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consecutiorerum

Da Hegel a Marx: fenomenologia dello Stato moderno capitalistico

di Carla Maria Fabiani*

Abstract: In Chapter 24 of the first book of Capital, Marx deals with the modern capitalist State, emphasizing the existence of complex factors which affect it. The theoretical basis of his reflection is to be found in Hegel’s Phenomenology. He points out the violent methods that the State use against workers – the eslege proletariat – and the subsumtpion of the State to capital.

steve johnson 704521 unsplash 300x2001. Definire lo Stato: prima Hegel e poi Marx

È bene soffermarsi su una definizione non marxiana del potere dello Stato, ma irrinunciabile ai fini dell’analisi che svolgerò nelle pagine successive, in merito a quanto Marx espone nel celebre capitolo su «La cosiddetta accumulazione originaria» (Marx, 2011, 787-839).

Mi riferisco alla definizione hegeliana presente nella Fenomenologia dello spirito, ancor prima che nei Lineamenti di filosofia del diritto, a proposito del potere dello Stato, come sostanza che permane di contro alla ricchezza definita invece come sostanza che si sacrifica[1]. Quei passi delineano il passaggio da una concezione premoderna dello Stato a una concezione pienamente moderna: dallo Stato teocratico/assolutistico allo Stato monarchico costituzionale, così come verrà poi più dettagliatamente configurato nei Lineamenti.

La struttura cetuale della società dell’Ançien Régime, sostenuta dalla stabilità del potere statale – l’Io voglio del sovrano assoluto –, si sacrifica allo spirito del tempo moderno, che afferma con Smith: «La ricchezza, come dice Hobbes, è potere.» (Smith, 1995, 83).

Tale sacrificio non elimina il potere dello Stato in sé; rende ambivalente la sua definizione e la sua cognizione, da parte dei soggetti agenti all’interno di quella che più tardi sarà chiamata società civile, stato esterno, sistema dell’atomistica.

Il potere statale è perciò sia la sostanza semplice (l’Io voglio), principio di spiegazione e fondamento del fare di tutti e di ciascuno (di tutti i ceti), dimensione autonoma e autosufficiente del politico (l’État c’est moi!); ma anche l’opera universale, cioè proprio il risultato effettuale del fare di tutti e di ciascuno, la dimensione propriamente economica, alla quale il politico sacrifica la sua autonomia e dalla quale riceve legittimità e sussistenza (il mondo liberale della ricchezza).

La ricchezza è la sostanza statuale che si sacrifica: è il potere dello Stato che sacrifica la propria trascendenza ed autonomia a favore del ceto e del mondo borghese[2].

L’alterità è immediata: il potere è in sé immediatamente l’opposto di se stesso, è la ricchezza. Definire l’uno implica la definizione dell’altro. Il sussistere dell’uno implica il sussistere dell’altro.

Hegel non insiste solo su tale ambivalenza – lo Stato come potere astratto, retaggio del passato, di contro al potere moderno empirico mutevole e concreto della ricchezza; ma anche lo Stato come Cosa stessa, cioè risultato concreto del fare di tutti – bensì anche sul fatto che, in età moderna, il potere dello Stato in quanto essere, cioè in quanto realtà sussistente (dura, resistente e oggettiva: le istituzioni di contro l’individuo), debba diventare oggetto di pensiero speculativo, un essere per altro (ovvero un essere universale); debba cioè ricevere una definizione che ne metta in luce gli aspetti profondamente dialettici, e perciò moderni.

In effetti, la storia del pensiero politico moderno potrebbe essere letta alla luce di questa tensione concettuale, che riesce infine a raggiungere l’obiettivo di definire dialetticamente l’essenza universale dello Stato. Così avviene in Hegel anche per la ricchezza, che corrisponde esattamente al mondo della ricchezza di stampo smithiano.

Lo Stato dunque è sottoposto a giudizio e tale giudizio rappresenta la presa di coscienza da parte di un intero mondo, il mondo moderno. Quest’ultimo è contraddistinto, come si è visto, da una duplicità di essenze (potere dello Stato e potere della ricchezza che si rimandano vicendevolmente), ed è ulteriormente articolato secondo una struttura dicotomica più ampia, che ricomprende al suo interno quella duplicità. Una struttura intrinsecamente ideologica, nel senso letterale del termine; cioè che produce, mentre si dispiega e si articola come fosse una seconda natura, la propria corrispondente ideologia. Con la complicazione che, data la sua ambivalente configurazione – la dialettica supra citata del rovesciamento Stato/ricchezza – produrrà un apparato ideologico altrettanto dialettico, ambivalente, rovesciato. Nulla è come sembra. Ovvero tutto sembra essere passibile di rovesciamento, proprio perché è effettivamente rovesciato. Siamo nel mondo ipermoderno della disgregatezza [Zerrissenheit] e della corrispondente ideologia, che Hegel individua nell’Illuminismo, colto nella sua accezione distruttiva negativa e decostruttiva, rappresentata eminentemente dal «linguaggio perfetto» del Nipote di Rameau[3].

Le ideologie che si producono in contrapposizione fra loro, attribuiscono da un lato al potere dello Stato la funzione conservativa organica dell’intero (l’intero della società civile), e dall’altro la funzione oppressiva nei confronti della libera individualità ridotta all’obbedienza.

Sebbene tali giudizi siano espressione di ideologie contrapposte (Hobbes/Locke; Smith/Rousseau), sono connessi inscindibilmente all’interno dello stesso processo di generazione ideologica: lo Stato è il buono/la ricchezza è il cattivo; lo Stato è il cattivo/la ricchezza è il buono. Lo Stato è la stabilità dell’universale/la ricchezza è l’instabilità o l’accidentale; lo Stato è illiberale/la ricchezza è la «donatrice dalle mille mani».

Sulla base di tali giudizi chiastico-speculativi, Hegel istituisce la struttura di classe del moderno[4]: coscienza nobile e coscienza spregevole. Tale genesi affonda le sue radici nel rapporto di vassallaggio basso medievale, da cui emerge sia il rapporto di eguaglianza/sottomissione, sia il rapporto di ineguaglianza/ribellione della coscienza nobile (il superbo vassallo) verso il potere dello Stato, da cui poi si origina la stessa coscienza spregevole (il futuro borghese e l’aristocratico plebeo[5]). A questo primo livello, il potere dello Stato non può ricevere una definizione compiuta e coerente, che emergerà solo sul terreno dell’età moderna, dove sarà il linguaggio riconoscitivo a realizzare «ciò che è da realizzare.» Dalla cortigianeria emergerà infatti l’Io voglio del monarca assoluto: «essere un monarca che non ha limiti». La produzione d’ideologia (secondo il paradigma del riconoscimento) affidata al linguaggio della classe nobile, crea realtà, la realtà del potere dello Stato moderno[6].

Lo Stato è dunque anzitutto un apparato ideologico di classe, che esercita legittimamente un dominio illimitato su quello che andrà configurandosi come il mondo della ricchezza borghese, già presente nella società dell’Ançien Régime. Ma la definizione dialettica del potere dello Stato non può ridursi solo all’aspetto per così dire ideologico, poiché lo Stato non è autosufficiente; necessita infatti di una struttura che lo faccia esistere, una dimensione altra rispetto a quella che potremmo definire strettamente politica. Necessita della ricchezza: «Il potere dello Stato resta bensì opposto, come effettualità [come apparato politico di dominio], alla ricchezza nella quale esso stesso, secondo il suo concetto [il concetto moderno di Stato], sempre si trasforma […].» (Hegel, 19886, 65; tra parentesi quadre mio). Il riferimento storico è evidente: l’elezione imperiale di Carlo V con il denaro dei Fugger. Ecco lo Stato moderno.

La definizione del potere dello Stato è solo apparentemente contraddittoria: l’autonomia e non autonomia dello Stato dalla ricchezza, che reincontreremo anche in Marx.

Ma più in generale, si potrebbe già qui anticipare lo schema storico-materialistico, secondo il quale la sovrastruttura statuale moderna è tale solo nella misura in cui viene pienamente sussunta sotto la categoria di capitale (in Hegel sotto la ricchezza smithiana). Se così stanno le cose, il Moro perderebbe almeno in parte di originalità e la sua primissima critica alla dialettica hegeliana (1843) andrebbe considerata un fraintendimento[7]. Tanto più che lo schema dialettico hegeliano qui operante è storicamente determinato, e risponde al paradigma epistemologico della circolarità[8], secondo cui la realtà concreta – l’età moderna – sarebbe caratterizzata dalla produzione di sé in quanto riproduzione delle condizioni che l’hanno posta in essere. Tale circolarità ritorna proprio nell’incipit del 24° capitolo del I libro di Das Kapital che andremo a leggere[9].

Il tutto secondo un andamento che implica la generazione di forme di coscienza o ideologie (l’autosapersi del potere dello Stato e delle classi sociali che con esso si trovano in relazione essenziale) destinate tutte allo scacco, al rovesciamento, alla disgregatezza, cioè alla inversione di ciò che affermano nel proprio contrario, dovuta al fatto che il processo complessivo (l’intero mondo moderno), nel quale sono ricomprese e giustificate, si rende da loro stesse autonomo e indipendente. Si fa praticamente astratto dal loro concreto sapersi e operare.

Ciò che in questo mondo s’impara è che non hanno verità né le essenze effettuali del potere e della ricchezza [poiché trapassano l’una nell’altra ad infinitum], né i loro determinati concetti [i giudizi unilaterali o le ideologie che si producono nel corso di tale incessante trasformazione]: bene e male, o la coscienza del bene e del male, la coscienza nobile e quella spregevole [la coscienza nobile trapassa nella coscienza spregevole; lo spirito aristocratico trapassa nello spirito borghese e plebeo, e viceversa]; anzi tutti questi momenti s’invertono piuttosto l’uno entro l’altro, e ciascuno è il contrario di se stesso [non si dà una definizione stabile di potere dello Stato né di ricchezza e a rigore nemmeno una netta distinzione fra aristocratico e plebeo]. (Hegel, 19886, 71; fra parentesi quadre commento mio).

Il potere dello Stato, presupposto e riprodotto dalla ricchezza, viene al tempo stesso svuotato di autonomia; d’altra parte, la «donatrice dalle mille mani» mostra il suo volto reificante, impersonale ed astratto proprio verso quei soggetti che da essa traggono beneficio (coscienza nobile che si fa spregevole) e che determinano con i loro giudizi, con le loro posizioni ideologiche, l’esser per altro dello Stato, la sua valenza di apparato ideologico/politico realmente vigente ed altresì opposto a ciò in cui pure sempre si trasforma. Ogni tentativo di definizione e fondazione autonoma del potere dello Stato appare fatuo[10]. Il rapporto essenza/apparenza, logica del moderno, è un rapporto di rovesciamento che distorce e svuota il fondamento di autonomia (il potere dello Stato), legandolo inscindibilmente ad un’apparenza (la circolazione di ricchezza), dalla quale esso stesso viene a dipendere e nella quale paradossalmente trova il suo instabile, precario ma vero fondamento.

 

2. Ridefinire lo Stato: da Hegel a Marx

Ma lo scacco di fronte a cui si trova il pensiero è solo apparente.

Le categorie moderne che andranno a interpretare la dialettica Stato/ricchezza emergeranno appieno con quella che Hegel, nei Lineamenti, considererà la scienza illuministica per eccellenza, che fa onore al pensiero, l’economia politica classica. Scienza che Hegel ben conosceva fin dagli anni di Jena e che nella Fenomenologia compare come logica dell’utile, con chiara allusione all’automatismo inintenzionale della mano invisibile di Smith.

Ciò che emerge nella trattazione hegeliana dei Lineamenti, in estrema sintesi, è una divaricazione non componibile fra dimensione politica e dimensione economica del moderno. Invece del rapporto di rovesciamento fra Stato e ricchezza, delineato nella Fenomenologia, si presenta piuttosto un rapporto di relativo primato e controllo dello Stato sul mondo liberale della ricchezza (la bestia selvaggia di Jena) che pur tuttavia non sortisce gli effetti sperati. Nella logica hegeliana, ciò comporta una situazione di irrazionalità, di aporia[11]. Una contraddizione che non si risolve perché non si pone a monte come contraddizione determinata, degradando perciò a cattiva infinità: a rapporto meccanicistico, secondo-naturale, fra forze contrapposte che seguono la logica della negazione astratta, non riconoscitiva. Una logica che potrebbe riportare indietro gli orologi della storia, verso condizioni etico-politiche premoderne, dominate da rapporti di violenza e di servitù, come nello stato di natura.

La funzione fondamentale che lo Stato hegeliano allora assolve con la polizia (insieme al sistema corporativo) non è altro che il governo, la consapevole mediazione e gestione dall’alto dell’economia, che si pone l’obiettivo di ridurre la disparità fra l’aumento della ricchezza e l’eccesso di povertà: una forbice che viene costantemente riprodotta in via allargata dal sistema dei bisogni, strutturato secondo la divisione del lavoro smithiana e funzionante secondo la logica inintenzionale del mercato, posta alle spalle dei singoli agenti economici. L’interventismo moderato dello Stato sull’economia prospettato da Hegel, si giustifica perciò nella misura in cui da una parte garantisce che l’intero sistema possa funzionare secondo una logica volutamente organica; e dall’altra si volge ad arginare quello che per Hegel è il sovversivismo/meccanicismo della plebe, alla quale è concesso il diritto al bisogno estremo (Notrecht)[12], cioè il diritto a violare la proprietà privata, per scongiurare che lo Stato – sottoposto alla pressione irrazionale di tale massa inorganica selvaggia e terribile – vada incontro al proprio declino. E tuttavia, gli interventi di politica economica introdotti dal governo non solo non risolvono, ma addirittura aggravano il divario fra lusso e «povertà sentita come ingiusta», lasciando il problema del rapporto Stato/società civile totalmente aperto[13].

A questo punto lo Stato, il potere dello Stato moderno, secondo la visione hegeliana, può essere sostanzialmente pensato come quella peculiare organizzazione della società moderna (di derivazione teocratico-assolutistica), che imprime intenzionalmente ai processi economici, di per sé non perfettamente organici, la forma di sistema organico. La sfera del politico dunque, mai pienamente autosufficiente da quella dell’economico, deve però acquisire un primato, per il fatto che solo in sede politica viene riconosciuta e perseguita l’organicità sistemica dell’intero civile, della società moderna, che altrimenti andrebbe incontro ad esiti inorganici e perciò regressivi.

Tale quadro complessivo non può essere ignorato quando si ricerca la funzione svolta dallo Stato nel Capitale di Marx, proprio all’altezza di quella descrizione squisitamente fenomenologica che è il capitolo sulla cosiddetta accumulazione originaria, dove si presenta il doppio statuto ontologico del potere dello Stato: come sistema organico e come forza meccanica, extraeconomica e violenta, di contro a quella classe, che anticipa il proletariato in senso stretto, e che Marx chiama proletariato eslege. Non direi molto distante per caratteristiche socio-antropologiche dalla plebe di Hegel.

Ciò che risulterà però profondamente differente sarà da una parte la fondazione del potere dello Stato, intesa in termini di sussunzione al capitale e dall’altra l’esito radicalmente eliminazionista che la «forza concentrata e organizzata» determinerà nei confronti della classe povera. Quest’ultima, sebbene analoga alla plebe hegeliana per caratteristiche antropologiche e sociologiche, nell’accezione di proletariato eslege, avrà una genesi economica riconducibile al violento processo di espropriazione del piccolo contadino da parte dei grandi proprietari terrieri e poi sistematicamente da parte dello Stato[14].

 

3. Autonomia e non autonomia dello Stato: da Marx a Marx

D’altro lato, se il modo di produzione capitalistico presuppone questa forma sociale determinata delle condizioni di produzione, le riproduce anche continuamente. Non riproduce solamente i prodotti materiali, ma riproduce continuamente i rapporti di produzione, nell’ambito dei quali quelli vengono prodotti, e con essi anche i rapporti di distribuzione corrispondenti. (Marx, 1989, 997)

L’inversione presupposto/risultato – l’arcano dell’accumulazione originaria[15] – può apparire un circolo vizioso, prodotto dalla continuità con la quale il capitale riproduce i propri presupposti, cioè dal fatto che esso continuativamente riproduce il carattere specificamente sociale della produzione e della corrispondente distribuzione. Se l’economia politica classica attribuisce storicità solo alla sfera distributiva, Marx individua un terminus a quo del capitale, mostrando al contempo la sistematica organicità con la quale questo specifico modo di produzione pone i suoi presupposti come prodotto della propria attività riproduttiva. Ma quali sono questi presupposti? «[…] in breve tutti quei rapporti che sono stati descritti nella sezione riguardante l’accumulazione originaria» (Marx, 1989, 997).

Abbiamo dunque da una parte la preistoria del modo di produzione capitalistico come processo originario di separazione del produttore dai mezzi di produzione[16]; dall’altra la necessità che tutto ciò avvenga in forma sistematica e continuativa. Quell’origine deve essere riprodotta in via allargata da un sistema autonomo cioè in grado di funzionare da sé[17]. L’origine storica del capitalismo ci restituisce una visione lineare dello stesso; la sua logica sistemica, che riproduce quella storia come se fosse un suo prodotto sincronico, senza tempo, spontaneo e automatico, rimanda alla circolarità.

Quella storia originaria scompare nel processo riproduttivo del capitale, nel circolo del presupposto/posto[18], e con essa scompaiono i metodi essenzialmente violenti che l’hanno contraddistinta, sostituiti dal racconto idilliaco dell’economia politica classica, che attribuisce fin dal suo sorgere carattere autonomo, naturale e spontaneo all’accumulazione del capitale. Invece «[n]ella storia effettuale il ruolo importante è giocato, come è noto, dalla conquista, dal soggiogamento, dall’assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza». (Marx, 2011, 788). La scomparsa di quella storia e di quei metodi attiene certo all’ideologia dell’idillio, ma anche al processo stesso di sussunzione che il capitale effettivamente opera nei confronti dei presupposti che l’hanno posto in essere. Primo fra tutti il presupposto dello Stato.

Rileviamo a questo punto almeno tre fattori che inestricabilmente si intrecciano nella ricostruzione fenomenologica che Marx restituisce in questo capitolo. In primis la funzione e il ruolo originario e ambivalente che lo Stato assolve durante tutta la «preistoria» del capitale; i metodi extraeconomici violenti con i quali l’intervento dello Stato acquisisce una valenza essenziale e insostituibile nel porre in essere il rapporto di produzione capitalistico, in quanto produce la separazione del produttore dai mezzi di produzione; l’autonomizzazione del rapporto capitalistico da quei metodi originari e al contempo la sussunzione dello Stato al capitale, con l’acquisizione però, da parte dell’accumulazione capitalistica, di quel carattere sistemico e organico che le deriva proprio dalla forma a lei presupposta di Stato. L’uso della violenza in tutto ciò non si rivela come carattere accessorio. In effetti, quella violenza viene esercitata al fine di eliminare almeno tendenzialmente e fin dall’origine – ma poi su scala sempre crescente – una particolare figura di lavoratore, il proletariato eslege, l’espropriato, il non ancora lavoratore salariato[19].

Non era possibile che gli uomini scacciati dalla terra per lo scioglimento dei seguiti feudali e per l’espropriazione violenta e a scatti, divenuti eslege, fossero assorbiti dalla manifattura al suo nascere con la stessa rapidità con la quale quel proletariato veniva messo al mondo. (Marx, 2011, 808)

Il processo di eliminazione di questa particolare classe, analoga alla plebe hegeliana, avviene perciò fin dall’inizio per ragioni di incompatibilità innanzitutto temporale con la riproduzione dell’intero organismo economico-politico; tale funzione tuttavia non può che essere assunta dallo Stato – con il monopolio e la gestione concentrata e meccanica della forza – cosicché, se da una parte la sfera politica viene sussunta appieno da quella economica, dall’altra le viene conferito carattere intenzionalmente sistemico, conservando piena autonomia là dove si rende necessario l’intervento eliminazionista sulla classe eslege. Da una parte, si configura un sistema organico, che si riproduce inintenzionalmente come intero, tramite sussunzione dello Stato al capitale; dall’altra, una organizzazione di forze violente e meccaniche monopolizzate dallo Stato, che concorre in via autonoma e intenzionale al mantenimento di quel sistema, da cui pure esso stesso è pienamente riprodotto e sussunto. Lo Stato concorre a rendere il rapporto di produzione capitalistico un sistema organico, proprio nella misura in cui concentra meccanicamente la violenza eliminazionista contro quell’eccedenza eslege, non altrimenti assimilabile.

Ritorna l’ambivalenza hegeliana della forma statuale: l’autonomia e non autonomia dello Stato dal capitale. Ritorna la sistematicità del nesso economia/politica. Ritorna anche il tema della supremazia del politico sull’economico, cioè del potere dello Stato in quanto tale, a cui però viene sottratta da Marx la caratteristica principale che lo contraddistingue hegelianamente, ossia l’eticità realizzata su base riconoscitiva e conservativa, soprattutto nei confronti di plebe/povertà[20]. Viceversa, ciò che contraddistingue l’esercizio autonomo del potere dello Stato borghese capitalistico è proprio la necessità con cui quella povertà deve (non può non) essere violentemente eliminata.

Siamo di fronte a quella forma di patologia sociale[21] che Hegel aveva ben individuato in termini sia etico politici che economici: il mondo della ricchezza non ricco abbastanza, la povertà sentita come ingiusta, il sovversivismo della plebe, ecc. Una patologia che andava a tutti i costi curata proprio con l’intervento autonomo del potere dello Stato, al fine di salvaguardare l’intero civile. La terapia proposta da Hegel, sebbene non risolutiva, è tendenzialmente riconoscitiva/conservativa della classe povera. Viceversa, la terapia messa in atto dallo Stato capitalistico descritto da Marx nel 24° capitolo, risulta essere esattamente l’opposto, cioè radicalmente e intenzionalmente eliminazionista di quella eccedenza eslege non assimilabile a rigore nemmeno all’esercito industriale di riserva in senso stretto, poiché non assimilabile per definizione.

L’organizzazione del processo di produzione capitalistico sviluppato spezza ogni resistenza; la costante produzione di una sovrappopolazione relativa tiene la legge dell’offerta e della domanda di lavoro, e quindi il salario del lavoro, entro un binario che corrisponde ai bisogni di valorizzazione del capitale; […] Altrimenti vanno le cose durante la genesi storica della produzione capitalistica. La borghesia, al suo sorgere, ha bisogno della violenza dello Stato […][22].

Non è automatico, non è scritto da nessuna parte che tutti gli eslege debbano entrare nel sistema di lavoro salariato; ma soprattutto non si presenta temporalmente compatibile la produzione di eslege con lo sviluppo della manifattura. Lo Stato allora interviene a pareggiare la disparità dei tempi con il metodo dello sterminio[23]. Se tale pareggiamento non si verificasse, all’inizio e poi di seguito in via allargata, non potrebbe essere edificato lo stesso sistema di lavoro salariato, solo nel quale è posta la classe operaia (ivi compreso l’esercito di riserva), nonché la categoria di lavoro astratto[24]. Queste ultime sono tutte determinazioni che, intese in senso stretto, presuppongono l’eliminazione dell’eccedenza di forza lavoro libera e disponibile ovvero di quell’eccedenza che per definizione non può essere assimilata alla «disciplina della nuova situazione.»

Si trasformarono così, in massa, in mendicanti, briganti, vagabondi, in parte per inclinazione, ma nella maggior parte dei casi sotto la pressione delle circostanze. Alla fine del secolo XV e durante tutto il secolo XVI si ha perciò in tutta l’Europa occidentale una legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio. I padri dell’attuale classe dei lavoratori furono puniti […] la legislazione li trattò come delinquenti “volontari” […]. (Marx, 2011, 808)

Nel momento in cui si impone la legge generale dell’accumulazione capitalistica[25], quando il sistema del lavoro salariato può dirsi pienamente vigente, quella legislazione può anche essere superata. L’uso diretto della «forza extraeconomica, immediata» avviene, dice Marx, «solo per eccezione»; poiché la borghesia, solo al suo sorgere, ha bisogno della violenza dello Stato, al fine di regolare il salario entro i limiti convenienti per fare surplus, per estrarre plusvalore assoluto, disciplinare a forza il lavoratore, durante tutto il corso dell’accumulazione originaria.

Tuttavia, sorge un dubbio. Se è vero – come Marx ripete qui e altrove – che il fatto dell’accumulazione originaria non si presenta come atto unico nella storia del capitalismo, ma si rinnova ciclicamente in via allargata, ne segue che anche la violenza dello Stato dovrà essere rinnovata e allargata nella stessa misura dell’accumulazione. Lo Stato moderno è uno Stato di classe, per definizione violento, che ingaggia intenzionalmente la lotta di classe dall’alto[26]; ma è anche uno Stato sussunto, da sempre, fin dall’inizio, alle esigenze strettamente economiche e non lineari di valorizzazione del capitale. È uno Stato altamente concreto che domina la scena dei rapporti fra le classi, monopolizzando l’uso della violenza; ma è anche uno Stato astratto, che rinunzia a quell’uso diretto se diventa superfluo. Lo Stato della borghesia e al contempo lo Stato del capitale fanno riferimento a due diverse modalità di sussunzione: la prima esalta l’autonomia (ma mai l’autosufficienza) dell’intervento politico, l’altra la sua subordinazione (ma mai l’annullamento). Ciò che occorre non perdere di vista è la dialettica che le tiene sempre necessariamente assieme e che le rovescia costantemente l’una nell’altra. E tale dialettica – questo perfetto funzionamento altalenante del nesso economico-politico, che attribuisce e sottrae autonomia allo Stato, laddove le alterne condizioni della valorizzazione/accumulazione lo richiedono – mostra il suo volto «grondante sangue»[27] proprio nei confronti di questa figura spuria del lavoratore, dell’espropriato originario, che si ripresenta in itinere nel «sedimento più basso» della sovrappopolazione relativa, ovvero nel pauperismo, «il peso morto dell’esercito industriale di riserva».

Quest’ultimo è costituito innanzitutto dal lumpenproletariato, dal quale però Marx qui intende esplicitamente fare astrazione[28], articolando quest’eccedenza in tre differenti categorie di poveri in eccesso: a) persone capaci di lavorare b) orfani e figli di poveri c) gente finita male, incanaglita, incapace di lavorare (i Lazzari ovvero proprio la plebe di Hegel).

[…] il pauperismo costituisce una condizione d’esistenza della produzione capitalistica e dello sviluppo della ricchezza. Esso rientra nei faux frais della produzione capitalistica, che il capitale sa però in gran parte respingere da sé addossandoli alla classe dei lavoratori e alla piccola classe media. ( Marx, 2011, 713)

La necessità secondo-naturale con la quale si attua tale legge assoluta, generale dell’accumulazione capitalistica, presenta al suo interno spinte altamente contraddittorie[29] e soprattutto antagonistiche fra le classi. Ed è proprio tale carattere insieme necessario, contraddittorio e antagonistico dell’accumulazione capitalistica che impone un intervento extraeconomico, ovvero un intervento autonomo e violento da parte del potere dello Stato, definito perciò da Marx «violenza concentrata e organizzata della società».

 

4. Stato e capitale oltre il I libro. Oltre Hegel?

I diversi momenti dell’accumulazione originaria si ripartiscono, più o meno in successione cronologica […]. Alla fine del secolo XVII quei diversi momenti vengono combinati sistematicamente [systematisch zusammengefaßt] in Inghilterra in sistema coloniale, sistema del debito pubblico, sistema tributario e protezionistico moderni. I metodi poggiano in parte sulla violenza più brutale, come p. es. nel sistema coloniale. Ma tutti si servono del potere dello Stato […]. (Marx, 2011, 825)

Vorrei porre l’attenzione sull’espressione utilizzata qui e altrove da Marx: combinati sistematicamente. La sistematicità, con la quale il rapporto/modo di produzione capitalistico viene fin dall’inizio combinato nello spazio/tempo[30], cioè concentrato e messo nelle condizioni di riprodursi di lì in poi come sistema organico autonomo, è opera esclusiva ascrivibile alla Staatsmacht, non ad altri. La violenza [Gewalt], immanente al sistema, non è tuttavia l’unico metodo con il quale viene posto e riprodotto organicamente il nesso economico-politico su base capitalistica. D’altra parte, tale violenza, in origine (ma ovviamente anche in itinere), deve avere innanzitutto rilevanza economica; deve incidere cioè sulla trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico, accorciandone i passaggi.

Marx si sofferma nel corso del 24° e soprattutto nel 25° capitolo sui metodi più brutali utilizzati dal sistema coloniale, riprendendo temi e problemi ampiamente trattati nei celeberrimi articoli comparsi sulla New York Daily Tribune tra il 1853 e il 1858, a proposito dell’India e della Cina[31]. Si sofferma poi sull’artificio con il quale il sistema protezionistico europeo in un sol colpo sarebbe riuscito a fabbricare fabbricanti in madrepatria, ad espropriare i lavoratori dipendenti, capitalizzando i mezzi di produzione e di sussistenza nazionali, sempre con lo scopo di abbreviare i tempi di passaggio dal modo di produzione antico a quello moderno.

Ma si sofferma con particolare riguardo sul sistema del debito pubblico, osservando che «l’alienazione dello Stato – dispotico, costituzionale o repubblicano che sia – imprime il suo marchio all’era capitalistica». Ricordiamo la definizione hegeliana del potere dello Stato come sostanza che si sacrifica al potere della ricchezza, pur permanendo, anzi proprio perciò permanendo come potere politico. Anche qui, la non autosufficienza del potere dello Stato non si traduce in un suo annichilimento; anzi, probabilmente in un suo rafforzamento. Emerge in effetti nell’analisi di Marx un nesso storico inscindibile che vede sorgere assieme la forma pienamente moderna di Stato e la forma capitalistica della riproduzione sociale su base nazionale[32]. Con il sistema del debito pubblico e il sistema tributario ad esso connesso, possiamo parlare di capitale complessivo sociale su base nazionale; e contemporaneamente di sistema di espropriazione e accumulazione complessiva collettiva: «L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso dei popoli moderni è il loro debito pubblico». (Marx, 2011, 829)

Alla luce di una recente rivisitazione[33] della nozione di debito pubblico in Marx – come una delle leve più energiche ed efficaci dell’accumulazione originaria e dell’accumulazione capitalistica in quanto tale – possiamo qui solo accennare al fatto che proprio l’aumento dell’entità del debito pubblico (che qui Marx considera in termini di capitale fittizio in tendenziale espansione inarrestabile), implicherebbe un’accelerazione del tasso di accumulazione per l’operare dei seguenti effetti: i) aumento della speculazione e formazione di una potente aristocrazia finanziaria, creditrice dello Stato, e perciò in grado di imporre un aumento della tassazione per la restituzione del debito, che vada a gravare quasi esclusivamente sul lavoro salariato. In tal senso, la crescita del debito pubblico eserciterebbe rilevanti effetti redistributivi a vantaggio di profitti e rendite, tramite compressione dei salari. L’emergere di questo ceto dominante anche in termini politici, si tradurrebbe nella capacità così ottenuta di decimare periodicamente salari e profitti soprattutto in tempo di crisi; ovvero di determinare una redistribuzione del reddito dai salari alle rendite, tramite tassazione dei salari e contestualmente un aumento (indiretto) del monte ore lavorato dalla classe operaia, per sopperire alla diminuzione salariale, come nuova forma di estrazione di plusvalore assoluto in regime capitalistico avanzato; ii) l’aumento della spesa pubblica e quindi del debito potrebbe accrescere la domanda. Il conseguente aumento dei fondi interni delle imprese consentirebbe loro di accrescere gli investimenti, con effetti potenzialmente positivi su occupazione e crescita, che a sua volta determinerebbe un aumento degli investimenti, da cui deriverebbe un incremento di crescita e di occupazione; iii) l’aumento della spesa pubblica per il welfare e quindi l’aumento del debito incentiverebbe la produttività del lavoro (in termini di estrazione di plusvalore relativo), con una positiva ripercussione sui profitti, sugli investimenti, sulla crescita e l’occupazione.

Tutto questo restituisce una visione altamente articolata del sistema capitalistico, ulteriormente complicata sia dal carattere di feticcio, che per eccellenza attiene al capitale del debito pubblico in quanto capitale produttivo d’interesse (D-D’ il feticcio automatico), il quale «come con un colpo di bacchetta magica […] conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare […]»; ma altresì dal fatto che tale sistema, nato su base nazionale (almeno a far tempo dalla fondazione della Banca d’Inghilterra nel 1694), si innesta all’interno di un sistema di crediti internazionali che Marx qui, ma poi soprattutto nel terzo libro, considererà come la via capitalistica all’espropriazione della proprietà privata borghese[34]: «[…] attraverso la centralizzazione dei capitali. Ogni capitalista ne ammazza molti altri. […] mentre tutti i popoli vengono via via aggrovigliati nella rete del mercato mondiale e così si sviluppa in misura sempre crescente il carattere internazionale del regime capitalistico.» (Marx, 2011, 838)

Ma il 24° capitolo si conclude a sorpresa con una citazione in nota del Manifesto, che prefigura addirittura la fine dell’era capitalistica attraverso la lotta di classe proletaria e popolare contro la classe degli usurpatori. A fronte di quanto però esposto finora da Marx, i toni qui utilizzati sembrano stridere con la claustrofobica descrizione del sistema Stato/capitale: definito come un’era geologica, un regime internazionale, ecc., che oltrepassa i limiti spazio temporali umanamente concepibili inglobando sotto di sé l’intero orbe terracqueo[35].

D’altra parte, come abbiamo accennato a proposito della lettura hegeliana del Nipote di Rameau, la critica o anche solo l’attitudine ribelle verso il sistema (tanto più se si pretende rivoluzionaria) può aver luogo solo sulla base di una presa di coscienza da parte di un soggetto agente all’interno del sistema stesso, in grado di restituire, innanzitutto nel linguaggio, il funzionamento contraddittorio della totalità in cui pure esso è ricompreso[36]. Avviene cioè su base culturale, e non strettamente economico-politica. Così almeno suggerirebbe Hegel. Ma di questo il Capitale non tratta; das Kapital non sembra lasciare spazio a prese di coscienza capaci di sovvertire l’ordine delle cose vigente[37]. E tanto meno ne tratta il 24° capitolo, le cui righe finali potremmo considerare tutt’al più come un amaro incoraggiamento alla lotta.


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Note
*Ringrazio R. Bellofiore, T. Redolfi Riva e S. Taccola per aver letto e commentato questo scritto, le cui imperfezioni, sviste e mancanze sono tutte mie.
[1] Hegel, 19886, 50: «[…] il quale intiero [lo spirito del mondo moderno cmf] si scinde nella sostanza come sostanza che permane e nella sostanza come sostanza che si sacrifica [die Substanz sich Aufopfernde].»
[2] Il potere dello Stato – il cammino di Dio nel mondo – si sacrifica al potere della ricchezza. Lo Stato moderno non può perciò essere definito “Stato etico”; d’altra parte questa espressione non compare mai nei testi hegeliani. Possiamo però parlare di eticità nello Stato. Non si tratta di un modello di Stato, piuttosto di come nella modernità il potere della ricchezza, della società civile, acquisisca carattere politico, cioè, per Hegel, carattere consapevolmente organico.
[3] Cfr. Hegel, 19886, 68 e ss. Ma soprattutto Diderot, 2013, 70 e ss.: «LUI: É duro essere un pezzente quando vi sono tanti ricchi imbecilli alle cui spalle si può vivere. E poi c’è il disprezzo di se stessi, che è insopportabile. […] Non v’è miglior ruolo presso i grandi che quello di gran buffone. Per molto tempo vi è stato il buffone titolare del re: mai vi è stato il saggio titolare del re. Io sono il buffone di Bertin e di molti altri, forse in questo momento il vostro; o voi forse il mio. Chi è saggio non deve avere un buffone. Perciò chi ha un buffone non è saggio; se non è saggio, è un buffone, e forse il buffone del suo buffone, fosse anche il re. Del resto, ricordatevi che in una materia così mutevole come i costumi non vi è nulla di assolutamente, di essenzialmente, di generalmente vero o falso, se non che bisogna essere ciò che l’interesse vuole che si sia: buoni o cattivi, saggi o buffoni, decorosi o ridicoli, onesti o viziosi. Se per caso la virtù avesse condotto alla fortuna, o sarei stato virtuoso o avrei simulato la virtù come gli altri. Mi hanno voluto ridicolo, e lo sono diventato: vizioso lo sono per natura. E quando dico vizioso, è per parlare il vostro linguaggio; perché se veniamo a una spiegazione, potrebbe darsi che voi chiamate vizio quel che io chiamo virtù, e virtù quel che io chiamo vizio».
[4] Le classi hegeliane sono propriamente ceti, ma ciò che qui si vuole evidenziare è l’essenziale legame relazionale delle opposte ideologie ovvero delle classi contrapposte.
[5] «Opposta è la guisa di questo rapporto: l’una è comportamento verso la potenza statale e verso la ricchezza come verso un che di eguale; l’altra come verso un che di diseguale. – La coscienza del rapporto d’eguaglianza è la coscienza nobile […]. Viceversa, la coscienza dell’altro rapporto è la coscienza spregevole […]. […] questo rapporto esteriore dovrà elevarsi a interiore unità, o, come rapporto del pensare, a effettualità; […]. Questo accade allorché il giudizio diviene sillogismo» Hegel, 19886, pp. 56-57.
[6] Cfr. De Bortoli, 2007, 88n: «Con il “linguaggio dell’adulazione”, il potere dello Stato assume la forma della monarchia assoluta […]. Il Sé si rivolge al potere dello Stato con il nome proprio del monarca: nella coscienza di tutti il singolo individuo è collocato al vertice del potere. Il potere statale cessa così di essere quello che era stato fino ad allora – ossia un’entità monolitica, teocratica, astratta – e prende coscienza di sé come singolo individuo: “mediante il nome il potere è il monarca” […]. Tuttavia nel momento in cui Luigi XIV afferma “Lo Stato sono io”, il potere ha in realtà già abbandonato la corte di Versailles ed è passato alla ricchezza, ovvero alle banche, ai finanzieri, ai poteri economici. Si tratta della solita movenza hegeliana: quando una forma (in questo caso la monarchia) raggiunge la sua maturità (diventa assoluta), essa dilegua».
[7] Cfr. Marx, 1983.
[8] Cfr. Finelli, 2014, 213-272
[9] Massimiliano Tomba parla piuttosto di sincronizzazione distinguendo nettamente Marx da Hegel. Cfr. Tomba, 2011, 278 e ss.
[10] «In quel lato del ritorno nel Sé, la fatuità di ogni cosa è la fatuità propria del ; ovverosia esso è fatuo.» Hegel, 19886 , 76.
[11] Su questo cfr. Fabiani, 2011, 155 e ss.
[12] Cfr. Losurdo, 1992, 204 e ss.
[13] Cfr. Valentini, 2001, 139 e ss.
[14] La genesi della plebe hegeliana è principalmente riconducibile alla disoccupazione tecnologica di massa. Cfr. fra gli altri F. Valentini, 2001, 23-60 e 115-142.
[15] Se il denaro puro e semplice – dice Marx – si trasforma in capitale e da questo si trae il plusvalore e dal plusvalore di nuovo capitale, questo processo di «accumulazione del capitale presuppone il plusvalore e il plusvalore la produzione capitalistica e questa presuppone a sua volta la presenza di masse di capitale e di forza-lavoro di entità considerevole in mano ai produttori di merci.» (Marx, 2011, 787) L’accumulazione presuppone l’accumulazione: il capitale presuppone il plusvalore, ma il plusvalore presuppone il capitale. La produzione capitalistica presuppone se stessa e dunque è eterna. Ma è una cattiva eternità quella che la contraddistingue, poiché tautologica e mitica.
[16] «La struttura economica della società capitalistica è derivata dalla struttura economica della società feudale. La dissoluzione di questa ha liberato gli elementi di quella.» (Marx, 2011, 789).
[17] «Una volta autonoma, la produzione capitalistica non solo conserva quella separazione, ma la riproduce su scala sempre crescente.» (Marx, 2011, 788). Il rapporto capitalistico, inizialmente posto in essere da forze extraeconomiche che determinano la dissoluzione del sistema feudale, acquisisce successivamente la capacità di riprodursi da sé. Occorre chiedersi se lo Stato sia da considerarsi come mera forza extraeconomica, che agisce all’inizio accelerando la dissoluzione della struttura economica feudale, contribuendo a dare vita a un sistema economico che da quel contributo poi si emancipa; ovvero se lo Stato moderno sia già di per sé un sistema organico di forze economiche ed extraeconomiche che come tale imprime forma sistemica a quel rapporto di produzione ancora in fieri.
[18] Vd. il già citato Finelli, 2014.
[19] Francesca Coin ritiene che quella parte di proletariato eslege, che non entra poi a regime a far parte dell’esercito industriale di riserva in senso stretto, si possa identificare con il lumpenproletariato: «[…] il lumpenproletariato […] diviene la denominazione del proletariato eslege in ambito dominato ormai dal codice del lavoro salariato.» [Coin, 2004, 57-58.] Ciò che a mio avviso va ulteriormente sottolineato è l’esito eliminazionista a cui quella parte di proletariato va incontro, sia al suo sorgere come eslege, sia al suo successivo e ciclico riprodursi come lumpenproletariato. Riccardo Bellofiore sottolinea la non piena coincidenza fra sovrappopolazione operaia ed esercito industriale in senso stretto, nonché l’accezione negativa insita nella nozione di lumpenproletariato. Ma su questo vd. infra.
[20] Il Notrecht rende radicalmente etico-riconoscitivo lo Stato hegeliano, secondo una tradizione interpretativa che fa capo a Eric Weil, ripresa poi soprattutto in Italia, fra gli altri, da F. Valentini, L. Sichirollo, R. Bodei e D. Losurdo.
[21] Cfr. Finelli, 2018.
[22] Marx, 2011, 811 e ss.. Il riferimento esplicito di Marx è al capitolo 23°. Secondo Riccardo Bellofiore, il tema fondamentale affrontato qui da Marx viene anticipato già nei capitoli precedenti. Affinché vi sia valorizzazione, riproduzione allargata e accumulazione del capitale, deve esserci disponibile una certa quantità di nuovi lavoratori, la quale non proviene certo, come pensava Malthus, da una legge naturale della popolazione. Secondo Marx, al contrario, è lo stesso capitale in grado di provvedere a se stesso la forza lavoro di cui necessita, producendo e riproducendo una sovrappopolazione relativa e quindi un esercito industriale di riserva. I due concetti, sostiene Bellofiore, sebbene si coprano largamente, non si identificano. Ed è questo il punto fondamentale che qui ci interessa. L’eslege originario si ripropone, all’interno del sistema di lavoro salariato pienamente vigente, sotto la categoria di pauperismo, che costituirebbe la differenza fra la sovrappopolazione operaia (fluida, latente, stagnante) e l’esercito industriale in senso stretto. Vd. Bellofiore, 2016.
[23] L’esempio riportato da Marx a proposito della fine dei celti di alta Scozia è particolarmente significativo in tal senso, da assimilare ai metodi di sterminio attuati nelle colonie: «Dal 1814 al 1820 questi 15.000 abitanti […] vennero sistematicamente cacciati e sterminati. Tutti i loro villaggi furono distrutti e rasi al suolo per mezzo del fuoco […]. Soldati britannici vennero comandati a eseguire quest’impresa […]. Nell’anno 1825, i 15.000 gaelici erano già sostituiti da 131.000 pecore.» (Marx, 2011, 804-5). Nella nota 218 (ivi., p. 805) lo stesso Marx istituisce una stretta comparazione fra sterminio/schiavismo/tratta dei negri e destino dei gaelici.
[24] Lavoro astratto ovvero sostanza di valore nella doppia accezione di carattere eguale umano generico del dispendio di lavoro vivo da parte della forza-lavoro nell’ambito del processo produttivo, ma anche contestualmente validazione monetaria che avviene nella sfera circolatoria del lavoro socialmente necessario nella produzione. L’astrazione categoriale in entrambi i casi presuppone una fenomenologia dell’eliminazione verso quella disponibilità di lavoratori che eccede ex ante (e poi di nuovo ciclicamente), la massa complessiva di lavoro vivo necessario alla riproduzione allargata del sistema. Intervengono ovviamente anche incompatibilità sociali e di tenuta complessiva del sistema politico, che rendono l’eccedenza insostenibile, indomabile e dunque da eliminare. Di tutto questo si occupa lo Stato, non il capitale.
[25] L’arcano della produzione di una popolazione operaia in eccesso è così svelato da Marx: «[…] non è il lavoratore che impiega i mezzi di lavoro bensì sono i mezzi di lavoro che impiegano il lavoratore, in questo modo: quanto più alta è la forza produttiva del lavoro, tanto più grande è la pressione dei lavoratori sui mezzi della loro occupazione […] l’aumento dei mezzi di produzione e della produttività del lavoro più rapido di quello della popolazione produttiva si esprime, quindi, capitalisticamente, nell’affermazione che la popolazione lavoratrice cresce sempre più rapidamente del bisogno di valorizzazione del capitale.» (Marx, 2011, 714).
[26] «Si vede dunque che il parlamento inglese ha rinunciato solo di controvoglia e sotto la pressione delle masse alle leggi contro gli scioperi e le Trades’Unions, dopo aver tenuto esso stesso, per cinque secoli, con egoismo spudorato la posizione di una Trade Union permanente dei capitalisti contro i lavoratori» (Marx, 2011, 815).
[27] «Se il denaro […] “viene al mondo con una voglia di sangue in faccia”, il capitale viene al mondo grondante sangue e sudiciume dalla testa ai piedi, da tutti i pori» (Marx, 2011, 835; ivi, n. 250).
[28] Cfr. Marx, 2011, 713. La nozione di sottoproletariato non soddisfa qui Marx, poiché ciò che si vuole evidenziare non è tanto la condizione di emarginazione socio-antropologica in cui versa questo strato della sovrappopolazione, quanto piuttosto la necessità (come vedremo, contraddittoria e antagonistica) con la quale tale segmento di popolazione proletaria deve essere costantemente riprodotto su base capitalistica: «La sua [del pauperismo] produzione è compresa nella produzione della sovrappopolazione relativa, la sua necessità nella necessità di questa […]».
[29] «Il fatto che l’aumento naturale della massa dei lavoratori non saturi i bisogni di accumulazione del capitale e tuttavia li superi al tempo stesso, costituisce una contraddizione del movimento stesso del capitale.» (Marx, 2011, 710).
[30] Sul rapporto dialettico spazio/tempo riferito al modo di produzione capitalistico vd. Tomba e Vertova, 2014, 14 e ss.
[31] Cfr. Marx, Engels, 2008.
[32] Si veda, su questo, il saggio di M. G. Meriggi infra.
[33] Cfr. Forges Davanzati e Patalano 2017.
[34] Il nodo teorico fondamentale che inerisce al sistema del credito e al sistema finanziario in termini marxiani, credo sia messo perfettamente in luce dalla seguente citazione: «Nella misura in cui il sistema finanziario si nutre della sua propria circolazione, pur partecipando al finanziamento della riproduzione capitalistica, esso produce all’infinito…dei capitalisti monetari. Il suo carattere parassitario è indissociabile dal suo ruolo funzionale.» (De Brunhoff, 1973, 98) ma su questo, oltre a tutta la V sezione del III libro si vedano gli articoli di Marx sul Credit Mobilier (Marx, 1993).
[35] Tanto più appare problematica l’organizzazione della lotta di classe su scala globale nei termini prefigurati dal Manifesto, date le condizioni del capitalismo attuale, descritte da Bellofiore nei termini di «[…] una vera e propria ‘centralizzazione’ senza ‘concentrazione’: un fenomeno inedito rispetto al mondo immaginato dall’autore del Capitale. […] Tutto ciò [contribuisce] evidentemente a tenere il mondo del lavoro nella morsa dell’insicurezza e della precarizzazione. […] Il risparmiatore in fase maniacale che si fa consumatore indebitato contribuisce dunque a determinare quei processi che hanno il lavoratore traumatizzato come loro prodotto, e incidono concretamente sui modi dell’estrazione del plusvalore. Per questo la sussunzione del mondo del lavoro alla finanza e al debito non è più solo ‘formale’, ma si fa anche pienamente ‘reale’» (Bellofiore, 2012, 59 e ss.).
[36] «[…] come l’autocoscienza aveva un suo linguaggio “nei confronti del potere dello Stato [gegen die Staatsmacht]” – “il linguaggio dell’adulazione” – così ora essa “ha anche un suo linguaggio nei confronti della ricchezza [hat es auch Sprache gegen den Reichtum]” – il “linguaggio della disgregatezza” – “ma ancora di più la sua rivolta ha un proprio linguaggio [noch mehr aber hat seine Empörung ihre Sprache]”. Il linguaggio dell’autocoscienza nei confronti della ricchezza, ossia il “linguaggio della disgregatezza”, si caratterizza quindi come il linguaggio della rivolta.» (De Bortoli, 2007, 88-89).
[37] È lo stesso Marx a sostenere che, nonostante si riesca a comprendere il carattere di feticcio che s’appiccica a tutto ciò che cade nell’immane mondo delle merci, tuttavia tale carattere non scompare.

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