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intrasformazione

Marx, Il Capitale, I, (5-9). Una guida per principianti

di Antonino Morreale

AO2kzM4gzN5gDO4cTONel primo libro del Capitale, col capitolo 4, la “trasformazione del denaro in capitale”, Marx ha chiuso la sua vacanza “logico-deduttiva”, “hegeliana”, per scaraventarsi nel mondo. Il “denaro” si è trasformato in “capitale”, grazie al casuale ritrovamento di qualcosa di particolare, la forza-lavoro che lo ha fatto crescere. Una volta afferrato il concetto del capitale è possibile riconoscerlo nella storia ed esporne lo sviluppo. La logica ha guidato la ricerca storica. Giunti a questo, il capitale ormai non si può più permettere di lasciare ai ritrovamenti casuali del plusvalore “assoluto” il proprio destino storico, perciò ha creato il proprio presupposto, il proprio plusvalore specifico, unico “relativo” a sé. Ha provato a chiudere il cerchio per garantirsi un’esistenza eterna, circolare, una “circulata melodia”. Da adesso, è di questo che Marx si occuperà.

 

Cap.5 Processo lavorativo e processo di valorizzazione

“L’uso della forza-lavoro è il lavoro stesso. Il compratore della forza-lavoro la consuma facendo lavorare il venditore di essa. Per tale via, quest’ultimo diviene actu forza-lavoro che si attua, lavoratore, ciò che prima era solo potentia”1.

Anche se, come si vedrà, è faticoso e poco lineare, questo capitolo ha una importanza speciale. Marx vi svela il sorgere del “plusvalore assoluto”.

Processo lavorativo

Ripartiamo da lì, dal finale del cap. 4; dal teatrino messo in scena dal capitalista. Da una parte l’acquisto di forza-lavoro da parte del “sorridente e significativamente compiaciuto”, “possessore di denaro”, che “marcia in testa come capitalista”; dall’altra, “il possessore della forza-lavoro”, “timido, riluttante” che “non ha da aspettarsi altro che la -concia”2.

“L’uso della forza-lavoro è il lavoro stesso”3. Vediamoli adesso all’opera, all’aprirsi del capitolo quinto. Cosa produrrà?

“Il processo lavorativo produce valori d’uso, “cose”, che servono alla soddisfazione di bisogni di un genere qualsiasi. È dunque un valore d’uso particolare, un articolo determinato che il capitalista fa approntare al lavoratore. La produzione di valori d’uso ovvero di beni, non cambia la sua natura universale per il fatto che essa avvenga per il capitalista e sotto il suo controllo. Il processo lavorativo è perciò da considerare dapprima indipendentemente da ogni forma sociale determinata”4.

E qui Marx apre una questione teorica di grande importanza: la distinzione tra “processo lavorativo” e “processo di valorizzazione”.

“Il lavoro è, in primo luogo, un processo fra uomo e natura, un processo in cui, per mezzo della propria azione, egli media, regola e controlla, il proprio ricambio materiale organico con la natura. L’uomo sta di fronte alla materia naturale stessa come potenza naturale. Per appropriarsi della materia naturale in forma utilizzabile per la propria vita, egli mette in movimento braccia e gambe, testa e mani, le forze naturali che appartengono alla sua corporeità. Agendo, attraverso questo movimento, sulla natura al di fuori di sé e modificandola, egli modifica contemporaneamente la natura propria”5.

Altrove aggiunge: “prescindendo dalle sue forme storiche, come processo fra uomo e natura”6. Marx quindi prova a precisare meglio i tempi:

“Noi non abbiamo qui a che fare con le prime forze di tipo animale e istintive del lavoro. Allo stadio in cui il lavoratore compare sul mercato delle merci come venditore della propria forza-lavoro, quello stadio in cui il lavoro umano ancora non si era spogliato delle sue forme istintive è proiettato su uno sfondo primordiale. Noi presupponiamo il lavoro in una forma in cui esso appartiene esclusivamente all’uomo”7.

In prima approssimazione, è, dunque, uno stadio “storico” e generico:

“I momenti semplici del processo lavorativo sono l’attività conforme allo scopo, ovvero il lavoro stesso, il suo oggetto e il suo mezzo”8.

La terra è “l’oggetto universale del lavoro umano”9;” come è la sua originaria dispensa di cibarie, così la terra è il suo originario arsenale di mezzi di lavoro”10.

Per lavorare, tra l’uomo e la natura ”il mezzo di lavoro è una cosa o un complesso di cose che il lavoratore introduce fra sé e l’oggetto di lavoro e che gli servono da conduttore della propria attività su questo oggetto”11.

Entriamo, dopo queste indicazioni, nel vivo del ragionamento:

“…l’uso e la creazione di mezzi di lavoro caratterizzano il processo lavorativo specificamente umano e Franklin definisce perciò l’uomo come “a toolmaking animal”, un animale che fabbrica strumenti di lavoro. La stessa importanza che ha la struttura dei reperti ossei per la conoscenza della organizzazione delle specie animali estinte, ce l’hanno i reperti dei mezzi di lavoro per giudicare le formazioni economiche delle società estinte. Non che cosa viene fatto, bensì come, con quali mezzi di lavoro distingue le epoche economiche. I mezzi di lavoro non sono soltanto gradimetri dello sviluppo della forza-lavoro umana, bensì anche indicatori dei rapporti sociali in cui si lavora”12.

“Nel processo lavorativo, dunque, attraverso il mezzo di lavoro, l’attività dell’uomo provoca una modificazione dell’oggetto di lavoro, scopo a cui si mirava sin dal principio. Il processo si estingue nel prodotto. Il suo prodotto è un valore d’uso, una materia naturale, resa appropriata ai bisogni umani attraverso la modificazione di forma”13.

Queste righe toccano molte e diverse questioni. Si porta, anzitutto, l’attenzione al come qualcosa vien fatto piuttosto che a cosa viene fatto. Marx ripropone il tema della “forma”, concetto- chiave del proprio universo concettuale.

Marx modella una astrazione, il “processo lavorativo”: lavoro-oggetto-mezzo.

Non può, in questa fase della sua esposizione, fare altro che lavorare su un ibrido, una impossibile realtà. “Se osserviamo l’intero processo dal punto di vista del suo risultato, del prodotto, sia il mezzo di lavoro che l’oggetto di lavoro si manifestano come mezzi di produzione e il lavoro stesso come lavoro produttivo”14.

” Il lavoro consuma i propri materiali, il proprio oggetto e il proprio mezzo, se ne alimenta ed è dunque processo e consumo. Questo consumo produttivo si distingue dal consumo individuale per il fatto che quest’ultimo consuma i prodotti come mezzi di sussistenza dell’individuo vivente, il primo come mezzi di sussistenza del lavoro, della sua forza-lavoro che si attua. Il prodotto del consumo individuale è perciò il consumo stesso, il risultato del consumo produttivo è un prodotto distinto da colui che consuma”15.

“Tuttavia, come il processo lavorativo si svolge originariamente solo tra l’uomo e la terra che è a sua disposizione senza il suo intervento, in esso servono sempre, ancora, anche certi mezzi di produzione che, disponibili in natura, non espongono alcuna combinazione di materia naturale e lavoro umano”16.

” Per come lo abbiamo esposto nei suoi momenti semplici e astratti, il processo lavorativo è attività conforme a scopo per la produzione di valori d’uso, appropriazione dell’elemento naturale per bisogni umani, condizione universale del ricambio materiale organico fra uomo e natura, eterna condizione di natura della vita umana e perciò indipendente da ogni forma di questa vita, anzi comune, in maniera eguale, a tutte le forme di società. Non era per noi necessario dunque esporre il lavoratore in rapporto con altri lavoratori. Bastavano l’uomo ed il suo lavoro da una parte, la natura ed i suoi materiali dall’altra”17.

Sul rapporto tra natura e storia:

“Animali e piante, che si suole trattare come prodotti naturali, non solo sono prodotti del lavoro forse dell’anno passato, ma, nelle loro forme attuali, sono prodotti di un mutamento portato avanti da molte generazioni attraverso il lavoro umano, sotto il controllo umano. Per quanto riguarda in particolare i mezzi di lavoro, la stragrande maggioranza di essi mostra anche ad uno sguardo superficiale la traccia del lavoro passato”18.

È un richiamo a quanto scritto nella Ideologia tedesca 19.

“Entrando come mezzi di produzione in nuovi processi lavorativi, i prodotti perdono perciò il carattere di prodotto. Essi funzionano ancora solo come fattori oggettuali del lavoro vivo” 20.

” Se, dunque, i prodotti disponibili non sono solo risultati ma anche condizioni d’esistenza del processo lavorativo, d’altro lato, essere immessi nel processo lavorativo, dunque il contatto col lavoro vivo, è l’unico mezzo per conservare e rendere effettuali come valori d’uso questi prodotti del lavoro passato”.

Condurre dalla morte alla vita: è questo il compito del lavoro “vivo”:

” Una macchina che non serva nel processo lavorativo è inutile. Inoltre diviene preda del potere distruttivo del ricambio materiale organico naturale. Il ferro arrugginisce, il legno marcisce, il filo che non viene tessuto o lavorato a maglia è cotone rovinato. Il lavoro vivo deve afferrare queste cose, destarle dalla morte, trasformarle da valori d’uso solo possibili in valori d’uso effettuali ed operanti. Lambite dal fuoco del lavoro, divenute sua carne, insufflate dell’anima per le loro funzioni conformi al concetto e alla destinazione essi verranno certamente consumati, ma con uno scopo, come elementi costitutivi di nuovi valori d’uso, di nuovi prodotti, capaci di entrare come mezzi di sussistenza nel consumo individuale o come mezzi di produzione nel nuovo processo lavorativo.

Se, dunque, i prodotti disponibili non sono solo risultati ma anche condizioni d’esistenza del processo lavorativo, d’altro lato, essere immersi nel processi lavorativo, dunque il contatto col lavoro vivo, è l’unico mezzo per conservare e rendere effettuali come valori d’uso questi prodotti del lavoro passato” 21.

È qui la chiave del rapporto fondamentale tra lavoro vivo e morto, e della centralità del primo attorno a cui l’altro deve ruotare (lavoro salariato e capitale, non viceversa).

Qui Marx cerca di tenersi, per necessità di metodo, vicino al grado zero: natura universale, eterna, indipendente da tutte le forme di società.

Ed è quanto tornerà a ribadire quando, nel cap.14 (Plusvalore assoluto e relativo), in apertura della sezione quinta, tirerà le somme sull’argomento:

“Il processo lavorativo è stato dapprima considerato astrattamente (vedi cap. quinto), prescindendo dalle sue forme storiche, come processo fra uomo e natura”.

Ma adesso si tratta di “sviluppare ulteriormente questo punto”.

Mentre “nel sistema di natura mano e cervello vanno insieme, il processo lavorativo unisce lavoro manuale e lavoro cerebrale. Successivamente essi si scindono in ostile opposizione. Da prodotto immediato del produttore individuale, il prodotto si trasforma in genere in un prodotto sociale, prodotto comune di un lavoratore complessivo”.

Il singolo è diventato “organo del lavoratore complessivo”.

“Col carattere cooperativo dello stesso processo lavorativo si estende perciò necessariamente il concetto di lavoro produttivo e del suo portatore, il lavoratore produttivo” 22.

Mentre “d’altro lato il concetto di lavoro produttivo si restringe. La produzione capitalistica non è solo produzione di merce, essa è essenzialmente produzione di plusvalore”.

(…) E’ produttivo solo quel lavoratore che produce plusvalore per il capitalista o che serve all’autovalorizzazione del capitale” 23.

Si stabilisce “un rapporto specificamente sociale, un rapporto di produzione venuto fondandosi storicamente, che imprime al lavoratore il marchio di mezzo immediato di valorizzazione del capitale. Essere lavoratore produttivo non è perciò una fortuna, ma una scalogna”24.

Questione che, annuncia Marx, “si vedrà meglio” nel quarto libro sulla “storia della teoria” coi fisiocratici: “l’economia politica classica ha fatto da sempre della produzione di plusvalore la caratteristica decisiva del lavoro produttivo”25.

E su questo si regge la considerazione marxiana sull’intera economia politica classica.

Dopo questa digressione, fondamentale per tenere distinti i due “processi”, Marx prosegue: “Ritorniamo al nostro capitalista in spe”, e al “possessore di forza-lavoro”.

L’aveva lasciato “sorridente e compiaciuto, bramoso d’affari”, dopo che ha preparato tutto: “si appresta, dunque, a consumare la merce comprata, la forza lavoro, vale a dire fa consumare i mezzi di produzione al portatore della forza-lavoro, al lavoratore, per mezzo del suo lavoro”.

È tutto pronto per cominciare a lavorare. E, subito, l’astrazione finora costruita da Marx deve tornare a fare i conti con i primi insulti della storia:

“La natura universale del processo lavorativo non cambia naturalmente per il fatto che il lavoratore non lo esegua per sé stesso ma per il capitalista. Ma dapprima neppure la maniera determinata con cui fa stivali o fila refe cambia con l’intromissione del capitalista. Da principio egli deve prendere la forza-lavoro come la trova disponibile sul mercato, dunque anche il suo lavoro come è sorto in un periodo in cui ancora non c’erano capitalisti. La trasformazione del modo di produzione stesso attraverso la subordinazione del lavoro sotto il capitale la si può ottenere solo successivamente e perciò da trattarsi solo successivamente”26.

Ci sono almeno due novità:

“Svolgendosi come processo di consumo della forza-lavoro da parte del capitalista il processo lavorativo mostra ora due fenomeni peculiari”.

“Il lavoratore lavora sotto il controllo del capitalista al quale appartiene il suo lavoro”. (..) “..il prodotto è proprietà del capitalista, non del produttore immediato, del lavoratore” 27.

A monte e a valle il posizionamento del capitalista appare soft ma è strategico. Il capitalista “deve prendere la forza-lavoro come la trova disponibile sul mercato, dunque anche il suo lavoro come è sorto in un periodo in cui ancora non c’erano capitalisti”.

” In secondo luogo, però, il prodotto è proprietà del capitalista, non del produttore immediato, del lavoratore. Il capitalista paga, per es. il valore giornaliero della forza-lavoro. Il suo uso (..)gli appartiene dunque per la giornata. Al compratore della merce appartiene l’uso della merce, e, dando il proprio lavoro, il possessore della forza-lavoro dà di fatto solo il valore d’uso da lui venduto. Il valore d’uso della sua forza- lavoro, dunque il suo uso, il lavoro, è appartenuto al capitalista dall’attimo in cui è entrato nella sua officina. Grazie alla compera della forza-lavoro il capitalista ha incorporato il lavoro stesso come vivo fermento nei morti elementi costitutivi del prodotto che parimenti gli appartengono.

Dal suo punto di vista, il processo lavorativo è solo consumo della merce forza-lavoro da lui comprata che egli tuttavia può solo consumare in quanto le aggiunge i mezzi di produzione. Il processo lavorativo è un processo fra cose che il capitalista ha comprato, fra cose che gli appartengono. Il prodotto di questo processo gli appartiene perciò, proprio allo stesso modo in cui gli appartiene il prodotto del processo di fermentazione della sua cantina”28.

È un punto su cui Marx insisterà più volte: il capitalismo per nascere non necessita di particolari precondizioni. Crescerà divorando tutto quel che trova: sistemi primitivi e patriarcali, feudali o mercantili, molto o poco sviluppati. È di bocca buona. Gli basterà, intanto, come nel caso qui illustrato, assicurarsi il “controllo” sul lavoratore, e l’appropriazione del suo prodotto. Il resto verrà da sé: il lavoro è ancora nel cerchio più largo del gorgo, ma è già dentro.

Il processo di valorizzazione

” Il prodotto- proprietà del capitalista – è un valore d’uso, refe stivali, ecc.(..) Il valore d’uso in genere non è cosa “qu’on aime pour lui-même” nella produzione di merci. Valori d’uso vengono qui prodotti solo perché, e nella misura in cui sono sostrato materiale, portatori di valore di scambio. E al nostro capitalista premono due cose. In primo luogo vuole produrre un valore d’uso che abbia un valore di scambio(..)una merce. Ed in secondo luogo vuole produrre una merce il cui valore sia superiore alla somma di valore delle merci richieste per la sua produzione (..). Non vuole produrre solo un valore d’uso, ma una merce, e non solo un valore d’uso ma valore, e non solo valore, ma anche plusvalore” 29.

Quindi la produzione di valori d’uso è diventata solo un mezzo per realizzare il vero scopo, il plusvalore. È un crescendo in cui il “valore d’uso” è inghiottito dal valore di scambio, e questo dal plusvalore. È quest’ultimo, dalla fine, a governare l’intero processo. Il verso del tempo s’è rovesciato. Il presente è teleologicamente orientato, governato dal futuro, e pertanto anche l’astrazione di metodo precedente è inglobata nel procedere reale:

“In realtà, trattandosi qui di produzione di merci, finora abbiamo considerato solo un lato del processo. Come la merce stessa è unità di valore d’uso e valore, il suo processo di produzione deve essere unità di processo lavorativo e processo di costituzione di valore. Consideriamo ora il processo di produzione anche come processo di costituzione di valore”.

Il capitalista svolge un ruolo attivo e consapevole, tiene gli occhi ben aperti. Gli preme che il suo valore d’uso prodotto abbia un valore di scambio; ma vuole anche che abbia un valore superiore alla somma di valore richiesta per produrla, un plusvalore.

Facciamo dei conti:

” Sappiamo che il valore di ogni merce è determinato dal quantum di lavoro materializzato nel suo valore d’uso, dal tempo di lavoro socialmente necessario alla sua produzione. Questo vale anche per il prodotto che il nostro capitalista ha ottenuto come risultato del processo lavorativo. In primo luogo dobbiamo dunque calcolare il lavoro oggettualizzato in questo prodotto”30.

Diamo per note le fasi in questione e concludiamo:

”Nella misura in cui, dunque, viene considerato il valore del refe, il tempo lavoro richiesto alla sua produzione, i particolari processi lavorativi, diversi, separati nello spazio nel tempo - …- vengono trattati come fasi successive diverse di un unico e dello stesso processo lavorativo”31.

Da adesso il punto di vista cambia.

“Adesso dobbiamo considerare il lavoro da un punto di vista del tutto diverso rispetto a quanto fatto nell’ambito del processo lavorativo. Là si trattava dell’attività conforme a scopo, trasformare il cotone in refe (…). Il lavoro del filatore era specificamente diverso dagli altri lavori produttivi (…). Cotone e fuso servono da mezzi di sussistenza del lavoro di filatura, ma con essi non si possono fare cannoni rigati. Nella misura in cui, invece, il lavoro del filatore è costitutivo di valore, cioè fonte di valore, esso non è affatto diverso dal rigatore di cannoni(..). Qui non si tratta più della qualità, delle fattezze e del contenuto del lavoro, bensì solo della sua quantità. Questa va semplicemente contata”32.

“È ora d’importanza decisiva che per la durata del processo, cioè nella trasformazione del cotone in refe, venga consumato solo il tempo di lavoro socialmente necessario (…). Perché solo il tempo di lavoro socialmente necessario conta come costitutivo di valore.

Come il lavoro stesso, così la materia prima e il prodotto si manifestano qui in una luce del tutto diversa rispetto a quella che si ha dal punto di vista del processo lavorativo vero e proprio. La materia prima vale qui solo come succhiatrice di un determinato quantum di lavoro”33.

Facciamo il bilancio. Vediamo ora che il valore complessivo del prodotto ammonta a 15 scellini. Quindici erano e tanti sono adesso:

“Il nostro capitalista si adombra. Il valore del prodotto è uguale al valore del capitale anticipato. Il valore anticipato non si è valorizzato, non ha prodotto plusvalore, il denaro non si è trasformato in capitale”34.

Ma ecco il colpo di teatro:

“Ma frattanto, ridendosela allegramente, egli ha già riassunto la sua antica fisionomia. Con quella litania si è fatto beffe di noi(..)35.

“Osserviamo meglio. Il valore giornaliero della forza-lavoro ammonta a 3 scellini perché in essa è oggettualizzata mezza giornata di lavoro, vale a dire perché i mezzi di sussistenza necessari quotidianamente alla produzione della forza-lavoro costano una mezza giornata di lavoro. Ma il lavoro passato racchiuso nella forza-lavoro e il lavoro vivo che esso può fornire, i suoi costi giornalieri di conservazione ed il suo dispendio giornaliero sono grandezze del tutto diverse. Il primo determina il suo valore di scambio, l’altro costituisce il suo valore d’uso. Che sia necessaria una mezza giornata lavorativa per conservarlo in vita per 24 ore non impedisce affatto al lavoratore di lavorare per una giornata intera. Il valore della forza-lavoro e la sua valorizzazione nel processo lavorativo sono dunque due grandezze diverse. È questa differenza di valore che il capitalista teneva di mira quando ha comprato la forza-lavoro. La sua proprietà utile di fare refe o stivali era solo una conditio sine qua non perché, per costituire valore, il lavoro deve essere speso in forma utile. La cosa decisiva era però il valore d’uso specifico di questa merce, essere fonte del valore e di più valore di quanto essa stessa non ne abbia. Questo è il servizio specifico che il capitalista si aspetta da essa. Ed egli procede in modo conforme alle eterne leggi dello scambio delle merci. Infatti, il venditore di forza-lavoro, come il venditore di ogni altra merce, realizza il proprio valore di scambio e aliena il proprio valore d’uso. Non può ottenere l’uno senza dar via l’altro. Il valore d’uso della forza-lavoro, il lavoro stesso, appartiene tanto poco al suo venditore quanto il valore d’uso dell’olio venduto appartiene al commerciante d’olio. Il possessore di denaro ha pagato il valore giornaliero della forza-lavoro; a lui perciò appartiene l’uso di essa per una giornata, il lavoro di una giornata. La circostanza che la conservazione giornaliera della forza-lavoro costi solo una mezza giornata lavorativa, benché la forza-lavoro possa agire, lavorare un’intera giornata, che perciò il valore che il suo uso crea nel corso di una giornata sia di grandezza doppia rispetto al suo valore giornaliero, è una particolare fortuna per il compratore, ma non è affatto una violenza nei confronti del venditore.

Il nostro capitalista ha previsto questo caso, che lo fa ridere. In officina, perciò, il lavoratore non trova i mezzi di produzione necessari per un processo lavorativo di sei ore, bensì di uno di dodici”36.

Ora il gioco riesce; tutto va come deve:

” La magia è infine riuscita. Il denaro è trasformato in capitale.

Tutti i termini del problema sono risolti e le leggi dello scambio di merci non sono state minimamente violate”37.

Il punto di vista adottato a fini metodologici da Marx, e tenuto su cogli spilli, viene sconvolto. Il cambiamento radicale avviene dentro il luogo di produzione.

“Questo intero processo – la trasformazione del suo denaro in capitale – ha luogo e non ha luogo nella sfera della circolazione. Vi ha luogo grazie alla mediazione della circolazione, perché ne è condizione la compera della forza-lavoro sul mercato delle merci. Non ha luogo nella circolazione perché essa solo introduce il processo di valorizzazione che ha luogo nella sfera della produzione”38.

Bisognava entrare dunque - questa è la grande novità - nel mondo della produzione perché la “magìa” si realizzasse. Qui l’incorporazione del lavoro vivo da parte del capitale, lavoro morto, avvia un processo che è sempre lavorativo, ma realizza anche valorizzazione:

“In quanto il capitalista trasforma denaro in merci che servono da costituenti materiali di un nuovo prodotto, ossia da fattori del processo lavorativo, in quanto egli incorpora lavoro vivo nella loro morta oggettualità, egli trasforma valore – lavoro passato, oggettualizzato, morto - in capitale, valore che si valorizza, mostro animato che inizia a “lavorare” come se avesse amor in corpo”39.

Marx non chiude su queste parole e metafore “gotiche”, ma apre, alla fine del capitolo, un altro fondamentale tema che svilupperà nei capitoli 6-8:

“Adesso dobbiamo considerare il lavoro da un punto di vista del tutto diverso rispetto a quanto fatto nell’ambito del processo lavorativo”40.

Qui c’è un punto decisivo: “Nella misura in cui, invece, il lavoro è costitutivo di valore, cioè fonte di valore, esso non è affatto diverso dal lavoro di rigatore di cannone, ovvero, nel nostro esempio, dai lavori di chi fa fusi e di chi pianta cotone...

Qui non si tratta più della qualità, delle fattezze e del contenuto del lavoro, bensì solo della sua quantità. Questa va semplicemente contata”.

È il “tempo”, ora, a regolare tutto.

Le sue legge è quella del “tempo di lavoro socialmente necessario”, perché solo esso “conta come costitutivo di valore”.

Perché “è dispendio di forza-lavoro, non in quanto è il lavoro specifico del filare” (..).

“E’ ora d’importanza decisiva che per la durata del processo, cioè della trasformazione del cotone in refe, venga consumato solo il tempo di lavoro socialmente necessario”41.

Cambia tutto.

“Come il lavoro stesso, così la materia prima e il prodotto si manifestano qui in una luce del tutto diversa rispetto a quella che si ha dal punto di vista del processo lavorativo vero e proprio”.

“La materia prima vale qui solo come succhiatrice di un determinato quantum di valore. Attraverso questa suzione essa si trasforma infatti in refe, perché viene spesa, e le viene aggiunta, forza-lavoro in forma di filatura”42.

Insomma diventa “Lavoro coagulato, materiatura”43. Ripetiamo la scena:

“Vediamo ora il valore complessivo del prodotto delle 10 libbre di refe. In esse sono oggettualizzate 2 giornate e ½ di lavoro, due giornate contenute nel cotone e nella massa di fusi, ½ giornata di lavoro succhiata nel corso del processo di filatura. Lo stesso tempo di lavoro si espone in una massa d’oro di 15 scellini. Il prezzo adeguato al valore delle 10 libbre di refe ammonta dunque a 15 scellini, il prezzo di una libbra di refe a uno scellino e 6 pence. Il nostro capitalista si adombra. Il valore del prodotto è uguale al valore del capitale anticipato. Il valore anticipato non si è valorizzato, non ha prodotto plusvalore, il denaro non si è quindi trasformato in capitale. Il prezzo di 10 libbre di refe è15 scellini e 15 scellini erano stati spesi sul mercato delle merci per gli elementi che costituiscono il prodotto, ovvero, che è lo stesso, per i fattori del processo lavorativo,10 scellini per il cotone, 2 scellini per la massa di fusi consumata e 3 scellini per la forza lavoro”44.

Questo risultato lo delude; il nostro capitalista si adombra45. Ma in realtà ...si è fatto beffe di noi46. E’ tutto previsto, il nostro capitalista ride allegramente47.

E il capitalista si esibisce nel repertorio delle lagnanze dell’economia volgare. Nessun trucco da mercante potrebbe cambiare le cose. Ma ha già trovato la soluzione per risolvere l’intoppo:

Rifacciamo adesso i conti:

“Ma frattanto, ridendosela allegramente, egli ha già riassunto la sua fisionomia”.

Osserviamo meglio. Il valore giornaliero della forza-lavoro ammonta a 3 scellini perché in essa è oggettualizzata mezza giornata di lavoro, vale a dire perché i mezzi di sussistenza necessari quotidianamente alla produzione della forza-lavoro costano una mezza giornata di lavoro. Ma il lavoro passato racchiuso nella forza-lavoro e il lavoro vivo che essa può fornire, i suoi costi giornalieri di conservazione ed il suo dispendio giornaliero sono due grandezze del tutto diverse. Il primo determina il suo valore di scambio, l’altro costituisce il suo valore d’uso. Che sia necessaria una mezza giornata lavorativa per conservarlo in vita per 24 ore non impedisce affatto al lavoratore di lavorare per una giornata intera. Il valore della forza-lavoro e la sua valorizzazione nel processo lavorativo sono dunque due grandezze diverse. E’ questa differenza di valore che il capitalista teneva di mira quando ha comprato la forza-lavoro”48.

Su questa petite difference si gioca tutto:

“La cosa decisiva era però il valore d’uso specifico di questa merce, essere fonte di valore e di più valore di quanto essa stessa non ne abbia. Questo è il servizio specifico che il capitalista si aspetta da essa” (…) “Il possessore di denaro ha pagato il valore giornaliero della forza-lavoro; a lui appartiene l’uso di essa per una giornata, il lavoro di una giornata. La circostanza che la conservazione giornaliera della forza-lavoro costi solo una mezza giornata lavorativa, benché la forza-lavoro possa agire, lavorare un’intera giornata, che perciò il valore che il suo uso crea nel corso di una giornata sia di grandezza doppia rispetto al suo valore giornaliero, è una particolare fortuna per il compratore, ma non è una violazione della legge nei confronti del venditore”49.

Stando così le cose il capitalista, “che ha previsto questo caso, che lo fa ridere” si riorganizza:

“In officina, perciò, il lavoratore non trova i mezzi di produzione necessari per un processo lavorativo di sei ore, bensì per uno di dodici”50.

Rifacciamo allora i conti, alla fine di questo secondo scenario (uno scellino=12 pence).

Valore del prodotto di 20 libbre di refe, a 1 sc. e 6 pence a libbra, 30 scellini. Somma delle uscite 27 scellini. 3 scellini sono il plusvalore.

I 27 sc. sono diventati 30. “La magìa è infine riuscita. Il denaro è trasformato in capitale”51:

“Se confrontiamo ora il processo dii costituzione di valore e il processo di valorizzazione, il processo di valorizzazione non è altro che il processo di costituzione di valore prolungato al di là di un certo punto. Se quest’ultimo dura fino al punto in cui il valore della forza-lavoro pagato dal capitale viene sostituito da un nuovo equivalente, esso è allora processo di costituzione di valore. Se il processo di costituzione di valore dura oltre questo punto, allora diviene processo di valorizzazione”52.

“Come unità di processo lavorativo e processo di costituzione di valore, il processo di produzione è processo di produzione di merci; come unità di processo lavorativo e processo di valorizzazione esso è processo di produzione capitalistico, forma capitalistica della produzione”.

(…)“…il plusvalore viene fuori solo attraverso un’eccedenza quantitativa di lavoro, attraverso il prolungamento dello stesso processo lavorativo” 53.

Il capitalista questa fortuna se l’è cercata e meritata perché è uscito dalla sfera della circolazione delle merci, dal gioco del comprare a poco e vendere a molto, per infilarsi nell’ignoto mondo della produzione, più impegnativo e aleatorio. Da mediatore a produttore. Perché funzioni il capitalista deve assicurarsi, o addirittura costruire dei caposaldi sociali che richiedono ben altro che le piccole astuzie mercantili. Si tratta di costringere un uomo libero a lavorare. “Lavoro forzato di soggetti liberi”; non deve contare ancora sulla “fortuna” per “trovarlo”.

Deve riuscire a costringere uomini “liberi e uguali” a lavorare ogni giorno; nascondendo il fatto che il capitalista compra una merce, ma ne prende un’altra.

Il capitalista è chiamato ad una missione che, originata dall’interesse privato, deve avere, per andare a buon fine, delle ricadute sociali.

È questo ostacolo, questo vuoto, non è aggirabile, per una ragione che Marx così espone nell’Urtext: “Se l’unica antitesi al capitale, come lavoro oggettivato in sé, è data dalla capacità lavorativa vivente, allora l’unico scambio attraverso cui il denaro diventa capitale, è quello che conclude il possessore del capitale, con il possessore della forza-lavoro vivente, cioè con l’operaio”54.

E poco avanti: “Lo scambio con cui il denaro diventa capitale, non può essere quello con la merce, ma quello con la sua antitesi astrattamente determinata - e cioè il lavoro”55.

(..)”L’unico valore d’uso, che può costituire un’antitesi e un complemento del denaro come capitale, è il lavoro, e il lavoro esiste nella forza-lavoro, e la forza -lavoro esiste come soggetto”56.

Il denaro come capitale ha bisogno del lavoro per crescere, ma il lavoro esiste nella forza-lavoro, è la forza-lavoro esiste come soggetto”, il lavoratore in carne e ossa.

Qui è uno dei nodi centrali del Capitale: la inseparabilità di lavoro, forza-lavoro e operaio.

Ripercorriamo infine il processo. Costituzione di valore e processo di valorizzazione sono la coppia introdotta da Marx. Nulla di magico:

“Se confrontiamo ora il processo di costituzione di valore e il processo di valorizzazione, il processo di valorizzazione non è altro che il processo di costituzione di valore prolungato al di là di un certo punto”. Se quest’ultimo dura fino al punto in cui il valore della forza-lavoro pagato dal capitalista viene sostituito da un nuovo equivalente, esso è allora processo di costituzione di valore. Se il processo di costituzione di valore dura oltre questo punto, allora diviene processo di valorizzazione“57.

Chiarissimo e prosaico. Con una importante distinzione:

“Se inoltre confrontiamo il processo di costituzione di valore col processo lavorativo, quest’ultimo consiste in lavoro “utile” che produce valori d’uso. Il movimento viene qui considerato qualitativamente, nella sua maniera particolare, secondo scopo e contenuto. Nel processo di costituzione del valore, lo stesso processo lavorativo si espone solo dal suo lato quantitativo. Si tratta sempre solo del tempo di cui il lavoro ha bisogno per la propria esecuzione, ovvero della durata in cui la forza-lavoro viene spesa in modo utile”.

Naturalmente “Esso conta tuttavia solo nella misura in cui il tempo consumato per la produzione del valore d’uso è socialmente necessario”58.

Concludendo quindi:

“Si vede che la distinzione ottenuta prima grazie all’analisi della merce fra il lavoro in quanto crea valore d’uso e lo stesso lavoro in quanto crea valore, si è adesso esposta come distinzione dei diversi lati del processo di produzione. Come unità di processo lavorativo e processo di costituzione di valore, il processo di produzione è processo di produzione di merci; come unità di processo lavorativo e processo di valorizzazione esso è processo di produzione capitalistico, forma capitalistica della produzione di merci”59.

Chiudendo sul punto essenziale: “Come prima, il plusvalore viene fuori solo attraverso un’eccedenza quantitativa di lavoro, attraverso il prolungamento dello stesso processo lavorativo : in un caso processo di produzione del refe, nell’altro processo di produzione di gioielli”60.

Valore d’uso/valore di scambio; lavoro concreto/lavoro astratto; processo lavorativo/processo di valorizzazione. A sinistra, in ogni coppia c’è la realtà pre-capitalistica, - valore d’uso, lavoro concreto, processo lavorativo – ridotta per astrazione metodologica, agli elementi generali, strumento, oggetto, mano. A destra, - valori di scambio, lavoro astratto, processo di valorizzazione - si espongono invece i nuovi caratteri essenziali del capitalismo.

“Nel processo lavorativo considerato per sé, il lavoratore impiega i mezzi di produzione. Nel processo lavorativo che è al contempo processo di produzione capitalistico, i mezzi di produzione impiegano il lavoratore, di modo che il lavoro si manifesta solo come mezzo attraverso il quale una determinata massa di valore, cioè una determinata massa di lavoro oggettualizzato, succhia lavoro vivo per conservarsi e accrescersi”61.

Su questo perciò si appunterà il conflitto coi lavoratori, la durata della giornata lavorativa. Ma un punto analiticamente e metodologicamente “di importanza decisiva”:

“Il processo di produzione del capitale – considerato il suo lato reale, ovvero considerandolo come processo che attraverso il lavoro utile costituisce con valori d’uso nuovi valori d’uso – è, prima di tutto, processo lavorativo effettuale. Come tale, i suoi momenti, le sue parti costituenti determinate in modo conforme al concetto, sono quelli propri del processo lavorativo in genere, di ogni processo lavorativo, a qualunque stadio dello sviluppo economico e sulla base di qualsiasi modo di produzione esso si svolga.

Poiché, quindi, la figura reale, ovvero la figura dei valori d’uso oggettivo di cui il capitale consiste, il suo sostrato materiale, è necessariamente la figura dei mezzi di produzione – mezzo di lavoro e oggetto di lavoro – che servono alla produzione di nuovi prodotti;

poiché, inoltre, nel processo di circolazione, nella forma delle merci, quindi in possesso del capitalista come possessore di merci, questi valori d’uso sono già disponibili(sul mercato) prima di funzionare nel processo lavorativo conformemente al loro scopo specifico; poiché, insomma, il capitale- nella misura in cui si espone nelle condizioni di lavoro oggettivo – consiste, secondo il suo valore d’uso, di mezzi di produzione, cioè materiali grezzi, materiali ausiliari, mezzo di lavoro, attrezzi, edifici, macchine etc. ecco che se ne trae la conclusione che tutti i mezzi di produzione δύναμει e nella misura in cui funzionano come mezzi di produzione, siano actu capitale, e di conseguenza che il capitale un momento necessario del processo lavorativo umano in genere, a prescindere da ogni forma storica di questo processo, e perciò che il capitale sia qualcosa di eterno, un portato della natura del lavoro umano. Allo stesso modo, poiché il processo di produzione del capitale è in genere processo lavorativo (se ne trae la conclusione) che il processo lavorativo come tale, il processo lavorativo in tutte le forme sociali, sia necessariamente processo lavorativo del capitale. Il capitale è in tal modo considerato come una cosa, che nel processo di produzione gioca un certo ruolo di cosa, un ruolo che gli spetta come cosa. Si tratta della stessa logica che conclude che, poiché il denaro è oro, l’oro è in sé e per sé denaro, che, poiché il lavoro salariato è lavoro, ogni lavoro è necessariamente lavoro salariato. In tal modo l’identità è dimostrata per il fatto che ciò che è identico in tutti i processi di produzione viene tenuto distinto dalle loro distinzioni specifiche. L’identità è dimostrata per il fatto che si astrae dalla distinzione”62.

Si tratta, aggiunge Marx. della “incapacità di comprendere il processo lavorativo autonomamente e però, al contempo, come un lato del processo di produzione capitalistico”63.

 

Capitolo 6. Capitale costante e capitale variabile

Il capitolo 6 introduce un ulteriore chiarimento interno, stavolta, al capitale.

“I diversi fattori del processo lavorativo partecipano diversamente alla costituzione del valore dei prodotti. Il lavoratore aggiunge nuovo valore all’oggetto di lavoro aggiungendo un determinato quantum di lavoro a prescindere dal contenuto determinato, dallo scopo e dal carattere tecnico del proprio lavoro. D’altro lato ritroviamo i valori dei mezzi di produzione consumati come parti costituenti del valore dei prodotti, per es. i valori di cotone e fusi nel valore del refe. Il valore dei mezzi di produzione viene dunque conservato attraverso il suo trasferimento nel prodotto. Questo trasferimento avviene durante la trasformazione dei mezzi di produzione in prodotto, nel processo lavorativo. Esso è mediato dal lavoro, ma come?”

Non certo in due fasi diverse, una in cui si conserva il valore, la successiva in cui si aggiunge nuovo valore, “bensì, grazie alla mera aggiunta di nuovo valore, conserva il vecchio”64.

“Come tale attività produttiva conforme a scopo – filare, tessere, battere il ferro – il lavoro sveglia dalla morte, grazie al mero contatto, i mezzi di produzione, li anima a fattori del processo lavorativo e si combina con essi nei prodotti”65.

Aggiunta e conservazione sono “due risultati del tutto diversi” prodotti però dal lavoratore “nello stesso tempo”. Questo è il punto decisivo.

“Dunque, nella sua proprietà astratta, universale – quale dispendio di forza-lavoro umana – il lavoro di filatura aggiunge neovalore ai valori di cotone e fuso, e nella sua proprietà di lavoro concreto, particolare, utile – quale processo di filatura – esso trasferisce nel prodotto il valore di questi mezzi di produzione e conserva il loro valore nel prodotto. Da qui, nello stesso momento, la duplicità del suo risultato. Attraverso la mera aggiunta quantitativa di lavoro viene aggiunto nuovo valore; grazie alla qualità del lavoro aggiunto vengono conservati i vecchi valori dei mezzi di produzione nel prodotto. Questo duplice effetto dello stesso lavoro in conseguenza del suo duplice carattere si mostra tangibilmente in fenomeni diversi”66.

“Il lavoratore non può aggiungere nuovo lavoro, creare dunque nuovo valore, senza conservare il vecchio valore, perché deve aggiungere il lavoro sempre in forma utile determinata, e non può aggiungerlo in forma utile senza rendere i prodotti mezzi di produzione di un nuovo prodotto e, con ciò, trasferire il loro valore al nuovo prodotto. E’ dunque una dote di natura della forza che si attua, del lavoro vivo, conservare valore aggiungendo valore, una dote naturale che non costa niente al lavoratore ma che frutta molto al capitalista, la conservazione del valore-capitale dato”67.

“Poniamo che il processo di produzione si interrompa nel punto in cui il lavoratore produce un equivalente del valore della propria forza-lavoro, che per es. abbia aggiunto con un lavoro di 6 ore un valore di 3 scellini. Questo valore costituisce l’eccedenza del valore dei prodotti sulle proprie parti costituenti dovute al valore dei mezzi di produzione. È l’unico valore originale che si è generato all’interno di questo processo, l’unica parte di valore del prodotto ad essere prodotta dal processo stesso. Tuttavia, esso sostituisce solo il denaro anticipato dal capitalista alla compera della forza-valoro, speso dal lavoratore stesso in mezzi di sussistenza.

In riferimento a 3 scellini spesi, il neovalore di 3 scellini si manifesta solo come riproduzione. Ma esso è riprodotto come valore dei mezzi di produzione effettivamente, non solo in maniera parvente. La sostituzione di un valore attraverso l’altro è qui mediata da una nuova creazione di valore”68.

“Grazie all’attuazione della forza-lavoro non viene dunque solo riprodotto il suo valore, bensì viene prodotto un valore eccedente. Questo plusvalore costituisce l’eccedenza del valore dei prodotti sopra il valore degli elementi consumati che costituiscono il prodotto, vale a dire dei mezzi di produzione e della forza-lavoro”69.

“Mezzi di produzione da una parte, forza-lavoro dall’altra sono solo le diverse forme di esistenza che il valore-capitale originario ha assunto spogliandosi della propria forma di denaro e trasformandosi nei fattori del processo lavorativo.

La parte di capitale che dunque si converte in mezzi di produzione – vale a dire in materia prima, materie ausiliarie e mezzi di lavoro – non modifica la propria grandezza di valore nel processo di produzione. Lo chiamo perciò parte costante del capitale, o più brevemente capitale costante.

La parte di capitale che si converte in forza-lavoro modifica invece il proprio valore nel processo di produzione. Essa produce il proprio equivalente e un’eccedenza di esso, plusvalore, che può esso stesso variare, essere più grande o più piccolo. Da una grandezza costante questa parte del capitale si trasforma continuamente in una variabile. La chiamo perciò parte variabile del capitale, o più brevemente capitale variabile. Le stesse parti costituenti del capitale che si distinguono dal punto di vista del processo lavorativo come fattori oggettivi e soggettivi, come mezzi di produzione e forza-lavoro, si distinguono dal punto di vista del processo di valorizzazione come capitale costante e capitale variabile”70.

Il capitalista ha comprato gli strumenti, le materie prima, il lavoro. È tutta roba sua, è il suo capitale. Quindi anche tutto ciò che esso produce, senza distinzione tra ciò che rimane costante e ciò che varia. Al capitalista non importa.

Stabilito il punto, che sarà tra quelli dirimenti rispetto alla economia politica classica, nel capitolo settimo, si passa alla misurazione del “saggio del plusvalore”.

 

Capitolo 7: il saggio del plusvalore

Il “grado di sfruttamento della forza-lavoro”.

Il capitale originario C si è trasformato in C’. Il capitale anticipato “si espone dapprima come eccedenza del valore del prodotto sulla somma di valore dei suoi elementi di produzione”71.

Qui sembra che avvengano delle precisazioni contabili, ma invece si tratta di passaggi essenziali.

“Con capitale costante anticipato per la produzione di valore intendiamo perciò- … , sempre solo il valore dei mezzi di produzione consumati nella produzione”72.

“Sappiamo già, di fatto, che il plusvalore è solo conseguenza delle modificazioni di valore che avvengono con v, il capitale convertito in forza-lavoro, che dunque v+p=v+Δv(..). Ma la vera e propria modificazione effettuale di valore ed il rapporto in cui il valore si modifica vengono resi più oscuri per il fatto che, in seguito alla crescita del su parte costituente variabile, cresce anche il capitale complessivo anticipato. Era 500 ed ora è 590. L’analisi pura del processo richiede. dunque, di astrarre interamente dalla parte di valore del prodotto in cui solo si ri-manifesta capitale costante, cioè di porre il capitale costante = 0(..).

“La parte di capitale anticipata nella compera della forza-lavoro è un quantum determinato di lavoro oggettualizzato, dunque una grandezza di valore costante, come il valore della forza-lavoro comprata. Nel processo di produzione stesso, però al posto delle 90 sterline anticipate subentra la forza-lavoro che si attua, al posto del lavoro morto quello vivo, al posto di una grandezza allo stato di quiete una grandezza fluida, al posto di una costante una variabile. Il risultato è la riproduzione di v più un incremento di v . Dal punto di vista della produzione capitalistica, quest’intero decorso è automovimento del valore, in origine costante, convertito in forza-lavoro. Gli vengono attribuiti tanto il processo quanto il suo risultato. Se la formula 90 sterline di capitale variabile, ovvero valore che si valorizza, si manifesta perciò come del tutto contradditoria, essa esprime solo una contraddizione immanente alla produzione capitalistica.

Porre uguale a 0 il capitale costante lascia perplessi a prima vista. Eppure lo si fa costantemente nella vita quotidiana”73.

Questo, che non è un trucco contabile, poiché quel valore azzerato si “rimanifesta” nel valore del prodotto, consente di calcolare il vero “saggio del plusvalore” come rapporto tra il plusvalore e il capitale variabile74. “Si è visto che il lavoratore per una parte del processo lavorativo produce il valore della propria forza- lavoro, ovvero il valore dei propri mezzi di sussistenza necessari (…).

Quella parte della giornata lavorativa, in cui questa riproduzione avviene, la chiamo dunque tempo di lavoro necessario; il lavoro speso nel corso di essa lo chiamo lavoro necessario. Necessario per il lavoratore perché indipendente dalla forma sociale del suo lavoro. Necessario per il capitale e il suo mondo perché il costante esserci del lavoratore è la sua base”(…)75.

“Il secondo periodo del processo lavorativo, in cui il lavoratore sgobba oltre i limiti(Grenze) del lavoro necessario, gli costa lavoro – dispendio di forza-lavoro – ma per lui non costituisce alcun valore”(…)76.

“Il saggio del plusvalore è perciò l’espressione esatta del grado di sfruttamento della forza-lavoro da parte del capitale o del lavoratore da parte dei capitalisti”77.

“Questa scomposizione del prodotto – del risultato del processo di produzione – in un quantum di prodotto che espone soltanto il lavoro contenuto nei mezzi di produzione, ossia la parte costante del capitale, in un altro quantum che espone solo il lavoro necessario aggiunto solo nel processo di produzione, ossia la parte variabile del capitale, e in un ultimo quantum di prodotto che espone solo il plusvalore aggiunto nello stesso processo, ossia il plusvalore, questa scomposizione è tanto semplice quanto importante, come mostrerà il suo successivo impiego in problemi complicati e ancora insoluti”78.

Ricalcolato secondo questo criterio, il saggio del plusvalore si rivela essere cinque volte più elevato di quanto “sembrerebbe” col calcolo precedente: del 100% invece che del 18%79.

“È evidente che la formula è giusta; di fatto non è altro che la prima formula trasferita dallo spazio, nel quale le parti del prodotto finito sono giustapposte, al tempo, nel quale si succedono. Ma questa formula può essere accompagnata anche da rappresentazioni assai barbare, specie in teste tanto interessate al processo di valorizzazione a livello pratico, quanto piene di interesse al suo fraintendimento a livello teorico (…).

Che lo spirito di rapina creda a tali miracoli e che non gli manchino mai i sicofanti dottrinari che li dimostrino ce lo illustrerà ora un esempio storicamente celebre”80.

“Come la produzione di plusvalore è lo scopo determinante della produzione capitalistica, così non è la grandezza assoluta del prodotto, ma la grandezza relativa del plusprodotto a misurare il grado della ricchezza”81.

“Solo la forma in cui questo pluslavoro viene spremuto dal produttore immediato distingue le formazioni economiche della società, per es. la società schiavistica da quella del lavoro salariato”82.

Tesi tra le fondamentali del pensiero marxiano che, come sempre in questi casi, riguarda il concetto di “forma”. Il luogo in cui tale spremitura si realizza è la giornata lavorativa:

“La somma del lavoro necessario e del pluslavoro, dei periodi di tempo nei quali il lavoratore produce il valore che costituisce la sua forza-lavoro e il plusvalore, costituisce la grandezza assoluta del suo tempo di lavoro: la giornata lavorativa (working day)83.

 

Capitolo 8. La giornata lavorativa

1.I limiti della giornata lavorativa

In questo capitolo troviamo vampiri, lupi mannari e l’Inferno dantesco; ma anche l’operaio avvocato delle ragioni della classe.

Marx schematizza così i termini del problema.

Se il tempo di lavoro necessario è una grandezza d a t a (6 ore) e la giornata è di 24 ore, c’è un ampio margine entro il quale si può estendere la giornata lavorativa. Più di 6 ore (perché così funziona il capitalismo), meno di 24 ore (perché così può funzionare il corpo dell’operaio), c’è un “larghissimo margine di azione”84.

“Ma che cos’è una giornata lavorativa? In ogni caso è meno di un giorno naturale di vita.

Quanto meno? Il capitalista ha la sua opinione su questa ultima Thule che è il limite necessario della giornata lavorativa. Come capitalista, egli è soltanto capitale personificato. La sua anima è l’anima del capitale. Ma il capitale ha un unico impulso vitale, l’impulso cioè di valorizzarsi, di creare plusvalore, di succhiare per mezzo della sua parte costante, che sono i mezzi di produzione, la massa del pluslavoro più grande possibile. Il capitale è lavoro morto che si ravviva, come un vampiro, soltanto succhiando lavoro vivo, e più vive quanto più ne succhia. Il tempo nel quale il lavoratore lavora è il tempo nel quale il capitalista consuma la forza-lavoro che ha comprato. Se il lavoratore consuma per sé stesso il proprio tempo disponibile egli deruba il capitalista. Dunque il capitalista invoca la legge dello scambio delle merci. Come ogni altro compratore cerca di spremere dal valore d’uso della propria merce la maggiore utilità possibile”85.

E qui c’è il colpo di scena. Il capitalista ha detto la sua:

“Ma all’improvviso s’alza la voce del lavoratore ch’era ammutolito nello Sturm und Drang del processo di produzione”.

Ed elenca le proprie ragioni, la prima delle quali è che “La merce che ti ho venduto si distingue dal volgo delle altre merci per il fatto che il suo uso crea valore e valore maggiore di quanto essa costi. E per questa ragione tu l’hai comprata”86.

Anche a voler rimanere dentro i confini della legge dello scambio delle merci, tra il capitalista e l’operaio i punti di vista sono opposti:

“Ebbene: voglio amministrare il mio unico patrimonio, la forza-lavoro, come un ragionevole e parsimonioso economo e voglio astenermi da ogni folle sperpero di essa. Ne voglio rendere disponibile ogni giorno, mettendolo in moto e convertendolo in lavoro, soltanto quel tanto che è compatibile con la sua durata normale e col suo sano sviluppo. Tu puoi mettere a tua disposizione, in un sol giorno, con un prolungamento senza misura della giornata lavorativa, un quantum della mia forza-lavoro maggiore di quanto io ne possa ristabilire in 3 giorni. Quel che tu guadagni così in lavoro, io lo perdo in sostanza lavorativa. L’uso della mia forza-lavoro e il depredamento di essa sono cose del tutto diverse(..).

Tu mi paghi la forza-lavoro di un giorno, mentre consumi quella di tre giorni. Questo è contro il nostro contratto e contro la legge dello scambio delle merci” (…).

“Qui ha dunque luogo un’antinomia: diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla legge dello scambio delle merci. Fra diritti eguali decide la forza. Così, nella storia della produzione capitalistica la regolazione della giornata lavorativa si espone come lotta per i limiti della giornata lavorativa - lotta fra il capitalista collettivo, cioè la classe dei capitalisti e il lavoratore collettivo, cioè la classe dei lavoratori”87.

La forza-lavoro non appartiene “al volgo delle altre merci”: mentre “il capitalista invoca la legge dello scambio delle merci”. È qui tutto il problema.

2.La voracità del pluslavoro. Fabbricante e boiardo.

Marx è arrivato adesso a mettere entrambi i piedi sul terreno dello scontro, che è quello della storia reale.

E il passo avanti compiuto in questo paragrafo è di grande importanza. Si delinea con nettezza il “salto” di qualità che il nuovo sistema economico ha costruito finora:

“Il capitale non ha inventato il pluslavoro. Ovunque una parte della società possegga il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o schiavo, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al proprio sostentamento del tempo di lavoro eccedente per produrre i mezzi di sussistenza per il possessore dei mezzi di produzione, sia questi proprietario χαλos χαγaθos ateniese, teocrate estrusco, civis romanus, barone normanno, negriero americano, boiardo valacco, proprietario agrario moderno o capitalista”88.

Questo è il “genere prossimo”, ed ecco la “differenza specifica”:

“È evidente, tuttavia, che quando in una formazione economica della società è preponderante non il valore di scambio ma il valore d’uso, il pluslavoro è limitato da una cerchia di bisogni più o meno ampia; dal carattere stesso della produzione non sorge tuttavia alcun bisogno illimitato di pluslavoro”.

Questa è una “rottura epocale”: “Ma nel mondo antico queste sono eccezioni, Però, non appena popoli, la cui produzione si muove nelle forme inferiori del lavoro degli schiavi, della corvée ecc, vengono attratti in un mercato internazionale dominato dal modo di produzione capitalistico, il quale fa evolvere a interesse preponderante la vendita dei loro prodotti all’estero, allora, sull’orrore barbarico della schiavitù, della servitù della gleba ecc., si innesta l’orrore civilizzato del sopralavoro” 89.

“L’orrore civilizzato del sopralavoro”. Laddove come in Inghilterra le cose vanno diversamente, è perché qui i Factory Acts “frenano l’istinto del capitale a succhiare smodatamente forza-lavoro; esse lo frenano attraverso la limitazione coatta della giornata lavorativa in nome dello Stato e, invero, di uno Stato dominato da capitalisti e proprietari “terrieri”. Se prescindiamo da un movimento dei lavoratori che cresce sempre più minaccioso di giorno in giorno, la limitazione del lavoro nelle fabbriche è stata dettata dalla stessa necessità che ha sparso il guano sui campi d’Inghilterra. La stessa cieca brama di rapina che aveva esaurito la terra, in questo caso, aveva colpito alla radice, nel primo caso, l’energia vitale della nazione”.

Dall’”uso” della forza-lavoro si era passati al “depredamento”, e le “epidemie periodiche parlavano lo stesso linguaggio della diminuzione dell’altezza dei soldati in Germania e Francia”90.

Crescente conflittualità sociale e depredamento della forza-lavoro consigliano alla politica comportamenti sociali più sostenibili.

3. Branche dell’industria inglese senza limiti legali allo sfruttamento.

“L’impulso al prolungamento della giornata lavorativa, la fame da lupi mannari di pluslavoro è stata finora studiata in un settore nel quale mostruosi eccessi – insuperati, così dice un economista borghese inglese, neppure dalle crudeltà degli spagnoli contro i pellirosse d’America – hanno finito col far mettere il capitale alla catena della regolamentazione legale”91.

“Ma il capitale, come abbiamo già osservato è in un primo momento indifferente di fronte al carattere tecnico del processo lavorativo del quale si impadronisce: in un primo momento lo prende come lo trova”92.

4. Lavoro diurno e notturno. Il sistema dei turni

“Il capitale costante, i mezzi di produzione considerati dal punto di vista del processo di valorizzazione, esistono solo allo scopo di succhiare lavoro e, con ogni goccia di lavoro, un quantum proporzionale di pluslavoro. Nella misura in cui essi non fanno questo, la loro semplice esistenza costituisce per il capitalista una perdita negativa; poiché, durante il tempo in cui restano inoperosi, essi sono rappresentanti di un’inutile anticipazione di capitale; e questa perdita diventa positiva non appena l’interruzione nel loro impiego rende necessarie spese supplementari pe ricominciare il lavoro.

Il prolungamento della giornata lavorativa al di là dei limiti della giornata naturale fin alla notte, opera soltanto come palliativo, calma solo per poco la fame da vampiro che il capitale ha del sangue del lavoro. Appropriarsi del lavoro per tutte le 24 ore del giorno è dunque l’impulso immanente alla produzione capitalistica. Ma poiché è impossibile fisicamente se venissero succhiate continuamente le medesime forze- lavoro giorno e notte, allora, per superare l’ostacolo fisico, c’è’ bisogno di avvicendare le forze-lavoro durante il giorno e la notte93.

5. Lotta per la giornata lavorativa normale. Leggi coercitive per il prolungamento della giornata lavorativa dalla metà del secolo XIV alla fine del secolo XVII.

“Che cos’è una giornata lavorativa? Che grandezza ha il tempo durante il quale il capitale può consumare la forza-lavoro della quale esso paga il valore di una giornata? Fino a che punto la giornata lavorativa può essere prolungata al di là del tempo di lavoro necessario per la riproduzione della forza-lavoro stessa? S’è visto che a queste domande il capitale risponde: la giornata lavorativa conta 24 ore complete al giorno, detratte le poche ore di riposo senza le quali la forza-lavoro non è assolutamente in grado di rinnovare il proprio servizio. In primo luogo è evidente che il lavoratore per tutto il tempo della sua vita, non è altro che forza-lavoro e, perciò, che tutto il suo tempo disponibile è, di natura e di diritto, tempo di lavoro, e dunque appartiene all’autovalorizzazione del capitale. Tempo per un’educazione da esseri umani, per lo sviluppo intellettuale, per l’adempimento di funzioni sociali, per rapporti socievoli, per il libero gioco delle energie vitali fisiche e mentali, perfino il tempo festivo domenicale – eppure nella terra dei sabbatari -: fronzoli puri e semplici! Ma il capitale nel suo impulso cieco e senza misura, nella sua voracità da lupo mannaro di pluslavoro, scavalca non soltanto i limiti morali della giornata lavorativa, ma anche quelli puramente fisici”94. (…)

“Il capitale non si preoccupa della durata della vita della forza-lavoro. Quel che gli interessa è unicamente e soltanto il massimo di forza-lavoro che può essere reso liquido in una giornata lavorativa. Esso ottiene questo scopo abbreviando la durata della forza-lavoro come un agricoltore avido aumenta i proventi del suolo rapinandone la fertilità”95.

“Qui non è la normale conservazione della forza-lavoro a determinare il limite della giornata lavorativa, ma, viceversa, è il dispendio giornaliero massimo possibile, di forza-lavoro, per quanto coatto e penoso sia, a determinare il limite di tempo di riposo del lavoratore. Il capitale non si preoccupa della durata della vita della forza-lavoro. Quel che gli interessa è unicamente e soltanto il massimo di forza-lavoro che può essere resa liquida in una giornata lavorativa. Esso ottiene questo scopo abbreviando la durata della forza-lavoro come un agricoltore avido aumenta i prodotti del suolo rapinandone la fertilità.

Con il prolungamento della giornata lavorativa, la produzione capitalistica, che è essenzialmente produzione di plusvalore, suzione di pluslavoro, non produce dunque soltanto il deperimento della forza-lavoro umana, che viene derubata delle sue condizioni normali di sviluppo e di attuazione, morali e fisiche, ma produce anche l’esaurimento e la estinzione precoce della forza-lavoro stessa. Essa prolunga il tempo di produzione del lavoratore entro un termine dato, attraverso l’accorciamento del tempo che questi ha da vivere”96.

Sembrerebbe profilarsi quindi un interesse oggettivo del capitalista a non ammazzare di lavoro il proprio cavallo. Ma solo se non ci sono altri rimedi.

“Considerazioni di carattere economico potrebbero offrire una qualche garanzia di trattamento umano per gli schiavi, identificando l’interesse del padrone con la conservazione dello schiavo, ma dopo l’introduzione della tratta degli schiavi, quelle considerazioni si trasformano in motivo di estrema rovina per lo schiavo, poichè, dal momento che il suo posto può essere colmato con l’importazione di riserve straniere, la durata della sua vita diventa meno importante della produttività di essa finchè dura 97.

Ma, si dirà, la cosa non riguarda che le colonie. E invece:

“Mutato nomine de te fabula narratur! Invece di tratta degli schiavi leggi mercato del lavoro, invece di Kentucky leggi Irlanda e distretti agricoli d’Inghilterra, Scozia e Galles, invece di Africa leggi Germania”98.

“La fissazione della giornata lavorativa normale è il risultato di una lotta multisecolare fra capitalista e lavoratore. Però la storia di questa lotta mostra due correnti contrapposte”.

(…)

“Ci vogliono secoli perché, in conseguenza dello sviluppo del modo capitalistico di produzione, il “libero” lavoratore si adatti volontariamente, sia cioè socialmente costretto a vendere per il prezzo dei suoi mezzi di sussistenza abituali l’intero suo periodo attivo di vita, anzi, la sua capacità stessa di lavoro, la sua primogenitura per un piatto di lenticchie. E’ quindi cosa naturale che il prolungamento della giornata lavorativa – che il capitale cerca di imporre per coercizione statale ai lavoratori adulti, dalla metà del sec.XIV fino alla fine del sec.XVII – coincida all’incirca col limite del tempo di lavoro che nella seconda metà del sec.XIX viene tracciato qua e là, da parte dello Stato, alla trasformazione in capitale del sangue degli adolescenti”99.

6. La lotta per la giornata lavorativa normale. Leggi coercitive sulla limitazione del tempo di lavoro. La legislazione inglese sulle fabbriche dal 1833 al 1864.

“Il capitale aveva avuto bisogno di secoli per prolungare la giornata lavorativa fino ai suoi limiti massimi normali e poi, al di là di questi, fino ai limiti della giornata naturale di 12 ore; ma ora, dopo la nascita della grande industria nell’ultimo terzo del secolo XVIII, si ebbe un’accelerazione violenta e smisurata, travolgente come una valanga. Tutti i limiti, di morale e di natura, di sesso e di età, di giorno e di notte, furono infranti (…). Il capitale celebrava le sue orge. Non appena la classe dei lavoratori, soverchiata dal fracasso della produzione, cominciò a tornare in qualche modo in se stessa, cominciò la sua resistenza e, in un primo tempo, nel paese di nascita della grande industria in Inghilterra”100.

7. La lotta per la giornata lavorativa normale. Ripercussioni in altri paesi della legislazione inglese sulle fabbriche.

“Negli Stati Uniti dell’America del nord ogni movimento dei lavoratori indipendente rimase paralizzato, finché la schiavitù deturpava una parte della repubblica. Il lavoro di pelle bianca non può emanciparsi in un paese dove viene marchiato a fuoco quand’è di pelle nera”101.

Queste considerazioni finali di Marx sono particolarmente importanti:

“Dobbiamo confessare che il nostro lavoratore esce dal processo produttivo differente rispetto a quando vi era entrato. Sul mercato compariva come proprietario della merce “forza-lavoro” di fronte ad altri proprietari di merci, proprietario di merce di fronte a proprietario di merce. Il contratto per mezzo del quale aveva venduto al capitalista la propria forza-lavoro dimostrava, per così dire, nero su bianco che egli disponeva liberamente di sé stesso. Concluso l’affare, si scopre che egli “non era un libero agente”, che il tempo per il quale egli può liberamente vendere la propria forza-lavoro è il tempo per il quale egli è costretto a venderla, che il suo vampiro non lascia la presa “finché c’è un muscolo, un tendine, una goccia di sangue da sfruttare”. A “protezione” contro il serpente dei loro tormenti, i lavoratori debbono assembrare le loro teste e ottenere a viva forza, come classe, una legge di Stato, una barriera sociale potentissima, che impedisca a loro stessi di vendere se stessi e la propria schiatta alla morte e alla schiavitù per mezzo di un volontario contratto con il capitale”102.

 

Capitolo 9. Saggio e massa del plusvalore

Prima di passare alla “produzione del plusvalore relativo”, Marx chiude la sezione 3 sul plusvalore assoluto con un capitolo preparatorio intorno a due temi, due chiarimenti di dettaglio.

Il primo riguarda(pp.329-34) il punto in cui, come dicono i francesi, il lupo diventa cane, e il denaro capitale.

Qui Marx individua tre leggi che sovrintendono al passaggio: “la massa del plusvalore prodotto è uguale all’ammontare del capitale variabile anticipato moltiplicato per il saggio del plusvalore, ossia è determinata dal rapporto composto del numero delle forze-lavoro simultaneamente sfruttate da uno stesso capitalista e dal grado di sfruttamento della forza-lavoro singola”103.

La seconda legge dice: “Il limite assoluto della giornata lavorativa media, la quale è per natura sempre minore di 24 ore, costituisce un limite assoluto alla sostituzione di un capitale variabile minore per mezzo dell’aumento del saggio di plusvalore o alla sostituzione di un numero di lavoratori sfruttati minore attraverso un aumento del grado di sfruttamento della forza lavoro”104.

Queste puntualizzazioni servono ad individuare il momento della trasformazione del denaro in capitale..

Qual è il punto, il minimo che consente il passaggio? L’argomentazione di Marx è al tempo stesso “teorica” e “storica”.

Capitalista e lavoratore, e tra esso, figura intermedia, può materializzarsi il “piccolo padrone” o, in italiano, il “padroncino.

Qui Marx paga pegno ad un diffuso pregiudizio storiografico anticorporativo:

“Le corporazioni del medio evo cercarono d’impedire con la forza la trasformazione del maestro artigiano in capitalista, limitando ad un massimo molto ristretto il numero dei lavoratori che il singolo maestro aveva diritto di impiegare. Il possessore di denaro o di merci si trasforma realmente in capitalista solo quando la somma minima anticipata per la produzione supera di gran lunga il massimo medievale”105.

L’adesione ad un tale pregiudizio mette in difficoltà le proprie conclusioni teoriche. Secondo teoria (il capitalista) “dovrebbe impiegare già due lavoratori per poter vivere, col plusvalore di cui si appropria giornalmente, secondo il tenore di vita di un lavoratore, cioè per poter soddisfare i suoi bisogni di prima necessità. In tal caso, scopo della sua produzione sarebbe il puro e semplice sostentamento, non l’aumento della ricchezza, mentre proprio quest’ultimo è il presupposto della produzione capitalistica. Per vivere soltanto con il doppio di agio del lavoratore comune e per ritrasformare in capitale la metà del plusvalore prodotto, egli dovrebbe aumentare di 8 volte, insieme al numero dei lavoratori, il minimo del capitale anticipato. Certo, anch’egli può mettere direttamente mano al processo di produzione come il suo lavoratore, ma allora sarà una cosa intermedia fra il capitalista e il lavoratore, sarà un “piccolo padrone”. Un certo livello della produzione capitalistica implica che il capitalista possa impiegare tutto il tempo durante il quale funziona da capitalista, cioè come capitale personificato, nell’appropriazione e quindi nel controllo del lavoro altrui e nella vendita dei prodotti di tale lavoro”106.

Con queste oscillazioni e indeterminazioni e queste, oggi superate, convinzioni storiche, Marx non trova di meglio, per risolvere il problema della “soglia”, che ricorrere alla dialettica quantità-qualità della Logica hegeliana107:

“All’interno del processo di produzione il capitale si è sviluppato in comando sul lavoro, cioè sulla forza- lavoro in attività, ossia sul lavoratore stesso. Il capitale personificato, il capitalista, vigila affinché il lavoratore compia il proprio lavoro regolarmente e con il dovuto grado di intensità.

Il capitale si è sviluppato inoltre in un rapporto coercitivo che forza la classe dei lavoratori a compiere un lavoro maggiore di quello richiesto nell’ambito ristretto delle sue necessità vitali. E come produttore di laboriosità altrui, come pompatore di pluslavoro e sfruttatore di forza-lavoro, il capitale supera in energia, assenza di misura ed efficacia tutti i sistemi di produzione del passato fondati sul lavoro forzato diretto.

In un primo tempo il capitale subordina a sé il lavoro nelle condizioni tecniche storicamente date in cui lo trova. Perciò non cambia immediatamente il modo di produzione. La produzione di plusvalore nella forma sin qui contemplata, per mezzo del semplice prolungamento della giornata lavorativa, si è quindi manifestata indipendentemente da ogni cambiamento del modo di produzione”108.

Il capitale esercita il comando, la vigilanza, la coercizione a fornire un plus-lavoro. Questo “produttore di laboriosità altrui” segna uno stacco netto rispetto a “tutti i sistemi di produzione del passato fondato sul lavoro forzato diretto”. Ed è la prima differenza, a cui fa seguito, dopo una prima fase di adeguamento alle “condizioni tecniche storicamente date”, un profondo e innovativo processo di trasformazione che ha alla radice un “rovesciamento” del rapporto produttivo tradizionale:

“Se consideriamo il processo di produzione dal punto di vista del processo lavorativo, il lavoratore non trattava i mezzi di produzione come capitale, ma come semplice mezzo e materiale della sua attività produttiva conforme a scopo(..). Le cose stanno diversamente non appena consideriamo il processo dal punto di vista del processo di valorizzazione. I mezzi di produzione si trasformano subito in mezzi per succhiare lavoro altrui. Non è più il lavoratore ad utilizzare i mezzi di produzione, ma sono i mezzi di produzione ad utilizzare il lavoratore”109.

La continuità storica è saltata.

 

Nota finale sul plusvalore

”L’economia politica ha fatto sempre della produzione di plusvalore la caratteristica decisiva del lavoro produttivo”110.

Ricostruiamo in questa nota lo schema del ragionamento marxiano sul plusvalore. Operazione non facile, non solo in sé, ma anche perché Marx torna di continuo sul tema, di volta in volta cambiando prospettiva, con nuovi esempi, aggiunte e ripetizioni. La nostra prima operazione è stata perciò quella di disboscare; la seconda di separare le considerazioni sul plusvalore “in generale” da quelle sul plusvalore “capitalistico”. Talvolta, infatti, anche in Marx, i due fili si sovrappongono e intrecciano, e il ragionamento tende, ma è la tendenza della storia, a diventare eurocentrico.

 

1. L’economia politica nasce come scienza scoprendo nel plusvalore la genesi del capitalismo

L’assoluta centralità del tema del plusvalore nella storia delle teorie economiche classiche è ribadita più volte da Marx. Anzi, si può dire, è allora che l’economia politica inizia a costituirsi come scienza, quando individua nel plusvalore la nascita del capitalismo. Non coi mercantilisti, quindi, ma coi fisiocratici: “Prima dei fisiocratici il plusvalore (..)viene spiegato semplicemente con lo scambio, con la vendita della merce al di sopra del suo valore”111.

“L’analisi del capitale, entro l’orizzonte borghese, appartiene essenzialmente ai fisiocratici. E’ questo merito che fa di essi i veri iniziatori dell’economia politica moderna”112.

“I fisiocratici hanno anche trasferito la ricerca sull’origine del plusvalore dalla sfera della circolazione alla sfera della produzione immediata, e in tal modo hanno posto le basi per l’analisi della produzione capitalistica”113 114.

Scrive infatti Turgot:

”Il semplice operaio, che non ha che le sue braccia e la sua operosità, non ha niente finché non arriva a vendere ad altri la sua fatica…In ogni genere di lavoro deve succedere e succede effettivamente che il salario dell’operaio è limitato a quanto gli è necessario per procurarsi di che sussistere”115.

E Smith:

“Nelle condizioni originarie, che precedono sia l’appropriazione della terra che l’accumulazione del capitale, l’intero prodotto del lavoro appartiene al lavoratore. Non deve dividerlo con nessuno, proprietario o padrone. (…) Ma questo stato iniziale di cose, nel quale il lavoratore godeva dell’intero prodotto del proprio lavoro, non poteva durare dopo che ebbe luogo l’appropriazione delle terre e l’accumulazione del capitale. (…) Non appena la terra diviene proprietà privata, il proprietario chiede una parte di quasi tutti i prodotti che il lavoratore può coltivare o raccogliere da essa. L’affitto rappresenta la prima detrazione sul prodotto del lavoro impiegato per la terra”116.

E su ciò il commento di Marx:

“Qui Smith nota molto acutamente che l’effettivo grande sviluppo delle forze produttive del lavoro ha inizio solo dal momento in cui questo è trasformato in lavoro salariato, e le condizioni di lavoro gli si contrappongono da un lato come proprietà fondiaria, dall’altro come capitale. Lo sviluppo della forza produttiva del lavoro ha dunque inizio solo in condizioni in cui il lavoratore stesso non può più appropriarsi dei risultati del lavoro”117.

E ancora più chiaramente: “La produzione capitalistica ha inizio dal momento in cui le condizioni di lavoro appartengono a una classe, e a un’altra classe appartiene unicamente la possibilità di disporre della capacità lavorativa. Questa separazione del lavoro dalle condizioni di lavoro costituisce il presupposto della produzione capitalistica”118.

A Smith, perciò, va il merito di avere individuato precisamente il punto, cioè di “aver esposto l’intero processo di produzione come un siffatto processo tra lavoro oggettualizzato e lavoro vivo e, perciò, di avere esposto il capitale, in opposizione al lavoro vivo solamente come lavoro oggettualizzato, cioè come valore che valorizza se stesso mediante lavoro vivo”119.

“In tal modo lo Smith ha individuato la vera origine del plusvalore”120.

“É evidente il grande progresso rispetto ai fisiocratici realizzato da A. Smith nella analisi del plusvalore”121.

Ma dinanzi a tale pericoloso progresso scientifico, deve scattare la difesa:

”Nel mezzo della società europea occidentale dove il lavoro acquisisce il permesso di lavorare per la propria esistenza solo attraverso il pluslavoro, è facile immaginare che fornire un surplus prodotto sia una qualità innata del lavoro umano”122.

Solo se e quando proprietà fondiaria e capitale si contrappongono al lavoratore, e questi non può più, perciò, appropriarsi dei risultati del proprio lavoro, sarà costretto a sviluppare al massimo la propria forza produttiva, in modo da poter produrre tanto plusvalore, per capitale e rendita, da assicurarsi, da parte del proprietario, un salario.

La privatizzazione della terra e l’accumulazione del capitale sono, quindi, all’origine del capitalismo. Progresso produttivo e sfruttamento, insomma, sono andati di pari passo.

Siamo alle precondizioni del capitalismo. Tra cui, fondamentale, è quella di spazzar via la proprietà privata realizzata col lavoro diretto, base del sistema economico precedente.

Incompatibilità tra la giovane, cinica, economia (Mandeville per tutti), e la vecchia etica? “Strabismo morale” come dice Joan Robinson?

”Il divario, se non addirittura la dissonanza che esiste in Smith tra etica ed economia, era in un certo senso inevitabile. La civiltà borghese è quel divario. L’economia per essa è un mondo irredento”123.

 

2. Ma, non è stato il capitalismo ad inventare il plusvalore…

Che lo sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo non nasca col capitalismo è osservazione ovvia; come anche l’altra, che il capitalismo rappresenta nella storia una “rottura”, più che una “svolta”.

Fatte salve pertanto le caratteristiche comuni, l’estrazione del pluslavoro nella società capitalistica deve distinguersi, nella sua forma, da quella delle precedenti società.

Quindi bisognerà tracciare, prima, le caratteristiche “generali” e solo successivamente entrare nei caratteri propri del capitalismo e della sua storia, europea moderna.

La tesi generale di Marx, quanto all’origine del plusvalore, è la seguente:

“È chiaro che, se l’operaio avesse bisogno di tutta la sua giornata per produrre i suoi propri mezzi di sussistenza(..), non sarebbe possibile alcun plusvalore, quindi nessuna produzione capitalistica e nessun lavoro salariato. Perché questa esista, la produttività del lavoro sociale deve essere sufficientemente sviluppata affinché esista una qualche eccedenza della giornata lavorativa complessiva sul tempo di lavoro necessario alla riproduzione degli wages, un pluslavoro di una qualche grandezza(..).E’ inoltre evidente che se deve essere presupposto un certo sviluppo della produttività del lavoro perché possa esistere un pluslavoro, la semplice possibilità di questo pluslavoro (e quindi quel minimo necessario di produttività del lavoro), non crea ancora la sua realtà. Anzitutto l’operaio deve esservi costretto, a lavorare oltre quella grandezza, e questa costrizione la esercita il capitale”124.

Pertanto, dobbiamo ripetere “Il capitale non ha inventato il pluslavoro. Ovunque una parte della società possegga il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o schiavo, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al proprio sostentamento del tempo di lavoro eccedente per produrre i mezzi di sussistenza per il possessore dei mezzi di produzione, sia questi proprietario kαλos kαγaθos ateniese, teocrate estrusco, civis romanus, barone normanno, negriero americano, boiardo valacco, proprietario agrario moderno o capitalista”125.

“A che cosa si riduce l’accumulazione originaria del capitale, cioè la sua genesi storica? In quanto è trasformazione di schiavi e di servi della gleba in lavoratori salariati, cioè mero cambiamento di forme, l’accumulazione originaria del capitale significa soltanto espropriazione dei produttori immediati, cioè dissoluzione della proprietà privata fondata sul proprio lavoro”126.

“Solo la forma in cui questo plus lavoro viene spremuto dal produttore immediato distingue le formazioni economiche della società, per es. la società schiavistica da quella del lavoro salariato”127.

“La storia della proprietà fondiaria, che mostrerebbe la graduale trasformazione del landlord feudale in rentier fondiario, del fittavolo vitalizio legato al fondo per diritto ereditario, semitributario e spesso non libero, nel moderno farmer, e del servo della gleba e contadino feudale, vincolato al fondo, in salariato agricolo giornaliero, sarebbe in realtà la storia delle formazione del capitale moderno”128.

“La separazione della proprietà dal lavoro si presenta come legge necessaria di questo scambio tra capitale e lavoro (…). (Il lavoro) come tale esso è non-materia prima, non-strumento di lavoro, non-prodotto grezzo: il lavoro separato da tutti i mezzi e gli oggetti di lavoro, dalla sua intera oggettività. È il lavoro vivo esistente come astrazione e da questi momenti della sua effettiva realtà(..); questa completa spoliazione, pura esistenza soggettiva, priva di ogni oggettività, del lavoro. E’ il lavoro come m i s e r i a a s s o l u t a: la miseria non come privazione, ma come completa esclusione della ricchezza oggettiva”129.

Per chiudere su questo punto.

  1. Non è il capitale ad avere inventato il plusvalore. È avvenuto nelle situazioni storiche e geografiche più diverse. A condizione però che si sia raggiunto un certo livello di produttività.

  2. Dovunque e in qualsiasi momento ciò avvenga, deve esserci una “espropriazione dei lavoratori immediati, la dissoluzione della proprietà privata fondata sul proprio lavoro”.

Dovunque e in qualsiasi momento, la chiave del rapporto è nella espropriazione dei produttori immediati:

“Se il contadino che prima produceva per se stesso in modo indipendente, diventa un salariato giornaliero che lavora per un fittavolo, se l’articolazione gerarchica vigente nel modo di produzione corporativo scompare di fronte alla semplice opposizione di un capitalista che fa lavorare per sé l’artigiano come lavoratore salariato, se colui che prima era padrone di schiavi occupa quelli che in precedenza erano suoi schiavi come lavoratori salariati ecc., se si verifica tutto ciò, processi di produzione socialmente determinati in modo diverso vengono trasformati nel processo di produzione del capitale”130.

Di qualunque momento e di qualunque luogo si parli, il risultato deve essere sempre lo stesso: espropriazione dei mezzi di produzione e di sussistenza ad una parte della popolazione, e loro concentrazione nelle mani dell’altra parte:

“Ma l’accumulazione del capitale presuppone il plusvalore e il plusvalore la produzione capitalistica e questa presuppone a sua volta la presenza di masse di capitale e di forza-lavoro di entità considerevole in mano ai produttori di merci”131.

Non c’è dubbio sulla superiore produttività del capitalismo rispetto ai precedenti sistemi; ed essa, alle sue origini, viene proprio da lì, da quella “espropriazione”.

“Il capitale è produttivo di valore solo come rapporto, in quanto esso, come forza coercitiva nei confronti del lavoro salariato, costringe questo a compiere del pluslavoro, o stimola la forza produttiva del lavoro a creare plusvalore relativo. In entrambi i casi esso produce valore solo in quanto è il potere, estraniato dal lavoro, delle condizioni oggettive del lavoro sul lavoro stesso, in generale solo in quanto è una delle forme del lavoro salariato stesso, in quanto è condizione del lavoro salariato”132.

Una frattura epocale che risale indietro nel tempo, e il cui risultato è che la proprietà acquisita col proprio lavoro, la sua unità originaria, la sua genesi stessa, è cancellata. Né più terra, né strumenti, solo le proprie braccia.

Dovunque e in qualsiasi modo e momento si sia verificata questa scena originaria rivoluzionaria, sono emerse due nuove figure, proprietario e lavoratore. Sono questi i soggetti dei nuovissimi rapporti di produzione capitalistici.

Smantellata la piccola proprietà, dovunque e comunque si sia presentata storicamente, come feudale, del clan, contadina nella comunità di marca etc..133. E l’elenco si può arricchire. Il plusvalore nasce dovunque da quella separazione.

Il pluslavoro, la sua produzione, la sua estrazione, si estendono perciò per quanto si estende la storia umana, almeno a partire dal momento in cui l’uomo è stato in grado di raggiungere un livello di produttività del lavoro tale da lasciare margini per gli appetiti di altri. Impossibile datare e localizzare, ma il concetto è chiaro. Siamo dinanzi a società divise in classi: “ovunque una parte della società possegga il monopolio dei mezzi di produzione”.

A partire da tale scenario originario si scatenano tutte le possibili conseguenze. La proprietà non è più premio al lavoro e così il prodotto del lavoro. Il lavoro non si accompagna più al sapere e all’essere, alla dignità sociale del lavoro; la natura su cui si lavora è merce; i mezzi di produzione non sono più del lavoratore.

Quindi l’espropriazione è l’alienazione totale che viene p r i m a che lo sfruttamento prenda la deriva del prolungamento della giornata lavorativa e del plusvalore “assoluto”.

L’espropriazione è stata profonda e traumatica. Un abisso sociale, un limes insuperabile, “estremo”, l’annullamento, dovunque sia avvenuto, di una intera organizzazione sociale.

Ma facciamo un passo avanti. Quel plusvalore estratto per millenni, dall’età preclassica e classica, e prima ancora, fino al nascere del capitalismo, non poteva che essere “assoluto”:

“Non è l’unità degli uomini viventi e attivi con le condizioni naturali inorganiche del loro ricambio materiale con la natura, e per conseguenza la loro appropriazione della natura, che ha bisogno di una spiegazione o che è il risultato di un processo storico, ma la s e p a r a z l’on e di questa condizioni inorganiche dell’esistenza umana da questa esistenza attiva, una separazione che si attua pienamente soltanto nel rapporto tra lavoro salariato e capitale. Nel rapporto di schiavitù e di servitù della gleba, questa separazione non avviene; bensì una parte della società viene essa stessa trattata dall’altra come mera condizione inorganica e naturale della propria riproduzione. Lo schiavo non si trova assolutamente in nessun rapporto con le condizioni oggettive del suo lavoro; bensì il suo lavoro stesso, tanto nella forma dello schiavo quanto in quella di servo della gleba, viene posto come condizione inorganica della produzione, sullo stesso piano degli altri esseri della natura, accanto al bestiame e come accessorio della terra”134.

 

3. Il capitalismo, però, ha inventato il plusvalore relativo

Il capitalismo nasce in Europa, nel XVI secolo, da un’altra, successiva, separazione, entro un diverso contesto. Il capitalismo non ha inventato il plusvalore assoluto, ma ha inventato un nuovo modo di estrarre plusvalore, quello relativo.

Dov’è infatti la differenza col plusvalore del kalos kai agatos, delle forme della schiavitù, della servitù della gleba?

Il vero lavoro scientifico per Marx è sempre, e anche qui, quello di rintracciare le differenze di forma. Ripetiamolo ancora, Marx, materialista, non è interessato alla materia, ma alle sue trasformazioni.

Posti tali fondamentali, viene l’ora del plusvalore relativo. Il capitalismo attacca, inizialmente, il lavoro con l’allungamento della giornata lavorativa; vince, ma ha in sé un ostacolo oggettivo e si deve fermare:

“Il grande ruolo storico del capitale è di creare questo pluslavoro, questo lavoro superfluo dal punto di vista del semplice valore d’uso, della pura sussistenza (…). Sicché, a questo punto, si può dire che il capitale sta al lavoro come il denaro sta alla merce.(..) Ma nella sua incessante tensione verso la forma generale della ricchezza il capitale spinge il lavoro oltre i limiti dei suoi bisogni naturali, e in tale modo crea gli elementi materiali per lo sviluppo di una individualità ricca e dotata di aspirazioni universali nella produzione non meno che nel consumo”135.

“Riassumendo, noi abbiamo, in generale, questo primo risultato: lo sviluppo della produttività del lavoro- che solo crea il pluslavoro – è condizione necessaria dell’aumento del valore o della valorizzazione del capitale. Come impulso infinito all’arricchimento, il capitale tende dunque ad un infinito aumento delle capacità produttive del lavoro stimolandole incessantemente”136.

Prolungare la giornata lavorativa per aumentare i margini del plusvalore assoluto è stato facile, c’era solo da contenere la riottosità del lavoratore, con il ricatto, la costrizione, la violenza etc. Tutti metodi alla portata.

Ecco com’era andata. Nel primo segmento AB della sua giornata complessiva di lavoro, AC, il lavoratore riceve l’equivalente in salario del suo lavoro. Allora il capitale, che ha avuto il suo ed è in parità, si guarda intorno e cerca altri margini. Si può solo accorciare il segmento AB, il tempo di lavoro socialmente necessario. Non basta più prolungare. Questa scelta obbligata porta al plusvalore “relativo”.

Ma è complicato e impegnativo, richiede una diversa strategia, una radicale ristrutturazione, costosa e impegnativa. Che da allora ad oggi è la storia del capitalismo.

Si tratta di mettere le mani sia dentro il processo produttivo, che sul resto della società:

Deve dunque subentrare una rivoluzione nelle condizioni di produzione del suo lavoro, cioè nel suo modo di produzione, e quindi nello stesso processo lavorativo(…)137.

Adesso il capitalismo non prolunga la durata della giornata lavorativa all’interno del luogo di lavoro, ma deve anche allargare lo scontro all’intera società 138.

Diamo la conclusione e la sintesi che ne fa lo stesso Marx. Si tratta di capire “il carattere antagonistico dell’accumulazione capitalistica”. Si tratta di riuscire a pensare una grande inedita contraddizione: accumulazione di miseria e accumulazione di capitale:

“Abbiamo visto nella quarta sezione, in occasione dell’analisi della produzione del plusvalore relativo, che all’interno del sistema capitalistico tutti i metodi per incrementare la forza produttiva sociale del lavoro si attuano a spese del lavoratore individuale; tutti i mezzi per lo sviluppo della produzione si capovolgono in mezzi di dominio e di sfruttamento del produttore, mutilano il lavoratore facendone un uomo parziale, lo avviliscono a insignificante appendice della macchina, distruggono, con il tormento del suo lavoro, il contenuto del lavoro stesso, gli rendono estranee le potenze intellettuali del processo lavorativo nella stessa misura in cui in quest’ultimo viene incorporata la scienza come potenza autonoma; deformano le condizioni nelle quali egli lavora, nel corso del processo lavorativo lo assoggettano a un dispotismo odioso nella maniera più meschina, trasformano il periodo della sua vita in tempo di lavoro, gli gettano moglie e figli sotto la ruota di Juggernaut del capitale.

Ma tutti i metodi per la produzione di plusvalore sono, al contempo metodi d’accumulazione e ogni estensione dell’accumulazione diventa, viceversa, mezzo per lo sviluppo di questi metodi. Ne consegue, quindi che, nella misura in cui il capitale si accumula, la situazione del lavoratore, qualunque sua la sua retribuzione, alta o bassa, deve peggiorare. La legge infine che equilibra costantemente da una parte sovrappopolazione relativa, ossia l’esercito industriale di riserva e dall’altro volume e energia dell’accumulazione incatena il lavoratore al capitale, in maniera più salda di quanto i cunei di Efesto non saldassero alla roccia Prometeo.

Questa legge determina un’accumulazione di miseria proporzionata all’accumulazione di capitale. L’accumulazione di ricchezza ad uno dei poli è dunque al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento lavorativo, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto, ossia dalla parte della classe che produce il proprio prodotto come capitale.

Questo carattere antagonistico dell’accumulazione capitalistica è espresso in diverse forme dagli economisti politici, benché in parte, essi ne facciano un sol fascio con forme fenomeniche di forme di produzione precapitalistiche, che per quanto – è vero – siano analoghe, sono essenzialmente diverse…”139.

La riorganizzazione del processo produttivo per estendere la porzione di plusvalore, non può che agire sul rapporto con la forza-lavoro. Si tratta di farla costare meno, controllandone la formazione, intervenendo sulle sue componenti. Una strategia che non può essere compito del singolo, ma del “cervello sociale del capitale”. Tutto quello che entra nel costo del lavoro deve essere rivoltato, ristrutturato, dal costo del grano, ai tessuti, alle abitazioni…

Il capitalismo si assume insomma il compito di ridisegnare la società, non solo la fabbrica singola. L’avviso di Marx è chiaro: c’è da fare una “rivoluzione nelle condizioni di produzione”.

Una rivoluzione che costringe ad una “specificazione”. Al plusvalore assoluto deve subentrare qualcosa di nuovo che esige un nome nuovo:

“Chiamo plusvalore assoluto il plusvalore prodotto attraverso il prolungamento della giornata lavorativa; invece, chiamo plusvalore relativo il plusvalore che deriva dall’accorciamento del tempo di lavoro necessario e dal corrispondente cambiamento nel rapporto di grandezza delle due parti costitutive della giornata lavorativa”.

(…)

“Per diminuire il valore della forza-lavoro, l’aumento della forza produttiva deve impadronirsi di quelle branche d’industria i cui prodotti determinano il valore della forza lavoro, cioè fanno parte della sfera dei mezzi di sussistenza abituali, oppure li possono sostituire. Ma il valore di una merce non è determinato soltanto dal quantum di lavoro che le dà l’ultima forma, ma anche, e altrettanto, dalla massa di lavoro contenuto nei suoi mezzi di produzione”140.

È la storia del capitalismo dal XVI secolo al pieno Ottocento, e, per chi lo ha saputo leggere, fino ad oggi con tutte le successive rivoluzioni:

“Tutti i progressi della civiltà dunque, o in altre parole ogni incremento delle f o r z e p r o d u t t i v e sociali, if you want, delle f o r z e p r o d u t t i v e d e l l a v o r o s a l a r i a t o s t e s s o - quali risultano dalla scienza, dalle scoperte, dalla divisione e combinazione del lavoro, dal miglioramento dei mezzi di comunicazione, dalla creazione del mercato mondiale, dalle macchine – arricchiscono non l’operaio, ma il capitale, non fanno altro che ingigantire il dominio sul lavoro; incrementano soltanto la produttività del capitale. Poiché il capitale è l’antitesi dell’operaio, quei progressi accrescono soltanto il p o t e re o g g e t t i v o sul lavoro”141.

 

4. Dall’alienazione originaria al capitalismo

In Europa iniziano presto le manovre che condurranno, nel XVI, alla piena espressione dei nuovi rapporti di produzione capitalistici. La transizione al capitalismo procede dal dissolvimento del precedente feudalesimo, e della estrazione del plusvalore assoluto in Europa, ma in particolare, in Inghilterra per la forma “classica” che ivi ha assunto.

Il capitalismo continua, perciò, in forme nuove, una storia di sfruttamento molto antica. Si può definire il capitalismo come l’età del plusvalore relativo?

“Ci vogliono secoli perché, in conseguenza dello sviluppo del modo capitalistico di produzione, il “libero” lavoratore si adatti volontariamente, sia cioè socialmente costretto a vendere per il prezzo dei suoi mezzi di sussistenza abituali l’intero suo periodo attivo di vita, anzi, la sua capacità stessa di lavoro, la sua primogenitura per un piatto di lenticchie. E’ quindi cosa naturale che il prolungamento della giornata lavorativa – che il capitale cerca di imporre per coercizione statale ai lavoratori adulti, dalla metà del sec.XIV fino alla fine del sec.XVII – coincida all’incirca col limite del tempo di lavoro che nella seconda metà del sec.XIX viene tracciato qua e là, da parte dello Stato, alla trasformazione in capitale del sangue degli adolescenti”142.

Questo tema costituisce un’altra storia. Ci interessa, invece, tutta la fase precedente, quella del plusvalore assoluto.

Altre trasformazioni nel profilo del plusvalore vanno rilevate. anche prima del passaggio al plusvalore relativo. Almeno due. A tracciare un confine, un altro elemento: se in una data società dominano i valori d’uso o i valori di scambio. Quando prevalgono i primi, il plus-lavoro è limitato dalla ridotta cerchia dei bisogni e della produzione stessa, non sorge ancora né può un bisogno illimitato di plus-lavoro.

Al contrario:

“Quando le cose vengono prodotte per lo scambio, quando la loro produzione mira al loro valore piuttosto che alla loro utilità, si dà un mutamento epocale senza precedenti. Paragonabile solo al neolitico”143.

Ma questo crea solo l’habitat:

“Il rapporto fra il capitale commerciale ed il plusvalore differisce completamente da quello del capitale industriale. Quest’ultimo produce il plusvalore appropriandosi direttamente lavoro estraneo non pagato. Il capitale commerciale invece si impadronisce di una parte di questo plusvalore facendosi trasmettere dal capitale industriale questa parte”144.

La storia della progressiva civilizzazione si accompagna a un “bisogno illimitato di pluslavoro”. È un’altra frattura epocale, un’altra data.

C’è poi un altro fatto periodizzante: è il passaggio tardomedievale dalla dipendenza personale, giudico- politica che regge la dipendenza materiale, alla indipendenza personale fondata però sulla dipendenza materiale, tipica dell’età moderna capitalistica.

Facciamoci aiutare da Napoleoni e dalle sue meravigliose Lezioni sul Capitolo VI (ossia Risultati):

“…al momento in cui il lavoro è stato ridotto a lavoro salariato, il lavoro era già lavoro alienato attraverso lo sfruttamento verificatosi in tutta la storia fino a quel momento. Cioè, il lavoro era già stato privato delle sue caratteristiche naturali. Il lavoro, come si presentava a quel momento, era già l’esito di un processo storico in cui, sia pure in forme non capitalistiche, l’uscita del lavoro da se stesso era già un fatto ampiamente scontato”145.

“I rapporti di dipendenza personale (all’inizio su una base del tutto naturale) sono le prime forme sociali, nelle quali la produttività umana si sviluppa soltanto in un ambito ristretto e in punti isolati.

L’indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale è la seconda forma importante in cui giunge a costituirsi un sistema di ricambio sociale generale, un sistema di relazioni universali, di bisogni universali e di universali capacità.

La libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, quale loro patrimonio sociale, costituisce il terzo stadio, il secondo crea le condizioni del terzo”146.

Il superamento della sottomissione giuridico-politica, che accompagna il passaggio alla modernità in Europa, si accompagna anche, per ottenere sempre e più plusvalore, ad altre strategie di controllo e subordinazione. Alla sottomissione alla luce del sole, va sostituita una sottomissione sotto traccia, fatta non più dalla catena dello schiavo, o dal legame giuridico del servo, ma dai fili, sottili e resistentissimi, della dipendenza materiale, ricoperti da una guaina di mistificazione ideologica.

La prima mistificazione è che nel rapporto proprietario-lavoratore si tratti solo di scambio di merci. In questo caso, secondo la legge delle merci, tra equivalenti, non c’è plusvalore, unicuique suum.

Marx, suggerisce che, anche se consideriamo con attenzione questo solo assetto, qualcosa non torna comunque. Il capitalista che compra la merce-lavoro, in realtà non sta comprando una merce come un’altra. E il lavoratore non sta vendendo una merce come un’altra, infatti non può lavorare se non coi mezzi di produzione e alle condizioni di produzione del capitalista.

La merce che l’operaio vende non è un oggetto esterno, è l’operaio stesso.

La sua forza-lavoro non si può staccare dal corpo dell’operaio. Lo scambio non è eguale, anzi è chiaramente diseguale, è impossibile.

E questo ha effetti decisivi e immediati sul prosieguo del rapporto:

“Quindi, sebbene la compravendita della capacità di lavorare, da cui è condizionata la trasformazione di una parte del capitale in capitale variabile, sia un processo autonomo e separato dal processo di produzione immediato e ad esso anteriore, essa costituisce il fondamento assoluto del processo di produzione capitalistico e costituisce un momento di questo stesso processo di produzione, se consideriamo quest’ultimo come un intero e non solo come nell’istante della produzione di merci immediata”147.

Il fondamento è la sua diseguaglianza. Solo perché è diseguale quello scambio è possibile. Contrariamente al normale scambio di merci, dove vige la regola ferrea della equivalenza, qui la regola ineludibile, non contrattabile, è appunto la diseguaglianza, lo scambio ineguale.

A questo punto, avviene la contrattazione diseguale, la nascita “ufficiale” del capitalismo.

Dove prima o dove dopo, ma il secolo XVI viene considerato sempre da Marx come lo spartiacque della nascita del capitalismo in Europa.

Appropriazione della terra, accumulazione del capitale. La massa di questa ricchezza crea un campo magnetico da cui il lavoratore non può sfuggire. Solo lì sono i mezzi di produzione e di sussistenza necessari per produrre. Una volta messo in moto, il meccanismo si estende:

“Nel mezzo della società europea occidentale, dove il lavoratore acquisisce il permesso di lavorare per la propria esistenza solo attraverso il pluslavoro, è facile immaginarsi che fornire un surplus-prodotto sia una qualità innata del lavoro umano”.

Sottolineo: “il lavoratore acquisisce il permesso di lavorare per la propria esistenza solo attraverso il pluslavoro”148.

“Il capitale non è soltanto potere di disporre del lavoro, come dice A. Smith. È essenzialmente potere di disporre di lavoro non retribuito. Ogni pluslavoro, sotto qualunque forma particolare di profitto, interesse, rendita etc., esso si cristallizzi in seguito, è per la sua sostanza materiatura di tempo di lavoro non retribuito. L’arcano dell’autovalorizzazione del capitale si risolve nel suo potere di disporre di un determinato quantum di lavoro altrui non retribuito”149.

La “costrizione” funziona perché è preparata dalla precedente “espropriazione”. Cosa è successo ?

La frase su cui insistere è “il lavoratore acquisisce il permesso di lavorare per la propria esistenza solo attraverso il pluslavoro…”

Non è uno scambio alla pari. Il lavoratore, se vuole realizzare, lavorando, il proprio diritto alla vita, deve chiedere a qualcuno il permesso di lavorare. Non ha strumenti di lavoro, né materiali per farlo. Tale permesso gli verrà accordato a patto che lui non dia semplice lavoro, ma qualcosa di più, pluslavoro: non è in condizione di dettare accordi, può solo accettare la proposta. La situazione di diseguaglianza iniziale, - il lavoratore non ha i mezzi per vivere -, fa sì che il rapporto col capitalista non possa essere un patto eguale. Il proprietario è disposto perciò a proporre un lavoro, ma a patto che non sia un rapporto paritario. Il proprietario riceve il valore intero del prodotto, e ne dà indietro, come salario, una parte che consenta al lavoratore di sopravvivere. La maniera di esprimersi “volgare” è al tempo stesso mistificata e rivelatrice:” datore di lavoro” è il capitalista.

L’ineguaglianza iniziale non può essere riequilibrata. Il lavoratore è stato anzitutto derubato di quello che aveva realizzato col proprio lavoro. Questo è il punto partenza storico reale. Costretto a vendersi a giornata con l’allungamento della giornata lavorativa e successivamente dall’aumento della produttività del suo lavoro realizzato con l’accorciamento del tempo di lavoro socialmente necessario, per compressione, intensificazione.

Il “grande sviluppo della forza produttiva del lavoro” comincia quando, espropriati della terra e dei mezzi di sussistenza, i lavoratori debbono lavorare per la propria sussistenza. Ma questa non viene più ora direttamente dal proprio lavoro, ma dalla quota che il percettore dell’intero pluslavoro consentirà di restituire al lavoratore a lavoro svolto:

Dato che tutta la produzione capitalistica si fonda sul fatto che il lavoro viene direttamente comprato per appropriarsi, nel processo di produzione, di una parte di esso senza comprarla, parte che viene però venduta nel prodotto – essendo questa la base dell’esistenza del capitale, il concetto di esso – la distinzione tra il lavoro che produce capitale e il lavoro che non lo produce non è forse la base per comprendere il processo di produzione capitalistico ?”150

“Non sono un mero compratore e un mero venditore che stanno l’uno di fronte all’altro, sono bensì capitalista e lavoratore, che, nella sfera della circolazione sul mercato, compaiono l’uno di fronte all’altro come compratore e venditore. Il loro rapporto quali capitalista e lavoratore è il presupposto per il loro rapporto quali compratore e venditore”151.

Due fasi

“In primo luogo, la compravendita della capacità di lavorare, un atto che ricade nella sfera della circolazione, ma che – considerato l’intero del processo di produzione capitalistico – costituisce non solo un momento e un presupposto ma anche un costante risultato dello stesso. Questa compravendita di capacità di lavorare presuppone la separazione delle condizioni oggettuali di lavoro -dunque dei mezzi di sussistenza e dei mezzi di produzione – dalla stessa capacità di lavorare viva, cosicché quest’ultima sia l’unica proprietà che il lavoratore abbia a disposizione e l’unica merce che egli abbia da vendere(..)Questa separazione e autonomizzazione sono presupposte affinché si verifichi la compravendita di capacità di lavorare, in genere dunque sono presupposte affinché il lavoro vivo sia incorporato nel lavoro morto come mezzo per la sua autoconservazione e automoltiplicazione, quindi autovalorizzazione”152.

Il lavoratore rimane intrappolato nel cerchio di ferro del punto di partenza a cui è condannato, Merce- Denaro-Merce; il capitalista invece, che possiede D e da lì parte, può entrare nella spirale D-M-D’, uscendone con più denaro.

Il capitalismo come espropriazione della proprietà privata fondata sul proprio lavoro. Su questo Marx ha toni di partecipazione umana:

“La proprietà privata acquistata col proprio lavoro, fondata per così dire sull’unione intrinseca della singola e autonoma individualità lavoratrice e delle sue condizioni di lavoro, viene soppiantata dalla proprietà privata capitalistica che è fondata sullo sfruttamento del lavoro altrui, ma formalisticamente libero”153.

Questa pagina finale del Capitale, messa lì, a conclusione, quando il lettore pensa di avere afferrato ormai, fino in fondo, il ragionamento di Marx, suscita invece un sobbalzo.

 

5. Nel Capitale qualche variazione

Se questo ci pare che sia lo schema generale del plusvalore, non possiamo sorvolare sul fatto che nel Capitale, invece, lo schema esposto è in parte diverso.

Nel Capitale il plusvalore nasce due volte, la prima come deduzione logica, la seconda come esposizione storica.

La prima volta nel Capitale I, cap. 4 par. 3 “Compravendita di forza-lavoro”; la seconda nel cap. 24 “Accumulazione originaria”.

Perché due inizi? Uno non poteva bastare perché, per Marx, la fondazione deve essere teorica e, solo dopo, messa a posto quella, si può esporre la realtà storica.

Ed è qui una differenza, tra Hegel e Marx. Ad Hegel basta e avanza una volta per esporre; a Marx ne occorrono due. In Hegel l’Idea produce la realtà (produrre ed esporre è perciò tutt’uno), da dentro a fuori, e rientra in sé. Nulla c’era fuori e nulla rimane fuori. In Marx pensiero e realtà sono separati, si avvicinano al momento della comprensione, e tornano a separarsi.

Per Marx i due percorsi non possono e non devono mai diventare uno, ma, dopo la connessione conoscitiva, momentanea, debbono tornare ad appartenere a due mondi diversi, pensiero e realtà.

Ricominciamo perciò dai primi capitoli del Capitale, cap.4 par. 3, la Compravendita di forza-lavoro. Nel momento in cui, per il denaro nato dalla merce, occorre trovare il lavoro. E qui, dice Marx, ci vuole “fortuna”, “bisogna trovare…e si trova”, la forza-lavoro libera con cui il capitale può mettere su il capitalismo.

Non solo sono necessari due inizi, ma è duplice anche la sorgente di tali inizi:

“Il capitale non può dunque sorgere dalla circolazione e altrettanto non può non sorgere dalla circolazione. Esso deve, allo stesso tempo, sorgere e non sorgere in essa”154.

È arrivato il momento di uscire dal bozzolo metodologico della “circolazione semplice delle merci”, per diventare farfalla e andare incontro al mondo. Da adesso in poi continuare con le regole della “circolazione semplice” non funziona più. Sono in agguato equivoci, “confusioni”, “contraddizioni”; ma, soprattutto, non si spiega nulla di quanto c’è adesso di nuovo, da spiegare, il plusvalore.

È questo il punto e il momento in cui Marx deve tirare un bilancio finale. La “forzatura metodologica” gli ha assicurato un cammino, adesso però lo blocca. Marx ne ha piena coscienza e indica una sola soluzione:

“La trasformazione del denaro in capitale deve essere sviluppata sul fondamento delle leggi immanenti allo scambio di merci di modo che lo scambio di equivalenti valga come punto di partenza. Il nostro possessore di denaro, qui ancora bruco di capitalista, deve comprare la merce al loro valore, eppure, alla fine del processo, deve ricavarne più valore di quanto non ve ne abbia immesso. La sua evoluzione in farfalla deve avvenire e non avvenire nella circolazione. Questi sono i termini del problema. Hic Rhodus, hic salta!155.

Non c’è modo di continuare, siamo sull’orlo della faglia, si può solo saltare.

“La modificazione di valore del denaro che deve trasformarsi in capitale” non può avvenire né nell’acquisto né nella vendita, perché si rimarrebbe sempre nell’ambito dello scambio tra equivalenti, la merce si scambia con denaro, il denaro con merce:

“La modificazione può dunque sorgere solo dal suo valore d’uso come tale, cioè dal suo consumo. Per ricavare valore dall’uso di una merce, il nostro possessore di merci dovrebbe essere così fortunato da scoprire all’interno della sfera della circolazione, sul mercato, una merce il cui stesso valore d’uso possedesse la peculiare caratteristica di essere fonte del valore, il cui stesso uso effettuale fosse dunque l’oggettualizzazione di lavoro, dunque la creazione di valore. E il possessore di denaro trova pronta sul mercato una siffatta merce specifica - la capacità di lavorare, o forza-lavoro”156.

Ora siamo nell’ambito delle “possibilità teoriche”: “la modificazione può dunque sorgere”; “dovrebbe essere così fortunato”.

Il miracolo, così ben preparato, avviene: “il possessore di denaro trova pronta sul mercato una siffatta merce”.

“Affinché, tuttavia, il possessore di denaro trovi pronta sul mercato la forza-lavoro come merce, debbono essere realizzate diverse condizioni”.

La prima è che “la forza lavoro p u ò manifestarsi al mercato come merce solo perché, e nella misura in cui, essa viene messa in vendita, e venduta, dal suo possessore, dalla persona di cui essa è forza-lavoro. Affinché il suo possessore la venda come merce, egli d e v e poterne disporre, dunque essere libero proprietario della propria capacità di lavorare, della propria persona”157.

Finora s’è trattato di “merci” molto comuni. Ora, basta leggere le caratteristiche della “forza-lavoro” per intendere subito che sta entrando in scena un protagonista assolutamente diverso da quelli visti finora in azione: “la quintessenza delle capacità fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, nella personalità vivente di un uomo”.

Questa merce è diversa e “nuova” perché “esiste solo nella sua corporeità vivente”. Chi compra e chi vende la forza-lavoro sono persone giuridicamente libere ed eguali.

“La seconda condizione essenziale affinché il possessore di denaro trovi pronta sul mercato la forza-lavoro come merce è che il possessore di essa, invece di poter vendere merci in cui si sia oggettualizzato il suo lavoro, d e b b a piuttosto mettere in vendita come merce la sua stessa forza-lavoro, che esiste solo nella sua corporeità vivente”158.

“Per trasformare denaro in capitale, dunque, il possessore di denaro d e v e trovare pronto al mercato delle merci il lavoratore libero, libero nel duplice senso che gli disponga, come persona libera, della propria forza-lavoro come merce propria, e che, d’altra parte, egli non abbia altre merci da vendere; nudo di tutto, è libero da tutte le cose necessarie alla realizzazione effettuale della propria forza-lavoro”.

Marx scarta certe soluzioni impossibili:

“Questo non è un rapporto storico-naturale e non è nemmeno un rapporto sociale comune a tutti i periodi storici. E’ evidentemente esso stesso il risultato di uno sviluppo storico precedente, il prodotto di molti sconvolgimenti economici, del tramonto di un’intera serie di più antiche formazioni della produzione sociale”159.

Ma non poteva essere compiuto in questa prima fase, perché qui si è ancora solo agli inizi, alla “analisi della merce”.

“Altrimenti col capitale. Le sue condizioni storiche di esistenza non sono affatto date con la circolazione di merci e di denaro. Esso si genera solo dove il possesso di mezzi di produzione e di sussistenza trovano disponibile sul mercato il lavoratore libero come venditore della sua forza-lavoro, e questa sola condizione storica abbraccia una storia universale”160.

E nei Grundrisse:

“Se il capitale al termine del processo di produzione si trova ad avere un plusvalore (…) ciò significa, conforme al concetto generale di valore di scambio, che il tempo di lavoro oggettivato nel prodotto o quantità di lavoro (…) è maggiore di quella esistente negli elementi originari del capitale. Ora, ciò è possibile solo se il lavoro oggettivato nel prezzo del lavoro è inferiore al tempo di lavoro vivo che con esso è stato comprato”161.

Al bracciante che alza la schiena dalla terra prima del tramonto è riservato dal soprastante, guardiano del capitale, il monito: “Zappa curnutu ca ancora ‘un’è ura”. È qui il prolungamento della giornata lavorativa.

Ccà nun s’ha da beve, nun s’ha da parlà, s’ha da sulu fatià”: sono i “pori” della giornata lavorativa, di cui parla Marx, compressi fino a scomparire, anche senza e prima delle macchine.

Non è il pluslavoro che nasce dal lavoro; è il lavoro che nasce solo dalla pianificazione del pluslavoro. Non ci sarebbe stato lavoro per l’espropriato, se non ci fosse stato prima l’obiettivo concreto del pluslavoro. E questo perché, nel momento in cui si genera asimmetria ed espropriazione, il ragionamento del proprietario è questo: solo se posso darti meno di quel che mi darai lavorando per me, ti darò il minimo perché tu possa continuare a farlo anche domani.

Ed è in quello stesso momento che diventa necessario espropriare, e quindi iniziare lo sfruttamento. Quando avviene l’esproprio ci sono tutte le premesse per lo scambio che non può che essere ineguale: “è solo come possessore delle condizioni di lavoro che qui il compratore riduce il venditore alla dipendenza economica da sé, non vi è alcun rapporto politico e socialmente fissato di sovraordinazione e subordinazione”162.

Facciamoci confortare da Bellofiore che, giustamente osserva quanto la spiegazione tradizionale sia insufficiente:

“Si tratta dell’esito finale di un ben più significativo “sfruttamento” dei lavoratori in altro senso. La ricchezza capitalistica proviene dall’uso della capacità lavorativa dei lavoratori: tale uso inverte la natura del lavoro, che è reso astratto – “puro e semplice” perché “eterodiretto” - già nella produzione immediata. La misura quantitativa di questo secondo concetto “produttivo” di sfruttamento- un concetto che si riferisce alla formazione piuttosto che alla spartizione di tutto il neovalore aggiunto- non può che essere l’intera giornata lavorativa sociale, esito della “lotta di classe nella produzione”. Da questa seconda prospettiva lo sfruttamento si identifica con l’astrazione/estrazione del lavoro vivo- cioè con tutto il lavoro estratto dai lavoratori. Marx mostra nel primo libro del Capitale, e ancora di più nel Capitolo sesto inedito che il lavoro astratto riflette una vera e propria “inversione di soggetto e oggetto”163.

Non è il lavoro morto, il capitale, ad ingoiare il lavoro vivo nella propria totalità chiusa del presupposto- posto, e sigillato e irraggiungibile nella propria “circulata melodia”. Qui, in Marx, il capitale dipende dal lavoro vivo: perché tu mi possa ridare indietro parte del pluslavoro che io ho prodotto, sono costretto a offrirti lavoro.

 

6. Conclusione

L’economia politica nasce come scienza separata e nuova per capire la novità del meccanismo economico. Dopo il XVI secolo, alla scoperta del “nuovo mondo”, lontano, al di là dal mare, e del “vecchio mondo”, perduto, nelle pietre, nei vecchi manoscritti, si aggiunge quello, sotterraneo, che regge, in modo talvolta “scandaloso”, poco morale, poco religioso, la vita quotidiana. Molte le domande, ma qui né i “selvaggi”, né gli “antichi” possono essere d’aiuto.

L’economia “politica” nasce come scienza nuova per capire il funzionamento della nuova economia, coi mercantilisti. Con Ricardo (scomparso nel 1823), l’essenziale è fatto. Però quello che la nuova scienza ha capito, è difficile da metabolizzare. Avere colto i “nessi interni” del meccanismo economico è un guardarsi allo specchio che crea disagio.

“Ricardo non si preoccupa mai dell’origine del plusvalore. Lo tratta come una cosa inerente al modo di produzione capitalistico che ai suoi occhi è la forma naturale della produzione sociale. Dove parla della produttività del lavoro egli non vi cerca la causa dell’esserci del plusvalore, ma solo la causa che ne determina la grandezza(…)anche la scuola ricardiana ha solo girato intorno al problema senza risolverlo”164.

Quello è proprio il luogo da cui bisogna distogliere lo sguardo. Gli economisti borghesi “vedono come si produca all’interno del rapporto di capitale, ma non come questo rapporto stesso venga prodotto”. La storia fa orrore.

La scena dello scambio, alla superficie della circolazione, tra lavoratore e capitalista, “si dilegua”. Non si tratta più di possessori di merci di uguali diritti:

“La compravendita della capacità di lavorare come risultato costante del processo di produzione capitalistico implica che il lavoratore debba costantemente ricomprare una parte del proprio prodotto in cambio del proprio lavoro vivo. Con ciò si dilegua la parvenza di un mero rapporto tra possessori di merci”165.

L’ineguaglianza iniziale si conferma nella estrazione di plusvalore. È questo fine che dalla fine ha gestito l’inizio del processo. Solo l’obiettivo di realizzare plusvalore, cioè di valorizzare, ha potuto mettere insieme i pezzi del processo lavorativo. La visione va rovesciata: il fine del plusvalore assoluto, realizzato con il processo di valorizzazione, ha giustificato e costruito il mezzo, il processo lavorativo. Il fine è alla fine, ma ha pilotato dalla fine, l’inizio. Il Soggetto è sempre alla fine, da lì governa. Fin da piccolo, il “capitale” si rivela “Soggetto”.

“In quella prima comparsa gli stessi presupposti si presentavano come risultati estrinseci della circolazione, come presupposti esterni della nascita del capitale, i quali, non derivando dalla sua intima essenza, non ne venivano nemmeno spiegati. Questi presupposti estrinseci si presenteranno ora come momenti del movimento del capitale stesso, e si vedrà che il capitale li ha presupposti – per quanto storica possa essere la loro origine – come suoi stessi momenti”166.

Perché meravigliarsi se, pur senza Marx, ma con il meglio della economia politica classica che c’è già e che la filosofia conosce, Hegel abbia compreso la teleologia sottesa nel capitalismo e l’abbia posta a base del proprio sistema chiamandolo in un altro modo?

“lo sfruttamento non va inteso tanto come l’appropriazione di un plusprodotto o di un pluslavoro, fenomeni ampiamente presenti anche nelle formazioni sociali precapitalistiche: va piuttosto visto come l’imposizione e il controllo, diretto e indiretto, che gravano su tutto il lavoro per ottenere il pluslavoro. Il lavoro è sfruttato perché è lavoro forzato e eterodiretto già nel momento della produzione. Si tratta di una circostanza specifica del capitalismo, in qualche modo la sua differenza specifica. In questo approccio, insomma, astrazione e sfruttamento del lavoro divengono fenomeni sostanzialmente coestensivi”167.

Il capitalista non propone uno scambio alla pari lavoro-salario, ma plusvalore-salario.

Quindi la condizione-chiave del rapporto non è salario per lavoro, ma è a monte, nella espropriazione dei produttori immediati. Al capitalista non interessa che il lavoratore gli restituisce lavoro in cambio di un equo salario.

Il capitalismo come espropriazione della proprietà privata fondata sul proprio lavoro: ”deve essere distrutta, e viene distrutta”168. Non è certo un caso che il Capitale si concluda con la difesa della proprietà privata acquisita col lavoro.

Scrive M. Tomba:

“Nelle pagine del Capitale l’attenzione al processo di produzione che “storpia il lavoratore e ne fa una mostruosità” è rivolta al corpo operaio, a ciò che è irrisarcibile e che costituisce la dismisura rispetto a qualsiasi misura salariale.(..) Il lavoratore non ha un corpo che viene portato al lavoro per erogare forza- lavoro ma è un corpo che viene costretto al lavoro”169.

E in nota:

“Per questa ragione rappresentare in termini di equità il rapporto capitale-lavoro è logicamente impossibile. Ciò che è formalmente corretto e conforme a diritto nella sfera della circolazione, la compravendita di forza- lavoro, diviene un’ingiustizia nel processo di produzione, dove la forza-lavoro che deve essere erogata si porta necessariamente dietro un corpo che viene consumato e logorato durante il processo lavorativo. Il salario paga l’uso della forza.lavoro, non può pagare il consumo del lavoratore”170.

E, infine, un cenno sul metodo.

Commenta Bellofiore:” Ciò che nelle prime sezioni costituisce una manifestazione fenomenica (ovvero un Erscheinung), si rivela essere una parvenza illusoria (ovvero uno Schein).

A questo punto dobbiamo dunque ripercorrere la via sin qui battuta, e leggere il primo libro del Capitale anch’esso a ritroso. Marx aveva iniziato con merce e denaro, per considerare poi il capitale – in altri termini, in che modo il capitale viene a costituirsi. Quanto al mercato del lavoro, la manifestazione fenomenica non poteva che dirci che i lavoratori e i capitalisti sono soggetti liberi e uguali. Il che non era falso, a quello stadio della esposizione. Ma quando si giunge alla riproduzione e si assume il punto di vista della totalità, l’esposizione è trasformata in una prospettiva “macro”, di classe, direttamente sociale(…) Il fatto che in Marx la fondazione “macro” conduce a conclusioni opposte rispetto alla logica “micro” è evidente nel fatto che la classe lavoratrice è legata al capitale complessivo da una relazione di schiavitù: la libera ed egualitaria contrattazione del lavoratore individuale era soltanto una oggettualità illusoria, non di meno necessaria.

Quando si legge Marx bisogna essere avvertiti del fatto che il significato delle categorie viene alterandosi lungo il percorso espositivo della Darstellung171.

E in nessun luogo meglio che nel Capitale, visto come un intero, questo avvertimento va seguito:

“Il capitale si manifesta sempre più come una potenza sociale di cui il capitalista è l’agente - che ha oramai perduto qualsiasi rapporto proporzionale con quello che può produrre il lavoro di un singolo individuo; ma come una potenza sociale, estranea, indipendente che si contrappone alla società come entità materiale e come potenza dei capitalisti attraverso questa entità materiale”172.

Per seguire il circolo del “capitale” bisogna aspettare che il “presupposto” esterno e casuale sia “posto” dal meccanismo interno, ora autosufficiente. Il Capitale deve seguire questo andamento se vuole renderne conto.


Bibliografia
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Marx K., Urtext in Scritti inediti di economia politica (a cura di M. Tronti), Roma 1963. Marx K., Teorie del plusvalore, Roma 1971(trad. Giorgetta),
Marx K., Manoscritti 1861-63, Roma 1980
Marx K., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Firenze 1968. Marx K. Il Capitale III, (Boggeri), Roma 1968
Bellofiore R., Marx e la fondazione macroeconomica, in Marx in questione, Napoli 2009 Bellofiore, Marx rivisitato: capitale, lavoro e sfruttamento in Trimestre XXIX nn.1-2 pp.29-86 1994 Ben Said D., Marx l’intempestivo, Roma 2007
Colletti L., Contributi critici a A. Smith, La ricchezza Roma 1971 Napoleoni C., Lezioni sul Capitolo sesto, Torino 1972
Smith A., La ricchezza delle nazioni (con contributi critici di Colletti, Napoleoni, Sylos Labini), Roma 1971 Tomba M., Strati di tempo. K. Marx materialista storico, Milano 2011.

Note
1 Marx, Capitale I, cit., p.197
2 Marx, Capitale I cit., p.194
3 C.s., p.197
4 C.s., p.197
5 C.s., p.197
6 C.s., p.555
7 C.s., pp.197-8
8 C.s., p.198
9 C.s., p.198
10 C.s., p.199
11 C.s., p.199
12 C.s., pp.199-200. Vedi qui alle pp.33-4
13 C.s., p.200
14 C.s., p.201
15 C.s., p.203
16 C.s., p.203
17 C.s., p.204
18 C.s., p.201
19 “Nel 1867, l’Esposizione universale di Parigi accoglie per la prima volta un padiglione di storia del lavoro contenente una collezione di strumenti di lavoro” (D. Bensaïd, Marx l’intempestivo, Roma 2007, p.330). Se, con qualche forzatura - en passant - assimiliamo i “mezzi di lavoro” all’universo eterogeneo delle “forze produttive”, possiamo rilevare qui che i due termini, “gradimetri” e “indicatori”, sono meno vincolanti, meno impegnativi, di quelli utilizzati nello schema della Prefazione del ‘59, in cui le “forze produttive”, addirittura, “spezzano” i “rapporti di produzione”, aprendo nuove epoche. Qui si limitano a indicare, misurare, etc., come se, nel passare alla analisi concreta del Capitale, ci fosse stato un ridimensionamento del loro ruolo.
20 Marx, Capitale I, cit., p.202
21 C.s., p.203
22 C.s., p.555
23 C.s., p.556
24 C.s., p.556
25 C.s., p.556
26 C.s., p.204
27 C.s., p.205
28 C.s., p.205
29 C.s., p.206
30 C.s., p.206
31 C.s., p.207
32 C.s., pp.208-9
33 C.s., p.209
34 C.s., p.210
35 C.s., p.212
36 C.s., p.213
37 C.s., p.214
38 C.s., p.214
39 C.s., p.214
40 C.s., p.208
41 C.s., p.209
42 C.s., p.209
43 C.s., p.209
44 C.s., p.210
45 C.s., p.210
46 C.s., p.212
47 C.s., p.213
48 C.s., p.212
49 C.s., p.213
50 C.s., p.213
51 C.s., p.214
52 C.s., pp.214-5
53 C.s., p.217
54 Marx K., Urtext in Scritti inediti di economia politica (a cura di M. Tronti), Roma 1963, pp.124-25.
55 C.s., p.126
56 C.s., p.128
57 Marx Capitale I, cit., pp.214-5
58 C.s., p.215 
59 C.s., pp.216-7
60 C.s., p.217
61 Marx Capitale I, cit., t.II, Risultati cit., p. 960
62 C.s., pp.931-2
63 C.s., p.951
64 C.s., p.219
65 C.s., p.220
66 C.s., pp.220-21
67 C.s., p.226
68 C.s., p.228
69 C.s., p. 228
70 C.s., pp.228-29
71 C.s., p.231
72 C.s., p.232
73 C.s., p.233
74 C.s., p.235
75 C.s., pp.235-6
76 C.s., p.231
77 C.s., p.237
78 C.s., p.241
79 C.s., p.237
80 C.s., p.242
81 C.s., p.249
82 C.s., p.236
83 C.s., p.249
84 C.s., p.253
85 C.s., pp.253-54
86 C.s., p.254
87 C.s., pp.254-5
88 C.s., pp.255-6
89 C.s., p.256
90 C.s., p.260
91 C.s., pp.264-5
92 C.s., pp.269-70
93 C.s., pp.278-9
94 C.s., pp.287-8
95 C.s., p.288
96 C.s., p.288
97 C.s., p.289
98 C.s., pp.289-90
99 C.s., p.294
100 C.s., pp.301-2
101 C.s. p. 326
102 C.s., pp.327-8
103 C.s., p.330
104 C.s., p.331
105 C.s., p.335
106 C.s., pp.334-5
107 C.s., p.335
108 C.s., p.336
109 C.s., p.337
110 Marx K., Capitale I, cit., p. 556
111 Marx, Teorie del plusvalore, Roma 1971(trad.Giorgetti), p. 123.
112 C.p., p.127
113 C.s., p.129
114 Marx, Capitale III, Roma 1968, p. 402:” La vera scienza dell’economia moderna non comincia che là dove la trattazione teorica passa dal processo di circolazione al processo di produzione”.
115 Marx, Manoscritti 1861-63, Roma 1980, pp. 44-45.
116 Smith A., La ricchezza delle nazioni, Roma 1976(con contributi critici di Colletti, Napoleoni, Sylos Labini) pp.111-112.
117 Marx, Teorie cit.(Giorgetti), p.162
118 C.s., p.173
119 Marx, Risultati in Capitale I, t.II cit., p. 961-2
120 Marx Teorie I cit., p. 175
121 C.s., p.182
122 Marx, Capitale I, cit., p. 562.
123 Colletti L., Contributi critici al vol. cit. di A. Smith, Ricchezza 1976, cit., p. X).
124 Marx, Teorie I cit., p.443
125 Marx, Capitale I cit., p.255
126 C.s., p.836
127 C.s., p.236
128 Marx, Lineamenti I, cit., p. 226
129 Marx, C.s., p. 279
130 Marx, Risultati del processo di produzione immediato, in Capitale cit., libro I, t.II, p. 970.
131 Marx, Capitale I, cit., p. 787
132 Marx, Teorie cit., p.192
133 Marx, Capitale III cit., p.716
134 Marx, Lineamenti II cit., pp.114-5
135 Marx, Lineamenti, I cit., p. 317
136 C.s. I, p. 339
137 Marx, Capitale I cit., p.343
138 La produzione del plusvalore assoluto ha preso i capitoli 5-9(pp. 197-340); la produzione del plusvalore relativo i capp.10- 13(pp.341-554), seguito dai capitoli sulla produzione del plusvalore assoluto e relativo insieme, capp.14-16(pp. 555-58), e poi salario (capp.17-20, pp. 588-628). Storicamente: Cooperazione, Divisione del lavoro e manifattura, Macchinari e grande industria.
139 Marx, Capitale I cit., pp.714-5
140 C.s., p.344
141 Marx, Lineamenti cit., p.295
142 C.s., p.294
143 Tomba M., Strati di tempo cit., p. 184
144 Marx Capitale III, p. 352. E più sinteticamente sui lavoratori del settore, a p. 359:” Il lavoratore commerciale non produce direttamente plusvalore”.
145 Napoleoni C., Lezioni sul Capitolo sesto, Torino 1972, p. 123
146 Marx, Lineamenti cit., p 98 ss.)
147 Marx, Risultati in Capitale I, t.II, p. 957
148 Marx Capitale I cit., p.562
149 C.s., p.585
150 C.s., p.455
151Marx, Risultati cit., p. 968
152 Marx, Capitale I, cit., Pagine sparse, p. 886
153 C.s., p.837
154 C.s., p.182
155 C.s., p.183
156 C.s., p.184
157 C.s., p.184
158 C.s., p.185
159 C.s., p.186
160 C.s., p.187.
161 Marx, Lineamenti I cit., p.312
162 Marx Risultati cit., p.977
163 Bellofiore R., Marx e la fondazione macroeconomica, in Marx in questione, Napoli 2009, pp.178-9.
164 Marx, Capitale I, cit., p.563
165 Marx, Risultati cit., p.1017
166 Marx, Lineamenti II, cit., p.89
167Bellofiore, Marx rivisitato punto 5.8(non ci sono numeri di pagina).
168 Marx, Il Capitale I, cit., p. 836.
169 Tomba M., Strati di tempo. K.Marx materialista storico, Milano 2011, p.172
170 C.s., nota a p. 173
171 Bellofiore R., C’è vita cit., p.52
172 Marx Capitale III, cit., p. 318.

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