Sulla determinazione del valore dei beni capitali in un’economia moderna
di Andrea Pannone
Il tema affrontato in questo scritto può sembrare astratto e di appannaggio riservato ai soli specialisti. In realtà, quello della valutazione dei beni capitali è un aspetto estremamente problematico sin dagli inizi della storia del pensiero economico e costituisce, più o meno esplicitamente, un fattore discriminante di tutte le teorie del valore.
Senza la minima pretesa di esaustività, nelle pagine seguenti procederemo come segue:
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forniremo brevissimi cenni su come le varie scuole economiche abbiano affrontato nel tempo il problema della valutazione dei beni capitali.
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forniremo gli elementi di un approccio alternativo alla determinazione del valore dei beni di capitale. Tale approccio, oltre a permettere di superare (almeno alcuni de)i principali limiti degli approcci esistenti in letteratura, risulta estremamente coerente con importanti aspetti dell’evoluzione tecnologica e finanziaria delle economie moderne.
La valutazione dei beni capitali lungo la storia del pensiero economico: alcuni cenni
Come ci ricorda Giorgio Gattei (2003), ad esempio, ai fini della validità della ‘legge’ del valore- lavoro – ossia del principio di origine Smithiana secondo cui le merci si scambiano sul mercato in base al rapporto tra le quantità di lavoro necessarie a produrle - è anche implicitamente richiesta l’ipotesi che nei processi produttivi delle due merci non venga impiegato alcun bene capitale. In caso contrario, anche la presenza di un solo bene capitale non consentirebbe più la semplificazione del valore di scambio al rapporto dei lavori contenuti.
Come nota sempre Gattei se, alla maniera di Ricardo, il problema venisse risolto valutando i beni capitali mediante il loro costo ‘storico’, ossia al costo di quei beni al momento della loro produzione/acquisizione - cronologicamente antecedente(i) al momento presente, - la determinazione di quel valore non potrebbe essere ricondotta al solo lavoro ‘diretto’ speso nel momento presente stesso, ma dipenderebbe anche dal trascorrere del tempo, rendendo così indeterminata l’equivalenza tra valore e lavoro1.
Come è noto Marx, nel determinare il saggio medio di profitto nel terzo libro del capitale (1894), prova ad aggirare il problema rapportando il plusvalore complessivo alla somma del capitale costante (beni capitali e materie prime) e del capitale variabile (lavoratori) investiti in tutta l’economia. Il saggio di profitto aggregato è, insomma, un rapporto dove tanto il numeratore quanto il denominatore sono espressi in grandezze proporzionali ai valori-lavoro, o se si preferisce valutate ai prezzi “semplici” (vedi Bellofiore 2020 cap. 7). Questo può funzionare, però, solo se ammettiamo che la composizione organica – ossia il rapporto tra capitale costante e capitale variabile - in tutti i settori dell’economia sia la stessa2.
I tentativi più importanti di superare questo empasse nell’ambito della letteratura marxista sul problema della trasformazione del valore in prezzi sono essenzialmente di due tipi: quella di tipo simultaneista e quella di tipo sequenzialista.3
La prima soluzione, sostanzialmente riconducibile alla cosiddetta della New Interpretation di Marx (vedi ad esempio Duménil 1980; Foley 1986), fa riferimento alla metodologia dell’equilibrio – già utilizzato da Bortkiewicz e da Sraffa per affrontare le problematiche del valore - in cui le merci hanno gli stessi prezzi quando compaiono come input e come output. Questo implica che il prezzo unitario di un bene capitale impiegato nella produzione sarebbe uguale al prezzo di un bene, fisicamente identico al primo, che viene ottenuto come prodotto. E’ però evidente che il primo prezzo fa riferimento al momento dell’acquisto del bene capitale, che è temporalmente antecedente al momento della vendita del prodotto. Il fatto che i prezzi dei due beni siano sempre gli stessi può essere dovuto o al caso (piuttosto improbabile) che i prezzi rimangano sempre costanti (inflazione sempre nulla) o al fatto che i processi di produzione dell’input e dell’output avvengono nello stesso momento ossia si svolgono a prescindere dal tempo, cosa questa in totale contrasto, oltre che con la realtà, con la visione di Marx e di tutti gli economisti classici, che concepiscono il processo produttivo come un processo circolare: “dalla produzione di merci, al consumo (che serve alla riproduzione di lavoratori), al conseguimento di profitti, all’acquisto di nuove risorse, produzione di nuove merci, e così via in un ciclo continuo, in grado di sviluppare attività di accumulazione” (Fumagalli 2021)4.
La seconda soluzione, sostanzialmente riconducibile alla cosiddetta “temporal single-system interpretation” di Marx (TSSI, vedi ad esempio Kliman e MacGlone1999, Freeman e Kliman 2000, Freeman (2001)), fa riferimento a un contesto analitico di tipo esplicitamente sequenziale. Come conseguenza, al momento della determinazione del prezzo di un bene, l’investimento nel capitale costante è stato già effettuato, per cui non si può fare a meno di utilizzare i prezzi ‘storici’ per valutarlo. In questo caso, la spesa monetaria associata all’investimento si trasferisce interamente nel valore della merce. Immediato, a questo punto, è il calcolo del saggio del profitto. Se il capitalista ha speso 100 per l’investimento all’inizio del periodo di produzione e guadagna 110 alla fine dello stesso periodo, il suo saggio di profitto è 10%. Mentre questa soluzione ha certamente senso se il capitale costante venisse utilizzato per un solo periodo produttivo – ossia se fosse assimilabile al capitale circolante (ad es. materie prime ed energia) - essa diventa molto più problematica nel caso in cui il capitale costante sia costituito anche da beni capitali, ossia da beni che prevedono per definizione un uso multiperiodale. In questo caso, infatti, il bene (o i beni) capitale(i) trasferisc(ono)e il proprio valore nelle merci che vengono vendute nel corso di più anni, che corrispondono alla durata della sua vita utile. Quest’ultima, però, non è fissata a priori ma dipende, oltre che dalla durata fisica del bene, dalla sua obsolescenza tecnologica, a sua volta scandita dal ritmo dei processi di innovazione5. Ciò renderebbe comprensibilmente la valutazione del bene capitale – e quindi del saggio del profitto - del tutto indeterminata.
Ovviamente molto diverso è il tentativo di determinare il valore di un bene capitale all’interno della teoria marginalista/neoclassica. L’esigenza di specificare una funzione di produzione dell’intera economia che dipenda dalla quantità di lavoro e di capitale impiegate - necessaria a giustificare un meccanismo di ripartizione della ricchezza/reddito basato sul contributo fornito alla produzione (produttività) da due fattori produttivi potenzialmente intercambiabili – conduce, a sua volta, alla necessità di giungere a una misura omogenea del valore del capitale. La ‘quantità’ di capitale impiegata nella produzione, infatti, è generalmente formata da beni capitali di tipo diverso e con un prezzo diverso. Già alla fine dell’800 Eugene Bohm Bawerk aveva mostrato come bisognasse considerare il capitale nella sua struttura temporale, non come una variabile statica, e definire una relazione tra questa struttura ed il tasso di interesse. Quest’ultimo, infatti, viene visto come la remunerazione del risparmio che si traduce, in un’economia di tipo concorrenziale, automaticamente in investimento produttivo, ossia in domanda di beni capitali6. Il fatto di far dipendere il valore del capitale aggregato dal tasso di interesse conduce però, come è noto, a un cortocircuito logico. Il tasso di interesse, infatti, finirebbe per dipendere dalla quantità di capitale richiesta (ossia dalla domanda), la quale dipenderebbe, in coerenza con l’impianto marginalista/neoclassico, proprio dalla struttura dei prezzi dei beni capitali richiesti, alimentando un circolo vizioso senza fine. Sappiamo ormai che l’erroneità dell’argomento neoclassico ai fini della misurazione del valore del capitale aggregato fu inoppugnabilmente dimostrata nella controversia teorica che vide contrapposte, 53 anni fa, le due scuole di Cambridge, quella in Inghilterra e quella negli Stati Uniti. Per una sintesi del dibattito pubblicata nel 1966 sul Quarterly Journal of Economics si veda Fratini 2016)7.
Verso una nuova misura aggregata del capitale
In questo paragrafo forniremo un nuovo approccio alla valutazione del capitale aggregato che, riteniamo, permette di superare le principali problematiche evidenziate in precedenza. L’idea di fondo è che nelle economie moderne le imprese tendano ormai a non possedere più (o comunque tendano a possedere sempre meno) il diritto di proprietà dei beni capitali utilizzati per produrre, bensì tendano a possedere solo il loro diritto d’uso in uno o più periodi di produzione. L’accesso a tale diritto avviene, come vedremo tra un momento, attraverso l’intermediazione del sistema bancario che ne definisce le condizioni contrattuali, dato il tasso di sconto fissato dalla Banca Centrale e il valore nominale dei beni capitali. Le condizioni includono la manutenzione del bene capitale nel periodo in cui esso è in uso presso l’impresa.
Il fenomeno descritto, che di fatto implica il passaggio dall’acquisto di un bene all’acquisto di un servizio, comincia ad essere chiaramente riconoscibile già intorno agli anni ’90, quando l’avvento della ‘rivoluzione digitale’ favorisce progressivamente:
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la possibilità di monitorare e gestire in tempo reale ogni macchina e impianto;
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l’affermazione di una disciplina giuridica in grado di assicurare contratti di servizio capaci di regolare la relazione tra chi beneficia del bene e chi quel bene lo mette a disposizione.
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l’evoluzione dai tradizionali modelli di finanziamento bancario verso opzioni di affitto, leasing, noleggio di attrezzature con pagamenti periodici in corso, contratti di manutenzione preventiva, ecc. I principali tratti evolutivi di questo processo vengono anticipati nel libro di Jeremy Rifkin “L’Era dell’accesso” (2000), con capacità solo apparentemente profetica (Rifkin è estremamente informato sulle attività dei think tank internazionali). Oggi, ricorrendo a un pessimo neologismo mutuato dall’inglese, si parla di ‘servitizzazione’, ad indicare una forte maturazione di questo fenomeno, che si è diffuso praticamente a tutte le classi di beni capitali8.
Coerentemente a questi sviluppi, assumeremo in primo luogo che i beni capitali necessari alla produzione di merci sono stati prodotti nel periodo (o nei periodi) antecedente(i) al periodo di produzione corrente (tempo t). Assumeremo che le imprese che hanno bisogno di questi beni acquisiscono il loro diritto d’uso stipulando una sorta di contratto di affitto con le banche che forniscono l’intermediazione con i venditori. Le decisioni di acquisire i beni capitali sono state assunte in uno o più momenti cronologicamente antecedente a quello della produzione corrente, sulla base di aspettative di lungo periodo di vendita del prodotto9. Ciascun impegno contrattuale è assunto all’inizio del periodo di produzione corrente e prevede che le imprese paghino alle banche, alla fine dello stesso periodo, una rata fissa annua (rental cost) per ciascuna unità di capitale presa in affitto, che include la sua manutenzione in condizioni ottimali. Si può assumere anche che le imprese paghino il rental cost mediante i proventi ottenuti dalla vendita dei prodotti alla fine del periodo. Il costo del capitale è quindi un costo sunk in quanto verrebbe sostenuto dalle imprese anche se, nel periodo corrente, non ci fosse alcuna richiesta e produzione dei loro prodotti (vedi Morroni 1992)10. Osserviamo che le suddette assunzioni non rappresentano ipotesi ad hoc ma riflettono, almeno in linea di principio, la necessità di tenere conto del ruolo della dimensione temporale nel processo di investimento11.
Indichiamo ora con 𝜎! il rental cost di un’unità di capitale di tipo k. Seguendo Piacentini (1995) e
assumendo, per semplicità, una durata tecnica infinita di tutte le unità di capitale si può scrivere che:
1)
Dove 𝑖 è il tasso di interesse utilizzato dalle banche come riferimento per definire il contratto di affitto. Tale tasso viene calcolato applicando un mark-up sul tasso di sconto vigente al momento dell’acquisizione delle unità di capitale (tempo t). Si assume che il tasso di sconto sia fissato dalla Banca Centrale12;
𝑉! è il prezzo monetario dell’unità di capitale oggetto del contratto di affitto all’inizio del periodo di produzione13. Appare chiaro che la 1), per come è stata definita, non risente di eventuali mutamenti nelle condizioni generali del credito (ad es. aumenti o diminuzioni del tasso di sconto)14 e delle variazioni che potrebbero avvenire sul mercato dei beni capitali a causa dell’innovazione tecnologica; entrambi i cambiamenti riguarderebbero infatti solo la stipula dei nuovi contratti di acquisizione delle unità di capitale, non quelli ‘vecchi’, ossia quelli già stipulati all’inizio del periodo di produzione corrente, momento da cui cominciano a decorrere.
Essendo il capitale fisico formato da tipologie eterogenee (a, b,…z), il suo valore del complessivo nel periodo/anno corrente sarà dato da una combinazione lineare dei rental cost relativi alle diverse tipologie di capitale, con pesi corrispondenti al numero di unità di ciascun tipo che si rendono disponibili all’inizio del periodo. In termini formali, relativamente alla generica merce i, si ha15:
!%&
2)
Dove il segno di uguaglianza prevale quando una data tipologia di bene capitale non compare nella
produzione del generico bene i.
La 2) è indipendente sia dalle future variazioni del tasso di interesse che da quelle del prezzo dei beni capitali. Da essa si ottiene poi facilmente il valore aggregato del capitale di un’economia che produce n beni
3)
Si può osservare, quindi, come la giusta critica al concetto neoclassico di capitale aggregato da parte della Scuola inglese di Cambridge non intacchi, in alcun modo, il nostro approccio alla determinazione del suo valore.
Notiamo che la 3) potrebbe essere utilizzata per determinare il saggio medio del profitto dell’intera economia in modo analogo alla soluzione fornita dalla TSSI (vedi sopra), senza però avere il problema dell’indeterminatezza del valore dei beni capitali che l’adozione di quell’approccio comporta.
Concludiamo con un’ultima osservazione. Nel caso in cui, alla fine del periodo di produzione, le vendite effettive fossero inferiori rispetto alle aspettative di lungo periodo delle imprese formulate in passato – aspettative sulle quali sono stati stipulati i contratti di affitto con le banche all’inizio dello stesso periodo – i beni capitali disponibili rimarrebbero almeno parzialmente inutilizzati. Come conseguenza il costo del capitale per unità di prodotto e il costo medio aumenterebbero, mentre il plusvalore e i profitti monetari derivanti dal lavoro produttivo e risulterebbero più bassi dei livelli massimi attesi, corrispondenti alla piena utilizzazione di tutti i beni capitali disponibili16. Questo implicherebbe una riduzione del saggio del profitto medio dell’economia al di sotto del suo livello massimo ottenibile. Da qui deriva un'altra importante implicazione: poiché alla fine del periodo di produzione i capitalisti devono devolvere alle banche una parte dei profitti derivanti dalle vendite dei loro prodotti – parte che corrisponde al valore degli impegni contrattuali stipulati all’inizio dello stesso periodo (vedi equazioni 1,2,3) – se aumenta il grado di inutilizzazione della capacità produttiva/capitale nell’economia, allora la quota di plusvalore che afferisce alle banche cresce rispetto al plusvalore complessivo17.