizza il concetto di classe (diversamente da Marx che lo relega nella preistoria dell’umanità). E dovendo identificare il proletariato come soggetto-oggetto identico, è costretto infine ad idealizzarne il rapporto con il partito, finendo egli stesso per celarne i meccanismi burocratici.

Questa posizione è influenzata in notevole misura da Max Weber, in particolar modo dai suoi «tipi ideali» e dalla sua concezione della specializzazione, come si può vedere nell’atteggiamento del filosofo ungherese verso la divisione del lavoro. Il legame con Weber è poi ancora più visibile nell’analisi dello Stato, dato che per Lukács ha il potere chi ha il potere politico. Anche questa lettura di Weber è però fatta con lenti hegeliane e non a caso lo stesso filosofo ungherese ha riconosciuto di essere stato persino più hegeliano di Hegel nella ricerca del soggetto-oggetto identico. La sua ossessione è dunque il fatto che nel capitalismo soggetto ed oggetto della produzione non sono uniti ma separati e anzi l’oggetto domina il soggetto.

Non potendo superare il sistema del capitale, la filosofia borghese può unificare soggetto ed oggetto solo astrattamente, come fa Hegel nella dialettica servo-padrone. Lukács critica il formalismo della filosofia classica tedesca, che non arriva mai all’unificazione reale, e afferma la necessità di superare il dover- essere e ogni atteggiamento contemplativo. Rimane tuttavia confinato all’interno delle categorie hegelo-kantiane e confonde ad esempio oggettivazione e alienazione. Inoltre, assegna alla coscienza il ruolo di potenza trasformatrice della realtà, dimostrando che le categorie marxiane sono in realtà in contrasto con il suo ragionamento.

Alla fine del saggio sulla reificazione Lukács afferma che il soggetto-oggetto identico non c’è ancora ma bisogna produrlo nel processo, nel passaggio dal regno della necessità a quello della libertà. Per Mészáros, per rovesciare il potere del capitale non è però sufficiente il potere politico. La necessità di conciliare sul piano teorico universalità e particolarità ha invece spinto Lukács a guardare con favore alla divisione tra avanguardia politica e masse popolari come precondizione di uno sviluppo unitario. Il problema della mediazione è così da lui risolto in via di principio postulando la possibilità del partito di mediare tra uomo e storia. Ancora una volta, trascura le contro-tendenze innescate dal capitale e sottovaluta la capacità di adattamento della borghesia, che ritiene incapace di elaborare mediazioni. Mentre è in realtà sbagliato vedere i cambiamenti introdotti dalla borghesia come semplici manipolazioni: la pianificazione capitalistica dell’economia, ed esempio, non è una capitolazione di fronte al proletariato ma una semplice esigenza momentanea; e nulla ottiene del resto il proletariato trasformando un’economia di libero scambio in un’economia comandata (la pianificazione sovietica) in cui i lavoratori non partecipino però al controllo.

Come per Lenin, la coscienza viene portata ai lavoratori solo dall’esterno e sono gli intellettuali a doversi farsi carico di questo lavoro, replicando la propria distinzione rispetto alle masse “incoscienti”. Sotto questo aspetto, la concezione di Lukács e la realtà socio-politica non avrebbero potuto conoscere frattura più ampia, sostiene Mészáros, ed è per questo motivo che il filosofo deve infine richiamarsi all’etica come categoria di mediazione. Soprattutto dopo il 1956, il ruolo dell’etica sarebbe quello di congiungere il singolo individuo con la generalità della specie umana. Inoltre, fino alla sua ultima opera, L’uomo e la democrazia, Lukács crede possibile una ripartizione armonica dei compiti tra partito e Stato che per Meszaros è impossibile. Lungi dallo spezzare i veli della reificazione, il partito ne ha creati di nuovi. Esso non solo non ha socializzato la produzione ma ha creato un circuito gerarchico; non solo non ha creato le condizioni per l’estinzione dello Stato ma ha portato avanti un accrescimento dei suoi poteri.

E’ un problema che nasce in realtà da un deficit presente a monte nella teoria marxiana dello Stato, che era stata formulata in un contesto di sviluppo del capitale ma contemporaneamente della sua crisi accompagnata dall’ascesa del movimento operaio, quando le tendenze lasciavano presagire un crollo imminente. La capacità di adattamento del capitale alle circostanze e la sua capacità di trasformazione si sono rivelate però innegabili, obbligandoci a un ripensamento. Se per Marx le mediazioni avevano solo un carattere mistificatorio e la politica un ruolo temporaneo, siamo costretti oggi a rivedere questo punto di vista. Essendo però lo Stato la mediazione per eccellenza si tratta per l’autore di sviluppare un duplice movimento: creare nuove istituzioni per il movimento rivoluzionario e fare pressione sulle strutture statali esistenti. Perché ci sia una reale trasformazione è infatti a suo avviso necessario che tutte le forme di controllo passino ai produttori associati.

 

3. La crisi strutturale del capitale. La trasformazione della società impone di legare bisogni e produzione, bisogni e distribuzione, ribaltando il rapporto tra scienza e tecnologia voluto dal capitale. Nel processo del capitale il soggetto è tale solo nel consumo, dove è manipolato. Esso viene ridotto a un fattore produttivo: il fine ultimo diventa la produzione della ricchezza e non la ricchezza della produzione. Lo spreco legato alla produzione capitalistica ne limita però le potenzialità. Bisogna di conseguenza pensare ad un sistema che abbia al centro la ricchezza della produzione e lo sviluppo individuale, impostando una diversa modalità di controllo.

Il fatto che anche il lavoro costituisca una merce consente al capitale di uniformare la produzione seguendo l’universalizzazione della forma di merce. Esso organizza un controllo verticale e orizzontale sul lavoro: orizzontale perchè scompone il lavoro in modo indefinito e verticale perchè ne controlla ferramente la gerarchia e ponendosi come momento predominante in ogni relazione dialettica.

Il capitale separa poi produzione, distribuzione e bisogni. Lo può fare separando il lavoratori dagli oggetti di lavoro e costringendoli a un lavoro così parcellizzato, che necessariamente deve rivolgersi al capitale per l’appagamento dei proprio bisogni. Il lavoratore non è peraltro in possesso nemmeno delle condizioni del proprio lavoro, perchè per lavorare deve rivolgersi comunque al capitale; egli può inoltre appagare solo quei bisogni da questo considerati redditizi.

È un meccanismo che viene ulteriormente allargato oggi, quando la questione del tasso decrescente di utilizzo si fa strategica per il capitale. Meno si usa una cosa, più si venderà. Se una singola impresa vuole razionalizzare, il sistema nel suo complesso deve sprecare; anzi, la sua razionalizzazione è per esso strategica. Si svilupperanno perciò solo quei settori che sono funzionali all’espansione del capitale, anche per quanto riguarda la ricerca scientifica e tecnologica. Questa tendenza ha ovviamente effetti distruttivi. Il capitale ha infatti sempre meno bisogno di lavoro ma ha bisogno di consumo, produttivo o improduttivo che sia. Una volta assunta la disoccupazione come strutturale, bisogna perciò favorire un più alto di sfruttamento dei lavoratori ancora occupati.

L’aumento globale dei consumi rappresenta in quest’ottica un successo del capitale. Ma le prospettive di sviluppo dell’umanità sono legate alla fine del dominio della quantificazione nella produzione e a una riscoperta della sua dimensione qualitativa. Se il capitale può espandersi solo attraverso il controllo gerarchico sul lavoro, la crisi del suo sviluppo non può risolversi con l’espansione della ricchezza, legata allo spreco, ma con la riconversione della produzione a fini sociali.

Il capitale segue la linea che l’autore chiama «di minor resistenza», sviluppando quelle dinamiche che gli consentano di conservare il dominio attraverso piccole modifiche. Ciò avviene nella relazione tra plusvalore assoluto e relativo: se grazie alle lotte operaie nelle fasi di espansione sembra prevalere il secondo, tutte le concessioni fatte ai lavoratori possono essere tolte in momenti di crisi e in ogni caso il pluslavoro assoluto è quello che prevale storicamente. Anche le crisi del capitale hanno però forme diverse: se Marx le descriveva come grandi tempeste, oggi si tratta piuttosto di un continuum depressivo. Viene confermato con ciò dall’evoluzione storica come l’obiettivo del capitale non sia la produzione di merci ma la propria autoriproduzione, con il corollario inevitabile per cui il capitale sarebbe disposto a distruggere il globo terrestre se ciò servisse per i propri fini.

A questo punto l’autore analizza le difficoltà attuali del socialismo, conseguenza del carattere difensivo della teoria socialista originaria. L’attualità storica dell’offensiva socialista da lui proposta non significa che questa sia semplice ma intende affermare come siano già in essere tutte le caratteristiche che ne consentirebbero lo sviluppo. La questione dell’unità del movimento socialista assume in questa prospettiva per l’autore un ruolo fondamentale. Il socialismo ha spesso sottovalutato la capacità della borghesia di unificarsi contro il lavoro, a partire dalla sua posizione di dominio. L’unità del proletariato, che è molto più difficile da conseguire, va invece oggi creata ex novo e deve muoversi in relazione alle circostanze concrete.

Tutto ciò in un contesto che secondo Mészáros vede la politica in primo piano. Quale politica però? Il capitale non ha bisogno di essere rappresentato nei parlamenti perchè detiene già il potere. Il parlamento serve perciò solo ad equilibrare i rapporti tra capitali, mentre il lavoro non può essere rappresentato finché si propone di trasformare la realtà. È necessario allora pensare a una diversa strategia d’offensiva, che dia rilevanza anche alle rivendicazioni parziali e contingenti attraverso un piano di lotta che unisca i lavoratori occupati e i disoccupati. Fondamentale è a questo punto il ruolo delle forze impegnate nel cambiamento nel superare la divisione gerarchica del lavoro. Lukács lega erroneamente la specializzazione professionale alla razionalizzazione, mentre per Mészáros il problema non è affatto la specializzazione ma l’esclusione del lavoro dal potere decisionale.

L’ultimo capitolo dell’opera è volto infine a chiarificare alcune questioni, Anzitutto si sottolinea come non ci sia nessuna ineluttabilità della vittoria socialista, ribadendo che essa non passerà certamente tramite elezioni. Non si può dunque pensare l’alternativa socialista a partire dalla «linea di minor resistenza» ma definendo un nuovo ordine metabolico-sociale. In altre parole, bisogna costruire un’alternativa che sia non solo negativa ma positiva. Gli apologeti del capitale negano questa possibilità, utilizzando ideologicamente la categoria di complessità per giustificare l’allontanamento del sistema decisionale dai lavoratori. Il problema per l’autore non è però la complessità, di difficile definizione, ma la controllabilità dei fenomeni.

Le necessità di autoriproduzione generano nel capitale un enorme potenziale distruttivo che si manifesta spesso anche attraverso brutali dittature. Il movimento socialista non ha dunque chance di successo se si limita a rivendicazioni parziali. È fondamentale che esso definisca la propria contabilità in relazione agli obiettivi e alle mediazioni necessarie per raggiungerli. Se la meta ultima è la realizzazione del principio «da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i bisogni», si capisce che nel socialismo il tema del controllo - se saranno i lavoratori ad esercitarlo o forze esterne - sarà strategico.

 

Per concludere. Come ho cercato di riassumere, il libro di Meszaros presenta numerosi punti di interesse ma offre altrettanti elementi di perplessità. Tra i concetti più discutibili del suo libro va segnalato quello di «post- capitalismo», che finisce per delegittimare le trasformazioni che si sono determinate dopo le rivoluzioni del XX secolo. L’autore non riconosce differenze sostanziali tra le società capitalistiche e quelle post-capitalistiche che le hanno seguite ma solo differenze sovra-strutturali. Nelle società rivoluzionarie, a suo avviso, è in ogni caso rimasto intatto il dominio del capitale sul lavoro, operato attraverso le personificazioni dei dirigenti socialisti, mentre i mezzi di produzione non sono stati socializzati. L’autore evidenzia l’adeguamento di queste società alle esigenze del capitale a partire dalla corsa alla produttività e al mantenimento della legge del valore e, ad esempio di questa subalternità produttivistica, ricorda come il fatto che l’Urss potesse superare la produzione di ghisa degli Stati uniti rappresentasse per Stalin una vittoria del socialismo.

A nostro avviso questo punto di vista pecca decisamente di economicismo: la rivoluzione sovietica ha innescato un movimento rivoluzionario che ha attraversato gran parte dell’Europa e che, pur essendo stato sconfitto, ha contribuito nel secondo dopoguerra a sostenere i movimenti per l’indipendenza in diverse parti del mondo e a determinare una situazione molto più favorevole alle rivendicazioni dei lavoratori anche in Occidente. Le difficoltà dovute all’accerchiamento, all’arretratezza economica e sopratutto il processo interrotto di apprendimento che ha riguardato il primo paese in cui si è tentato di costruire il socialismo possono perciò spiegare almeno in parte gli errori commessi e non è condivisibile la posizione di Mészáros, che invita a definirsi comunisti «nonostante la storia dell’Urss».

Appare inoltre ingeneroso criticare così aspramente Lukács, considerando la sua opera teorica del secondo dopoguerra come tutta rivolta verso l’etica e trascurando, ad esempio, il suo impegno politico-intellettuale in un’opera fondamentale come la Distruzione della ragione. Se è giusto non contrapporre il Lukács giovane a quello maturo, non si può certo credere che tutta la sua opera successiva al 1929 possa essere ricondotta al linguaggio esopico e alla critica velata al regime staliniano, a partire da una scelta che darebbe all’etica un ruolo dominante come forza di mediazione. Sarebbe stato assai più fecondo, piuttosto, cercare capire le ragioni per cui, nonostante le difficoltà politiche, Lukács abbia mantenuto la sua adesione al socialismo, tanto da affermare che la peggior forma di esso è migliore del miglior capitalismo. E al tempo stesso sarebbe stato opportuno cercare di capire come la sua ricerca intellettuale si sia sviluppata nel dissidio crescente tra teoria e politica, lanciandosi alla ricerca di soluzioni che fossero attuabili nella situazione di impasse in cui si erano venuti a trovare la gran parte dei paesi del socialismo realizzato.

Il Lukács della fase «post-abiura» ha scritto testi fondamentali per il marxismo occidentale e sopratutto ha formulato il tentativo di riscrittura di un sistema filosofico complessivo più ampio e approfondito persino di quello di Hegel, attraverso l’impulso della pur criticata ontologia di N.Hartmann. Anche nel suo Testamento politico i suoi ragionamenti sulla possibilità di aprire al mercato o quelli sulla divisione tra intellettuali e lavoratori non ci appaiono dettati, come crede Mészáros, dalla sua subordinazione al regime ma sono ipotesi teoriche che si sforzano di rinnovare il socialismo in un contesto di indubbia difficoltà, facendo fronte alle sfide che ne accompagnavano lo sviluppo.

Infine, se ci appare sicuramente importante il richiamo all’idea di un’«offensiva» del socialismo, assai deboli appaiono i soggetti ai quali Mészáros affida questo compito, ossia i movimenti extra-parlamentari. In questa prospettiva, il rischio è quello di confondere la degenerazione delle organizzazioni storiche della sinistra di classe con la loro reale natura, credendo possibile rilanciare una strategia di lotta solo in modo indipendente da esse.

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