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Sulla determinazione del valore dei beni capitali in un’economia moderna

di Andrea Pannone

treno merci faIl tema affrontato in questo scritto può sembrare astratto e di appannaggio riservato ai soli specialisti. In realtà, quello della valutazione dei beni capitali è un aspetto estremamente problematico sin dagli inizi della storia del pensiero economico e costituisce, più o meno esplicitamente, un fattore discriminante di tutte le teorie del valore.

Senza la minima pretesa di esaustività, nelle pagine seguenti procederemo come segue:

  1. forniremo brevissimi cenni su come le varie scuole economiche abbiano affrontato nel tempo il problema della valutazione dei beni capitali.

  2. forniremo gli elementi di un approccio alternativo alla determinazione del valore dei beni di capitale. Tale approccio, oltre a permettere di superare (almeno alcuni de)i principali limiti degli approcci esistenti in letteratura, risulta estremamente coerente con importanti aspetti dell’evoluzione tecnologica e finanziaria delle economie moderne.

 

La valutazione dei beni capitali lungo la storia del pensiero economico: alcuni cenni

Come ci ricorda Giorgio Gattei (2003), ad esempio, ai fini della validità della ‘legge’ del valore- lavoro – ossia del principio di origine Smithiana secondo cui le merci si scambiano sul mercato in base al rapporto tra le quantità di lavoro necessarie a produrle - è anche implicitamente richiesta l’ipotesi che nei processi produttivi delle due merci non venga impiegato alcun bene capitale. In caso contrario, anche la presenza di un solo bene capitale non consentirebbe più la semplificazione del valore di scambio al rapporto dei lavori contenuti.

Come nota sempre Gattei se, alla maniera di Ricardo, il problema venisse risolto valutando i beni capitali mediante il loro costo ‘storico’, ossia al costo di quei beni al momento della loro produzione/acquisizione - cronologicamente antecedente(i) al momento presente, - la determinazione di quel valore non potrebbe essere ricondotta al solo lavoro ‘diretto’ speso nel momento presente stesso, ma dipenderebbe anche dal trascorrere del tempo, rendendo così indeterminata l’equivalenza tra valore e lavoro1.

Come è noto Marx, nel determinare il saggio medio di profitto nel terzo libro del capitale (1894), prova ad aggirare il problema rapportando il plusvalore complessivo alla somma del capitale costante (beni capitali e materie prime) e del capitale variabile (lavoratori) investiti in tutta l’economia. Il saggio di profitto aggregato è, insomma, un rapporto dove tanto il numeratore quanto il denominatore sono espressi in grandezze proporzionali ai valori-lavoro, o se si preferisce valutate ai prezzi “semplici” (vedi Bellofiore 2020 cap. 7). Questo può funzionare, però, solo se ammettiamo che la composizione organica – ossia il rapporto tra capitale costante e capitale variabile - in tutti i settori dell’economia sia la stessa2.

I tentativi più importanti di superare questo empasse nell’ambito della letteratura marxista sul problema della trasformazione del valore in prezzi sono essenzialmente di due tipi: quella di tipo simultaneista e quella di tipo sequenzialista.3

La prima soluzione, sostanzialmente riconducibile alla cosiddetta della New Interpretation di Marx (vedi ad esempio Duménil 1980; Foley 1986), fa riferimento alla metodologia dell’equilibrio – già utilizzato da Bortkiewicz e da Sraffa per affrontare le problematiche del valore - in cui le merci hanno gli stessi prezzi quando compaiono come input e come output. Questo implica che il prezzo unitario di un bene capitale impiegato nella produzione sarebbe uguale al prezzo di un bene, fisicamente identico al primo, che viene ottenuto come prodotto. E’ però evidente che il primo prezzo fa riferimento al momento dell’acquisto del bene capitale, che è temporalmente antecedente al momento della vendita del prodotto. Il fatto che i prezzi dei due beni siano sempre gli stessi può essere dovuto o al caso (piuttosto improbabile) che i prezzi rimangano sempre costanti (inflazione sempre nulla) o al fatto che i processi di produzione dell’input e dell’output avvengono nello stesso momento ossia si svolgono a prescindere dal tempo, cosa questa in totale contrasto, oltre che con la realtà, con la visione di Marx e di tutti gli economisti classici, che concepiscono il processo produttivo come un processo circolare: “dalla produzione di merci, al consumo (che serve alla riproduzione di lavoratori), al conseguimento di profitti, all’acquisto di nuove risorse, produzione di nuove merci, e così via in un ciclo continuo, in grado di sviluppare attività di accumulazione” (Fumagalli 2021)4.

La seconda soluzione, sostanzialmente riconducibile alla cosiddetta “temporal single-system interpretation” di Marx (TSSI, vedi ad esempio Kliman e MacGlone1999, Freeman e Kliman 2000, Freeman (2001)), fa riferimento a un contesto analitico di tipo esplicitamente sequenziale. Come conseguenza, al momento della determinazione del prezzo di un bene, l’investimento nel capitale costante è stato già effettuato, per cui non si può fare a meno di utilizzare i prezzi ‘storici’ per valutarlo. In questo caso, la spesa monetaria associata all’investimento si trasferisce interamente nel valore della merce. Immediato, a questo punto, è il calcolo del saggio del profitto. Se il capitalista ha speso 100 per l’investimento all’inizio del periodo di produzione e guadagna 110 alla fine dello stesso periodo, il suo saggio di profitto è 10%. Mentre questa soluzione ha certamente senso se il capitale costante venisse utilizzato per un solo periodo produttivo – ossia se fosse assimilabile al capitale circolante (ad es. materie prime ed energia) - essa diventa molto più problematica nel caso in cui il capitale costante sia costituito anche da beni capitali, ossia da beni che prevedono per definizione un uso multiperiodale. In questo caso, infatti, il bene (o i beni) capitale(i) trasferisc(ono)e il proprio valore nelle merci che vengono vendute nel corso di più anni, che corrispondono alla durata della sua vita utile. Quest’ultima, però, non è fissata a priori ma dipende, oltre che dalla durata fisica del bene, dalla sua obsolescenza tecnologica, a sua volta scandita dal ritmo dei processi di innovazione5. Ciò renderebbe comprensibilmente la valutazione del bene capitale – e quindi del saggio del profitto - del tutto indeterminata.

Ovviamente molto diverso è il tentativo di determinare il valore di un bene capitale all’interno della teoria marginalista/neoclassica. L’esigenza di specificare una funzione di produzione dell’intera economia che dipenda dalla quantità di lavoro e di capitale impiegate - necessaria a giustificare un meccanismo di ripartizione della ricchezza/reddito basato sul contributo fornito alla produzione (produttività) da due fattori produttivi potenzialmente intercambiabili – conduce, a sua volta, alla necessità di giungere a una misura omogenea del valore del capitale. La ‘quantità’ di capitale impiegata nella produzione, infatti, è generalmente formata da beni capitali di tipo diverso e con un prezzo diverso. Già alla fine dell’800 Eugene Bohm Bawerk aveva mostrato come bisognasse considerare il capitale nella sua struttura temporale, non come una variabile statica, e definire una relazione tra questa struttura ed il tasso di interesse. Quest’ultimo, infatti, viene visto come la remunerazione del risparmio che si traduce, in un’economia di tipo concorrenziale, automaticamente in investimento produttivo, ossia in domanda di beni capitali6. Il fatto di far dipendere il valore del capitale aggregato dal tasso di interesse conduce però, come è noto, a un cortocircuito logico. Il tasso di interesse, infatti, finirebbe per dipendere dalla quantità di capitale richiesta (ossia dalla domanda), la quale dipenderebbe, in coerenza con l’impianto marginalista/neoclassico, proprio dalla struttura dei prezzi dei beni capitali richiesti, alimentando un circolo vizioso senza fine. Sappiamo ormai che l’erroneità dell’argomento neoclassico ai fini della misurazione del valore del capitale aggregato fu inoppugnabilmente dimostrata nella controversia teorica che vide contrapposte, 53 anni fa, le due scuole di Cambridge, quella in Inghilterra e quella negli Stati Uniti. Per una sintesi del dibattito pubblicata nel 1966 sul Quarterly Journal of Economics si veda Fratini 2016)7.

 

Verso una nuova misura aggregata del capitale

In questo paragrafo forniremo un nuovo approccio alla valutazione del capitale aggregato che, riteniamo, permette di superare le principali problematiche evidenziate in precedenza. L’idea di fondo è che nelle economie moderne le imprese tendano ormai a non possedere più (o comunque tendano a possedere sempre meno) il diritto di proprietà dei beni capitali utilizzati per produrre, bensì tendano a possedere solo il loro diritto d’uso in uno o più periodi di produzione. L’accesso a tale diritto avviene, come vedremo tra un momento, attraverso l’intermediazione del sistema bancario che ne definisce le condizioni contrattuali, dato il tasso di sconto fissato dalla Banca Centrale e il valore nominale dei beni capitali. Le condizioni includono la manutenzione del bene capitale nel periodo in cui esso è in uso presso l’impresa.

Il fenomeno descritto, che di fatto implica il passaggio dall’acquisto di un bene all’acquisto di un servizio, comincia ad essere chiaramente riconoscibile già intorno agli anni ’90, quando l’avvento della ‘rivoluzione digitale’ favorisce progressivamente:

  1. la possibilità di monitorare e gestire in tempo reale ogni macchina e impianto;

  2. l’affermazione di una disciplina giuridica in grado di assicurare contratti di servizio capaci di regolare la relazione tra chi beneficia del bene e chi quel bene lo mette a disposizione.

  1. l’evoluzione dai tradizionali modelli di finanziamento bancario verso opzioni di affitto, leasing, noleggio di attrezzature con pagamenti periodici in corso, contratti di manutenzione preventiva, ecc. I principali tratti evolutivi di questo processo vengono anticipati nel libro di Jeremy Rifkin “L’Era dell’accesso” (2000), con capacità solo apparentemente profetica (Rifkin è estremamente informato sulle attività dei think tank internazionali). Oggi, ricorrendo a un pessimo neologismo mutuato dall’inglese, si parla di ‘servitizzazione’, ad indicare una forte maturazione di questo fenomeno, che si è diffuso praticamente a tutte le classi di beni capitali8.

Coerentemente a questi sviluppi, assumeremo in primo luogo che i beni capitali necessari alla produzione di merci sono stati prodotti nel periodo (o nei periodi) antecedente(i) al periodo di produzione corrente (tempo t). Assumeremo che le imprese che hanno bisogno di questi beni acquisiscono il loro diritto d’uso stipulando una sorta di contratto di affitto con le banche che forniscono l’intermediazione con i venditori. Le decisioni di acquisire i beni capitali sono state assunte in uno o più momenti cronologicamente antecedente a quello della produzione corrente, sulla base di aspettative di lungo periodo di vendita del prodotto9. Ciascun impegno contrattuale è assunto all’inizio del periodo di produzione corrente e prevede che le imprese paghino alle banche, alla fine dello stesso periodo, una rata fissa annua (rental cost) per ciascuna unità di capitale presa in affitto, che include la sua manutenzione in condizioni ottimali. Si può assumere anche che le imprese paghino il rental cost mediante i proventi ottenuti dalla vendita dei prodotti alla fine del periodo. Il costo del capitale è quindi un costo sunk in quanto verrebbe sostenuto dalle imprese anche se, nel periodo corrente, non ci fosse alcuna richiesta e produzione dei loro prodotti (vedi Morroni 1992)10. Osserviamo che le suddette assunzioni non rappresentano ipotesi ad hoc ma riflettono, almeno in linea di principio, la necessità di tenere conto del ruolo della dimensione temporale nel processo di investimento11.

Indichiamo ora con 𝜎! il rental cost di un’unità di capitale di tipo k. Seguendo Piacentini (1995) e

assumendo, per semplicità, una durata tecnica infinita di tutte le unità di capitale si può scrivere che:

1)      Schermata del 2022 08 05 16 49 40

Dove 𝑖 è il tasso di interesse utilizzato dalle banche come riferimento per definire il contratto di affitto. Tale tasso viene calcolato applicando un mark-up sul tasso di sconto vigente al momento dell’acquisizione delle unità di capitale (tempo t). Si assume che il tasso di sconto sia fissato dalla Banca Centrale12;

𝑉! è il prezzo monetario dell’unità di capitale oggetto del contratto di affitto all’inizio del periodo di produzione13. Appare chiaro che la 1), per come è stata definita, non risente di eventuali mutamenti nelle condizioni generali del credito (ad es. aumenti o diminuzioni del tasso di sconto)14 e delle variazioni che potrebbero avvenire sul mercato dei beni capitali a causa dell’innovazione tecnologica; entrambi i cambiamenti riguarderebbero infatti solo la stipula dei nuovi contratti di acquisizione delle unità di capitale, non quelli ‘vecchi’, ossia quelli già stipulati all’inizio del periodo di produzione corrente, momento da cui cominciano a decorrere.

Essendo il capitale fisico formato da tipologie eterogenee (a, b,…z), il suo valore del complessivo nel periodo/anno corrente sarà dato da una combinazione lineare dei rental cost relativi alle diverse tipologie di capitale, con pesi corrispondenti al numero di unità di ciascun tipo che si rendono disponibili all’inizio del periodo. In termini formali, relativamente alla generica merce i, si ha15:

!%&

2)   Schermata del 2022 08 05 16 42 25

Dove il segno di uguaglianza prevale quando una data tipologia di bene capitale non compare nella

produzione del generico bene i.

La 2) è indipendente sia dalle future variazioni del tasso di interesse che da quelle del prezzo dei beni capitali. Da essa si ottiene poi facilmente il valore aggregato del capitale di un’economia che produce n beni

3)   Schermata del 2022 08 05 16 44 58

Si può osservare, quindi, come la giusta critica al concetto neoclassico di capitale aggregato da parte della Scuola inglese di Cambridge non intacchi, in alcun modo, il nostro approccio alla determinazione del suo valore.

Notiamo che la 3) potrebbe essere utilizzata per determinare il saggio medio del profitto dell’intera economia in modo analogo alla soluzione fornita dalla TSSI (vedi sopra), senza però avere il problema dell’indeterminatezza del valore dei beni capitali che l’adozione di quell’approccio comporta.

Concludiamo con un’ultima osservazione. Nel caso in cui, alla fine del periodo di produzione, le vendite effettive fossero inferiori rispetto alle aspettative di lungo periodo delle imprese formulate in passato – aspettative sulle quali sono stati stipulati i contratti di affitto con le banche all’inizio dello stesso periodo – i beni capitali disponibili rimarrebbero almeno parzialmente inutilizzati. Come conseguenza il costo del capitale per unità di prodotto e il costo medio aumenterebbero, mentre il plusvalore e i profitti monetari derivanti dal lavoro produttivo e risulterebbero più bassi dei livelli massimi attesi, corrispondenti alla piena utilizzazione di tutti i beni capitali disponibili16. Questo implicherebbe una riduzione del saggio del profitto medio dell’economia al di sotto del suo livello massimo ottenibile. Da qui deriva un'altra importante implicazione: poiché alla fine del periodo di produzione i capitalisti devono devolvere alle banche una parte dei profitti derivanti dalle vendite dei loro prodotti – parte che corrisponde al valore degli impegni contrattuali stipulati all’inizio dello stesso periodo (vedi equazioni 1,2,3) – se aumenta il grado di inutilizzazione della capacità produttiva/capitale nell’economia, allora la quota di plusvalore che afferisce alle banche cresce rispetto al plusvalore complessivo17.


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Note
1 E’ questo il problema che si riscontra nella determinazione del valore di scambio da parte di David Ricardo, come osservato da Sraffa (1951) e da Napoleoni (1976), e come riconosciuto dallo stesso economista inglese in una lettera del 1820: “alle volte penso che se dovessi riscrivere il capitolo del mio libro sul valore, riconoscerei che il valore relativo delle merci è regolato da due cause invece che da una: dalla quantità relativa di lavoro necessaria a produrre le merci e dal saggio del profitto per il tempo in cui il capitale rimane quiescente e finché le merci non sono portate al mercato” (vedi Ricardo 1980, p. 189).
2Marx ritiene di poter trattare separatamente il problema del valore e quello del prezzo di produzione; e ritiene che, in un secondo stadio dell’analisi, si possa trovare un nesso rigoroso e non equivoco fra valori (misurati in ore lavoro), e prezzi di produzione. Queste proposizioni si fondano sull’assunto che sono ammissibili, simultaneamente, due equivalenze: da un lato, fra somma dei valori e somma dei prezzi di produzione; dall’altro, fra plusvalore totale e profitti totali. Ora, se si esclude il caso non realistico di una composizione organica uguale per tutte le merci, appare che queste due equivalenze non possono sussistere simultaneamente: se è vera la prima non è vera la seconda, e viceversa. […] La teoria del valore-lavoro così com’è stata formulata da Marx, non funziona […]” (Sylos Labini, 1973, p. 14).
3 Le suddette nuove interpretazioni del sistema marxiano hanno potuto beneficiare di nuovi studi filologici nell'ambito della MEGA2, la nuova edizione storico-critica delle opere complete di Marx ed Engels.
4 https://www.machina-deriveapprodi.com/post/introduzione-allo-studio-dell-economia-politica
5 Consideriamo ad esempio un bene capitale pagato 100 euro, che ha una durata fisica attesa di 5 anni e che viene ammortizzato con una rata costante. Questo vuol dire che la produzione di merci incorpora (ossia il valore del bene capitale si riduce di) 20 euro all’anno per 5 anni. Se il capitalista decidesse di vendere il bene capitale diciamo alla fine del terzo anno, il capitalista potrebbe ricavare 40 euro. Se, però, alla fine dello stesso periodo comparisse un nuovo bene capitale che svolge le stesse funzioni del precedente ma in modo molto più efficiente il capitalista, decidendo di mettere in vendita quello vecchio, ricaverebbe meno di 40: il suo valore iniziale sarebbe infatti presumibilmente inferiore a 100, in quanto la sua richiesta complessiva diminuirebbe a vantaggio del bene capitale più efficiente. Cosa succederebbe, invece, se il capitalista decidesse di mantenere il possesso del ‘vecchio’ bene capitale fino alla fine dei 5 anni? In questo caso il capitalista continuerebbe a produrre, per il quarto e il quinto anno, in modo meno efficiente (ossia con costi medi più alti e minori profitti) delle imprese concorrenti che hanno adottato il nuovo bene capitale. Per mantenere lo stesso saggio del profitto dell’investimento nel nuovo bene capitale, il capitalista sarebbe allora costretto ad aumentare il prezzo del suo prodotto, perdendo presumibilmente clienti nei confronti degli avversari. La riduzione della domanda dei suoi prodotti comporterebbe un ulteriore aumento del costo medio e del prezzo, e così via, in un circolo vizioso senza fine che renderebbe del tutto indeterminata la valutazione del saggio del profitto. Dal punto di vista contabile, invece, va osservato che il costo storico difficilmente rappresenta il valore del bene capitale che deve essere sostituito: 100 euro, infatti, esprimono il valore pagato con una moneta che aveva un potere di acquisto maggiore rispetto a quella attuale. Specie nei periodi di inflazione elevata, quindi, il valore all’inizio e alla fine dei 5 anni dovrebbe essere molto difforme.
6 Al contrario, la concezione del tasso dell’interesse come il prezzo che porta in equilibrio domanda e offerta di capitale è caratteristica di quasi tutte le versioni tradizionali della teoria neoclassica o marginalista. Scrive ad esempio Marshall che “l’interesse, essendo il prezzo pagato per l’uso del capitale in qualunque mercato, tende verso un livello di equilibrio tale che la domanda complessiva di capitale in quel mercato, a quel dato saggio di interesse, sia eguale alla quantità complessiva ivi disponibile a quel saggio” (Marshall 1959, pp. 504, 505).
7 Un chiaro corollario di quel dibattito è che la teoria della distribuzione neoclassica, al di fuori dell’irrealistico caso di esistenza di un solo bene omogeneo, poggia su fondamenta logiche totalmente fallaci.
8Si ritiene che tale processo sarà ulteriormente accelerato dall’affermazione delle nuove prospettive tecnologiche offerte dall’ Internet delle Cose, dal Cloud e dal Big Data. Perché la servitizzazione si affermi saranno anche centrali i sistemi di monitoraggio OEE (Overall Equipement Effectiveness), in grado di fornire ai produttori informazioni costanti e in tempo reale sullo stato del bene, al fine di calcolare costi di manutenzione, prospettive di ricavo, e altre informazioni utili a pianificare il servizio in forme efficienti e redditive.
9 Stiamo quindi distinguendo le aspettative di lungo (incerte, in quanto al momento t-1, t-2, ecc. le imprese non conoscono quale sarà la domanda di beni al tempo t dalle aspettative di breve, che vengono formulate nel periodo di produzione corrente e che riguardano le decisioni di produrre le merci finali. Le aspettative di breve sono sempre realizzate proprio in base alla contestualità tra la decisione di produrre e la richiesta. Questo fa si che i valori attesi nel breve periodo coincidano sempre con i valori effettivi. Le aspettative di lungo, invece, possono discostarsi, anche significativamente, dai valori effettivi dando luogo ad eccessi di capacità/capitale non desiderati. Questo modo di concepire le aspettative è simile a quello adottato da Keynes nella Teoria Generale e nei modelli sequenziali dinamici degli economisti svedesi, in particolare Myrdal e Lundberg. Sul punto si veda Amendola e Gaffard (1988 e 1998).
10 Abbiamo tratto la nostra idea di valutare il capitale fisico al rental cost relativo al periodo di tempo in cui i beni capitali sono disponibili, da Piacentini (1995) che ha rielaborato in modo originale alcuni aspetti del modello fondi-flussi di Nicolas Georgescu Roegen (1965, 1970).
11 Su tale questa necessità, evidente in un contesto di analisi esplicitamente dinamico, si vedano Amendola e Gaffard 1988, 1998 che, con riferimento a un processo produttivo verticalmente integrato, distinguono esplicitamente la fase di costruzione e la fase di utilizzazione delle macchine. Nel nostro caso, ovviamente, non facciamo riferimento a un processo verticalmente integrato in quanto è nostro interesse porre in luce il ruolo del sistema bancario nell’attività di intermediazione degli investimenti produttivi, sempre più rilevante nell’economia moderna (si veda paragrafo 4),
12 La fondatezza di questa ipotesi, già presente nella cosiddetta teoria del circuito monetario formulata da Augusto Graziani (Graziani 2003), è stato recentemente ribadita in un ormai famoso paper pubblicato dalla Banca d’Inghilterra (vedi McLeay et al. 2014).
In termini estremamente sintetici, in un’economia capitalistica reale, la maggior parte della moneta (circa il 93%) esistente viene creata dal nulla (ex nihilo) dal sistema bancario privato. La concessione di prestiti è il canale attraverso cui la moneta viene creata e che avvia il circuito monetario della produzione. In questo contesto, dunque, l’Autorità/Banca Centrale che emette la moneta non controlla direttamente la quantità di moneta in circolazione. Essa fissa il tasso d’interesse al quale rifinanzia le banche con la moneta legale e tale tasso d’interesse influisce su quello effettivamente applicato dalle banche ai clienti.
13 La (1) viene derivata da Piacentini partendo da una formula di matematica finanziaria, generalmente utilizzata per calcolare le quote periodiche di ammortamento dei macchinari (si veda Castagnoli 1986):
egnnm
dove l è la durata tecnica della singola macchina. Assumendo che il finanziamento sia ammortizzabile in un periodo che, per semplificare, viene fatto coincidere con la durata dei macchinari misurata in termini del loro utilizzo - in modo che le quote periodiche di ammortamento coincidano con le quote di rimborso del finanziamento a cui l’impresa ha fatto ricorso – e assumendo durata tecnica infinita si può ottenere la (1).
14 Se la Banca Centrale aumentasse (o diminuisse) il tasso di sconto, le banche trasferirebbero questa variazione sui tassi di interesse e, quindi, sui rental cost adottati nella stipula dei contratti. Ad ogni modo, a scopo di semplificazione, assumeremo che se la Banca Centrale modificasse il tasso di sconto successivamente al primo giorno dell’anno corrente (anno t) - momento in cui viene stabilita contrattualmente la rata di affitto da corrispondere interamente alle banche l’ultimo giorno dello stesso anno – il rental cost cambierebbe solo il primo giorno dell’anno seguente (anno t+1). In altri termini, nell’equazione (1) stiamo assumendo che il rental cost rimanga costante per tutto il periodo di produzione corrente (per poi cambiare, eventualmente, all’inizio del periodo successivo).
15 Osserviamo che c è certamente assimilabile sebben diverso dal concetto di capitale costante di Marx che è comprensivo del costo delle materie prime.
16 Ricordo che nel primo articolo su Bollettino (Pannone 2021) ho mostrato che il flusso dei profitti coincide col plusvalore in quanto, nei moderni sistemi di produzione, l’impiego di lavoratori e l’attivazione effettiva dei processi produttivi è ‘contestuale’ alla manifestazione di segnali di domanda (es. ordini di acquisto). In altri termini, produco solo ciò che viene effettivamente richiesto. Ne deriva che - a parità del saggio di sfruttamento del lavoro, ossia del rapporto tra plusvalore e capitale variabile - minore plusvalore implica minori profitti monetari derivanti dal lavoro produttivo.
17 Ricordiamo che Marx parla della suddivisione del plusvalore tra capitalisti industriali e capitalisti monetari, nella sezione V del terzo libro del Capitale.

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