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sinistra 

«Egregio signore e compagno!»1

Il carteggio tra Labriola ed Engels

di Eros Barone

labriolaHo sempre per le mani molta carta
stampata; ma ho sempre studiato
pochi libri, per conservarmi sano il cervello.
Ed è così che negli ultimi anni mi sono
assimilati i vostri e gli scritti di Marx.
(
Lettera a Engels del 13 giugno 1894)

I clowns politici hanno sempre di che divertirci,
in questo paese dove fiorisce la commedia da
piangere e la tragedia da ridere.
(
Lettera a Engels del 5 novembre 1894)

1. Un carteggio intenso in un periodo storico cruciale

«La Germania ebbe Marx ed Engels, e il primo Kautsky; la Polonia, Rosa Luxemburg; la Russia, Plekhanov e Lenin; l’Italia, Labriola, che (quando da noi c’era Sorel!) era in corrispondenza da pari a pari con Engels, poi Gramsci». Così Louis Althusser, in quella raccolta di saggi, Pour Marx, che fra anni ’60 e anni ’70 dètte un contributo importante alla ripresa del dibattito marxista, registrava, denunciando nel contempo «l’assenza di una reale cultura teorica nella storia del movimento operaio francese»2 , l’esistenza, in Italia, di una grande tradizione teorica del marxismo, che era stata perfino in grado di dialogare, attraverso Labriola, con uno dei due fondatori del marxismo stesso, cioè con Engels.

La corrispondenza fra Antonio Labriola e Friedrich Engels abbraccia il quinquennio 1890-95: un periodo di tempo che in Italia vede la lotta di classe inasprirsi, le rivolte popolari, prima circoscritte a livello di sommosse locali, assumere dimensioni nazionali e il movimento operaio uscire faticosamente dalla spontaneità e dare vita al partito socialista, mentre le classi dominanti reagiscono in modo furioso alla crescente pressione delle masse ed esplodono scandali che mettono a nudo la corruzione e i metodi affaristici di gestione del ceto politico di governo. Non a caso, gli storici, riferendosi ai conflitti sociali e alle repressioni statuali degli anni ’90, qualificano questo periodo come “decennio di sangue”. Come accade nelle fasi di transizione da un ciclo economico recessivo ad un ciclo economico espansivo, anche la fase che segue la fine della “grande depressione” (1873-1895) e la trasformazione del capitalismo liberoscambista in senso monopolistico, inaugurando l’epoca dell’imperialismo e dei suoi robusti rampolli (protezionismo, colonialismo, militarismo e sciovinismo), è segnata dalla esplosione di guerre fra gli Stati e di conflitti fra le classi. Nel caso italiano, il decollo industriale si intreccia con la crisi agraria e le alte tariffe doganali si sommano alle crescenti spese militari, determinando un aggravamento delle condizioni di vita e di lavoro delle classi popolari e provocando una vasta opposizione antigovernativa che coinvolge anche settori della borghesia imprenditoriale del Nord, danneggiata dalla politica economica protezionistica del governo centrale nella sua ricerca di sbocchi sui mercati esteri.

Friedrich Engels, in questo periodo, era giunto ormai al limite dei suoi anni ed era la guida carismatica, spesso ricercata, dei partiti socialisti della II Internazionale, ai quali prestava l’aiuto prezioso della sua eccezionale esperienza. Fu così che anche il partito socialista italiano poté giovarsi, come ben documentano le lettere di Engels a Filippo Turati e alla «Critica Sociale», di questo fondamentale apporto. Un esempio assai significativo della ‘consulenza’ prestata da Engels ai partiti socialisti che si andavano formando in Europa è la lettera a Turati del 26 gennaio 1894, la quale mostra con chiarezza che l’interesse di Engels per l’Italia non si limitava a semplici convenevoli epistolari, ma consisteva in veri e propri scritti di alto contenuto politico per la tattica e la strategia socialiste.

Engels esordiva con queste parole: «La situazione in Italia, a mio parere, è questa», e passava quindi a delineare il quadro della ‘rivoluzione incompiuta’, da cui, come è noto, prenderà le mosse l’analisi gramsciana della ‘quistione meridionale’: «La borghesia, giunta al potere durante e dopo l’emancipazione nazionale, non seppe né volle completare la sua vittoria. Non ha distrutti i residui della feudalità né ha riorganizzato la produzione sul modello borghese moderno. Incapace di far partecipare il paese ai relativi e temporanei vantaggi del regime capitalista, essa gliene impose tutti i carichi, tutti gli inconvenienti. Non contenta di ciò, perdette per sempre in ignobili bindolerie bancarie quel che le restava di rispettabilità e di credito…». Il ‘Generale’ giungeva quindi a definire la posizione, la tattica e le prospettive del partito socialista:

«Evidentemente il partito socialista è troppo giovane e, per effetto della situazione economica, troppo debole per sperare una vittoria immediata del socialismo… I socialisti, nei vari stadii attraversati dalla lotta fra proletariato e borghesia, difendono sempre l’interesse del movimento generale… lottano bensì per raggiungere scopi immediati nell’interesse delle classi lavoratrici, ma nel presente rappresentano eziandio l’avvenire del movimento… Il loro posto è fra i combattenti per ogni vantaggio immediato da ottenere nell’interesse della classe operaia: tutti questi vantaggi politici e sociali essi li accettano, ma solo come acconti… Non è a noi che spetta di preparare direttamente un movimento che non è quello precisamente della classe che rappresentiamo. Se i repubblicani e i radicali credono scoccata l’ora di muoversi, diano essi libero sfogo alla loro impetuosità. Né le loro proclamazioni né le loro cospirazioni dovranno menomamente toccarci. Se noi siamo tenuti a sostenere ogni movimento popolare reale, siamo tenuti ugualmente a non sacrificare indarno il nucleo appena formato del nostro partito proletario, e a non lasciar decimare il proletariato in sterili sommosse locali».

E concludeva la sua lettera con una clausola restrittiva:

«In tutto questo io non do che la mia opinione personale, poiché me l’avete domandata, e ancora con la maggior diffidenza. Quanto alla tattica generale, ne ho sperimentato l’efficacia durante tutta la mia vita; non una volta essa mi ha fallito. Ma quanto alla sua applicazione alle condizioni attuali in Italia, è altra cosa; ciò deve decidersi sul posto e da coloro che si trovano in mezzo agli avvenimenti»3 .

Venendo quindi all’Italia e a «coloro che si trovano in mezzo agli avvenimenti», la prima cosa che occorre sottolineare è che il carteggio che il vecchio maestro scambiò con il filosofo cassinate fu il più intenso degli scambi epistolari che egli intrattenne con personalità italiane: purtroppo di tale carteggio rimangono solo le lettere scritte da quest’ultimo, poiché quelle scritte da Engels sono andate sciaguratamente disperse a causa dell’insipienza degli eredi di Labriola.

 

2. Gli epistolari come fonti storiche: istruzioni per l’uso

Naturalmente, conviene avvertire che le lettere private sono documenti da soppesare con la dovuta cautela e che esse forniscono un riscontro ‘sussidiario’ rispetto agli scritti consegnati alle stampe. Sicché lo svolgimento del pensiero di Labriola andrà studiato e approfondito prima di tutto sui non molti ma densi saggi da lui proposti al giudizio del pubblico. Tuttavia, è anche vero che la corrispondenza  soprattutto nel caso di Labriola  costituisce una fonte indispensabile allo studio del suo pensiero per almeno quattro ragioni: a) per precisare o chiarire aspetti e momenti della sua biografia politico-intellettuale; b) per individuare articoli e interventi su giornali e pubblicazioni occasionali; c) per illuminare orientamenti e scelte, il cui ‘background’ non sempre traspare dalle sue prese di posizione pubbliche; d) per apprezzare quello spirito dialettico, brioso, ironico, arguto e polemico, che trovava una plastica espressione nella sua scintillante conversazione, e che solo le lettere possono, almeno in parte, restituirci (non a caso, in una lettera ad Engels del 9 novembre 1891, Labriola si autodefinisce «per natura più inclinato a parlare che a scrivere»4 ). Orbene, la corrispondenza del professore romano si configura come un’antologia di valutazioni teoriche, analisi politiche, rassegne critiche e relazioni particolareggiate su episodi e personaggi, che, oltre ad essere altamente godibile sul piano linguistico e stilistico (cui ci riserviamo di dedicare alcune osservazioni alla fine di questo saggio), getta una viva luce su intere fasi o momenti particolarmente significativi dell’attività politica e intellettuale di Labriola.

Ma vi è di più: come osserva Eugenio Garin nella nota introduttiva all’Epistolario pubblicato nel 1983, «da un dato momento in poi la lettera fu per Labriola lo strumento preferito per esprimere e diffondere le proprie idee, per intervenire nella lotta politica e perfino per insegnare»5 . In precedenza, sino all’inizio degli anni ’80, il filosofo cassinate aveva scritto prevalentemente libri, saggi e memorie accademiche, anche se non dètte mai un grande peso né a quel genere di produzione né al lavoro dei suoi colleghi di università, «che fingono di non sapere  come scrisse a Benedetto Croce nel 1897  che sono tutti malati di servitù volontaria»6 . Poi, giunto alla soglia dei cinquant’anni, lo studio sistematico di Marx e di Engels, nonché il complesso di esperienze a cui accenneremo più avanti, orientarono Labriola verso il marxismo. La sua corrispondenza, a quel punto, divenne intensa e nuova, giacché, per un verso, fu in larga misura indirizzata ai maggiori dirigenti del socialismo internazionale al fine di presentare le vicende italiane con uno sguardo scevro da “tendenze nazionalistiche” e, per un altro verso, svolse una funzione propedeutica ai tre Saggi che Labriola stese di seguito nella seconda metà degli anni ’90. Così, se i suoi interlocutori privilegiati erano stati in precedenza filosofi come Bertrando Spaventa e Benedetto Croce, a partire dal 1890 Labriola trova in Engels il cervello politico “internazionale” e il “maestro” a cui rivolgersi «per ogni dubbio scientifico, per ogni accertamento di fatti, per ogni consiglio pratico»7.

 

3. La via al marxismo: il circolo pratica-teoria-pratica

La «gran festa» dell’89, «non turbata, anzi illustrata dalla ghigliottina, che parve arma della ragione trionfatrice», non può essere la prospettiva della rivoluzione sociale, poiché tale prospettiva si differenzia da quella della «rivoluzione politica» e «come teoria misura a secoli la trasformazione». Così, nella conferenza pubblica del giugno 1889 a un circolo operaio di Roma, Antonio Labriola fissava un punto essenziale della teoria marxista, precisando che

«questa finora [fu] la principalissima nota di merito del socialismo; d’avere, cioè, scoverta e descritta la vera natura del nuovissimo nemico, il capitale, e d’aver messo alla gogna i ciarlatani, gl’ipocriti e i demagoghi del liberalismo. Ma se fu cosa relativamente facile a pochi filosofi e alle moltitudini piene d’entusiasmo di scorgere e di colpire i visibili rappresentanti delle pubbliche tirannie; non è altrettanto facile di vincere ora le riposte arti del nuovo, recondito e impersonale nemico che è il capitale, né di schermirsi dalle insidie liberali. Ma la banca, atta ad irretire per molte vie il lavoro, non si porta al patibolo come Luigi XVI. Ma la legge ferrea del salario non si espugna come castello e palagio. Ma l’organizzazione sociale del lavoro non s’improvvisa come la guardia nazionale… Ma qui non c’è retorica girondina o audacia giacobina che basti! Si tratta di un lavoro immane e multiforme, di lunga durata; si tratta del lavoro che si conviene per rigenerare tutto intero il corpo sociale. Il secolo XIX, coi parziali trionfi del liberalismo, e con le sue delusioni, non segna che l’inizio. Siamo all’aurora»8 .

Con la conferenza del 1889 sul socialismo Labriola dimostra di aver condotto a termine il suo apprendistato marxista, facendolo fruttificare sul duplice terreno di un’autonoma elaborazione teorica e di una consistente esperienza politica, sino a raggiungere quella piena maturazione che sentirà di aver conseguito nel 1894, quando potrà scrivere a Engels che «gli son passati tutti i dubbi su la interpretazione materialistica della storia»9 .

I mezzi materiali di una simile formazione il filosofo cassinate, che era un accanito ricercatore di libri rari sul mercato internazionale dell’antiquariato e si vantava di possedere a Roma la seconda biblioteca personale dopo quella di Ruggero Bonghi, i mezzi materiali, dicevo, Antonio Labriola se li era costruiti, oltre che attraverso le reti di scambio fra i bibliofili, attraverso la costante lettura della stampa socialista tedesca (si pensi a giornali e riviste come il «Sozialdemokrat» e la «Neue Zeit») e il generoso interessamento dello stesso Friedrich Engels (la richiesta, l’individuazione, l’invio, la copiatura e la restituzione della «Heilige Familie» di Marx ed Engels costituiscono una delle vicende, insieme più sofferte e più appaganti, di un’appassionata caccia agl’incunaboli del materialismo storico, che vede impegnato in prima fila questo professore universitario divenuto militante socialista).

L’alternanza e la combinazione della teoria e della pratica o, se si preferisce, della filosofia e della politica, nonché la loro fusione tendenziale nella costituzione del partito del proletariato, mèta ultima a cui, in questa fase, sono rivolti gli sforzi di Labriola, scandiscono con un ritmo dialettico serrato il processo di acquisizione ed elaborazione del marxismo, di cui il professore-militante è solitario protagonista fra anni ’80 e anni ’90. Conviene perciò ricordare, proprio per mostrare il ruolo decisivo della pratica in quanto origine, fonte e criterio della teoria, quale sia stato, in questo lasso di tempo, il punto di avvìo della militanza socialista di Labriola, e cioè l’organizzazione della manifestazione internazionale del 1° maggio del 1891, caratterizzata dalla parola d’ordine della giornata lavorativa di otto ore. Il Nostro, in una congiuntura che vede il movimento socialista ancora debole e poco incisivo, non solo si prodiga per attuare tale iniziativa, ma si dedica anche a chiarire il significato strategico e rivoluzionario della rivendicazione delle ‘otto ore’ in alternativa a quella precedente del ‘diritto al lavoro’, che era di origine quarantottesca e di ispirazione riformista. La riduzione della giornata lavorativa è infatti per lui, come per Marx e per Engels, il giusto obiettivo intermedio che può alimentare e far crescere, anche in una situazione arretrata come quella italiana, «il sano germe di un partito dei lavoratori»10 .

 

4. Costituzione del partito e ‘spirito di scissione’

Il 1890 è dunque un anno fondamentale nell’evoluzione politica di Labriola, che inizia una corrispondenza con Engels e con Turati, sviluppando parallelamente il suo impegno pratico per la formazione del partito socialista in Italia, e una riflessione teorica con un chiaro orientamento marxista. Un documento importante è costituito, a questo proposito, dal messaggio di saluto al congresso della socialdemocrazia tedesca, tenuto a Halle nell’ottobre, che Labriola redasse d’accordo con Turati. In esso troviamo l’auspicio di un rapido progresso del movimento operaio internazionale, insieme con affermazioni classicamente marxiste, e una conclusione molto significativa, che vale la pena di riportare:

«Voi congregati ad Halle potrete esclamare come Lutero innanzi alla Dieta dell’Impero: noi siamo qui e noi non possiamo altrimenti. Ma non soggiungerete come Lutero: Dio aiutaci, anzi direte: questo è il fatto della storia;  e in tale sentimento è la insegna e la sicurtà del nostro diritto. Salute e fratellanza!»11 .

Si ricordi che la socialdemocrazia tedesca aveva ottenuto, nel febbraio dello stesso anno, un grande successo elettorale (nonostante le ‘leggi eccezionali’ antisocialiste varate da Bismarck): ciò aveva naturalmente contribuito ad incoraggiare e stimolare le forze socialiste attive in Europa. Inoltre, nel luglio 1889 si era costituita a Parigi la II Internazionale, sicché, anche grazie all’importante attività di Engels, con la crescita del partito socialista francese e, soprattutto, con lo sviluppo del partito tedesco i tempi sembravano maturi per una ripresa dei rapporti internazionali. Oltretutto, nel congresso internazionale di Parigi del 1889 era stato deciso di proclamare una giornata internazionale di lotta dei lavoratori e fu scelta, come si sa, la data del primo maggio. La celebrazione di questa ricorrenza nei vari paesi avrebbe pertanto espresso l’unità e la determinazione dei lavoratori, la loro solidarietà e lo spirito di fratellanza nella lotta per il socialismo. In questo senso, l’organizzazione del primo maggio aveva un peso pratico non trascurabile, poiché poteva, là dove, come in Italia, non esisteva ancora un partito socialista, fornire un impulso importante al raggruppamento delle varie correnti che si richiamavano al socialismo. Ciò spiega l’impegno di Labriola nell’organizzare a Roma la manifestazione per il primo maggio 1891, che si tenne in un clima reso incandescente dalla crisi economica e dai contrasti sociali che ne derivarono. Labriola, che già allora era praticamente attivo nel movimento socialista, proprio in quell’anno tenne tra l’altro una importante conferenza al Circolo operaio di studi sociali, che Andrea Costa, il primo deputato socialista italiano, aveva fondato a Roma, dando vita al primo esperimento di unione delle forze socialiste e repubblicane. Egli già allora era convinto della necessità di formare un autentico partito socialista e per conseguire questo obiettivo non risparmierà le sue energie negli anni immediatamente precedenti la fondazione del Partito socialista italiano (1892).

In tale congiuntura si colloca il passaggio di Labriola dal radicalismo al socialismo, ben documentato da un articolo apparso sul numero unico del giornale che fu stampato a Roma in occasione del primo maggio, e di cui mette conto citare queste significative affermazioni: «I socialisti… non sono che i modesti ostetrici di un faticoso parto: non sono che gli intelligenti interpreti di una situazione storica. Noi non siamo i condottieri, ma i maestri del partito dei lavoratori»12 .

Labriola chiudeva perciò consapevolmente, con il distacco dai radicali, una fase della sua esperienza politica, essendo ormai convinto che il socialismo non potesse svilupparsi se non sulle proprie basi, e cioè come movimento del tutto indipendente e svincolato dalla tutela della borghesia progressista. Egli riconosceva infatti nei radicali «l’estrema ala sinistra del liberalismo borghese e semiborghese» e contestava la loro pretesa di ergersi ad «antesignani, guidatori e correttori del nuovo moto proletario» e di ridurre quindi il socialismo a «un codicillo, una giunta, una nota, una postilla del gran libro del liberalismo»13 . Sennonché, agli occhi di Labriola, la separazione dai radicali era una condizione necessaria ma non sufficiente per garantire l’autonomia del movimento proletario: premessa soggettiva di questa autonomia, oggettivamente non poteva che esserne un risultato, e quest’ultimo non poteva essere raggiunto se non con la formazione di un partito socialista politicamente indipendente e consapevole dei suoi scopi. Come è noto, questo problema occupa il posto centrale nei rapporti fra Antonio Labriola e Filippo Turati a partire proprio dal 1890, quando il primo ritiene di poter trovare una stabile intesa con il secondo sì da procedere alla costituzione di un autentico partito socialista in Italia, per giungere alla seconda metà degli anni ’90, quando le riserve critiche di Labriola sul modo, sui tempi e sui contenuti attraverso cui si era giunti alla fondazione del partito socialista per opera di Turati assumeranno un tono sempre più aspro, sancendo la sua posizione anomala nell’àmbito di tale partito.

D’altronde, che il ‘porro unum necessarium’ per dirigere la lotta di classe che si era aperta in Italia consistesse nella corretta impostazione e nella conseguente soluzione del problema della costituzione del partito del proletariato, era ribadito con forza e con lucidità dallo stesso Labriola, il quale proprio per questo, in occasione di un comizio internazionale organizzato dai circoli mazziniani nell’aprile del 1891, giudicava opportunistico il progetto di Turati che mirava ad unire senza distinguersi:

«La vigorosa, l’acuita, la costante e sicura e consapevole lotta di classe, ecco quel che c’impone l’odierna storia. Qualunque lamento sulla mala sorte dei lavoratori, che non metta capo nella organizzazione dei lavoratori stessi, è vaniloquio da filantropi; e si sa che la filantropia bazzica troppo spesso nella casa dell’ipocrisia. La predica astratta del socialismo è una vanità intellettuale, procedente dal vecchio pregiudizio, che dalle idee vengan le cose, mentre nelle cose e dalle cose appunto germogliano, nascono e si alimentano le idee… I riformatori a buon mercato, i progettisti d’ogni maniera, gli inventori di ripieghi legali, dànno prova di sognare ad occhi aperti, se non vedono che dove non è forza non è diritto, o se aspettano che il capitale metta da sé un nuovo organo, il cuore, o se immaginano che la borghesia farà sacrificio di sé ai gridi e alle proteste altresì col suicidarsi, se non entrano, infine, nella persuasione che là dove non è il partito dei lavoratori, forte, sicuro e consapevole, non c’è mezzo alle rivendicazioni»14 .

Naturalmente, Labriola non si faceva illusioni sulla efficacia della sua lezione marxista e soggiungeva, nella stessa occasione, che quegli operai che venivano facendo «per la prima volta la loro educazione di proletariato moderno militante» dovevano ancora imparare «dall’esperienza e dall’attrito a sceverare il possibile dall’impossibile, e a intendere come l’impossibile di oggi sia il possibile di domani»15 .

Né, d’altra parte, avrebbero potuto alimentare alcuna illusione sia la dura repressione governativa che colpì la nuova manifestazione del 1° maggio del 1891 sia gli effetti provocati all’interno del movimento operaio dalla controffensiva reazionaria che seguì tale repressione, scavando un solco sempre più profondo fra le tendenze insurrezionalistiche dell’estremismo anarchico e il riflusso moderato sulle posizioni “legalitarie”.

Accade così che, allorquando l’obiettivo della costituzione del partito socialista sembra allontanarsi anziché avvicinarsi, comincia a prender forma e a cristallizzarsi quel pessimismo sullo stato e sulle prospettive del movimento operaio organizzato che sarà una costante di Labriola sino alla sua morte nel 1904. Si tratta di un pessimismo che rispecchia la difficile congiuntura della lotta di classe e il peso crescente dei problemi che essa pone al movimento operaio nel campo teorico, politico e organizzativo. Ma si tratta anche di un pessimismo sugli uomini, che porterà Labriola ad esprimere giudizi duri, e talora così aspri da sembrare ingenerosi, sul nascente movimento socialista italiano, che egli riteneva, come si è visto poc’anzi, inficiato di estremismo anarchico e di opportunismo legalitario. In una lettera a Croce del 24 dicembre 1896 arriverà a scrivere: «Noi non siamo usciti dal Bakunismo e il socialismo italiano è ancora fatto dagli spostati, dagli avventurieri, dagl’imbroglioni e dagli snobisti». E impietoso è il quadro dei «tipi internazionali truffaldineschi» che si muovono negli ambienti anarco-socialisti, quadro che egli schizza in tre lettere ad Engels: quella del 21 febbraio 1891, in cui stigmatizza i «fabbricanti di cooperative pagate dai prefetti», e quelle del 6 aprile e del 2 settembre 1892, in cui bolla gli anarchici  esclusi pochi «ragionanti»  come dei «comunardi fuori luogo e dei blanquisti ignoranti».

 

5. Il rapporto tra filosofia e politica: la ricerca dell’‘anello di congiunzione’

In questa congiuntura, di cui sono stati richiamati i caratteri salienti, ha inizio nel marzo del 1890 il carteggio fra Labriola ed Engels. Quest’ultimo, che pure aveva trovato nel professore romano una fonte preziosa di informazioni minute e precise sulla situazione italiana, non può non essere colpito dal pessimismo del suo corrispondente italiano, che tende a spiegare soprattutto con ragioni psicologiche, come risulta da questa lettera a Kautsky del dicembre 1891: «Labriola è molto scontento per l’andamento delle cose in Italia e io non so se questo abbia qualche cosa a che fare con la delusione per il fatto che il suo ingresso nel movimento non ha provocato subito un mutamento repentino ed un grande sviluppo»16 .

Se Engels non era rimasto convinto dalle spiegazioni che Labriola gli aveva dato e dal proposito, che questi gli aveva espresso, di «popolarizzare le idee del socialismo scientifico» quale condizione per un reale sviluppo del socialismo in Italia, ciò dipendeva dal fatto che, in quella forma, il marxismo di Labriola sembrava assumere un carattere fortemente dottrinario e rischiava di risolversi nell’astratta formulazione di un ideale regolativo cui il concreto movimento socialista avrebbe dovuto conformarsi. La crisi politica che Labriola accusa nella seconda metà del 1891 affonda pertanto le sue radici in una crisi teorica, per superare la quale occorreranno non solo il paragone di ulteriori, più approfondite, ricerche teoriche (di cui il carteggio con Engels fornisce la fitta trama) e un rinnovato impegno nella divulgazione dei loro risultati, ma anche e soprattutto il cimento di nuove, più articolate, esperienze politiche.

I primi due elementi  ricerche teoriche sul materialismo storico e impegno nella divulgazione del socialismo scientifico  , anche se non sufficienti, erano tuttavia essenziali, poiché, come lo stesso Labriola aveva giustamente rilevato nella sua lettera a Engels del 30 marzo 1891, «tra questi fenomeni spontanei [della lotta di classe] e la coscienza sviluppata della rivoluzione proletaria manca in Italia un anello di congiunzione, che è appunto la cultura socialistica»: anello di congiunzione che, come Labriola precisava con bruciante sarcasmo nella stessa lettera, non poteva essere costituito da quel positivismo che permeava largamente la cultura socialista, essendo i positivisti «i rappresentanti della degenerazione cretina del tipo borghese». E alla fine dello stesso anno, nella lettera del 30 novembre 1891, non si peritava di vibrare un’altra stoccata al positivismo, traendo spunto da una previsione sul ruolo che avrebbe svolto la Russia, che può apparire stupefacente solo a chi non tenga conto della potenza dialettica che il marxismo conferisce al senso storico e politico dei militanti rivoluzionari: «E la Russia? Ci darà il momento catastrofico, senza del quale nulla accade, nella storia, con buona licenza di tutti gl’imbecilli dell’evoluzionismo alla Spencer!». E in una lettera del 3 agosto 1892 ad Engels tornerà sullo stesso concetto, ribadendo la sua tesi sul ritardo storico del nostro paese: «Ormai l’azione pratica in Italia non è possibile. Bisogna scrivere libri per istruire quelli che vogliono farla da maestri. Manca all’Italia mezzo secolo di scienza e di esperienza degli altri paesi. Bisogna colmare questa lacuna».

Certo, imputare a Labriola una deviazione teoricistica e individuarne le ragioni in una scarsa sensibilità politica sarebbe del tutto scorretto e scavalcherebbe il vero problema che anche il carteggio fra Labriola ed Engels pone: ossia il problema di come collegare la teoria alla pratica nel vivo di una congiuntura storica segnata da un duplice sviluppo ineguale: quello tra condizioni economiche e culturali, per un verso, e quello tra conflitti sociali e politici, per un altro verso. Problema, questo, che coincide in buona sostanza con il problema concreto di come giungere alla fusione tra socialismo scientifico e movimento di classe attraverso la costituzione del partito del proletariato. Sotto questo profilo, è da sottolineare che, se Labriola definiva se stesso come «un tedesco perduto in Italia»17 , ciò accadeva perché il Nostro era consapevole che la coscienza socialista non è uno stato d’animo che possa essere alimentato dalle più diverse motivazioni psicologiche, ma è il risultato di un rigoroso lavoro teorico e di una conseguente azione educativa.

Egli, che era un seguace ortodosso della socialdemocrazia tedesca dei Kautsky, dei Liebknecht e dei Bebel, era fermamente convinto che la parola d’ordine da attuare in Italia fosse quella stessa cui si dovevano i successi della ‘Mutter-Partei’ (cioè della socialdemocrazia tedesca), vale a dire la parola d’ordine contenuta nella triplice direttiva “Studiert, Propagandiert, Organiziert”, ed era altresì convinto che occorresse contrastare con il massimo rigore, con la massima chiarezza e con la massima energia la confusione e l’incertezza del nascente socialismo italiano, in una parola l’«ecletticismo» che si esprimeva nella linea di Turati. E sempre in una lettera a Engels del 5 ottobre 1892, quindi a ridosso del congresso di fondazione del partito socialista a Genova, Labriola, dopo aver ammesso che «L’ecletticismo non sparirà così presto», poiché «Non è soltanto l’effetto di una confusione intellettuale, ma l’espressione di una situazione», apre il suo animo al venerato maestro con parole improntate ad una schiettezza che colpisce e che commuove:

«Avrà trovato qualche volta nei miei giudizi una certa asprezza. Non ne usai mai coi poveri operai, laboriosi, pazienti, e spesso ignoranti, ma non per colpa loro. Sono scusabili anche quando fanno le sciocchezze del 1° maggio a Roma nel 1891. Mi adiro coi politicanti, che hanno la responsabilità di quello che fanno, e di quello che non permettono si faccia».

Scrivendo i famosi saggi sul socialismo scientifico in quella breve stagione fra il 1895 e il 1897, Labriola era mosso perciò dal convincimento che quella fosse l’unica opera politica che gli fosse consentita nella situazione data. Sempre nello stesso senso, è da sottolineare con forza che Labriola è stato il primo intellettuale italiano che abbia caratterizzato con un costante richiamo alla priorità e alla ineliminabilità della teoria il suo rapporto con il movimento di classe. Ciò spiega, fra l’altro, la grande stima che Lenin ebbe nei suoi confronti: quel Lenin che, per parte sua, non avrebbe mai cessato di affermare, consapevole della circolarità dialettica fra teoria e pratica, che “senza teoria rivoluzionaria non è possibile alcun movimento rivoluzionario”.

La corrispondenza con Engels delinea così il quadro di quel lavoro eccezionale, realizzato da Labriola nel quinquennio 1890-95, da cui deriveranno direttamente i Saggi. Labriola era fermamente persuaso della necessità e dell’urgenza di elaborare un’opera di riflessione teorica sui fondamenti del marxismo, che fosse idonea a colmare le lacune e le insufficienze del socialismo italiano. La politica, se non era una vocazione, era tuttavia per il “professorissimo” una passione invincibile, da cui non era possibile staccarsi malgrado le esperienze poco gratificanti e i frequenti contrasti con i compagni.

Nel maggio del 1892, dopo che la manifestazione non è riuscita troppo bene, scrive a Engels: «Che fare? […] Donde cominciare? Non me la sento di ridarmi alla vita della contemplazione, e di ripigliare il semplice mestiere di erudito»18 . E in effetti, anche se è convinto della profonda arretratezza del movimento socialista, Labriola non manca di adoperarsi, più o meno direttamente, per la formazione del partito, sia pure credendo necessario rimandare la sua concreta costituzione a un periodo successivo, quando i lavoratori avranno sviluppato una maggiore maturità. Egli, che polemizzava con Turati, accusandolo di conoscere assai poco l’“Italia reale” e di essere vittima di una «illusione campanilistica»19 , ossia di una deviazione, per così dire, milanocentrica, aveva indubbiamente una conoscenza più vasta e concreta delle condizioni del paese, tant’è che in una lettera a Engels ricorda che «Gli otto volumi dell’inchiesta agraria e i quarantadue fascicoli dell’inchiesta industriale stanno lì per dirci cosa è l’Italia reale».

Il movimento socialista italiano gli sembrava arretrato e immaturo anche perché era diviso e frammentato in vari centri sparsi nel paese, senza troppi contatti reciproci. Labriola coglieva così la debolezza fondamentale del movimento operaio italiano e da questo elemento ricavava un giudizio negativo sulla concreta possibilità di dar vita a un partito politico organizzato su scala nazionale. Infatti, grazie alla sua esperienza intellettuale, alla buona conoscenza del tedesco e al rapporto diretto con Engels e con la socialdemocrazia tedesca, egli era in grado di vedere meglio degli altri che il movimento operaio italiano era «più indietro» rispetto a ciò che sarebbe stato necessario per realizzare un partito all’altezza della II Internazionale.

Nonostante lo scetticismo di Labriola, il Congresso di Genova, come si sa, dètte vita, sia pure un po’ fortunosamente, al Partito socialista italiano: un’organizzazione assai imperfetta e che solo tre anni dopo, nel 1895, acquisterà i caratteri, anche organizzativi, di un vero e proprio partito politico. In una lettera indirizzata nel settembre 1892 a Engels, dopo aver richiamato il suo programma di ricerca in questi termini:

«Farò di fondere italianamente il pensiero astratto con la trattazione concreta […] I miei studi furono sempre di filosofia, filologia e storia», Labriola scolpisce il risultato raggiunto a Genova con un giudizio, che è veramente esemplare dal punto di vista etico-politico: «Comunque la cosa sia nata […] si tratta ora di sapere se potrà avere effetti utili e duraturi, o se dovrà degenerare in una delle solite vanità consortesche all’italiana […] Può darsi che il piccolo partito sorto di sorpresa, e il programma votato alla rinfusa, facciano nascere l’amore della disciplina ed il pudore della responsabilità»20.

 

6. “Raccontare la storia sotto l’aspetto della concezione materialistica”

Gli anni che vanno dal 1892 al 1895 sono anni in cui Labriola non si limita a svolgere un importante lavoro di approfondimento teorico e una ferma polemica con le posizioni tendenti a mistificare la critica marxiana dell’economia politica (si pensi alla pubblicazione, per opera di Engels, del terzo volume del Capitale e al caso Loria), ma continua a partecipare all’attività politica e ad osservare con lucida attenzione gli eventi che si svolgono in questo periodo: i sanguinosi fatti di Aigues-Mortes, lo scandalo della Banca romana, il grande moto proletario e socialista dei Fasci siciliani.

Le lettere a Engels hanno, perciò, da tale punto di vista, una straordinaria importanza, poiché non solo ci offrono il quadro animato, vivo, mosso e documentato di quel che accade in Italia in questo periodo, ma ci restituiscono la trascrizione teorica elaborata da Labriola, che è il riflesso di quegli eventi nel cervello del filosofo cassinate. In particolare, a proposito del moto dei Fasci siciliani, che aveva dato luogo, dietro richiesta esplicita della Kuliscioff, alla famosa lettera di Engels, precedentemente richiamata, sulla linea di condotta che il partito avrebbe dovuto seguire, Labriola non solo manifesta immediatamente a Engels il suo apprezzamento, non solo giudica tale moto come «la prima azione positiva del socialismo in Italia», ma ne individua anche le implicazioni profonde, mostrando che esso non è il prodotto di una situazione arretrata, ma rivela quel volto ancìpite dello Stato italiano che, a causa dell’organico intreccio fra arretratezza e sviluppo, conferisce un carattere rivoluzionario al moto dei Fasci e mette in luce la complessità del movimento socialista italiano.

D’altra parte, la discussione epistolare con Engels documenta, sul piano teorico, accanto all’assimilazione e alla elaborazione della concezione materialistica della storia, alcune non trascurabili differenze per quanto concerne il metodo dialettico e la funzione della filosofia. Il primo di questi temi appare particolarmente importante per situare il rapporto che Labriola intrattiene con la sua formazione precedente e, quindi, la sua originale interpretazione del marxismo. Così, la vera e propria venerazione che Labriola ha per Engels (che avrà modo di conoscere personalmente partecipando, nel 1893, al congresso internazionale di Zurigo) non impedisce che si sviluppi tra i due un dibattito effettivo, che imprimerà il suo segno anche sui Saggi.

Importante, ad esempio, per la differenziazione, che non è solo di natura terminologica, tra metodo dialettico e metodo genetico  quest’ultima formulazione è ritenuta infatti da Labriola più “chiara” e più “comprensiva”  è la lettera del giugno 1894, da cui emergono sia l’istanza realistica che è alla base dell’orientamento di Labriola sia la preoccupazione, che ne consegue, di ridurre la distanza fra i concetti e le cose rappresentate21 . La stessa impostazione si ritrova nel modo in cui Labriola affronta il problema concreto della storia alla luce del materialismo che si qualifica, per l’appunto, storico. Anche a questo proposito, lo sforzo di Labriola è quello di superare il dualismo tra una storia centrata solo sulle cause determinanti (per esempio, la struttura economica o il conflitto tra le classi) e una storia, diremmo noi oggi, di tipo evenemenziale, centrata solo sugli eventi: «Ma il busillis sta qui: che la storia è appunto Darstellung e narrazione, e non semplice teoria morfologica. Bisogna giungere, insomma, a raccontare la storia sotto l’aspetto della concezione materialistica, ma raccontarla: se no si rimane sempre nel dualismo di storia e spiegazione»22 .

 

7. Una lezione di stile

Benedetto Croce, che fu a lui legato da vincoli di amicizia e di stima e fu editore dei suoi Saggi, fissò con questa immagine, esattamente cento anni fa in occasione della morte, il ritratto di Antonio Labriola: un maestro che il giovane allievo stava «tutto orecchi ad ascoltare», ammirandone la capacità di trasformare la politica in «satira amenissima» e conversare di ogni cosa «con vena abbondante» e «con spirito scintillante», quale che fosse la scena in cui questo moderno Socrate si trovava a discutere: un salotto intellettuale, un’aula dell’università di Roma, una sezione del partito socialista o una sala del caffè Aragno.

E rievocando la funzione svolta da Labriola sul terreno della elaborazione e della diffusione del materialismo storico, Croce la definisce nel modo seguente: «Di questa concezione [Labriola] fu il primo banditore da una cattedra universitaria, il primo che ne trattasse, non da dilettante o da giornalista, ma da scienziato, con severità d’intenti»23 . Nel prosièguo di tale articolo Croce ribadiva inoltre quel dissenso di fondo nei confronti della concezione labrioliana del materialismo storico (e nei confronti dello stesso materialismo storico) che avrebbe fatto di lui, non senza che quella importante lezione lasciasse nel suo pensiero filosofico tracce assai consistenti, il principale esponente, assieme a Giovanni Gentile, del neoidealismo italiano.

In verità, il dèmone della Critica, intesa come la più alta espressione della natura sociale, dialettica e nel contempo dialogica, del pensiero, ànima le pagine della prosa spesso aspra, talora spigolosa, mai banale, del filosofo cassinate, come si può constatare leggendo questo passo, non meno gustoso che caustico, di una lettera del 20 dicembre 1894, in cui il maestro si rivolge al giovane Croce stigmatizzando uno dei più noti rappresentanti nazionali della ‘revisione del marxismo’ (quello stesso da cui Gramsci trarrà la categoria di ‘lorianesimo’, convertendo, mercè la figura dell’antonomasia, un cognome in esponente di una tendenza di pensiero): «L’interpretazione materialistica della storia è un problema troppo intricato. E del resto quel ciarlatano del Loria ha ora talmente imbrogliato la matassa in questo paese di arruffoni e di dotti analfabeti, che non si sa più come cavarne le mani». «Problema troppo intricato», «imbrogliare la matassa», «dotti analfabeti»: le espressioni di questo linguaggio ìndicano che Labriola si ispira ad un preciso modello nella storia della prosa italiana: quello di Galilei. La memoria corre infatti alle pagine del «Saggiatore» in cui lo scienziato pisano, polemizzando con un esemplare secentesco del ‘dotto-analfabeta’ come Lotario Sarsi (pseudonimo del padre gesuita Orazio Sarsi), usa l’immagine del “labirinto” o dei “grovigli” costruiti da un ciarlatano. Il che vale anche come riprova del fatto che nella storia della prosa dell’Ottocento è proprio la linea Manzoni-De Sanctis-Labriola quella che assume a modello la scrittura di Galilei.

Per capire come lo stile epistolare fosse coessenziale alla natura critico-dialettica del pensiero marxista quale fu assimilato, elaborato e approfondito da Labriola nel vivo di una battaglia ideale e politica che, in quella specifica congiuntura fra Otto e Novecento, fece dell’autore dei «Saggi», almeno in Italia, un maestro senza allievi, e anche per apprezzare una ‘forma mentis’ laica e materialistica che nulla concede alle combinazioni eclettiche sul piano teorico-politico e ai sofismi consolatori sul piano etico-religioso, basti leggere la lettera al Croce del 2 gennaio 1904 (una delle ultime scritte da Labriola prima della morte, causata da un tumore alla laringe che lo tormentò negli ultimi anni della sua vita) con quel calco dal tedesco  «la ‘sprucida’ materia»  e con quella icastica contrapposizione rispetto al neoidealismo crociano, che difficilmente si possono dimenticare:

«E qui mi fermo, in primo luogo, perché volevo soltanto dire scherzosamente che il tuo filosofare è tanto contrario a quello della invocata ombra dello Spaventa, che io non capisco perché il Gentile, che inveisce per fino in istile ieratico contro il reo mondo, non si dia proprio all’opera benigna (avendo il diavolo dentro casa) di convertire innanzitutto te; e in secondo luogo perché le discussioni filosofiche mi sono diventate a dirittura antipatiche. Dacché insegno qui… ho viste passare tante filosofie neokantiane, neokritiche, neopositivistiche, empiriocritiche, immanenti, contingenziali, neotomistiche buddhistiche, realidealistiche, fessistiche, ciarlatane  da averne piene le tasche e tutte le altre borse.

Questa lettera è stata interrotta dal tentativo che ho fatto d’ingollare della crema, o del cacao, e non ci sono riuscito. Come vedi c’è da rallegrarsi. Peccato che il tuo neoidealismo non possa nulla contro la ‘sprucida’ (‘spröde’) materia»24 .

In conclusione, il carteggio tra Labriola ed Engels, se da un lato pone in luce i limiti e le difficoltà che segnarono la nascita e la diffusione del marxismo in Italia anche a causa degli orientamenti eclettici e non di rado opportunistici del movimento socialista, dall’altro mostra la larghezza di orizzonti, la molteplicità di interessi culturali e la singolare densità intellettuale dell’opera del filosofo cassinate, che proprio per questo motivo rappresenta uno dei momenti più alti e più originali del “marxismo della seconda generazione” (laddove con tale sintagma ci si riferisce alla elaborazione dei teorici che, come Kautsky, Plechanov e lo stesso Labriola, furono in contatto diretto con Engels).

Così, in questo inizio del XXI secolo che vede le forze comuniste impegnate a rispondere a questioni che hanno come oggetto il destino dell’umanità nel suo insieme  i problemi della guerra e della pace, dello sviluppo e del sottosviluppo, del rapporto fra l’uomo e la natura, della rivoluzione tecnico-scientifica  , l’opera di Antonio Labriola, eminente marxista della seconda generazione, rivela tutta la sua importanza e la sua attualità. Tale opera, di cui, come si è cercato di mostrare, l’epistolario costituisce una parte tutt’altro che secondaria, ci offre ancor oggi un contributo prezioso per chiarire in quale direzione proceda l’“autocritica delle cose” e come si possa giungere al rovesciamento del mondo attuale.


Note
1 Lettera a Engels del 3 aprile 1890. Avverto che, ogniqualvolta, nel citare una lettera del carteggio tra Labriola ed Engels, mi limito ad indicarne il giorno, il mese e l’anno, rinvio implicitamente ad A. Labriola, Epistolario 1890-1895, Roma, 1983.
2 Cfr. L. Althusser, Per Marx, Roma, 1967, p. 7.
3 F. Engels, La futura rivoluzione italiana e il partito socialista , scritto il 26 gennaio 1894, pubblicato su «Critica Sociale», n. 3, 1° febbraio 1894. Cfr. anche Marx Engels – Sull’Italia, Mosca, 1976, pp. 244-248.
4 A. Labriola, Epistolario 1890-1895, Roma, 1983, p. 354.
5 Ibidem, p. XVIII.
6 A. Labriola, Epistolario 1896-1904, Roma, 1983, p. 683.
7 Lettera a Engels del 3 aprile 1890.
8 Cfr. A. Labriola, Scritti filosofici e politici, Torino, 1973, pp. 88-89.
9 Lettera a Engels del 14 marzo 1894.
10 Cfr. A. Labriola, Scritti cit., p. 132; si veda anche, alle pp. 161-166, l’articolo pubblicato a Roma in occasione del 1° maggio 1891.
11 Ibidem, p. 155.
12 Ibidem, p. 165.
13 Ibidem, pp. 126-127.
14 Ibidem, p. 158.
15 Ibidem, p. 159.
16 K. Marx e F. Engels, Werke, Berlin, 1868, vol. 38, p. 235.
17 Lettera a Engels del 22 agosto 1893.
18 Lettera a Engels del 21 maggio 1892.
19 Lettera a C. Prampolini del 12 luglio 1892.
20 Lettera a Engels del 2 settembre 1892.
21 Lettera a Engels del 13 giugno 1894.
22 Lettera a Engels del 16 agosto 1894.
23 A. Labriola, Scritti varii di filosofia e politica, raccolti e pubblicati da B. Croce, Bari, 1906, pp. 498 sgg.
24 Lettera a Croce del 2 gennaio 1904.
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