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socialismo.info

La statizzazione del capitale nell'Anti-Dühring

di Enrico Galavotti

index9076Engels faceva bene a dire nell'Anti-Dühring che “né la trasformazione in società anonime, né la trasformazione in proprietà statale sopprime il carattere di capitale delle forze produttive”. Che cos'è infatti una “società anonima”? È la possibilità di acquistare, da parte di chiunque disponga di capitali, di quote azionarie di una qualsivoglia azienda quotata in borsa.1

Chi compra è già un “capitalista” (anche se non ha un'azienda con operai da sfruttare); lo è perché beneficia indirettamente di un modo di produzione che lo precede nel tempo, e siccome ha fatto sua l'ideologia che lo giustifica, si aspetta che il suo investimento produca interessi significativi. Può anche non far nulla per far maturare questi interessi. Può, se ha un'impresa, affidarne la gestione a manager specializzati. Ma pretende continue rendicontazioni, in quanto, al primo accenno di crisi, vuol poter decidere liberamente sul destino delle proprie azioni. La proprietà quindi può essere suddivisa tra i capitalisti azionari (i cui nomi, peraltro, non sono resi pubblici), di cui hanno voce in capitolo solo i più importanti, quelli che hanno fatto gli investimenti più significativi (il peso delle decisioni è in stretto rapporto alle quote possedute, anche se nelle assemblee generali periodiche s'invitano tutti gli azionisti). La gestione della società è tutta capitalistica.

Lo stesso avviene a livello statale. Quando lo Stato partecipa direttamente allo sfruttamento dei lavoratori, lo fa in nome del capitalismo nazionale, offrendo p.es. capitali per le ristrutturazioni, gestendo imprese troppo grandi per i singoli imprenditori, salvando (o nazionalizzando) situazioni disperate...

E, nel far questo, utilizza le tasse dei cittadini, i quali così vengono sfruttati tre volte: anzitutto dalle imprese presso cui lavorano, relativamente al plusvalore; poi dallo Stato che estorce loro una percentuale esorbitante di tasse dirette e indirette2 ; infine da Stato e imprese insieme (cioè anche da quelle in cui non lavorano), solo perché esse ricevono, a diverso titolo, da parte dello Stato una quota-parte delle tasse di tutti i cittadini.

È uno sfruttamento continuo, quotidiano, il più delle volte del tutto immotivato, i cui protagonisti attivi non sono soltanto le imprese e lo Stato, ma anche gli Enti Locali Territoriali, con le loro tasse supplementari su immobili, sanità, immondizia, fognature..., senza poi considerare che non sempre lo Stato è in grado di garantire servizi efficienti, proporzionati alle tasse che pretende, per cui spesso i cittadini sono costretti a rivolgersi, di tasca propria, a soluzioni private (soprattutto in campo sanitario, previdenziale e anche scolastico).

In Italia il capitalismo, per poter essere vissuto senza finire in un dormitorio pubblico o a mangiare in una mensa della Caritas, esige un reddito familiare per tre persone (una coppia con un figlio in età scolare) di almeno 1.500 euro nette mensili, senza concedersi lussi o vizi di sorta e sempre che non si abbia l'affitto da pagare, perché solo quello porterebbe via la metà dello stipendio. Venire a vivere da noi, senza sapere queste cose, può diventare molto frustrante, che può indurre alla microcriminalità. Come minimo si dovrebbe pensare a una gestione comune del problema abitativo ed alimentare, sfruttando inoltre al massimo le opzioni offerte dai centri assistenziali sparsi nelle varie città, sempre che l'indigenza non sia un fenomeno abbastanza diffuso anche tra i residenti, nel qual caso è quasi impossibile evitare le cosiddette “guerre tra poveri”.

Insomma, oggi è difficile emigrare, privi di reddito, là dove il costo della vita è molto alto. Non siamo più al tempo dell'emigrazione degli europei verso il continente americano o verso il Canada, l'Australia... Oggi se gli europei emigrano verso territori dove il costo della vita è alto, lo fanno perché hanno già delle competenze da spendere (i professionisti oppure i giovani neolaureati, sostenuti finanziariamente dalle famiglie). Oppure abbiamo europei che emigrano verso Paesi dove il carovita è decisamente inferiore al nostro, ma si tratta di pensionati che vogliono star bene nell'ultima parte della loro vita con una pensione modesta, peraltro molto meno tassabile.

Tuttavia non so se Marx avrebbe detto una frase del genere: “La proprietà statale delle forze produttive non è la soluzione del conflitto, ma racchiude in sé il mezzo formale, la chiave della soluzione”. Engels a volte non si capisce: da un lato vuol far vedere che una statizzazione di talune imprese, fatte da uno Stato capitalistico, non ha nulla a che fare col socialismo vero e proprio; dall'altro però vuol dimostrare che se c'è questa esigenza, allora vuol dire che il capitalismo privato è arrivato al capolinea; dall'altro ancora non è contrario a una pianificazione statale dell'economia; poi però parla di “estinzione progressiva dello Stato” a vantaggio dei lavoratori che si autoamministrano. Quest'ultima cosa era già stata detta da Marx, per il quale aveva senso tenere in piedi lo Stato solo quel tanto che bastava per reprimere una possibile reazione furiosa della borghesia, una volta che la si è espropriata dei propri beni; ma, fatto questo, avrebbe dato ragione a Bakunin: la proprietà va “socializzata” tra i produttori, e non tanto “statalizzata”, tanto il “piano” va comunque fatto.

Engels invece sembra considerare il capitalismo monopolistico-statale come l'anticamera del socialismo statale. Ai suoi occhi la necessità di statizzare il capitalismo era un segno che la borghesia, coi suoi interessi privati, aveva perduto la propria autonomia sociale: era diventata una classe inutile, parassitaria, incapace di gestire le grandi forze produttive messe in moto.

In realtà non c'è alcuna chiave di soluzione dell'antagonismo sociale nella statizzazione del capitale. Semmai si potrebbe dire che quando il capitalismo giunge a questo livello, la lontananza dal socialismo è massima: è il perielio rispetto all'afelio. Nel senso che il capitale, per fronteggiare le proprie crisi sistemiche sempre più gravi, si dà una parvenza di eticità, affidando la gestione dei propri interessi a un'entità astratta, fatta passare come interclassista, basata sul diritto costituzionale, quello di tutti i cittadini, a prescindere dalle loro posizioni politiche. Lo Stato diventa lo strumento del grande inganno del capitale che non vuole cedere alle istanze emancipative del lavoro. L'Italia ha sperimentato questa grande illusione nel ventennio fascista e la Germania nel decennio nazista.

Tuttavia l'occidente non è abituato, per cultura e mentalità, a dare così tanta importanza allo Stato. Ecco perché il futuro del capitalismo dovrà essere gestito dai Paesi asiatici. È vero, in Europa occidentale tutto il socialismo teorico è sempre stato profondamente statalista: non solo perché era convinto di poter andare al potere seguendo la via legale e parlamentare, ma anche perché ha sempre votato i crediti richiesti dai governi borghesi per favorire il colonialismo e le guerre (regionali e mondiali), in nome di una idea di nazionalismo e di patriottismo identica a quella della destra più becera.3 Ma l'insieme degli europei, per ragioni storiche, non sono “statalisti”; semmai sono “nazionalisti”, avendo tradizioni, culture, lingue e religioni molto diverse, anche se gli imponenti flussi migratori del Novecento hanno ormai rimesso tutto in discussione. Gli europei sono fondamentalmente “individualisti”, sin dal tempo della loro nascita, come civiltà schiavistica, nel mare Egeo. Se non fossero stati così, non avrebbero potuto produrre la più grande rivoluzione tecnologica della storia.

La statizzazione del capitale è la faccia pseudo-etica che la borghesia si vuol dare per poter difendere meglio la proprietà privata. Ma se tra Stato e borghesia privata prevalgono, in ultima istanza, gli interessi di quest'ultima, la finzione, prima o poi, si smaschera sola. Ecco perché la Cina è destinata a sostituirsi all'occidente nello sviluppo del capitalismo: lì le tradizioni statalistiche hanno radici addirittura confuciane. Se non si oppone a tale mistificazione “asiatica” la proprietà “sociale” (non “statale”) dei mezzi produttivi, il socialismo statale di mercato rischia di diventare l'arma vincente della borghesia per i prossimi secoli. Le prove generali di ciò il governo cinese, da circa vent'anni, le sta facendo in Africa e nei territori più poveri dei pianeti, con tante risorse naturali ancora da sfruttare.

Dove poi Engels vedesse tutta questa statizzazione del capitale non è dato sapere. Ai suoi tempi gli Stati aiutavano gli imprenditori privati a diffondersi nel mondo attraverso l'imperialismo, ma non entravano direttamente nella gestione dell'economia più produttiva. Se si escludono i due ultimi paesi europei che avevano compiuto l'unificazione nazionale in nome degli interessi borghesi, e cioè l'Italia e la Germania, per i quali lo Stato aveva una certa importanza, bisogna dire che nell'occidente industrializzato gli imprenditori erano in grado di provvedere da soli alle loro esigenze economiche. Italia e Germania, essendo ancora troppo deboli nei confronti di Francia, Inghilterra, Stati Uniti..., avevano bisogno del protezionismo statale, che imponesse dazi significativi alle merci straniere; avevano bisogno di crearsi prima un mercato interno, di aiuti finanziari e di altro genere, da parte dello Stato, per far decollare un sistema produttivo rimasto al palo per troppo tempo: in Germania perché la riforma luterana aveva cercato un compromesso con l'aristocrazia fondiaria, rifiutando di diventare calvinistica, cioè nettamente borghese; in Italia perché la Controriforma aveva bloccato qualunque sviluppo economico moderno.

Probabilmente Engels si riferiva proprio a questi due Paesi, anzi soprattutto al suo Paese d'origine, la Germania, da lui considerata molto più efficiente (razionale) di qualunque altro Paese europeo. L'Italia – lo sappiamo – è sempre stato un Paese troppo dominato dal clero, troppo politicamente anarcoide: non per nulla il socialismo nascerà dalla crisi dell'anarchismo. Nella sua Germania invece, creata dalla Prussia militarista, il socialismo aveva già fatto ingresso in veste utopistica quando lui era giovane, mentre ora, proprio grazie a lui e ovviamente agli studi di economia politica di Marx, si presentava in veste “scientifica”.

Sia Marx che Engels avevano contatti diretti con molti socialisti del loro Paese, alcuni intenzionati a ribaltare il sistema, altri, la maggioranza, favorevoli al solo parlamentarismo: e saranno questi ultimi a dirigere la II Internazionale.4 In quella loro fase storica, vissuta in Inghilterra, i fondatori del cosiddetto “socialismo scientifico” erano diventati molto meno rivoluzionari che nel periodo delle grandi battaglie di trent'anni prima. Erano favorevoli a una transizione più o meno indolore al socialismo, che passasse anche attraverso le istituzioni statali. Forse è stato per questa ragione che quando Engels vide in Germania una certa statizzazione del capitale, se la immaginava come l'anticamera borghese del socialismo.

In realtà prima che passi l'idea di un intervento esplicito dello Stato nell'economia privata, ci vorranno ben due guerre mondiali. Negli Stati Uniti, p.es., si dovrà attendere la profonda crisi del 1929. L'idea di “Welfare State” s'imporrà soltanto a partire dal secondo dopoguerra, in risposta alla vittoria del socialismo stalinista sul nazismo hitleriano. Questo per dire che la statizzazione del capitale è soltanto un mezzo in più che il capitale si dà per risolvere le proprie crisi irrazionali, ma è un'arma (pseudo-democratica) usata solo in extremis, di cui ci si vuole liberare quanto prima.

La borghesia occidentale, per ragioni storiche, non ama essere controllata, quando esercita i propri affari, da alcuna istituzione di potere. Lo Stato viene sempre più considerato come un salvadanaio da utilizzare nelle situazioni di emergenza. Le tasse dei cittadini servono proprio per tamponare le falle create da un'imprenditoria irresponsabile, la quale vuole sì uno Stato forte, ma non nei confronti di se stessa. Lo Stato serve soltanto per “socializzare le perdite”, confermando l'idea che i profitti vanno tenuti privati. Di qui i colossali debiti pubblici di alcuni Stati occidentali (Stati Uniti, Giappone, Italia...). In Francia e in Gran Bretagna il debito pubblico non è enorme per il semplice fatto che questi due Paesi stanno ancora beneficiando, sul piano economico, del loro grande impero coloniale del passato. La Germania, che pur non ha mai avuto un vero impero coloniale, non ha un debito del genere perché qui lo Stato vuole controllare l'economia: questo è forse il Paese capitalistico che, nella gestione dell'economia, assomiglia di più alla Cina, con la differenza che quest'ultima, approfittando del fatto che la propria borghesia è ancora debole, fa coincidere lo Stato col partito unico, sedicente “comunista”.

In Italia lo Stato sociale è meno forte che in Germania e in Cina perché qui la borghesia, per tradizione storica, ha sempre avuto uno sviluppo considerevole a livello di micro-imprese, spesso a gestione familiare.5 Queste innumerevoli imprese (oltre 4,2 milioni, cioè il 95% del totale!), che danno all'Italia una configurazione sociale di tipo anarcoide, tendenzialmente avrebbero bisogno di un maggiore appoggio statale che le aiutasse p.es. nel commercio estero. Ma in Italia lo Stato è “sociale” solo per quanto riguarda la scuola, la sanità e la previdenza: per tutto il resto è visto solo come una sanguisuga, una fonte perenne di corruzione, un carrozzone burocratico e parassitario, poco efficiente sul piano amministrativo. D'altra parte non potrebbe essere diversamente: uno Stato che, per tradizione politica, vuole essere “centralista”, senza concedere nulla al federalismo, non può indirizzare in maniera intelligente un'economia capitalistica di 60 milioni di abitanti. La Germania, che pur ne ha 20 milioni più di noi, può farlo, proprio perché ha scelto la strada del federalismo: le decisioni vanno decentrate quando la realtà diventa molto complessa. Anche il Giappone, che pur ha uno Stato centralizzato come il nostro, sta provvedendo a realizzare il federalismo fiscale (spinto, in questa decisione, dalla lunga crisi economica degli anni Novanta e dall'enorme accumulo del debito pubblico).

In Italia si è convinti che con un debito pubblico così gigantesco (circa 35.000 euro a testa, inclusi i neonati), un qualunque federalismo porterebbe lo Stato alla bancarotta, poiché si pensa che le Regioni più ricche abbandonerebbero quelle più povere al loro destino. In realtà il federalismo potrebbe essere vissuto per gestire meglio il debito pubblico, da ripartirsi tra le Regioni in rapporto al loro prodotto interno lordo e in rapporto al numero degli abitanti. Lo Stato dovrebbe lasciare alle Regioni ampia autonomia, nel senso che esse potrebbe accollarsi l'onere del suddetto debito, chiedendo in cambio di pagare molte meno tasse allo Stato. Se la Regione fosse messa in grado di autogestirsi, i propri abitanti diventerebbero più responsabili, starebbero più attenti a come le istituzioni usano le risorse comuni. E la smetterebbero d'incolpare lo Stato per ogni cosa che non funziona.

In Italia il debito pubblico viaggia al 132% del PIL (in Germania è la metà): nessun governo è mai stato in grado di trovare misure efficaci per ridurlo in maniera progressiva. Andando avanti di questo passo, la prospettiva è quella di fare la fine della Grecia, ove si tocca quota 180% (da notare che, proprio per questa ragione, tutti sono convinti ch'essa abbia meritato d'essere strangolata dalle condizioni capestro della UE e del FMI). Senza poi considerare che la pretesa di un equilibrio di bilancio, da parte della UE, non fa che bloccare ulteriormente lo sviluppo capitalistico dei Paesi più indebitati, a vantaggio di quelli che hanno un debito molto più contenuto o delle economie più forti. Il debito nazionale è diventato un'arma di ricatto a livello europeo.

Tuttavia, se non si vuole che l'Italia fallisca, si dovrebbe almeno favorire il federalismo fiscale. In ogni caso non è possibile che agli italiani la UE riduca il potere politico col pretesto che non sanno gestire i loro soldi. Tra riserve assicurative (23,3%), azioni e partecipazioni (22,8%), contanti e depositi a vista (20,6%) gli italiani hanno un patrimonio enorme, che ammonta a 4.228 miliardi di euro, che è il doppio del loro debito. Risparmiamo senza investire. Questo vuol dire che l'enorme debito pubblico è stato causato da governi corrotti e da uno Stato inefficiente.

La UE, invece di minacciare continuamente la nostra sovranità nazionale, dovrebbe chiederci il contrario, cioè di pretendere una maggiore autonomia decisionale. Una parte del debito o anche tutto dovrebbe essere redistribuito a livello regionale, a condizione che gli italiani sappiano darsi gli strumenti per tenere sotto controllo le loro istituzioni. Questo si potrebbe fare facilmente se ci fosse il socialismo. In attesa che si realizzi, si dovrebbe almeno favorire il federalismo, che permette di ridurre le distanze tra cittadini e istituzioni. In Italia la corruzione è soprattutto politica, proprio perché i cittadini sono diventati fatalisti e lasciano che i politici facciano quel che vogliono. A partire dalle Signorie e soprattutto dai Principati di tipo machiavellico, passando per la lunga dominazione spagnola e austriaca, sostenuta dalla Controriforma di un papato assolutistico, per finire con l'autoritarismo dei Savoia, la dittatura fascista e il centralismo paternalistico della Democrazia cristiana, ereditato dalla coppia sciagurata di Craxi e Berlusconi, l'Italia è sempre stata caratterizzata da un'egemonia soffocante della politica, che ha indotto i cittadini a subire con molta rassegnazione i peggiori abusi. Ma in nessun popolo del mondo la pazienza ha dei limiti oltre i quali non sia destinata a trasformarsi nel suo contrario.


Note
1 Giusto per capire l'importanza delle società anonime quotate in borsa: quelle in Svizzera sono meno di 300, ma generano un franco su sei, pagano oltre il 40% del totale delle imposte sulle persone giuridiche e rappresentano direttamente e indirettamente circa 600.000 impieghi.
2 Si pensi solo a quella truffa legalizzata chiamata IVA, che viene fatta pagare unicamente all'acquirente, cioè alla parte più debole nella compravendita, ma anche a quelle tasse assurde relative alle successioni ereditarie, con le quali lo Stato vuol “punire” chi gli impedisce d'incamerare dei beni immobili quando mancano gli eredi.
3 I socialisti riformisti si son sempre preoccupati di non apparire antinazionalisti o antipatriottici. All'origine di questo atteggiamento avverso all'internazionalismo proletario sta l'interpretazione di Bernstein relativa al passo del Manifesto in cui è scritto che i proletari non hanno patria: non ce l'hanno perché sono messi ai margini dalla borghesia, non perché la rifiutano come principio; con le lotte se la possono guadagnare e anche difenderla meglio della borghesia dai nemici esterni. Così Bernstein. D'altra parte la socialdemocrazia tedesca usò proprio il testo di Engels, Socialismo in Germania (1891), per giustificare l'assenso ai crediti di guerra del 4 agosto 1914. La motivazione ideologica usata in quel momento fu quella di dover combattere l'autocrazia zarista. In realtà già nel 1904 i deputati socialisti si erano astenuti dal voto sui crediti di guerra chiesti dal governo per reprimere la ribellione nelle colonie africane; e nel 1913 li avevano approvati per evitare il ricorso a nuove imposte indirette. Analogo atteggiamento opportunistico del socialismo si verificò in molti altri Paesi europei.
4 In Germania vi furono scioperi di massa dopo la disgregazione dell'artigianato e dell'economia domestica avvenuta negli anni 1830-40. La stagnazione terminò intorno al 1844; poi, nel periodo 1869-73, fu la volta della classe operaia ad essere molto combattiva. Infine, con l'inizio della Grande depressione, che durò sino al 1896, inaugurando la fase imperialistica del capitalismo, i socialisti preferirono l'opzione parlamentare, salvo il breve episodio insurrezionale degli spartachisti subito dopo la I guerra mondiale.
5 Le microimprese, come noto, non hanno una vera progettualità economica e finanziaria, vivono alla giornata, in continua emergenza. È facile che l'imprenditore concentri su di sé tutte le funzioni aziendali. La ricerca di nuovi clienti, sia nazionali che esteri, è spesso affidata al caso e ad attività promozionali di basso costo, anche perché tutto ruota intorno ai prodotti, che in genere sono di ottima qualità, artigianali nella stragrande maggioranza e con poche modifiche negli anni. In un mercato globalizzato come quello attuale il rischio che vengano subissate dalla concorrenza straniera è molto forte.
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