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Fredrich Engels, “La situazione della classe operaia in Inghilterra”

di Alessandro Visalli

engels 2 abbrutimento operaiUn giovane di ventiquattro anni, figlio di un industriale tedesco con una importante filiale Manchester, scrive nel 1844 e pubblica quasi subito un libro che resterà come esempio di inchiesta sul campo e di vivida descrizione degli orrori lasciati dal primo capitalismo industriale nella regione in cui questo si sviluppa. Un classico della scienza sociale che evita accuratamente, pur nella crudezza delle descrizioni, ogni intonazione moralistica per cercare di individuare, con la freddezza dell’anatomopatologo, le ragioni dell’inumano spettacolo che ci sottopone. La storia del libro è di occasione: il padre, che aveva una fabbrica in renania, cerca di allontanare il figlio dalle sue cattive compagnie (il circolo degli hegeliani di sinistra a Berlino) e lo manda ad occuparsi appunto della filiale di Manchester.

Contemporaneamente Karl Marx stava scrivendo i cosiddetti “Manoscritti economico-filosofici del 1844” e lo stesso Engels aveva scritto in quell’anno “Lineamenti di una critica dell’economia politica”, quattro anni dopo insieme e su incarico della Lega dei comunisti i due scriveranno “Il Manifesto del Partito Comunista”.

C’è una fondamentale differenza tra lo sguardo che il giovane filosofo getta sulla condizione di immenso degrado dei quartieri popolari delle città industriali inglesi e quello dei contemporanei: la borghesia dell’epoca, per tutti i primi tre decenni dell’ottocento si è interrogata su questo degrado esclusivamente sotto la lente interpretativa dei “poveri”. Nel 1834 vengono quindi emanate le nuove “Poor Law” contro le quali nell’ultima parte del libro Engels si scaglia con veemenza, ma nessuno aveva inquadrato il meccanismo produttivo, e la costruzione di spazio e tempo dominati dalla logica fredda e spietata della concorrenza e del capitale che la muove. Quella di Engels è, invece, una inchiesta che legge le condizioni igienico-abitative della classe operaia, nelle sue diverse articolazioni, come effetto dei processi fisici di urbanizzazione interamente guidati dal profitto, e ne mostra il meccanismo. I protagonisti del libro sono le città, quindi le macchine entro le fabbriche, l’uomo ne è un effetto.

L’intero libro, che l’anziano Engels riprenderà in una illuminante prefazione pochi anni prima di morire, quando è impegnato con il segretario Kautsky a sistemare il lavoro della vita sotto forma di dottrina coerente, il marxismo, creandola come teoria del crollo inevitabile, è costruito su una struttura a tesi: le condizioni materiali creano il degrado, che rende inumano l’uomo, ma insieme esse generano la necessità soggettiva e collettiva del riscatto, che infallibilmente arriverà. Il dolore del mondo sarà riscattato, in questo mondo stesso, dalle stesse forze che esso ha messo in moto. Ovviamente ciò avverrà nei termini dialettici derivati dalla filosofia idealistica hegeliana, perché sarà prodotto da un’antitesi contraddittoria tra forze produttive e i rapporti di produzione, quindi tra le classi sociali da queste prodotte, che troverà sintesi nel comunismo.

Il fascino di questa idea potentissima (i cui legami con l’escatologia, e la secolarizzazione dello spirito che opera nel mondo, sono evidenti) trova ancora oggi continue e nuove versioni. Alcune sono ibridate curiosamente con l’altra grande idea della fine della storia generata dall’illuminismo: il liberalismo. D’altra parte l’idea di una società futura in qualche modo pacificata, di natura organicista, internamente coerente e conforme ad un’antropologia filosofica dominante (“naturale”), e in questo senso autoritaria e antipluralista, è stata tentata nel novecento e non ha dato buona prova. La stessa idea fondamentale è di nuovo tentata anche nel finire del secolo dalla radicalizzazione del liberalismo, sotto forma della macchietta proposta da Fukuyama (in “La fine della storia e l’ultimo uomo”), canto del trionfo imperiale americano: anche questa non ha dato buona prova.

Se si legge “La situazione”, come esercizio di una sorta di scienza sociale predittiva, in senso specifico sembra quindi aver fallito: le ipotesi che pone non si sono realizzate dopo centottanta anni. Ma se la si legge come la descrizione di alcune direzioni storiche e delle loro conseguenze che possono evolvere anche in modo diverso (per effetto del prevalere di forze nuove, o in reazione a quelle esistenti) allora l’analisi è ancora illuminante. Ciò che è accaduto non conferma la profezia, ma dipende dall’inversione della tendenza alla polarizzazione che allora vedeva, lungi dallo scomparire le classi medie nel corso nel novecento si sono riformate su diversa base, non più dedite alla piccola produzione, ma all’intermediazione ed ai servizi. La classe lavoratrice dai due terzi della popolazione è scesa a meno della metà e poi a meno di un terzo, in parte perché si è spostata altrove. La concorrenza proprio delle organizzazioni dei lavoratori, fattosi forti, hanno costretto la borghesia ad accettare dei compromessi, a fornire servizi ed a migliorare enormemente le inumane condizioni dell’ottocento.

Del resto è lo stesso Engels, nella prefazione del 1892, a riconoscere che l’ottimistica e un poco meccanica chiusa del libro del 1845 era prematura. Il capitalismo si è rigenerato, attraversando la crisi del 1847 e le seguenti, facendo nascere come reazione alle difficoltà quello che chiama “un mercato mondiale” per un insieme di fattori politici, strategici e tecnologici. Si è ristrutturato esternamente sotto forma di un insieme di paesi agricoli connessi a corona intorno ad un paese industriale, e internamente attraverso il dominio del capitale monopolistico su quello legato alle piccole industrie competitive. Ma questa trasformazione (che sarà descritta anche da molti altri, ad esempio da Hilferding) produce un effetto secondario: la grande industria, anche per competere con le piccole e metterle fuori mercato avendo accesso prioritario a linee di commercio fattesi più lunghe, ha offerto spazio subalterno alle trade unions. Ha scambiato, insomma, qualche beneficio economico con la lealtà. La classe operaia inglese (nei suoi segmenti superiori) nel cinquantennio che separa stesura del testo e prefazione ha perso così la spinta rivoluzionaria, come anche il vecchio Marx vedrà bene (iniziando a sperare che l’iniziativa sia presa alla periferia, in America e in Russia). Come dice Engels, quel che è successo è che lo stesso mondo produttivo, organizzato da corpi intermedi rivolti ad ottenere benefici materiali, è diventato “un mezzo per accelerare la concentrazione del capitale” (p.38).

Davanti a questa direzione presa dalla storia il vecchio Engels conferma, però, che deve essere ancora la classe operaia a prendere l’iniziativa di liberare l’umanità tutta (amministratori del capitale inclusi) e che quindi il socialismo è una dottrina “rivolta a liberare l’intera società, compresi i capitalisti, dai rapporti odierni che li soffocano” (p.40). Sarà dunque ancora una volta la forza intrinseca del capitalismo, la concorrenza, a ricondurre alla dura necessità di liberarsi tutti o nessuno. E lo farà attraverso la competizione che sta per scalzare (come accadrà) l’industria inglese da centro del mondo; il punto è che con essa il capitale inglese perderà la possibilità di comprare il consenso dell’aristocrazia operaia. Saranno, insomma, i fattori strategici e tecnologici a determinare la svolta politica.

Si può dire così: la perdita della centralità di fabbrica del mondo dell’Inghilterra, in favore di Usa e Germania, determinerà necessariamente il ritorno di condizioni di sovrasfruttamento e queste porteranno il socialismo, quindi il giovamento “ora finirà e tornerà il socialismo” (p.49). Tornerà anche grazie a forze fresche non contaminate da “rispettabili” pregiudizi borghesi (gli operai non specializzati).

Venendo finalmente al testo del 1845, la ricostruzione assiale che Engels propone, e che innerva profondamente il marxismo illuminando anche le sue radici nell’illuminismo, parte sin dalla introduzione. Il primo necessario mattone è una caratterizzazione senza ambiguità (senza, ovvero, quei dubbi e quelle oscillazioni del suo amico Marx, in particolare negli ultimi tempi) dei lavoratori prima dell’industrialismo come di esseri “intellettualmente morti”. Scrive che, infatti, il modo di vita dell’industria preindustriale, nella quale il lavoro manuale di trasformazione non era meccanizzato e quindi era distribuito direttamente nelle campagne e presso le singole case, dove la moglie e le figlie filavano il filo e l’uomo tesseva, determinava delle condizioni insieme confortevoli e “indegne di uomini”. La debolezza della concorrenza consentiva, infatti, un modesto ma significativo surplus, e questo consentiva alle famiglie di “piantare un paletto nel terreno”, ovvero di avere anche una casa ed un campo. Come dice,

“in questo modo i lavoratori vegetavano abbastanza comodamente e conducevano una vita per bene e tranquilla in tutta devozione e rispettabilità, la loro posizione materiale era di gran lunga migliore di quella dei loro successori; non avevano bisogno di affaticarsi troppo, lavoravano non più di quanto volevano e guadagnavano tuttavia ciò di cui avevano bisogno, disponevano di tempo libero per un sano lavoro nel loro orto o campo, un lavoro che era per essi già in sé un ristoro, e potevano inoltre prendere parte ai divertimenti e ai passatempi dei loro vicini” (p.62).

Cosa c’è di male in questo stile di vita? Erano:

“riservati e ritirati, senza attività intellettuale e senza oscillazioni violente nella loro situazione. Di rado sapevano leggere, e ancor meno scrivere, andavano regolarmente in chiesa, non facevano politica, non partecipavano a cospirazioni, non pensavano, … erano in ottimi rapporti con le classi più elevate della società. In cambio di tutto questo, però, erano intellettualmente morti, vivevano soltanto per i loro meschini interessi privati, per il loro telaio ed il loro orticello, e non sapevano nulla del grandioso movimento che fuori pervadeva l’umanità. Si sentivano a proprio agio nella loro quieta vita vegetativa e senza rivoluzione industriale non sarebbero usciti mai da questa esistenza certo molto comoda e romantica, ma indegna di uomini. Infatti non erano veramente esseri umani, ma semplicemente macchine da lavoro al servizio dei pochi aristocratici che fino ad allora avevano guidato la storia; la rivoluzione industriale invero non ha fatto altro che portare tutto ciò alle ultime conseguenze, completando la trasformazione dei lavoratori in pure e semplici macchine e togliendo dalle loro mani l’ultimo residuo di attività autonoma, ma appunto perciò spingendoli a pensare e ad esigere una condizione umana”.

Si tratta di un testo straordinario e assolutamente necessario per l’intero percorso del libro, direi per l’intero percorso del marxismo nella versione codificata. Il progresso passa dunque, e necessariamente, per la trasformazione della “campagna”, e della sua vita tradizionale, comunitaria ma priva di autonomia, in “città”. L’ideale che viene proposto è quello tipico del discorso illuminista, da Rousseau in avanti: è libero solo chi è autonomo, e lo è solo chi capisce razionalmente e dirige la propria vita. Questo ideale sottostante innerva l’antropologia proposta (è uomo chi ‘pensa’) e determina la meccanica della liberazione: per diventarlo bisogna prima trovarsi in condizioni di realtà, dure, dalle quali si può trovare la forza di rovesciare d’un sol colpo, nella forma della ‘rivoluzione’, il mondo.

È dunque l’industrialismo borghese che determina, per sua meccanica e contro sé, la liberazione finale; è esso che “trascina nel vortice della storia”.

Questo concetto centrale sarà ulteriormente elaborato dopo quattro anni nel “Manifesto”, ma sarà rimesso in qualche modo in dubbio, in forma aperta, da Marx nella prefazione del 1882 all’edizione russa, quando ipotizza che la proprietà comune rurale possa servire da “punto di partenza” senza necessariamente passare, come in Inghilterra, per una proletarizzazione.

È comunque la divisione del lavoro, e la concorrenza che si attua tra datori di lavoro e tra lavoratori, a creare le condizioni dello sradicamento, e la nascita quindi del proletariato industriale. Con esso nasce la questione della povertà (che prima si definiva in termini meno socialmente pericolosi). A fare da primo agente è la meccanizzazione progressiva e le sue conseguenze: la spinning Mule, inventata da Samuel Crompton nel 1779, che sostituisce la Jenny di un decennio prima, e l’applicazione del vapore, creano una pressione competitiva ed effetti sui prezzi che distruggono interamente il vecchio modo di vita (anche nelle colonie, in primis in India). Agisce poi come acceleratore la trasformazione delle infrastrutture, le ferrovie, le miniere, e via dicendo fino ad arrivare ad avere due terzi della popolazione impiegata nell’industria. Questa è, nella sua semplicità, la condizione sociale nella quale trova forma l’ipotesi centrale del marxismo di Engels, nella prima metà del XIX secolo: per dirlo con le sue parole “la situazione della classe operaia è la situazione della grandissima maggioranza del popolo inglese” (p.77), e questo vive in condizioni assolutamente disumane e quindi non può che desiderare il suo riscatto.

La classe che invece rappresenta la stretta minoranza, dato che le classi medie sono in continua erosione sotto la pressione della concorrenza del modo di produzione industriale e della forma commerciale che questo impone, la borghesia (ovvero i funzionari del capitale, che domina la società), è spensierata, ma “vive su un terreno che è già scavato sotto i suoi piedi, e che può franare da un momento all’altro”, anzi su un terreno “il cui franamento a breve scadenza è cosa tanto sicura quanto una qualunque legge matematica o meccanica” (p.79).

Cosa renderà sicura questa legge? Molto semplice, in effetti: il risentimento. E’ questo che, reso sempre maggiore dalla forza ineludibile della competizione, “dovrà esplodere con una rivoluzione”.

Agente di questa rivoluzione generale è naturalmente la grande maggioranza, la classe proletaria che nacque dall’industria e si è estesa ovunque perché l’Inghilterra, in questi anni, è la potenza egemone del mondo, la sua industria stessa. Di qui l’importanza storica del movimento industriale, esso va di pari passo con la liberazione rivoluzionaria per uno strano ma necessario movimento: rende poveri. Fa sì che alla fine lo siano quasi tutti perché concentra in poche mani il capitale, nel fare ciò però esso crea il risentimento che lo seppellirà. Più va male, tanto più andrà bene.

L’industria in particolare, mentre concentra il capitale e manda in rovina la piccola borghesia artigiana e contadina, “riduce anche al proprio servizio le forze della natura”, operando attraverso le tre grandi forze dello sfruttamento della forza idraulica, del lavoro meccanico delle macchine e la divisione del lavoro, che “fanno saltare le connessure del mondo” (p.82).

Ma se il capitalismo mette in concorrenza campagna e città (come scriverà), quale è il ruolo specifico delle grandi città industriali? Henry Lefebvre sostiene che la città è la macchina produttiva nella quale gli elementi che altrimenti sembrano esterni gli uni agli altri, suolo, natura, proprietà, capitale, lavoro sono portati ad unità in un sistema globale. In riferimento anche a questo libro il filosofo francese definisce la città stessa come il vero “soggetto storico” che opera la rivoluzione. Ovvero il soggetto che finalizza la storia. Perché è la città il luogo della divisione del lavoro, essa concentra i suoi abitanti, prima dispersi, ed insieme ad essi determina i mezzi di produzione, i capitali, ma anche bisogni e piaceri. È l’esistenza della città che rende “immediatamente necessaria l’amministrazione, la polizia, le imposte, in una parola l’organizzazione comunale e la politica in genere” (in Marx, “Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica”, p. 40). La separazione tra città e campagna indica una separazione che deve essere superata, insieme al suo antagonismo, creando “una delle condizioni della comunità” (Lefebvre, cit. p.53), nel comunismo.

Nel capitolo dunque, uno dei più memorabili, sulle “grandi città”, Engels parte dalla vita inumana che descrive in modo vivido. Ma se nella campagna tradizionale ad essere inumano era l’assenza di pensiero, qui lo è l’isolamento. I londinesi, scrive “hanno dovuto sacrificare la parte migliore della loro umanità per compiere tutti questi miracoli [della tecnica] di cui la loro città è piena, che centinaia di forze latenti in lui sono rimaste inattive e sono state soffocate affinché alcune poche potessero svilupparsi più compiutamente e moltiplicarsi mediante l’unione con quelle di altri”. Cosa è che è inumano? Si tratta della “brutale indifferenza, l’insensibile isolamento di ciascuno nel suo interesse personale [che] emerge nel modo più ripugnante ed offensivo quanto maggiore è il numero di questi singoli individui che sono ammassati in uno spazio ristretto” (p.84). Dunque il principio fondamentale è diventato un “angusto egoismo” nel quale è dichiarata apertamente la “guerra di tutti contro tutti”. Una guerra che si combatte con l’arma del capitale.

Ci sarà chi da questo doppio interdetto (della vita distribuita della campagna e della vita concentrata nella grande città) concluderà che bisogna creare società pianificate alla scala intermedia, città-giardino e regioni urbane con una dimensione “adatta alla vita”.

Ma Engels non sviluppa il tema in questa direzione, lui ha di mira la parusia finale, non una soluzione riformista che garantisca la pace sociale, lasciando intatta divisione del lavoro e concorrenza. Dunque passa a trattare in modo indimenticabile il tema di come si viva in queste città. Ovvero il tema dei “quartieri brutti”, a Dublino, a Glasgow, a Bolton e poi a Londra ed a Manchester. Nella “sua” Manchester c’è in pratica un unico, immenso, quartiere operaio, nel quale la miseria fa da complemento del lusso dei quartieri suburbani nei quali vive appartata la borghesia. Si tratta di “una sistemazione urbanistica piena di pudori” (p.110).

Nei quartieri operai, infatti, tutto è sfruttato allo stremo.

E lo è perché la forza dominante della società capitalista, capace di esprimersi senza alcun freno e senza alcun pudore, è la concorrenza. È questa che creò il proletariato, è questa che lo rende povero e disperato. La concorrenza crea la guerra per la vita (in senso letterale) non è combattuta solo tra le classi, ma anche tra i membri di queste: operaio contro operaio e borghese contro borghese. L’arma con la quale si combatte la concorrenza sono dunque le associazioni, e contro questi corpi intermedi tra gli individui e il capitale si scatena il furore della borghesia.

Infatti il meccanismo è semplicemente quello di mettere il singolo di fronte alla scelta se morire o accettare ciò che gli viene offerto. Se uno rifiuta può sempre essere sostituito.

Ecco come tratta questo punto decisivo:

“questa concorrenza tra gli operai ha un solo limite; nessun operaio vorrà lavorare per meno di quello che è necessario per la sua esistenza; se proprio deve morire di fame, preferisce subire questa sorte rimanendo in ozio piuttosto che lavorando. Naturalmente, questo limite è relativo; c’è chi ha bisogni maggiori o è abituato a maggiori comodità di un altro; l’inglese, che conserva un certo grado di civiltà, ha maggiori esigenze dell’irlandese, che si veste di stracci, mangia patate e dorme in un porcile. Ma ciò non impedisce che l’irlandese faccia concorrenza all’inglese, abbassando gradatamente il salario, e con esso il grado di civiltà, dell’operaio inglese al proprio livello” (p.143).

Naturalmente questa concorrenza non sarà eguale in tutti i settori, perché alcuni “necessitano di un certo grado di incivilimento”.

Ma se il salario minimo è fissato, secondo i settori, dalla concorrenza tra gli operai, quale è il massimo? Questo è fissato ancora dalla concorrenza, ma tra borghesi. Precisamente quando ci si avvicina alla piena occupazione.

Il lavoro è dunque una merce, e il lavoratore un servo.

Ma la dinamica della concorrenza crea anche un ciclo che nel 1845 Engels descrive come fasi di boom seguite da crolli causate dalla intrinseca anarchia del capitalismo. La concorrenza tra operai determina una costante tendenza a generarsi di una “popolazione superflua”, quando è poca i salari salgono, quindi “gli operai stanno meglio, i matrimoni si moltiplicano, aumenta il numero delle nascite, crescono più bambini, finché si producono operai a sufficienza; se ce ne sono troppi, i prezzi cadono, subentrano la disoccupazione, la miseria, la fame e di conseguenza di ciò le epidemie, che falciano la ‘popolazione superflua’”. Qui si segue Smith e Malthus.

Ma la concorrenza porta anche a migliorare sempre il rendimento del lavoro e quindi a generare costantemente disoccupati. Ma i “superflui” escono dal mercato, non possono più comprare nulla e cessa quindi la domanda delle merci che acquistavano. Cessando la domanda “non è più necessario fabbricarle” e quindi non servono altri operai. Il meccanismo si alimenta ed accelera.

Ciò è causato alla fine dall’anarchia regnante in una produzione che “non è intrapresa per il soddisfacimento immediato dei bisogni, ma per il guadagno”, dove inoltre “tutto avviene al buio, in modo irrazionale, più o meno alla mercé del caso” (p.148). Di seguito Engels descrive un meccanismo irrazionale di boom seguito da un crollo, gli spiriti animali che si lanciano, ognuno per suo conto, a seguire ogni ipotesi di arricchimento e che si influenzano a vicenda. E, in genere ogni cinque anni, determinano improvvise crisi di fiducia.

In questa meccanica si inserisce il capitolo sulla “immigrazione irlandese”, nel quale viene descritto un flusso di circa 50.000 immigrati all’anno che si sommano ad uno stock di circa un milione che fa concorrenza al lavoratore inglese, dato che si accontenta di molto meno. Si tratta del “concorrente contro cui è costretto a lottare l’operaio inglese”. Ne avevamo già parlato in “frammenti”, l’analisi è semplice senza colpevolizzare nessuno, oggettivamente anche questo è un fattore di concorrenza.

Quali sono i risultati di questo clima? Per Engels sono molto semplici e inevitabili: degrado fisico e morale, indebolimento, abbassamento della durata media della vita (p.176), un vero e proprio “assassinio sociale”. Si tratta di una fonte continua di odio che nasce dal sentire la disumanità della propria condizione.

Ma la concentrazione, se provoca una sorta di lavoro forzato, ha anche dei lati positivi; le grandi città sono le culle del movimento operaio. Mentre acuiscono la malattia, per questo stesso fatto, avvicinano la soluzione (p.193). In questo senso, alla fine anche l’immigrazione irlandese che esaspera la competizione ed abbassa le condizioni di lavoro, è positiva: perché lascia unica alternativa tra ribellarsi o sprofondare nell’animalità.

La logica del giovane Engels è qui semplice: tanto va peggio tanto più andrà meglio, perché al peggio ci si ribella, alle condizioni leggermente migliori ci si abitua, accontentandosi.

Il testo passa quindi ad esaminare uno per uno i diversi settori: le fabbriche vere e proprie (p.205), nelle quali il macchinismo provoca sempre danni per gli operai che diventano superflui (anche le macchine creano “i superflui” e per questa via abbassano i salari). Quindi il lavoro femminile (p.214), quello infantile. E gli altri settori di lavoro, la siderurgia (p.275), le miniere (p.322), o le campagne (p.342).

Una serie di gironi danteschi senza fine, una situazione inumana che “non può durare e non durerà”.

L’unico modo, però, in cui potrà finire è se gli operai si organizzeranno e lotteranno contro gli interessi della borghesia in quanto tale (il cui interesse, spinto dalla competizione, è semplicemente sfruttarli). Non resta quindi che associarsi per eliminare la base di tutto: la concorrenza degli operai tra di loro. E poi andare avanti ad eliminare la concorrenza in generale nella società (p.296).

La borghesia in questa battaglia per la liberazione dell’umanità è l’avversario perché questa è profondamente corrotta dal suo amore per il denaro, e quindi dal leggere tutto sotto il filtro dell’economico (p.357). Ne è massima espressione la “teoria della popolazione” di Malthus e la legge sui poveri che ne è derivata. La poca assistenza che questa dispone è erogata in condizioni volutamente inumane e umilianti, perché sostiene di voler combattere la pigrizia, in realtà per diminuirne il numero.

Dopo la denuncia delle inumane “workhouse” Engels passa ad immaginare, come farà nella prefazione cinquanta anni dopo, ad immaginare cosa accadrebbe se l’industria inglese fosse soppiantata dall’America. Anche in quel caso la piccola borghesia sarebbe schiacciata e il proletariato si troverebbe a diventare la totalità della nazione.

Allora la crisi economica, “la più potente leva di ogni sviluppo autonomo del proletariato”, insieme alla concorrenza straniera e alla rovina della classe media, determineranno l’esito.

“Se la borghesia inglese non si ravvedrà” la rivoluzione scoppierà subito.

Come dice:

“tutte queste sono conclusioni che si possono trarre con la massima certezza, conclusioni le cui premesse sono costituite da fatti inoppugnabili dello sviluppo storico, da un lato, della natura umana dall’altro. In nessun luogo è più facile fare delle profezie come in Inghilterra, qui infatti tutti gli elementi della società sono sviluppati in modo estremamente chiaro e netto. La rivoluzione deve avvenire, è già troppo tardi per giungere ad una soluzione pacifica dei problemi” (p.379).

Questa previsione fonda sulla separazione sempre maggiore delle classi che individua nella tendenza storica in corso, ovvero nel crescere dell’ineguaglianza e nella concentrazione del lavoro in poche grandissime città, in unità produttive sempre maggiori, spalla contro spalla, voce su voce ed occhio su occhio.

Poiché queste condizioni saranno attenuate da alcuno controforze (mobilitate anche in risposta proprio alla pressione dei lavoratori, fino che è durata), la previsione non si è realizzata. Ma il capitalismo non sembra aver capito la lezione e si sta dando da fare per ricrearle.

Rileggere “La situazione” può servire a ricordare fino a che punto era arrivato, ed impedire che lo rifaccia, come vorrebbe.

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