Print
Hits: 3094
Print Friendly, PDF & Email

contropiano2

Il primo e il secondo Colletti: questioni aperte

di Franco Russo

colletti 1 300x300Si riprenda l’intervista rilasciata a Giampiero Mughini per Mondoperaio del novembre 1977, in cui Lucio Colletti riconosce, con accenti seccamente autocritici, di aver visto per lungo tempo “il modello di libertà in Stato e rivoluzione di Lenin, nella Comune di Parigi, nell’autogoverno dei produttori, nella democrazia diretta roussoiana” (Tra marxismo e no, pp. 143-52). Purtroppo, conclude, gli esperimenti degli Stati del socialismo reale, avendo dato vita a dittature, hanno dimostrato che quel modello, cioè l’autogoverno dei produttori e la democrazia diretta, è impraticabile. Quest’autocritica sul credo politico è scandita insieme alla riaffermazione dei principi del materialismo, che per Colletti coincidono con quelli delle scienze naturali, mentre rispetto alla conoscenza del mondo sociale ha oscillato tra una visione positivista – essa deve adottare metodi scientifici (peraltro mai da lui definiti) ‒, e un velato scetticismo sostenendo che rimane una questione irrisolta.

 

1. Contraddizioni dialettiche e opposizioni reali

Di un giudizio Colletti è rimasto sempre assolutamente convinto, che la ‘dialettica’ – elaborata da Hegel – fosse antiscientifica e si risolvesse in un’escatologia ‒ la storia del mondo è la “realizzazione dello spirito”, si legge nelle pagini finali del quarto volume delle Lezioni sulla filosofia della storia. Nel corso delle sue ricerche Colletti si accorse, tanto da restarne stordito, di non aver capito che Il Capitale di Marx, per lui esempio di indagine scientifica, fosse intriso di dialettica a cominciare dalle famose pagine del primo volume dedicate all’analisi del feticismo delle merci.

Più e più volte Colletti, dopo il 1974 (l’anno della svolta), torna a ripetere che le contraddizioni, cardini della teoria marxista, non ineriscono alla sfera dell’essere ma solo a quella del pensiero: la realtà non è dialettica, non è contraddittoria, dunque neppure quella capitalistica può essere in sé contraddittoria. In Marxismo, voce dell’Enciclopedia del Novecento (ora in Tra marxismo e no, p. 60), scrive: “per Marx, il denaro, il capitale, lo Stato sono processi di ipostatizzazione reali, e che perciò, lo scambio di soggetto e predicato non riguarda la logica ma la realtà stessa del mondo capitalistico (in quanto mondo ‘capovolto’, ‘sottosopra’ o ‘testa all’ingiù’)”. Marx riteneva che le contraddizioni stesse del capitalismo avrebbero portato al suo superamento, al comunismo. Il comunismo, il ‘capovolgimento del capovolto’, configurerebbe una società priva di contraddizioni, con relazioni umane trasparenti, non più occultate ai loro soggetti perché non più mediate dalle cose.

Sulla scia di Galvano della Volpe, Colletti aveva scorto in Marx il ‘Galilei morale’, lo scienziato capace di unire l’analisi del capitalismo con il finalismo della rivoluzione, l’essere e il dover essere. Non per caso Colletti era stato colpito dalle affermazioni di Schumpeter in Capitalismo Socialismo Democrazia, dove l’opera di Marx è giudicata un capolavoro di histoire raisonnée, perché in grado, sulla base dell’analisi economica del capitalismo e della dinamica delle lotte di classe, di individuare una tendenza storicamente oggettiva verso il socialismo.

Ora, il Colletti non più marxista, si chiede se l’analisi scientifica possa coniugarsi con il finalismo, e, non essendo i valori inscritti nella realtà, naturalmente risponde no: non può darsi un socialismo scientifico. Per questo ripetutamente, nei saggi posteriori al 1974, ritorna sulla contrapposizione tra contraddizioni dialettiche e opposizioni reali, utilizzando concetti kantiani. Kant, all’inizio dello scritto Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto di quantità negative, chiarì che: “Due cose, di cui l’una annulla ciò che è posta dall’altra, sono opposte. Tale opposizione è duplice: o logica per contraddizione, o reale, cioè senza contraddizione” (Scritti precritici, p. 263). Sulla base di questa distinzione concettuale Colletti sostiene che non esistono contraddizioni nella realtà, mentre le forze reali in contrasto, opposte, vengono trattate da Marx come se fossero ‘contraddizioni dialettiche’. Per Marx le contraddizioni del capitalismo affondano le radici nella scissione dell’unità originaria uomo-natura-uomo, e, assunta l’unità quale requisito necessario perché si dia società, intravede nel capitalismo una tendenza oggettiva verso il comunismo, quando sarà ricomposta ad un livello più alto.

Se, però, si vuole condurre una ricerca scientifica sulla società occorre ripudiare la concezione di una realtà contraddittoria, accantonare la scissione tra ‘apparenza’ ed ‘essenza’, secondo cui i soggetti sociali agirebbero in un mondo ideologico che nasconde la realtà. In questo mondo ideologico gli agenti sociali credono di muoversi sul mercato come soggetti uguali, invece sono disuguali; credono di scambiare valori uguali quando instaurano il contratto di lavoro, invece scambiano salario con forza-lavoro che produce più di quanto corrisposto. Il capitalismo sarebbe un mondo di apparenze, le cui essenze sfuggirebbero alla falsa coscienza dei suoi protagonisti. Questa falsa coscienza è frutto del feticismo, di quel ‘mondo sottosopra’. Se mai si accedesse a questa concezione di una realtà scissa in apparenze ed essenze, l’esito sarebbe tanto paradossale quanto incredibile: i capitalisti non avrebbero la vera percezione delle ‘leggi’ di funzionamento del capitalismo, così come i proletari non avrebbero coscienza del loro sfruttamento. Essi, gli attori dell’economia capitalistica, non la conoscerebbero muovendosi in un mondo di apparenze che li indurrebbe ad agire alla cieca. Insomma, i capitalisti sarebbero dei cattivi gestori del capitalismo, e i proletari degli oppressi inconsapevoli. Per questo la scienza (sociale) è esterna al mondo dei capitalisti, la cui ‘scienza’ è ideologia, come la coscienza dello sfruttamento è portata nei proletari dall’esterno, dal partito.

Una seconda variante, prendendo atto dell’assurdità della precedente concezione, la ribalta sostenendo che il capitalismo si svilupperebbe secondo leggi oggettive, e che i capitalisti, essendo semplici incarnazioni del Capitale, non possono che seguirne i dettami. In questa seconda variante vengono in primo piano i processi di reificazione: le dinamiche sociali sfuggirebbero al controllo dei soggetti e si imporrebbero a prescindere dalla loro volontà. Le ‘leggi’ del capitalismo non sarebbero ‘pratiche sociali’ sottoposte ai vincoli istituzionali, storicamente instaurati e in continua evoluzione per rispondere a crisi e conflitti, sarebbero leggi che sovradeterminano gli agenti, ridotti a meri esecutori di forze tanto oscure quanto potenti.

Su questa problematica, che non riguarda solo l’epistemologia riverberandosi sull’intera visione filosofica, aveva già indagato Hans Kelsen e il secondo Colletti in Tramonto dell’ideologia, approvandolo, lo cita (p. 126). Nella Teoria comunista del diritto Kelsen le aveva dedicato un paragrafo intitolato: “il doppio fondo della realtà: la realtà ideologica e quella reale; una realtà autocontraddittoria”. Il raffinato giurista, peraltro acuto studioso di epistemologia e logica, aveva individuato una falla nella teoria di Marx: “Se l’idea è immanente nella realtà e ne è così parte, la realtà è composta di due elementi del tutto eterogenei; e se l’idea assume il carattere di ‘ideologia’ come qualcosa che contraddice la realtà, allora questa speculazione arriva al concetto assurdo di una realtà che contraddice sé stessa. Questo concetto è proprio uno degli strumenti più importanti della interpretazione materialistica della società di Marx, la quale da una critica della coscienza ideologica procede ad una critica di una realtà ideologica come suo oggetto principale. In Das Kapital Marx formula il rapporto in questione come l’antagonismo fra la forma visibile in cui appaiono le cose, la loro apparenza o superficie illusoria, e la vera essenza interna, nascosta o mascherata dall’apparenza esterna” (La teoria comunista del diritto, pp. 26-27). Fin dal 1931, mise sull’avviso degli effetti nefasti derivanti dall’identificare un’opposizione reale di interessi (Gegensatz) con una contraddizione (Widerspruch), perché ciò avrebbe ingenerato una (con)fusione di pensiero ed essere, di leggi logiche e fenomeni reali (Allgemeine Rechtslehre im Lichte materialistischer Geschichtsauffassung, in Demokratie und Sozialismus, p. 121). La conseguenza, ben individuata poi nella Teoria comunista del diritto, è che la “realtà ha, per così dire, due strati: uno esterno visibile, ma illusorio, e si tratta di una realtà ideologica; ed uno interno, invisibile […] ma vero, e si tratta della realtà ‘reale’. La coscienza ideologica riflette solo la realtà esterna, illusoria, scambia l’apparenza per la verità; mentre è compito della scienza lo scoprire la realtà vera, ‘reale’, e rivelare così il carattere ideologico della sua forma di apparenza”. La sconsolata conclusione di Kelsen rispetto a questo andirivieni tra pensiero ed essere è: “Che una realtà reale sia un pleonasmo senza senso, ed una realtà ideologica sia una contraddizione assurda, non è un’obiezione per una teoria che, sotto la guida della logica dialettica di Hegel, trasferisce le contraddizioni logiche dal pensare all’essere” (pp. 28-29).

Questa falla epistemologica, la commistione tra ratio cognoscendi e ratio essendi, ha per effetto di far coincidere reale e razionale, coincidenza che porta Hegel a legittimare quale incarnazione dello Spirito lo Stato prussiano, e Marx a proiettare la Ragione nella futura società comunista. Sia Hegel sia Marx incappano nella fallacia naturalistica di derivare dall’essere il dover essere, dalla realtà i valori, dai fatti le norme, svilendo, se non proprio annullando il ruolo della progettualità e del consapevole intervento umano nella trasformazione degli assetti economici, sociali, istituzionali che, lungi dal risultare il prodotto di forze oggettive, sono costituiti dall’agire degli esseri umani. Non per caso il rapporto tra necessità e libera volontà ha da sempre tormentato le filosofie deterministiche e/o provvidenzialistiche, laiche o religiose, incapaci di svincolare la libertà d’azione degli esseri umani dalle spire dell’oggettività e ineluttabilità del divenire.

Si può descrivere il conflitto sociale con la categoria dell’opposizione reale, di forze tra loro in contrasto senza ricorrere alla contraddizione dialettica, così come si può articolare il rapporto tra conoscenza, la descrizione dell’essere sociale, e progettualità, tra essere e dover essere, in modo da evitare ogni forma di determinismo, naturalistico o metafisico, non concependo le dinamiche sociali come sottoposte a ‘leggi bronzee’, e non vedendo nei soggetti agenti le personificazioni di ‘essenze’: Il Capitale al posto dei capitalisti, Il Proletariato al posto dei proletari, i cui destini sarebbero già scritti ab aeterno. Gli esseri umani, detto in forma molto semplificata, agiscono mediante ed entro pratiche sociali, che sottostanno alle leggi naturali e alle norme istituzionali ‒ le prime, entro certi limiti, possono essere usate per finalità umane, le seconde in quanto costruzioni artificiali sono sempre modificabili con interventi umani.

Luigi Einaudi, in Prediche inutili, ebbe a dire che occorre ‘conoscere per deliberare’, ovviamente i liberali ‘conoscono’ come far funzionare il capitalismo; coloro che sono contro di esso devono conoscerlo per attivare pratiche sociali capaci di rovesciarlo: conoscere per deliberare le azioni volte a istituire assetti sociali alternativi. E questo vale per le norme giuridiche e morali, per i costumi e le credenze: gli agenti sono persone che attuano pratiche sociali, organizzano istituzioni per stabilizzarle, modellano forme di produzione che rispondono a interessi ‒ nella società capitalistica a interessi contrapposti. Si può accettare, e io l’accetto, la critica di Kelsen e di Colletti alle falle epistemologiche e alle inflessioni deterministiche di Marx, senza dover gettare all’ortiche i suoi fondamentali contributi di analisi del modo di produzione capitalistico, della denuncia dei suoi meccanismi di sfruttamento, delle sue istituzioni di oppressione e disciplinamento, che svuotano le garanzie di libertà e vanificano le istanze di eguaglianza.

 

2. L’insocievole socievolezza

Senza aver la presunzione di risolvere in poche parole questioni rilevanti come quelle finora esposte, mi chiedo perché ad esse non si possa dare risposta seguendo una seconda idea di Kant. Sostiene Colletti in Il Marxismo e Hegel, p. 428, che il feticismo è il tratto saliente del capitalismo, dovuto alla reificazione del lavoro (e degli esseri umani). E così lo descrive: “ il lavoro umano ‘eguale’ o ‘astratto’ ci rimanda all’‘uomo astratto’ del cristianesimo. Il ‘valore’, come oggettivazione dell’unità sociale […] ci rimanda al paradosso […] del rapporto sociale come rapporto che si pone per sé, indipendentemente dagli individui che esso dovrebbe mediare e rapportare; e, quindi, del rapporto sociale che, ponendosi fuori e al di sopra degli individui, li domina come un padreterno, pur essendo la loro stessa forza sociale alienata, cioè estraniata da essi”. Quanto poi questa estraneazione del ‘rapporto’, questa sua reificazione, sia al centro dell’analisi di Marx lo dimostra un passo dei Grundrisse dove si afferma che : “il denaro è la comunità stessa degli uomini posta come oggetto esteriore e perciò casuale”. Il punto al centro di questo discorso è che l’unità della società, la socievolezza, non è il risultato di un rapporto diretto tra gli esseri umani, ma deriva da un rapporto mediato da cose, da valori: è il denaro a stabilire il nesso sociale, esso è il mezzo che permette sì uno scambio ma tra soggetti con interessi divergenti e/o contrapposti.

Alla teoria del feticismo, le cui fallacie idealistiche spinsero Colletti a porre fine alla sua adesione al marxismo, è possibile togliere ogni coloritura hegeliana prendendone il nucleo che è, a mio avviso, l’insocievole socievolezza quale tratto specifico del capitalismo: il mercato regola le relazioni umane tramite lo scambio di merci che stabilisce un equilibrio temporaneo tra interessi confliggenti – tra venditori e compratori, tra produttori e distributori di merci. Lo scambio per antonomasia quello tra forza-lavoro e salario, lo scambio che interviene tra capitalista e proletario, avviene sul mercato tra soggetti eguali secondo le regole della domanda e dell’offerta utilizzando le norme del diritto dei contratti, secondo le libere manifestazioni delle reciproche volontà, senza alcuna coazione. Tuttavia, sussiste un altro elemento della realtà capitalistica, quello che ha dato vita al diritto del lavoro, ed è il fatto – non l’idea – della disparità tra le due controparti, è il fatto che il proletario non è libero bensì costretto, se non vuole morire di fame, ad addivenire allo scambio accettando di essere pagato con un salario non corrispondente al valore di quanto egli produce e di svolgere il suo lavoro sotto l’ordine gerarchico del padrone. Dunque, lo scambio tra eguali è uno scambio tra diseguali, e la libertà del contratto è solo la via per entrare nel mondo della produzione ‒ mondo della subordinazione e della illibertà. Il contratto tra soggetti uguali non è un’apparenza la cui essenza è un rapporto di diseguaglianza, tanto è vero che le parti possono ricorrere a un giudice se le sue clausole non vengono rispettate. Il contratto tra eguali è reale quanto è reale la subordinazione dell’operaio in fabbrica e il suo salario inferiore al prodotto del suo lavoro. Uguaglianza giuridica e ineguaglianza sociale sono due elementi costitutivi del rapporto di lavoro, e tra le parti non si instaura una contraddizione dialettica, ma un’opposizione reale. Non certamente in virtù di un processo dialettico si potrà superare il rapporto di lavoro salariato, infatti se ciò avverrà sarà soltanto grazie alla consapevole azione dei soggetti sfruttati e subalterni. Le lotte del proletariato hanno, nei fatti della storia, sottratto il diritto del lavoro alla sfera del diritto privato, istituendolo come disciplina speciale sulla base del presupposto che esiste un’asimmetria di ‘potere’ tra i due contraenti: il rapporto di lavoro non si stabilisce tra uguali essendo uno di essi in condizione di ‘debolezza sociale’. Attraverso i conflitti, non per grazia delle contraddizioni dialettiche, si superano condizioni di ineguaglianza e di oppressione attraverso la trasformazione di istituti giuridici e di condizioni sociali. Avvalora quest’interpretazione proprio quanto sta avvenendo in questo periodo di regressione giuridica e sociale, quando l’azione dei padroni e delle istituzioni politiche è stata in grado di cancellare, mediante le cd. riforme, la ‘specialità’ del diritto del lavoro riportandolo nella sfera del diritto privato.

Non c’è bisogno di figure dialettiche per poter descrivere i conflitti quali opposizioni senza contraddizioni: opposizioni reali di forze contrarie, tra classi e gruppi sociali con interessi divergenti. Non c’è bisogno di ricorrere alla logica dialettica per poter cogliere le opposizioni nella società capitalistica, di teorizzare una ‘realtà sottosopra’, se non in senso metaforico, per descrivere l’insocievolezza della società capitalistica, e di costruire una filosofia della storia per progettare una società alternativa a quella capitalistica. Certo, così il socialismo non è più assunto a destino dell’umanità, tanto sicuro quanto definitivo, affidandolo alla consapevole volontà degli esseri umani associati.

Per il Colletti seconda maniera, il progetto del superamento del capitalismo, scaturendo da una filosofia provvidenzialistica della storia, è non-senso, pertanto è da abbandonare. Come da abbandonare sono ‘quelle poche paginette’ come ebbe a dire Bobbio, sulla teoria dello Stato. Marx avrebbe una visione romantica dell’evoluzione sociale che dall’iniziale comunità, la Gemeinschft, trapassa in una società, una Gesellschaft, le cui interne contraddizioni portano al comunismo ‒ una società organica, priva di contraddizioni, senza più classi, liberata dall’alienazione. Nel comunismo ‒ dove si attuerà un’amministrazione delle cose, con una gestione comunitaria delle risorse e con una distribuzione dei beni in forma più che ugualitaria in quanto basata sui bisogni di ciascuno ‒ non sarà più necessario lo Stato. È ben per questo che nel marxismo e nel leninismo manca una “qualsiasi analisi seria, articolata, condotta dall’interno, delle istituzioni politiche moderne, a cominciare da quelle della democrazia rappresentativa, fino ai rapporti tra i vari poteri, al ruolo dei partiti, a quello della burocrazia, alle funzioni espletate dallo Stato nel ciclo economico, ecc […] manca addirittura lo spazio in cui collocarla, lo spazio in cui costruire una scienza della politica”. Questo spazio, ribadisce Colletti, su L’Espresso del 27 novembre 1977, “non c’è perché la teoria marxista della politica e dello Stato è, in realtà, la teoria dell’estinzione di entrambi. In altre parole, il marxismo non ha elaborato una scienza della politica, perché ciò che esso ha prodotto è esattamente l’opposto: la teoria del venir meno della politica e dello Stato, la teoria dell’abolizione (sia pure graduale) della differenza tra governanti e governati” (ora in Tra marxismo e no, pp. 129-30).

Colletti vede anche nella teoria marxista dello Stato un salto mortale dovuto a una concezione organicistica del comunismo. Il salto mortale avverrebbe perché la libertà dell’individuo si esplicherebbe nel suo essere legato alla comunità, nel dar vita cioè all’unità organica della società senza classi. Quest’interpretazione del comunismo di Marx ‒ peraltro non la sola deducibile dai suoi scritti, si pensi all’Ideologia tedesca e ai Manoscritti del 1844 ‒, quale comunità in cui tutti sono guidati dalla volontà di perseguire il bene comune, venne proposta da Colletti nelle sue Lezioni di filosofia politica, tenute all’Istituto Gramsci nel 1958 e pubblicate nel 2017.

Le Lezioni del 1958 contengono, come tutti i lavori di Colletti, analisi assai penetranti di testi dei classici e di studiosi di grande caratura a lui contemporanei, quali Sartori, Bobbio o Basso. Nelle Lezioni prendono corpo analisi che rimarranno ferme nel corso degli anni, con una differenza di segno dopo il 1974. Si prenda ancora il concetto di insocievole socievolezza.

Nella Tesi Quarta dell’Idea di una storia universale, Kant scrive: “Io intendo qui col nome di antagonismo la insocievole socievolezza degli uomini, cioè la loro tendenza a unirsi in società, congiunta con una generale avversione, che minaccia continuamente di disunire questa società”. L’uomo ha una tendenza ad associarsi e a dissociarsi, e proprio attraverso l’antagonismo si instaura un “ordinamento civile della società stessa” (Scritti Politici, p.127). Kant attribuisce questa contrastante tendenza alla natura stessa dell’uomo, avendo però dinnanzi a sé specificamente l’uomo della società capitalistica ormai in avanzato stato di realizzazione. Il suo scritto risale al 1784, otto anni dopo la pubblicazione della Ricchezza delle Nazioni dove Smith aveva già ben esaminato i meccanismi della divisione del lavoro e dello scambio tra salario e lavoro, e aveva ben colto l’insocievole socievolezza come si evince dall’esempio del birraio che ti disseta non in virtù della sua benevolenza ma in base al suo tornaconto.

Per Colletti l’insocievole socievolezza ha l’effetto di distorcere sia la libertà, riducendosi questa ad esercizio dell’antagonismo tra i membri della società, sia il diritto chiamato a legittimare la dissociazione degli interessi. Nelle Lezioni del ’58, ne trae due conclusioni. La prima: “l’interesse pubblico non si identifica con la generalità degli interessi reali e quindi con la generalità degli uomini concreti”. La seconda: “questo interesse pubblico, in Kant, in quanto solo formalmente pubblico, si costituisce a sé, separatamente da quelli che dovrebbero essere i titolari di questo interesse e di questa volontà generale pubblica” (Lezioni, p. 63).

Nel testo di Kant, trasposti in linguaggio filosofico, si riflettono secondo Colletti fatti sociali e istituzionali: la dissociazione degli interessi nella società e la separazione dell’interesse pubblico dagli ‘uomini concreti’. L’interesse pubblico non è davvero generale perché non è il frutto dell’incontro delle volontà delle persone nella loro concretezza.

Kant descrive, pur muovendosi su un piano di ‘storia universale’, una tensione reale della società capitalistico-borghese, perché concepisce libertà e proprietà, ciò che appartiene all’individuo, indipendentemente dalla società, prima che questa si formi. D’altra parte, l’individuo riesce ad escludere tutti gli altri da ‘ciò che è suo’ solo entrando in società: si associa per dissociare le ‘sue cose’ da quelle degli altri, infatti è il diritto a garantire la libertà di disporre del ‘suo’.

Nella società capitalistico-borghese lo Stato protegge beni costituitisi prima della sua istituzione: lo Stato deve assicurare con il suo diritto una sfera pre-statale. Per questo, dice Colletti, l’interesse generale si riduce in Kant alla coesistenza degli arbitri, e non è davvero un interesse comune.

Questa coesistenza degli arbitri è realizzata nel mercato e tutelata dal diritto. Colletti, di contro, pone l’istanza di giungere a “programmare il bene comune” attraverso il calcolo razionale, consapevolmente elaborato dai membri della società, e polemizza con i liberali che ritengono impossibile una scienza della società: “l’ingegneria sociale e la concezione liberale della vita sono ripugnanti […]. Come già per il liberale Cavour anche per Sartori la storia è una grande improvvisatrice. La libertà esclude il calcolo e la ragione” (Lezioni, pp.107-09).

Vorrei sottolineare i due temi che Colletti indaga: l’interesse generale, fittizio, formale nella società borghese-capitalistico, e l’impossibilità di usare la ragione per gestire gli affari comuni, ciò che implica l’impossibilità al tempo del capitalismo di una scienza sociale. Come si nota sono gli stessi temi del Colletti post-1974, la loro valutazione però porta il segno rovesciato.

L’alternativa alla democrazia borghese è offerta da Rousseau, che diverrà uno dei bersagli del secondo Colletti. Nelle Lezioni assurge a postulato la società quale organismo unitario, per questo il capitalismo, dove dominando gli interessi privati prevale l’insocievolezza, deve essere, e sarà, superato. Ciò avverrà in virtù della sua intima contraddizione, essendo impossibile per un’ associazione di dissociati sopravvivere a lungo. La società è unità, il capitalismo ne è una forma distorta che deve essere raddrizzata. Colletti, in Rousseau, vede emergere la nuova istanza: la vita privata riassorbita integralmente nella vita della società. Il popolo diventa così una realtà, esso non è più una massa, un’astrazione, bensì esiste in quanto unità vivente di singolare e molteplice. Rousseau propone un ‘organicismo democratico’, in cui, come scrive ne L’Emilio, l’io deve trasportarsi nell’unità comune in modo che esso si identifichi con il tutto (Lezioni, pp. 117 e 122). L’uomo viene completamente riplasmato, intraprende una renovatio ‒ condizione necessaria per superare i retaggi individualistici del passato. Visione che Marx recepisce prospettando un’unione di individui in cui il loro sviluppo avviene tramite l’associazione con gli altri uomini.

Un analogo processo di trasformazione avviene anche per la democrazia: “Vera democrazia è quel sistema politico che esprime, lavorando al tempo stesso alla sua creazione, un interesse comune reale. Essa mira a un tessuto sociale omogeneo, esattamente quel tessuto di bisogni comuni che viene avversato dalla linea liberale, con l’argomento che è impossibile programmare la felicità […] Questo è il senso più profondo dell’organicismo democratico. La democrazia non è un regime che serve a tutelare e a garantire le differenze, le disuguaglianze di natura […] bensì è il regime che per la prima volta lavora a fare della società una società reale”. Con la vera democrazia diventa possibile partecipare “in modo globale e totale da parte di ciascuno alla vita della società”, promuovendo “il potenziamento sociale dell’individuo”, e aprire “una fase nuova della storia, perché innova sulla natura umana [in quanto] la società è un’opera d’arte, un prodotto storico/artificiale della creatività umana”. Alla tesi liberale dell’impossibilità della democrazia ‒ mezzo di unificazione degli interessi, che si realizza grazie all’omogeneità di una società senza classi, e che rende possibile la formazione di una “volontà effettivamente generale” ‒ occorre ribattere con la tesi organicista “che è impossibile democrazia dove esistano interessi contrapposti”. Quando il popolo costituisce una comunità solidale, “le differenze di maggioranza e minoranza non producono più la sopraffazione di interessi vitali […] ma solo differenza di opinioni più o meno tecniche. Quando esista una base comune, solidale, circa l’urgenza e la conformità allo scopo delle decisioni proposte, le divergenze di opinione si convertono in divergenze tecniche. La votazione diventa un semplice atto di amministrazione sociale e di conduzione di un affare”. A chi sostiene le ragioni della democrazia liberale in quanto statuisce la garanzia dei diritti dell’individuo e delle minoranze, Colletti ribatte: “Anche l’idea democratica contiene il principio della libertà, ma non come libertà del singolo contro la società, bensì come libertà dell’intero corpo sociale, all’interno della quale rientra e fa parte anche la libertà del singolo” (Lezioni, pp. 126-29). La democrazia vera è una nuova democrazia ‘mobilitante’, che tende a “formare delle maggioranze cementate da interessi reali […] la nuova democrazia è una democrazia per le classi lavoratrici e una dittatura del proletariato, o una dittatura di classe, per le classi cha vanno espropriate” ( Lezioni, pp. 171-72).

Un Colletti questo dichiaratamente organicista, antipluralista, che concepisce lo Stato proletario come dittatura necessaria per la transizione verso il comunismo, quando si estinguerà lo Stato convertendosi la politica in amministrazione delle cose.

 

3. La democrazia costituzionale, questa sconosciuta

Sia chiaro: non ho esposto le tesi del Colletti del ’58 per rimarcare che, rimanendo identico l’impianto interpretativo della concezione marxista dello Stato e della democrazia, dopo il 1974 avviene solamente un capovolgimento della valutazione, da positiva a negativa. Sia nelle Lezioni del 1958 sia negli scritti post-1974, si afferma che la vera democrazia è il portato dell’organicismo della società comunista e che la prospettiva rivoluzionaria trae forza teorica e capacità persuasiva in quanto è conseguenza dell’analisi scientifica ‒ si rilegga l’Introduzione a Il futuro del capitalismo. Crollo o sviluppo?, dove scrive che in Marx l’interrelazione tra analisi scientifica e finalismo si rafforzano reciprocamente (pp. LXXXIII-LXXXIV). L’opera di Marx, giudicato esempio raro di histoire raisonnée, prima viene elevata a conquista scientifica e poi tacciata di vizi metafisici. Se si trattasse solo di rimarcare che l’interpretazione del marxismo rimane fondamentalmente la stessa nel corso dell’evoluzione intellettuale di Colletti cambiando però il segno dell’apprezzamento, ciò non sarebbe una novità. Infatti lui stesso ha riconosciuto di essersi sbagliato, perché nella sua ricostruzione ha esaltato come risultati scientifici quelli che erano vizi logici del pensiero di Marx. Poiché Colletti, privilegiando sempre il materialismo di contro alle visioni metafisiche della realtà e aderendo per il suo intero percorso intellettuale a una epistemologia ‘positivista’, è stato coerente quando, riconosciute le fallacie idealistiche di Marx, ha dismesso gli abiti marxisti. Non è cambiata la sua interpretazione di Marx, anche in questo è stato coerente, ha capovolto la valutazione su Marx. E in questo non c’è nulla di scandaloso, anzi è questo un atteggiamento laico di chi non crede più nei profeti ma esamina criticamente dei pensatori, degli analisti degli assetti e delle dinamiche della società. Un atteggiamento che dovremmo tutti acquisire per non leggere Il Capitale a mo’ di Bibbia dove la storia del passato e quella della salvezza futura sono già tutte scritte.

A mio parere Colletti, nella sua interpretazione dell’opera di Marx, al di là dei suoi giudizi valutativi una volta di esaltazione e un’altra di svalutazione, ne ha individuato i ‘punti di salto mortale’ – la dialettica, retaggio dell’hegelismo, e l’organicismo della visione del comunismo ‒, rinunciando però, preso atto delle sue falle, a proseguire con nuovi strumenti l’indagine critica del capitalismo. Colletti ha dato per scontato che l’unico orizzonte è la liberaldemocrazia eretta sui fondamenti dell’economia capitalistica.

Riprendo la questione della democrazia, che per essere vera deve presupporre una società omogenea, in cui l’individuo si trascende nell’insieme della società, nell’unione. Colletti giustamente ha sempre definito questa società come una Gemeinschaft, una comunità, cogliendone le caratteristiche nell’omogeneità grazie alla quale si superano le differenze degli individui, da lui sempre negativamente aggettivate in quanto fonte di disuguaglianze.

La democrazia liberale non sarebbe vera democrazia, come dimostra la visione, molto realistica di Kant, secondo cui la sovranità popolare trapassa, per vanificarsi, nella costituzione in quanto è questa a creare il popolo, e non il popolo la costituzione (Lezioni, pp. 33, 114, e 167). Per Kant la sovranità non appartiene, e non deve appartenere al popolo, perché ciò porterebbe al dispotismo; il popolo deve vanificarsi, sparire, nel processo di istituzione della sovranità, così come alla formazione della rappresentanza possono prendere parte esclusivamente chi ha un interesse reale nella società, i ceti proprietari.

La critica di Colletti a questa concezione censitaria ed elitista della sovranità e della rappresentanza è condivisibile, ma l’alternativa non è da ricercare nel filone organicistico (del primo Colletti), o nella liberaldemocrazia (del secondo Colletti). I ‘due Colletti’ non hanno visto ciò che la storia costituzionale del Secondo Dopoguerra andava producendo. Sorprendente è l’assenza nei suoi scritti, a quanto ricordo, di un’analisi approfondita della Costituzione italiana e del costituzionalismo democratico.

Dapprima afferma una visione organicistica della vera democrazia, poi accortosi delle sue falle, ne fa seguire l’esaltazione degli istituti liberaldemocratici. Saltato a piè pari è il costituzionalismo democratico, non solo le sue idee e i suoi principi teorici, sono ignorate soprattutto le sue vicende storiche ‒ di come si è andato affermando, e di come è stato ed è avversato dai ceti dominanti per svuotarlo del suo potenziale di trasformazione.

Quel che colpisce rileggendo Colletti è che gli oggetti e i risultati della sua ricerca – il feticismo e la democrazia diretta (o l’autogoverno dei produttori) in primis – sono rimasti sempre gli stessi, visti dai due poli dell’adesione e della sconfessione come se si trattasse di una credenza, di una fede, e non di questioni di analisi storica e concettuale ‒ a dispetto del suo attaccamento a una concezione positivista della conoscenza.

Le due questioni che tormentano intellettualmente Colletti rispetto al marxismo – la dialettica, che implica una visione di una realtà in sé contraddittoria; la visione romantica del comunismo che lo configura come società organica, comunità senza conflitti, pacificata ‒, sono rilevanti e colgono le sue falle teoriche, ciò che non sminuisce la proposta teorica di Marx e il suo tentativo di articolare la critica dell’economia politica. Colletti ha scandagliato il marxismo con rara perspicacia e con passione politica per difendere un Marx antihegeliano e propugnatore della rivoluzione proletaria. Ha sostenuto che Marx ha fondato una teoria in cui scienza e finalismo sono stati conciliati, consentendogli di individuare i processi che avrebbero portato all’autogoverno dei produttori. Giunto alla conclusione che sia impossibile un socialismo scientifico con la sua predizione dell’avvento della socializzazione dei mezzi di produzione e dell’estinzione dello Stato, ha rinunciato a ricercare basi più solide per una teoria critica del capitalismo e della sua organizzazione politica.

Colletti ha più volte scritto che costruire una scienza sociale è la più complicata delle imprese intellettuali, però ne ha abbandonato la ricerca, così come ha lasciato cadere il tema della fondazione della ‘scienza politica’ per aderire alla liberaldemocrazia, quasi fosse la concezione definitiva delle istituzioni politiche. Andare oltre il marxismo per costruire una ‘scienza della politica’ (come da lui stesso proposto), avrebbe implicato sì un riesame critico dei suoi principi per individuarne però di nuovi, più efficaci nell’esplorazione e nella descrizione del capitalismo. In questo modo è venuto meno a quello spirito critico, positivista, sempre esaltato. Forse questa rinuncia fu dovuta a un disincanto, a una visione pessimistica, infatti disse che, vivendo noi un’esperienza ‘inaudita’ ‒ si riferiva a Gramsci che parlava della nostra ‘terrestrità assoluta’‒, è difficile riconoscere nelle vicende umane un ‘filo della razionalità’. In ogni caso, ed è un merito da riconoscergli, Colletti, in dubbio sulla possibilità di trovare il filo della razionalità nella storia, decise di non entrare nelle “botteghe della metafisica e della religione”, come al contrario filosofi e intellettuali sono adusi fare (Tra marxismo e no, pp. 151-52).

Eppure, in base alle esperienze storiche, si è venuta forgiando una teoria dello Stato e della sovranità che è andata ben oltre le concettualizzazioni della liberaldemocrazia, e si sono affermati diritti e istituti democratici ben al di là di quelli propri del garantismo liberale.

Negli anni Venti del secolo scorso, già Kelsen coglieva nel fenomeno della sovranità una tendenziale obsolescenza ‒ nello Stato federale austriaco, di cui scrisse di fatto la Costituzione, dove sarebbe il suo locus? ‒, e nonostante le diffuse e profonde pulsioni verso le dittature, propendeva per l’abbandono della categoria giuridica ‘sovranità’, ormai un semplice dogma data la sua scarsa valenza euristica. La fine del potere centralizzato, del potere sovrano, non è solo una finalità del socialismo, trova posto anche nell’elaborazione di un acutissimo critico del marxismo come Kelsen.

Per venire ai giorni nostri, Gaetano Silvestri intende la prescrizione ‘la sovranità appartiene al popolo’ in negativo: a nessuno se non al popolo appartiene la sovranità, pertanto nessuno se ne può appropriare. Essa, consentendo di superare lo Stato-persona, eleva i valori, trascritti in Costituzione nella forma di principi, a sovrani. Questa concezione discende dalla pratica interpretativa della Corte costituzionale italiana ‒ si veda tra le tante la sentenza 1146/1988 ‒ che rende refrattarie le istituzioni a qualsiasi potere soggettivo sovraordinato ai principi oggettivi dell’ordinamento costituzionale. Non esiste più, come nel passato, una persona o un’assemblea, in cui risiede il potere ultimo di decisione: i poteri pubblici sono subordinati ai, e strumento di attuazione dei, principi costituzionali. Perfino i poteri dei privati non possono esercitarsi in contrasto con i principi costituzionali. Sovrana è la Costituzione con un suo nucleo di principi immodificabili anche da parte del ‘legislatore della revisione’. Proprio a partire dalle sentenze della Corte Costituzionale Gaetano Silvestri ha teorizzato esplicitamente uno Stato senza principe.

Luigi Ferrajoli ci ha spiegato, fin dagli anni Settanta del ’900, che il fondamento teorico delle ragioni della democrazia costituzionale è la divisione tra la sfera del decidibile e quella del non-decidibile, da cui emerge nella realtà giuridica la nuova figura del ‘diritto illegittimo’, le cui condizioni di pensabilità sono date solamente nello Stato democratico-costituzionale ritenute invece impossibili dal liberal-democratico Kelsen. Il ‘potere politico’ è limitato dalla sfera dei diritti fondamentali intangibili, tanto che la Corte costituzionale può dichiarare non valide le leggi da esso emanate, pertanto diritto esistente ma illegittimo. Si è così spezzata l’equazione kelseniana tra esistenza e validità del diritto. In particolare i diritti di libertà, aspettative negative che impongono divieti di lesione, e i diritti sociali, aspettative positive che impongono obblighi di prestazione, istituiscono le sfere dell’indecidibile che (diritti di libertà e autonomia) e dell’indecidibile che non (diritti sociali). Per questo le decisioni del potere pubblico e quelle dei privati sono sottoposte ai vincoli definiti dalle norme sostanziali sui diritti fondamentali. Il Parlamento, sede della rappresentanza politica, non è più sovrano in senso assoluto: le sue leggi sono soggette al giudizio di costituzionalità. La democrazia costituzionale è lo spazio in cui si esercitano i diritti fondamentali che fungono da strumenti di (contro)potere dei singoli individui.

Dobbiamo ancora a Ferrajoli la formula: uguali come persone e differenti come individui. Dunque non è condizione necessaria l’omogeneità sociale per affermare l’eguaglianza, anzi soprattutto i movimenti femministi hanno posto in luce che la differenza e le diversità sono condizioni necessarie della democrazia e dei diritti individuali. Di tutto questo non si trova traccia né nel primo né nel secondo Colletti. Eppure, ripeto, non tanto nel mondo delle idee quanto nella storia si è svolta la vicenda della democrazia costituzionale. Questa è stata assolutamente ignorata da Colletti.

Non si trova, a mia conoscenza, in Colletti neppure un’analisi dell’articolo 3, l’architrave della nostra Costituzione. Anzi nelle Lezioni Lelio Basso, il suo estensore materiale, è accusato di essere un socialdemocratico alla pari di Strachey, per le tesi esposte in Il principe senza scettro (la cui prima edizione risale al 1958). Qui Basso, riprendendo l’art. 3, scrive che la società, avendone l’uomo bisogno per ‘esplicare’ liberamente la propria personalità, deve porre a disposizione di tutti le stesse possibilità di ‘esplicazione’, per far sì che la libertà-autonomia sia anche libertà-partecipazione ampliandosi fino a identificarsi con la solidarietà e l’uguaglianza (p. 51). Il ‘socialdemocratico’ Basso, sulla scia del precetto costituzionale ‒ un dato della realtà giuridica ‒ individuava il nuovo nesso tra libertà ed uguaglianza nella garanzia dello sviluppo della singola persona, che lungi dal fondersi nell’insieme sociale, in un’amorfa quanto fantasmatica comunità, è esaltata nella sua individualità e nelle sue relazioni solidali con le altre persone. Il baluardo contro le degenerazioni autoritarie e totalitarie delle istituzioni pubbliche sono i diritti fondamentali dei singoli, uguali in quanto persona e diversi in quanto individui. Tutto ciò è prescritto in una Costituzione, storicamente affermatasi, non pensato nel mondo delle idee. In conclusione, l’alternativa non è tra hegelismo organicista e liberaldemocrazia, essendosi nelle vicende storiche ‒ con le lotte dei movimenti sociali, con le tragedie delle guerre ‒ aperta una via che si può ulteriormente percorrere, quella della democrazia costituzionale.


Bibliografia
L. Basso, Il principe senza scettro, Milano 19982;
L. Colletti, Il marxismo e Hegel, Bari 1969;
Id., Il futuro del capitalismo. Crollo o sviluppo?, Bari 1970, curato insieme a Claudio Napoleoni;
Id., Tra marxismo e no, Roma-Bari 1979;
Id., Tramonto dell’ideologia, Roma-Bari 1980;
Id., Lezioni di filosofia politica, Soveria Mannelli 2017;
L. Ferrajoli, La democrazia attraverso i diritti, Roma-Bari 2013, è un’efficace sintesi dei suoi innumerevoli scritti sulla democrazia;
G. W. F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, Firenze 1963;
I. Kant, Scritti precritici, Bari 1953;
Id., Scritti Politici, Torino 1956;
H. Kelsen, Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechtes, Tübingen 1920, si veda in particolare il paragrafo 65;
Id., La teoria comunista del diritto, Milano 1956;
Id., Demokratie und Sozialismus, Wien 1967;
J. Schumpeter, Capitalismo Socialismo Democrazia, Milano 1964;
G. Silvestri, Lo Stato senza principe, Torino 2005.

* il presente saggio è stato pubblicato anche su Alternative per il Socialismo nr.47
Web Analytics