Lavoro e rivoluzione
Sapere, linguaggio e produzione nel pensiero radicale italiano
di Angelo Nizza
«Tutta la teoria sul lavoro intellettuale e manuale esposta in queste pagine deve essere interpretata come contributo all’edificazione del socialismo dopo la rivoluzione, non come teoria della rivoluzione. Ma una rivoluzione tende ai propri effetti finali contenendo già in sé gli elementi che trasforma in risultati. La teoria di tali risultati fornisce quindi indicazioni almeno parziali sulle forme della rivoluzione»1
Premessa
Nel pensiero radicale italiano2, che eredita e sviluppa la tradizione marxista-operaista, le condizioni del lavoro costituiscono la base del concetto di rivoluzione: studiarle significa gettare luce su un progetto di trasformazione della società. Intendere il lavoro come oggetto privilegiato della teoria rivoluzionaria significa trattarlo tanto come tema su cui verte l’indagine filosofica, quanto come obiettivo polemico e principale nemico dell’azione politica; la combinazione di entrambi i momenti costituisce un modo coerente di ripensare l’unità di teoria e prassi, nel senso cui pure allude il giovane Marx nell’ultima delle Tesi su Feuerbach: «I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo».
Volendo contribuire a un simile programma, queste pagine mirano a mettere in evidenza una delle contraddizioni che attraversano la società del XXI secolo: è vero che uno dei requisiti della società comunista, cioè, del risultato della rivoluzione, consiste nella soppressione della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, ma, al contempo, è vero anche che l’unità di mano e mente qualifica sempre più il lavoro nel capitalismo contemporaneo3.
Prendere consapevolezza di tale cortocircuito ha il vantaggio di mettere in chiaro le caratteristiche dei rapporti sociali di produzione che chiedono di essere modificati e proprio in una simile presa sta il gesto che può fornire alcune indicazioni, certamente parziali, sulle teorie e sulle tecniche della rivoluzione.
1. Postmodernismo
Il lavoro è il grande escluso dalle ricerche filosofiche degli ultimi quarant’anni. Diversamente dalle scienze sociali, nel cui ambito esiste una vasta bibliografia sulle trasformazioni empiriche e concettuali del processo lavorativo nel tardo capitalismo4, la filosofia contemporanea, nella sua variante vincente, ovvero quella che muove dalla riflessione sul postmoderno, ha preso a indagare il ruolo dei saperi formali e meno formali e dell’interazione linguistica, mettendo in secondo piano le questioni relative alla produzione e al lavoro. Sotto questa luce non appare fuori luogo tracciare una linea sotterranea che collega il «rapporto sul sapere» redatto da Jean-Fran^ois Lyotard5 nel 1979 al razionalismo anni ’80 e seguenti di Jurgen Habermas6, interessato all’eticità del dialogo e della comunicazione emendati dalle ingerenze dell’agire strumentale, fino alle più recenti tesi di uno dei più importanti filosofi contemporanei, Giorgio Agamben7, circa l’uso inoperoso della vita, che finisce per esaltare la dimensione contemplativa dell’esistenza a scapito di quella pratica.
Anche le teorie sulla fine del lavoro, per esempio quelle elaborate da André Gorz e Jeremy Rifkin, vanno inserite all’interno di questo quadro perché, cogliendo la centralità del sapere e della comunicazione linguistica nei più avanzati sistemi di produzione capitalista, deducono la morte del lavoro vivo e preconizzano l’esaurimento storico dell’intera poiesis umana.
Nelle osservazioni che seguono si tenterà di opporre a questi paradigmi dominanti il pensiero radicale italiano, illustrando in particolare alcune argomentazioni di Paolo Virno che, recependo ed elaborando la tradizione marxista-operaista, hanno il merito di riconoscere il carattere decisivo dei saperi e del linguaggio nella società del XXI secolo, non perché separati dal lavoro, ma, all’opposto, proprio perché sapere e comunicazione costituiscono la nuova base del ciclo di lavoro vivo. Anziché distinguere agire comunicativo e agire strumentale o, addirittura, disattivare il binomio praxis-poiesis, occorre pensare il superamento non della coppia, ma della dicotomia tra interazione linguistica e produzione. Un simile pensiero, dando conto della nuova forma del lavoro nel capitalismo avanzato, appare capace di individuare alcuni degli elementi che possono confluire in una aggiornata teoria della rivoluzione, che sia all’altezza dei problemi posti dai modelli di produzione e riproduzione della vita nell’epoca nostra.
2. La fine del lavoro
La teoria della fine del lavoro può essere coerentemente compresa nell’insieme delle estetiche legate all’architettura, alla letteratura, all’arte, al cinema e alla musica - ma anche, in una forma forse più implicita e tuttavia non meno fondamentale, nell’ambito delle idee attinenti alle scienze umane e sociali come la filosofia, la sociologia, la politica e l’economia - analizzate da Fredric Jameson nel noto studio su «la logica culturale del tardo capitalismo». In quest’ottica sembra giustificato intendere la fine del lavoro come una tipica tonalità affettiva del postmodernismo, che pronosticando l’estinzione del processo lavorativo oscilla tra stati d’animo euforici e sentimenti negativi pieni di sconforto e timori. Il senso della fine è precisamente il tono emotivo che si impone nel tardo capitalismo e che l’autore così descrive in apertura del saggio:
Questi ultimi anni sono stati caratterizzati da un millenarismo alla rovescia, in cui le premonizioni del futuro, catastrofiche o redentive, hanno lasciato il posto al senso della fine di questo o di quello (fine dell’ideologia, dell’arte o delle classi sociali; ‘crisi’ del leninismo, della socialdemocrazia o del welfare state ecc.): considerati nel loro insieme, tutti questi fenomeni costituiscono forse ciò che sempre più spesso viene chiamato post-modernismo. La sua esistenza dipende dall’ipotesi di una frattura radicale, di una coupure, che per lo più si fa risalire agli ultimi anni Cinquanta o ai primi anni Sessanta8.
L’estetica della fine evocata da Jameson è paragonabile a un modello matematico del tipo f(x) in cui f indica la relazione ‘fine di’ e x sta per la variabile indipendente cui assegnare un valore appartenente all’insieme dei fatti sociali come l’ideologia, l’arte e il linguaggio, ma anche la politica, la religione, lo Stato oppure la storia o il lavoro.
L’elemento ‘lavoro’ è associato alla relazione ‘fine di’ in seguito ai cospicui mutamenti del processo produttivo, divenuti pienamente osservabili attorno ai primi anni Ottanta del Novecento, che la sociologia e l’economia hanno racchiuso nel termine ‘postfordismo’, o anche ‘toyotismo’9.
La teoria della fine del lavoro si situa nel punto in cui la ricezione della metamorfosi del ciclo produttivo in senso toyotista destituisce il lavoro della centralità socio-politica ed epistemologica raggiunta in due secoli di capitalismo, aprendo il varco a una nuova epoca in cui verrebbe neutralizzata non solo la figura istituzionale del lavoro salariato, ma finanche la categoria antropologica della produzione, ovvero del concetto originario di poiesis.
3. Per una critica alla teoria della fine del lavoro
In un testo degli anni Novanta, molto noto e molto discusso, André Gorz espone fin da subito il suo argomento e conclude richiamando Rifkin:
Con la pretesa di negare la fine del lavoro in nome della sua necessità e della sua permanenza in senso antropologico o filosofico, si dimostra il contrario di quello che si voleva provare: proprio nel senso di realizzazione di sé, nel senso di poiesis, di creazione di un’opera, o del fare un’opera, il lavoro scompare più rapidamente nelle realtà virtualizzate dell’economia dell’immateriale. Se si desidera salvare e perpetuare questo ‘vero lavoro’ è urgente riconoscere che il vero lavoro non è più nel lavoro: il lavoro, nel senso di poiesis, che si fa, non è più (o lo è solo sempre più di rado) nel lavoro nel senso sociale, che si ha. Non è invocando il suo carattere antropologicamente necessario che si dimostrerà la perennità necessaria della società del lavoro. Al contrario: dobbiamo uscire dal lavoro e dalla società del lavoro per ritrovare il gusto e la possibilità del lavoro autentico. A modo suo (che non è il mio) Rifkin non dice una cosa diversa: dice che il lavoro, di cui annuncia la fine, dovrà essere sostituito da attività che hanno altre caratteristiche11.
Nei suoi motivi essenziali la teoria della fine del lavoro annuncia la scomparsa dell’attività lavorativa umana conforme alla poiesis e da qui pronostica il dileguamento del generale fare produttivo dell’uomo. Vi sono almeno due punti critici che qui si intende affrontare.
In primo luogo: espellendo la poiesis, ma conservando la praxis la teoria della fine del lavoro non considera l’ipotesi di ripensare il rapporto tra le due sfere della vita attiva nel segno della loro sovrapposizione. È vero che nel postfordismo il lavoro vivo umano è sempre meno simile alla poiesis, ma anziché additarne il deperimento si potrebbe forse valutare l’idea secondo cui il lavoro nell’impresa d’ispirazione toyotista si conservi adeguandosi mimeticamente alla praxis, ovvero all’attività senza opera, riducendo la distanza bimillenaria che separa i due poli:
La quantità di lavoro vivo non diminuisce, è anzi aumentata, contraddicendo tutte le teorie dello sviluppo tecnologico che stabiliscono un rapporto lineare di causa ed effetto tra innovazione tecnologica e lavoro necessario. La scienza incorporata nei macchinari, nel capitale fisso, permette di eliminare la parte industriale del lavoro, la parte cioè del lavoro materiale, esecutivo e meccanico. Parallelamente alla riduzione del lavoro di tipo industriale aumenta il lavoro comunicativo-relazionale che fa appello alle qualità cognitive e interpretative di chi lavora in un determinato contesto. Il lavoro, per così dire, di intellettualizza, si mentalizza, pur rimanendo lavoro vivo faticoso12.
In secondo luogo: esiste una connessione tra fine del lavoro e fine della storia. È noto, infatti, che le teorie sulla fine della storia portino con sé anzitutto l’eclissi dell’operosità produttiva - la figura del voyou desoevré di Kojève13 ne è il prototipo - nonché, presso quegli autori come Agamben14, in cui il collegamento è compiuto con la massima coerenza, il generale dissolvimento tanto del fare nel senso di poiesis quanto dell’agire nel senso di praxis. Parimenti le tesi sulla fine del lavoro adombrano immancabilmente un panorama non-storico o post-storico. Per tentare di assegnare un ordine logico ai due momenti sembra legittimo intendere la fine del lavoro come la premessa della fine della storia. Poiché il congedo dal lavoro, per come prospettato da due autorevoli sostenitori quali Gorz e Rifkin, comporta l’espulsione del carattere antropologico dell’operare nel senso di poiesis, allora destinata a perire è la stessa esistenza storica degli uomini. Il collegamento tra produzione e storia è messo in chiaro da Marx in un passo iniziale dell’Ideologia tedesca:
Dobbiamo cominciare col constatare il primo presupposto di ogni esistenza umana, e dunque di ogni storia, il presupposto cioè che per poter fare storia gli uomini devono essere in grado di vivere. Ma il vivere implica prima di tutto il mangiare e bere, l’abitazione, il vestire e altro ancora. La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa, e questa è precisamente un’azione storica, una condizione fondamentale di qualsiasi storia, che ancora oggi, come millenni addietro, deve essere compiuta ogni giorno e ogni ora semplicemente per mantenere in vita gli uomini15.
In questa direzione se da un lato il richiamo al lavoro come categoria antropologica può essere per Gorz un gesto apologetico nei confronti del carattere necessario e perenne della società del lavoro, dall’altro esso viene in luce come uno dei modi più pertinenti per giustificarne l’esodo.
Tra il lavoro come categoria antropologica e l’istituzione storicamente determinata del lavoro sotto il capitale vi è uno scarto mai del tutto sanabile perché la generica potenza del produrre è lungi dall’esaurirsi in un rapporto produttivo determinato, bensì essa eccede qualunque particolare forma storica. Nel quinto capitolo del Libro primo de II Capitale Marx rilancia sul pensiero materialista esposto nell’Ideologia e descrive il lavoro nei «suoi movimenti semplici e astratti» come una «condizione generale del ricambio organico fra uomo e natura, condizione naturale eterna della vita umana; quindi è indipendente da ogni forma di tale vita e, anzi, è comune egualmente a tutte le forme di società della vita umana»16. La capacità produttiva delle condizioni per la propria esistenza, che nel materialismo marxiano designa il principale tratto distintivo degli uomini rispetto agli animali non umani, attiene a un presupposto naturale che certamente entra in rapporto dialettico con la storia ma che per statuto non può annullarsi all’interno di uno specifico schema operativo.
Lo statuto che conviene alla produzione in senso antropologico è quello della potenza (dynamis) che mai si lascia compendiare in una serie di atti determinati, bensì essa intesse con l’atto (energheia) un rapporto di tipo negativo nella misura in cui ogni atto, in quanto stato di cose non potenziale17, nega la potenza da cui pure scaturisce senza annichilirla. La potenza sopravanza ciascuno degli atti a essa connesso, ma non s’identifica con nessuno di essi come invece proponevano i filosofi megarici18; tra i due concetti sussiste una differenza di natura (e non di grado) che a ogni transito dal poter-essere all’essere permette la conservazione della reciproca e fondamentale incommensurabilità. Sotto questa luce sembra ragionevole richiamare il lavoro come categoria antropologica allorché si intenda scorgere comportamenti produttivi indipendenti dalla società del lavoro salariato e dunque tali da costituire un criterio valido per pensare, nella storia, oltre la forma storica che la produzione ha assunto nel capitale.
4. Nous, praxis e poiesis nel XXI secolo. Alcune ipotesi a partire da Paolo Virno
Contro la filosofia del postmoderno e contro la teoria della fine del lavoro che di essa si nutre, prendiamo in esame due testi particolarmente significativi, scritti da Paolo Virno nel giro di un decennio, tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta.
Il primo libro, dal titolo Convenzione e materialismo. L’unicità senza aura, è un testo spartiacque, scritto nei primi anni Ottanta all’indomani della sconfitta dei movimenti rivoluzionari in Europa, che finirono preda della controrivoluzione ordita dallo Stato e dal capitale, ristrutturatisi in chiave spiccatamente biopolitica e bioeconomica. In quarant’anni, la controrivoluzione ha profondamente modificato le abitudini e le forme di vita in Occidente, estendendosi globalmente fino a instaurare un nuovo ordine mondiale19. Tali trasformazioni originano anzitutto dalla metamorfosi del lavoro, nella precisa misura in cui il capitale ha incluso entro i confini della produzione proprio quei saperi, quei linguaggi, quegli affetti e quei desideri, insomma quell’agire non strumentale, che la generazione scolarizzata di massa ha posto al centro del dibattito pubblico e dell’azione politica negli anni Sessanta e Settanta del Novecento.
Nel più ampio panorama del pensiero critico europeo l’analisi circa il nesso tra comunicazione e produzione contenuta in Convenzione e materialismo è degna erede delle Tesi sul rapporto generale di intellighenzia scientifica e coscienza di classe proletaria formulate da Hans Jùrgen Krahl nel 1969 e trova in Alfred Sohn-Rethel, nel suo studio del 1970 sulla nuova sintesi tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, un interlocutore privilegiato; al contrario, l’opera di Virno prende le distanze tanto dal ripristino dell’opposizione tra agire comunicativo e agire strumentale proposto da Habermas20 quanto dal pensiero debole del postmodernismo italiano21.
Merito di Virno è di aver concepito l’implicazione logica che meglio si adatta a raffigurare il nesso linguaggio-lavoro nella tarda modernità: «se la comunicazione diventa elemento costitutivo del lavoro, si incrina di conseguenza l’impianto finalistico; e se viene meno la predominanza del modello teleologico, si dissolve anche il monismo del concetto di produzione»22. Questa catena di connessioni negative si rapprende nell’espressione ‘lavoro senza teleologia’, ossia in una nozione di poiesis che entra in una zona di indeterminatezza semantica allorché assorbe in sé i caratteri tipici della praxis. Richiamandosi alla tradizione hegelo-marxiana che, anche in virtù degli apporti di Lukacs23 e Habermas24, concepisce la poiesis in quanto comportamento strumentale e monologico, la domanda a cui Virno intende rispondere concerne la legittimità empirica e teoretica della nozione unitaria di produzione materiale nell’epoca del divenire linguistico del lavoro. L’idea è che occorre espandere il concetto di produzione, perché non è più descrivibile solamente nei termini di un’attività muta e finalisticamente determinata, ma, al contrario, è sempre più raffigurabile anche grazie a elementi linguistici e a comportamenti virtuosistici che non sono orientati all’ottenimento di uno scopo predefinito.
Il secondo libro cui facciamo riferimento è il saggio Virtuosismo e rivoluzione, in cui Virno raccoglie e sviluppa l’eredità lasciata dal marxiano Frammento sulle macchine, ossia dall’assunto secondo cui:
lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità a esso25.
Quando il «sapere sociale generale», anziché cristallizzarsi nel sistema automatico di macchine, diventando, dunque, «forza produttiva immediata», emerge in primo piano come il principale attributo del lavoro vivo, allora il processo lavorativo cambia identità e, cessando di essere un agire strumentale conforme alla poiesis, si adegua all’agire comunicativo conforme alla praxis: «nell’epoca postfordista, è il Lavoro a prendere le fattezze dell’Azione: imprevedibilità, capacità di cominciare qualcosa di nuovo, improvvisazioni linguistiche, abilità nel destreggiarsi tra possibilità alternative»26. L’alleanza tra sapere e produzione induce il sapere a perdere il carattere formale e inappariscente che solitamente lo qualifica e, dunque, a irrompere sulla scena del pubblico, connettendosi con l’agire comunicativo: «la produzione esige virtuosismo, e quindi introietta molti tratti peculiari dell’azione politica, proprio e soltanto perché l’Intelletto è diventato la principale forza produttiva, premessa ed epicentro di ogni poiesis»27.
La maniera in cui Virno ripensa i rapporti tra sapere, linguaggio e produzione, in un’ottica rivoluzionaria, prende il nome di esodo. La base della teoria dell’esodo sta nello stringere una nuova alleanza tra i termini nous, praxis e poiesis: alla connessione tra intelletto e produzione, tratto saliente del capitale nel XXI secolo, va sostituita la correlazione tra intelletto e azione: «la chiave di volta dell’agire politico (anzi, il passo che, solo, può sottrarlo alla paralisi attuale) consiste nello sviluppare la pubblicità dell’Intelletto al di fuori del Lavoro, in opposizione ad esso»28. Dalla prima alleanza nasce l’inedito intreccio tra praxis e poiesis, ovvero la riduzione dell’agire a cooperazione lavorativa; al contrario, dalla giuntura tra nous e praxis si ricava l’istituzione di un’azione politica centrata sull’intelletto generale e pubblico. Nella prospettiva di Virno, la comunità fondata sull’intelletto equivale a una sfera pubblica non statale, ovvero non più protesa verso l’Uno rappresentato dal sovrano, ma originariamente unificata dall’appartenenza all’intelligenza comune agli uomini: «chiamo Esodo la defezione di massa dallo Stato, l’alleanza tra generai intellect e Azione politica, il transito verso la sfera pubblica dell’Intelletto»29.
Nell’esodo l’intelletto, che si sottrae alla produzione, è lungi dal ritirarsi a vita privata, ossia a una condotta solitaria e inattiva, essenzialmente dedita alla contemplazione. Il movimento effettuato dal nous è doppio: esso si separa dalla poiesis e si allea con la praxis. La vita attiva è così conservata.
5. Contro il logocentrismo
Una critica interessante all’impianto virniano giunge dall’interno della galassia operaista, da un autore, Maurizio Lazzarato, che a partire dagli anni Novanta si è dedicato alle trasformazioni del lavoro, arrivando a formulare alcune tesi intorno alla categoria di lavoro immateriale30. In uno studio recente dedicato al governo dell’uomo indebitato, l’autore legge le tesi di Virno e altri come affette da logocentrismo: «con queste teorie, e malgrado la loro intenzionalità critica, continuiamo a restare in un mondo logocentrico, a fronte del fatto che con il capitalismo siamo entrati in un mondo macchino-centrico che configura diversamente le funzioni del linguaggio»31.
Secondo Lazzarato il solo linguaggio non permette di comprendere la forma del capitale nel XXI secolo; stando all’assunto dell’autore è più coerente parlare di semiotiche, al plurale, includendo in esse, oltre alla comunicazione linguistica, anche i segni a-significanti (gli indici di borsa, la moneta, i linguaggi matematici e informatici, la contabilità, i bilanci) e i simboli (il linguaggio gestuale, la mimica, i comportamenti rituali). Lazzarato propende per una semiotizzazione del capitale, intendendo con semiotica il genere di cui il linguaggio è solamente una specie e, dunque, inglobando in essa anche segni e comportamenti non verbali. Egli scrive:
il capitale è un operatore semiotico e non linguistico, e la differenza è rilevante. Nel capitalismo i flussi di segni (la moneta, gli algoritmi, i diagrammi, le equazioni) agiscono direttamente sui flussi materiali, senza passare per la significazione, la referenza, la denotazione, categorie della linguistica insufficienti a dare conto del funzionamento della macchina capitalista. Le semiotiche a-significanti della moneta, degli algoritmi, funzionano indipendentemente dal fatto che significhino qualcosa per qualcuno. Non sono rinchiuse nel dualismo significante/significato. Sono segni-operatori, segni-potenza, la cui azione non passa attraverso la coscienza e la rappresentazione (azione diagrammatica). Il capitalismo è macchinocentrico e non logocentrico, ragion per cui abbiamo bisogno di una semiotica e non semplicemente di una linguistica32.
Con lessico post-strutturalista - tra le sue fonti spiccano Deleuze e Guattari - Lazzarato mobilita oggetti semiotici non linguistici, stabilendo una cesura fin troppo netta tra i segni verbali e quelli non verbali. Tuttavia, nell’ambito di quello che egli chiama il linguistic turn ciò che davvero conta non è il linguaggio inteso come strumento di denotazione e di comunicazione, bensì il linguaggio come capacità e attività specie-specifica interconnessa con pratiche non verbali. Sotto questa luce non vi è alcun impedimento a considerare insieme parole e gesti, nomi e numeri, frasi e sequenze di bit. E, anzi, ha ragione Lazzarato a insistere sull’aspetto secondo cui l’uso delle macchine, dei robot e dei computer, prevede oggigiorno lo sfoggio di teorie e tecniche semiotiche vaste ed eterogenee, formali e meno formali, inclusi il gergo quotidiano e il linguaggio di programmazione dell’ingegnere informatico. Vi è però un dato che Lazzarato omette. Il linguaggio umano non è un elemento che si aggiunge alle altre semiotiche, come se fosse: ci sono i numeri, c’è il gesto e poi c’è anche la parola. Al contrario, ci sono i numeri e i gesti proprio perché c’è la parola, il linguaggio, cioè, non è un esemplare semiotico tra gli altri ma è la condizione di possibilità delle semiotiche, della proliferazione e anche della specializzazione di altri linguaggi, di segni e simboli non specificamente classificabili come verbali33.
6. Le ambivalenze della nuova «sintesi sociale»
Per concludere queste parziali osservazioni, riprendiamo il ragionamento di fondo con una citazione tratta dalle Tesi di Krhal:
Se le scienze, secondo il loro grado di applicabilità tecnica, e i loro portatori, i lavoratori intellettuali, sono ormai integrati nel lavoratore produttivo complessivo, non è più ammissibile che le strategie socialrivoluzionarie continuino a riferirsi in modo quasi esclusivo al proletariato industriale. Non è in questione la possibilità, per l’intellighenzia scientifica, di sviluppare una coscienza di classe proletaria in senso tradizionale; al contrario, bisogna chiedersi quale modificazione sia avvenuta nel concetto di produttore immediato e, quindi, di classe operaia34.
Brillante osservatore delle dinamiche del tardo-capitalismo, Krhal, da un lato, connette il sapere al lavoro e, dall’altro, afferma che proprio nello studio delle nuove condizioni del processo lavorativo sta l’elaborazione di un programma di trasformazione radicale: il medesimo miscuglio tra sapere, linguaggio e lavoro, che fa da base alla ricchezza delle nazioni nell’odierna economia di mercato, è anche il terreno privilegiato su cui concepire e sperimentare teorie e pratiche di emancipazione.
Sempre negli stessi anni, un altro marxista tedesco, Alfred Sohn-Rethel, ragionando intorno al superamento del rapporto capitalista di produzione, nel suo studio su lavoro intellettuale e lavoro manuale ritiene che la sintesi sociale comunista abbia come immancabile requisito la soppressione della separazione tra mano e mente35:
L’unità sociale di mano e mente contraddistingue una società comunista, sia essa primitiva o altamente sviluppata sul piano tecnologico. Il suo contrario è la separazione sociale tra lavoro intellettuale e lavoro manuale che si estende per tutta la storia dello sfruttamento ed assume le forme più diverse36.
Più avanti Sohn-Rethel aggiunge:
Il socialismo ha infatti come fine immediato l’abolizione delle separazioni assai più evidenti e secondarie tra le funzioni intellettuali e fisiche, specie di quelle che F. W. Taylor ha posto in rilievo come elementi essenziali del suo sistema di organizzazione scientifica del lavoro37.
Nell’«unità sociale di mente e mano» l’autore coglie la mescolanza tra sapere, linguaggio e lavoro e con rapida movenza proietta tale commistione al di là del sistema capitalistico. Sohn-Rethel, forse, non si sofferma a sufficienza sul fatto che proprio il capitale ha monopolizzato l’antica triade, riconfigurando i rapporti interni tra i suoi elementi e ponendola a beneficio della sua controrivoluzione. Tuttavia, la sua analisi dimostra la propria utilità allorché l’unità sociale di mano e mente è intesa non come il luogo immediato della libertà, ma come la nuova realtà dei rapporti capitalistici di produzione che occorre trasformare. Seguendo questa traiettoria, su cui convergono Krhal, Sohn-Rethel e Virno, la libertà trae alimento proprio da ciò che oggigiorno blocca le chance di ottenere una forma di vita finalmente emancipata dal dominio del capitale e dei suoi miti.