Proletari e dominio di classe
di Carlo Di Mascio
Nikolai Alexandrovic,
si trova da me il compagno Ivan Afanasevic Cekunov, un contadino assai interessante, che propaganda a modo suo i principi del comunismo. Egli ha perso gli occhiali e ha pagato 15 mila rubli per una porcheria! Non lo si potrebbe aiutare a trovare dei buoni occhiali? Vi prego molto di aiutarlo e di pregare il vostro segretario di comunicarmi se ci siete riuscito.
Lenin, Al compagno Semascko
I
Lenin, in modo estremamente chiaro, affermava che in una società fondata sulla lotta di classe, in cui esistono dominanti e dominati, non può esistere una scienza imparziale, per cui anche la filosofia, che mira a giustificare e a ricucire il vecchio con il nuovo in funzione di un ordine minacciato1, destinata cioè a servire o a sfruttare le pratiche scientifiche, come sottolineava Althusser, non può in definitiva che rappresentare istanze di parte2. Si tratta quindi di schierarsi, di prendere posizione a favore o contro qualcosa o qualcuno, si tratta in buona sostanza di demistificare chi pretende di costruire ideologicamente la realtà per un obiettivo di classe, soprattutto quando questo obiettivo è finalizzato a controllare la conflittualità sociale e ad implementare massivamente il rapporto tra chi sfrutta e chi è sfruttato.
Il dominio di classe, dunque, quando si sente minacciato si difende, e per farlo ricorre ad ogni accorgimento, sapendo che tutto deve in ogni caso svolgersi all’interno dell’organizzazione del capitale che non è altro che organizzazione della società, sicché il suo sistema ideologico, filosofico e burocratico-giudiziario, non rappresenta altro che la condizione essenziale della dialettica dello sviluppo capitalistico-borghese, la quale si dipana violentemente tra imposizione al lavoro e riproduzione sociale del rapporto di sfruttamento.
In questi termini, il rifiuto proletario dello sfruttamento - che si attua grazie a quel lavoro che, come Marx ricordava nei Grundrisse, «conserva e perpetua»3 il capitale, per cui ogni proletario, solo negandosi come fattore di produzione ed innalzandosi nella sua dimensione universale di soggetto antagonista, può giungere a contrastare il dominio di classe a cui è inestricabilmente incorporato come merce di scambio, previo riconoscimento di un salario quale forma di ordinazione data dalla legge del valore - riesce ad essere arginato ogni volta dalla capacità capitalistica di superare anche quelle forme storicamente determinate della propria struttura, attraverso l’elaborazione di nuovi piani e livelli sempre più inclusivi di tale rifiuto, ma adeguati a salvaguardare il proprio interesse di classe.
Da ciò è chiaro come la dialettica del capitale costituisca l’evidenza di un processo il cui fine è oltrepassare le contraddizioni sulle quali costantemente istituisce i propri rapporti materiali, dispiegandosi come logica che salda e unifica, riassorbendo così, «in sé e per sé», come dice Hegel, ogni differenza. Tuttavia, il paradosso di tale andamento è che la ricomposizione sociale che il capitale riesce a conseguire mediante l’instaurazione di una relazione di potere, non fa che assumere una dimensione soltanto formale, atteso che al superamento della conflittualità che il capitale impone per la propria sopravvivenza, in cui, come detto, vengono ricomprese e metabolizzate soprattutto quelle eccedenze di antagonismo proletario che lo minacciano, segue immediatamente la riattivazione della medesima relazione di potere4.
A tale livello, l’interesse capitalistico tende a svilupparsi nel senso di una scientifica eliminazione di tutte quelle potenzialità sovversive che la crisi economica è in grado di produrre, in particolare riformulando la nozione di Stato che, realizzando l’essenza dello Spirito, all’insegna di quell’«Io che è Noi, e Noi che è Io»5, come assoluta compenetrazione dell’individuale nell’universale, mette in campo la cultura dell’obbedienza verso qualsiasi tipo di ordine impartito, canonizzando così il riconoscimento ufficiale del proletario irrimediabilmente schiacciato e alienato in una vicenda esistenziale in cui tutti i rapporti di produzione e riproduzione sociale vengono trasferiti sul terreno dello sfruttamento come sua completa sussunzione nel capitale, quest’ultimo oramai incorporato nello Stato totalitario (e viceversa), il quale per definirsi tale deve giungere a servirsi di una mobilitazione assoluta delle forze produttive, nonché di una dialettica sociale a sua volta adeguata a tale mobilitazione6.
II
E’ proprio con il nazifascismo e con le sue implicazioni politico-filosofiche di matrice neohegeliana, che il capitale consegue il proprio ingresso nel dominio reale, disarticolando la forza del proletariato in quanto negazione del capitale, esaltandolo per realizzare, attraverso la consacrazione del lavoro - «Arbeit macht frei» - il concetto di lavoratore libero, ma già implicante, come preavvertiva Marx, il suo essere potenzialmente precario7, e dunque la sua sottomissione ad un sistema fondato sulla prevalenza del lavoro morto (mezzi di produzione e materie prime da trasformare) sul lavoro vivo (forza lavoro proletaria), cioè sullo sfruttamento del proletario nella forma del tempo di lavoro non retribuito, per mezzo di un salario che non corrisponde mai all’insieme delle ore di lavoro impiegate quotidianamente, ma ad una quantità di mezzi di sussistenza appena sufficienti per rimetterlo solo in forze affinché torni subito a lavorare. Ne è derivato un processo storico connotato continuamente dalla separazione di elementi tradizionalmente uniti, in cui il capitale è ricorso ad ogni mezzo per impedire l’unificazione dei proletari, contrapponendo sistematicamente «i lavoratori che hanno un impiego a quelli che non ne hanno alcuno, i lavoratori emigrati (veri proletari) ai proletari integrati nelle metropoli (in entrambi i casi, si utilizza il razzismo), le nuove classi medie agli operai», e infine impedendo che «gli studenti, i quali non costituiscono una classe», possano svolgere «una funzione di collegamento tra nuove classi medie e proletarie»8.
D’altronde, dietro ogni processo di valorizzazione capitalistica, tende sempre a delinearsi una dinamica movimentata da soggettività che si contrappongono, come impulso cinetico preliminare alla propria modernizzazione9, con ciò configurando sempre nuovi modelli e rapporti di tipo filosofico e politico, quale loro operativa messa a norma destinata ad implementare gli svolgimenti interni agli equilibri e ai disequilibri posti dal capitale, anche, se non soprattutto, in autotutela. Il proletario dunque viene costantemente dirottato tra brutale sfruttamento, coercizione disciplinare attrezzata a dislocare repressivamente la sua insubordinazione e forme di democrazia sociale, forme cioè con le quali il capitale conduce la forza-lavoro a sconfessarsi come classe operaia organizzata, sino a stabilire che la stessa, in quanto forza-lavoro, giunga apparentemente a governarsi in modo autonomo all’interno delle strutture della produzione capitalistica. In realtà questi sussulti programmatici costituiscono solo il fondamento repressivo dei generali rapporti sociali che il capitale istituisce, ponendo l’accento sul ruolo nonché sugli andamenti che gli antagonismi riescono ad esercitare, da un punto di vista pratico e storico, sotto il comando capitalistico.
E del resto, il proletario, storicamente e praticamente, è sempre stato intrappolato nelle sfolgoranti connotazioni ideologiche del dominio di classe, venendo mobilitato in pace e in guerra, mediante persistenti immissioni venefiche di feticci e di miti, sia allorquando, inducendolo a glorificare le nozioni di patria, nazione e famiglia (peraltro numerosa per ingrossare in prospettiva gli eserciti e con i figli, prima proprietà privata dei genitori e poi dello Stato), si è impegnato con la morte a proteggere i capitali, le fabbriche e la proprietà privata dei «propri padroni» dal pericolo che altre borghesie nemiche potessero appropriarsi di questi privilegi e finire in dotazione ad «altri padroni» più forti, sia, infine, quando in pace è stato convinto a condividere, per la sua dignitosa sopravvivenza, forme spurie di esaltazione della socialità, del bene comune, dei diritti fondamentali e dell’uguaglianza, in particolare attraverso quel riformismo politico e sindacale, legato all’ideologia della concretizzazione pianificata dalla legge del valore e come tale funzionale a una pseudo borghesia «illuminata», sorto appositamente per portarlo a lottare contro i capitalisti della vecchia guardia, reazionari, lobbisti o multinazionali concorrenti, per poi sagomare il tutto all’interno delle rigidità costituzionali post-belliche10, all’insegna di una rappresentazione e di un assetto tuttavia rimasti saldamente borghesi e di classe.
Tale esito va principalmente ascritto alla sostanziale rinuncia, ad opera della teoria politica marxista, al fondamento analitico leninista, riassumibile per molti versi in quel noto richiamo legato all’«analisi concreta di situazioni concrete [perché] la verità è sempre concreta»11, ritenendo di poterlo sostituire con una filosofia capace di garantire aprioristicamente la trasformazione del proletariato in soggetto organizzato e coscienza della metamorfosi rivoluzionaria. Ma in questa direzione, strutturalmente imperniata su un adattamento puramente fenomenologico della coscienza di classe, il risultato non è stato quello di esplorare ed implementare la possibilità di uno sviluppo oggettivo della coscienza rivoluzionaria (e ciò anche nelle note aspirazioni lukácsiane di Geschichte und Klassenbewusstsein, poi oggetto di severe autocritiche, in particolare con riferimento alla deformazione del concetto di prassi), partendo da una valorizzazione delle qualità concrete dei soggetti della classe, nonché dalla loro specificità storica e dialettica - bensì di mirare alla costruzione di una coscienza di classe stabilita per regolamento, e ciò quale schema il cui unico responsabile possibile non è la classe e la sua autonomia organizzativa, ma la sua avanguardia quale corpo verticistico ad essa sovraordinata.
E non è per caso che allorquando l’intensità della Rivoluzione d’Ottobre cominciò ad attenuarsi e i regimi nazifascisti a prevalere nell’Europa degli anni Venti e Trenta, un tipo come Wilhelm Reich poté rimproverare ai dirigenti comunisti (in particolare della Germania) di aver operato soltanto sulla base dei propri modelli e della propria cultura politica di avanguardia, trascurando le necessità e la coscienza effettiva delle masse, lasciando in particolare che queste venissero deformate e manipolate dalle dittature di destra. Ciò, pertanto, ha preparato il terreno «ideologico» che è culminato nel riformismo, ovvero in quella pesante condivisione del programma di ristrutturazione capitalistica ad opera delle socialdemocrazie (tutt’uno, invero, con i partiti comunisti ufficiali), consistente nella congiunta repressione di ogni specificità operaia, con il chiaro intento di mirare a frazionare i mercati della forza-lavoro, assicurando così stabili processi di mobilità di distruzione della forza operaia, nonché una progressiva emarginazione terroristica di interi strati sociali. A lungo andare, l’effetto di questa tendenza dogmatica della socialdemocrazia, a partire dagli anni Trenta, di «nuotare con la corrente»12, nella convinzione che non esistono «nemici» ma solo soggettività da educare e illuminare - si è notoriamente tradotto nello svilire e mortificare i potenziali attori di un reale cambiamento sociale.
III
Ed è proprio su questo terreno che il capitale - dopo la Rivoluzione d’Ottobre, dapprima attraverso una sapiente miscellanea di teologia hegeliana dello Stato e di misure di polizia e di guerra, poi attraverso una revisione clerico-fascista del marxismo nella pretesa di dimostrare che il comunismo ha torto e che la borghesia imperialista ha ragione, e infine con la pacificazione sociale e con i modelli del socialismo-democratico umanitario - comincia a sviluppare, secondo le necessità del momento, vaghe autolimitazioni per conseguire quell’accettabile «media edittale» con cui gestire provvisoriamente l’estorsione del plusvalore, per differire cioè il più possibile le crisi d’urto e così placare il nemico operaio in lotta contro il sistema dello sfruttamento e il suo regime politico.
Questo ulteriore programma è stato reso possibile grazie anche ad una sofisticata pratica borghese dell’autorità che, notoriamente, prima di costituire l’elemento connettivo del giuridico, ne rappresenta in particolare la risultante dell’oggettività sociale, capitalisticamente governata. In questo senso, la filosofia del diritto (capitalistico-borghese), in tutte le sue multiformi e variegate direzioni, ha costantemente lavorato nel far coincidere mondo giuridico e mondo sociale per l’unità del potere, non potendo disconoscersi come il normativismo e l’imperativismo, nell’assunzione della coazione come momento fondamentale di qualificazione dell’ordinamento giuridico in quanto tale, abbiano sempre subìto nuovi profili, eppure ogni volta funzionali a far convivere unità e molteplicità, realismo e pluralismo giuridico, con certezza della loro sintesi nel paradigma autoritario capace di supportare le rispettive evoluzioni tra diritto e capitale. E d’altronde, accanto alla demolizione della concezione imperativistica della legge, si è immediatamente imposta una costruzione dell’orizzonte normativo come momento sì indipendente, ma non slegato rispetto alle singole norme che compongono l’ordinamento, così continuando a porsi in totale coincidenza con l’ordinamento nel suo intero complesso e con la garanzia del suo tenersi in vita. Ora, tale processo ha avuto l’effetto di preservare talune ineludibili necessità, quali quelle di consentire l’unità ordinamentale nell’ottica dell’uso della coazione, permettendo lo sviluppo dell’«io sociale» contro eventuali ostacoli e/o impedimenti ad opera dell’ideologia dominante, nonché di conservare il raccordo fra ordinamento e coazione, sviluppando il primo in maniera adeguatamente indipendente dalle limitazioni del secondo. Ma tutto ciò all’insegna di una eccezionale ambiguità che pretende di catturare le singole norme non direttamente dalla volontà imperativa dello Stato, bensì come risultato del processo sociale, e purtuttavia potendo avere efficacia e validità solo se scaturente da una sola ed indiscutibile sorgente di potere13. Il «pregio» di tale operazione, di fatto condivisa dai suddetti «modelli del socialismo-democratico umanitario», eminentemente finalizzata alla crescita della società capitalistica matura, è stato solo quello di conciliare processualmente i conflitti, mediante la sapiente reintroduzione di una teoria dell’autorità, come forza «indipendente e latente», accennata e un po’ dietro le quinte, ma sempre pervasivamente a garanzia del modello economico prevalente.
E così, sempre in questa incessante opera di abile sussunzione reale, il capitale ha provveduto successivamente ad inglobare i proletari, orientandone gli indirizzi politici con la mistificazione della partecipazione alle istituzioni del potere, abituandoli poi ad assecondare una produzione giuridica che, con l’illusione dell’uguaglianza, ma solo formale, li ha costretti a servire - «nel rispetto della legge» e senza fiatare, pena il tempestivo sopraggiungere di scenografie terroristiche per meglio armare e consolidare il comando, nonché dell’ideologia criminale della droga con la sua funzione volta a disgregare qualsivoglia movimento e sue correlate organizzazioni - la macchina produttiva partorita dal capitalista di turno, fino a creare «a tavolino», e a favorirne la conseguente espansione, accomodanti e docili livelli di aristocrazia operaia, generando così in forma esponenziale la concorrenza fra gli stessi lavoratori, silenziandone altresì i bisogni economici immediati mediante misure di carità (si pensi agli ammortizzatori sociali), per giungere a giustificare l’interesse generale grazie al buon andamento dell’economia che ha unito nel mito della conservazione sociale proletari e padroni, con i primi che come militari, impegnati nella difesa del sistema e nel sacrificio comune della produzione, hanno contribuito in modo rilevante a realizzare gli obiettivi dei secondi, quelli cioè dell’accumulazione capitalistica.
Detto processo di persistente mistificazione ideologica in cui è immersa la vicenda esistenziale dei proletari, la cui forza appare storicamente anestetizzata14, al di là dei contributi offerti dalle organizzazioni ufficiali in senso socialdemocratico, sempre contrassegnati, come «agenti della borghesia nel movimento operaio»15, da una speciale relazione di necessità compromissoria fra riformismo ed istituzionalismo, con tutto ciò che ne è conseguito sul piano delle effettive emergenze teoriche e pratiche, in gran parte finalizzate a disconoscere e a screditare loro il ruolo di soggettività rivoluzionaria che mira ad appropriarsi della produttività sociale contro l’espropriazione del capitalismo di Stato16 - va di certo ascritto alla sistematica demolizione del carattere fondamentale dello sviluppo rivoluzionario dei proletari che coincide con il processo di loro autovalorizzazione, come appropriazione di sapere, di ricchezza, di desideri e di potere, e come complessiva destrutturazione della totalità nemica, non mediati da alcuna organizzazione, perché nel divenire e nel movimento della sua stessa composizione di classe, nessuna rigidità organizzativa è in grado di mostrare la totalità antagonistica in tutta la sua drammatica quanto esplosiva estensione.
IV
La trasformazione patologica che la relazione lavoro-capitale ha subìto nel tempo, ha inesorabilmente riformulato la classe e il suo concetto, proiettandola in contesti e in scenari materiali e immateriali che rendono decisamente inattuale la possibilità di una piattaforma politica così come tradizionalmente intesa. Si pensi solo alla nozione moderna di «capitale cognitivo» o «capitale umano», che ha sconvolto il concetto tradizionale di capitalismo, incentrato sulla coesistenza di molteplici modi di produzione, a tal punto che il capitalismo moderno, basato sulla valorizzazione di imponenti masse di capitale fisso materiale è stato sostituito sempre più rapidamente da un capitalismo post-moderno, fondato sulla valorizzazione del capitale immateriale detto anche «“capitale umano”, “capitale conoscenza” o “capitale intelligenza”», in relazione al quale sono scomparse le classiche configurazioni applicabili al lavoro materiale, nonché i paradigmi di articolazione dell’organizzazione sociale unitamente ai suoi schemi economici solitamente adottati.17 Da una parte, quindi, il lavoro che si trasforma integralmente in lavoro immateriale, rappresentato, per usare un termine riassuntivo, dalla conoscenza, cioè dall’insieme di capacità che consentono di servirsi dell’informazione per conseguire i propri scopi, e dall’altra la forza-lavoro che si sviluppa in «intellettualità di massa», con ciò dando luogo ai due aspetti che già Marx, nei Grundrisse, definiva General intellect, avendo intuito come il capitalismo avrebbe indirizzato verso una società in cui il lavoro di fabbrica sarebbe diventato nella Organizationsfrage capitalistica del tutto secondario, laddove il lavoro produttivo sarebbe diventato di tipo intellettuale, cooperativo e immateriale. Nel passaggio dal moderno al post-moderno, si è dunque costituita una nuova dimensione che ha inevitabilmente investito il capitale, il lavoro e lo stesso proletariato, la cui composizione, se diviene sociale, è anche sempre «più immateriale, dal punto di vista della sostanza del lavoro», nonché particolarmente «mobile, poliforme e flessibile dal punto di vista delle sue forme»18.
La fine dello stato-nazione e della sua sovranità ha accentuato una rottura nella forma del dominio capitalistico, costringendo quest’ultimo a convogliare la lotta di classe, a seguito della progressiva disgregazione della forma-nazione e dei suoi apparati di legittimazione, verso la creazione di un nuovo e più complesso processo disciplinare. La sovranità (e il suo concetto), in difficoltà nel gestire le persistenti frammentazioni sociali, nonché lo straripamento dei generi e l’eccedenza della produzione, è stata obbligata a deterritorializzarsi, rompendo le sue canoniche resistenze, pervenendo ad una governance che facendo passare la politica e tutte le sue funzioni di regolazione mediante istituti non rappresentativi, è stata in grado di meglio controllare le crescenti conflittualità. Tale contesto post-democratico, non solo ha permesso di risistemare le contraddizioni, dirottando il comando capitalistico nella ristrutturazione del margine di rendita politico-economica, ma altresì di arginare l’inesorabile scomposizione rivoluzionaria della sovranità, la quale, anziché culminare nell’emersione del comunismo come libero progresso delle differenze e «graduale scomparsa - come precisa Pashukanis - del momento giuridico nei rapporti umani»19, si è tradotta in un nuova e più sofisticata regolamentazione che assorbendo ed adattando le peculiarità proletarie della fase, anche attraverso l’abile recupero di nuove rivendicazioni identitarie dietro le quali si cela soltanto il razzismo quale ennesima trappola volta a disintegrare ogni possibilità di unione e di relazione con l’altro20, ne ha impedito qualsivoglia autonomia e autovalorizzazione.
Ciò è potuto accadere perché il capitalismo maturo è riuscito a realizzare un duplice obiettivo, quello di continuare ad assicurare il prelievo di plusvalore, sfruttando intelligenza e creatività, nonché di controllare materialmente il cervello dei nuovi proletari (lavoratori autonomi, docenti e «popolo delle partite iva», ecc.), sottomettendo il loro immaginario e i loro desideri all’assiomatica capitalistica del dominio di classe, ciascuno «uomo d’affari di se stesso», facendoli così automaticamente diventare prima produttori, poi consumatori pieni di debiti, ed infine, nonostante tutto, investitori alienati21.
D’altronde, il capitale per riuscire a contenere adeguatamente la ribellione proletaria, a seguito di quelle crisi organiche caratterizzate da bassi tassi di accumulazione sorte a partire dagli anni settanta sino ai primi anni ottanta, ha dapprima provveduto, al fine di impedire pericolose alleanze con la classe operaia, ad attirare dalla sua parte quelle classi tradizionalmente ritenute non proletarie, ma inevitabilmente destinate a proletarizzarsi (dal variegato ceto impiegatizio, alle forze dell’ordine [ma con proletari reclutati al suo interno], sino ai piccoli commercianti, ecc.); ha poi cercato, cooptandole a sé, di favorirle per quanto possibile gravando spaventosamente sul debito pubblico (in particolare aumentando i rispettivi salari in prossimità delle competizioni elettorali; consentendo l’acquisto di prime e seconde case senza oneri permanenti diversamente da quelli ora vigenti; e poi permettendo alla piccola borghesia e alle classi ancora meno abbienti di accedere all’istruzione universitaria, alla magistratura22, alle professioni libere23, ecc.), finendo ora che non servono più - essendo il capitale riuscito a blindare i profitti inaugurando una gigantesca fase di espansione finanziaria e di trasferimento dei siti produttivi, tra iper-incremento del lavoro e sua precarizzazione massiva - per depredarle lentamente di quanto era stato loro concesso, sicché i cosiddetti diritti sociali24, un tempo tutelati per le incombenze di cui sopra, sono adesso diventati debiti da restituire.
Questi nuovi proletari, negli ultimi decenni sistematicamente precarizzati, si trovano ora costretti a garantire condotte remissive e malleabili, del tutto depotenziati e sfruttabili all’occorrenza, capaci di accrescere il proprio capitale cognitivo a partire dalla richiesta di elasticità e duttilità ogni qualvolta ciò viene loro ordinato. Elemento essenziale di questo vero e proprio attacco capitalistico è l’intento ideologico teso a dimostrare che non ha più senso parlare di classe, seppure modificatasi nel tempo, e soprattutto di lotta di classe, e questo perché dopo aver distrutto la coscienza della soggettività collettiva si è passati alla competizione diffusiva, nel senso che nel nome del mercato occorre agire e pensare come se tutti gli individui, indistintamente, fossero dei potenziali capitalisti. Orbene, se l’attuale schema economico presenta tra i suoi punti nodali la precarietà generalizzata dentro una economia monetaria di produzione, il debito e la legge del valore che supportano la precarietà, vanno necessariamente disarticolate attraverso l’autovalorizzazione25 della cooperazione sociale. In questi termini, l’ontologia di classe lacera e rompe le mistificazioni ideologiche dell’avversario padronale quando riesce a riprogrammarsi mediante la socializzazione all’interno delle determinazioni cooperative, estirpando la minaccia precaria ed esteriorizzando l’eccedenza differenziale. Il problema rivoluzionario diventa allora quello di ricercare un’unità tra le lotte senza ricadere nelle strutture dispotiche e burocratiche del partito o dell’apparato di Stato, mirando alla costruzione di strumenti di innovazione politica capaci di dispiegarsi sulle modalità di organizzazione delle soggettività proletarie, dialetticamente, «fra produttività autovalorizzante e funzioni destrutturanti»26.
V
La storia del capitale è stata una storia di superamenti, di coesistenze ideologiche governate dalla mescolanza di costrizione giuridica ed economica, di riordinamenti violenti a seguito di rivolgimenti e sovversioni destrutturanti che il proletariato ha sviluppato nei confronti del funzionamento della legge del valore, ma è certo che se «nell'insegnamento di Lenin l’azione di destabilizzazione del regime capitalistico s’accompagna immediatamente all’azione di destrutturazione del sistema del capitale», sicché «la crisi capitalistica deve avere un senso imposto e dominato dal potere proletario», in quanto «destabilizzare il regime non può essere cosa distinta dal progetto di destrutturare il sistema»27, - è accaduto che proprio da parte capitalistica, la riorganizzazione del sistema sia stata ancora una volta la condizione essenziale del suo consolidamento, in particolare attraverso l’inclusione, nel proprio progetto di rafforzamento politico, delle realtà proletarie più radicali.
Da questo punto di vista - atteso che le organizzazioni da cui i proletari sono stati storicamente orientati e gerarchizzati, non hanno consentito di arginare gli effetti dissolutivi sulla composizione di classe, continuando sostanzialmente ad ostruire il processo ricostruttivo di una seria unità teorico-politica del proletariato, così come a creare disordini ideologici e inconcludenti opposizioni – qualsivoglia progetto rivoluzionario dovrebbe invece essere in grado di esaltare le potenzialità soggettive proletarie, così come esse si articolano a tutti i livelli economici, sociali, culturali, immunizzandole dalla logica della «strutturalizzazione», mediante una prassi analitica specifica ad ogni livello di sviluppo delle lotte, perché «condurre un’azione politica è sinonimo di impresa analitica e viceversa»28, e soprattutto perché «un’Armata rossa cessa di essere una macchina da guerra nella misura in cui diventa ingranaggio più o meno determinante di un apparato [di stato, di partito] l’unificazione deve farsi attraverso analisi, deve avere un ruolo di analizzatore […] e non un ruolo di sintesi che procede per […] esclusione»29.
Quando la macchina da guerra30 diventa una macchina collaborante, cade immediatamente nella trappola dell’«Union sacrée», in cui tutte le differenze vengono organizzate centripetamente verso un obiettivo comune che tuttavia non solo resta di classe, ma contribuisce pure a generare un codice di tossica significazione in grado di sopprimere qualsivoglia potenza, bloccando così gli sfruttati alla dittatura dell’eternità necessaria con la scomparsa della storia all’interno dell’assolutismo spazio-temporale del dominio capitalistico e delle sue modulazioni. Il contropotere invece non costituisce solamente la garanzia delle differenze e la loro liberazione, ma è anche la messa a soqquadro di un tempo e di uno spazio antagonisti31, in cui l’eccedenza delle soggettività rispecchia la propria potenza sociale. Se dunque il capitale presenta la sistematica capacità di riuscire ad incorporare e, conseguentemente, a razionalizzare tutto ciò che si oppone al suo dominio, imponendo una determinazione qualitativa isomorfa alla crescente totalità di questo dominio, diventa fondamentale scoprire quali strategie il proletario deve adottare, anche a costo di perdere la propria natura puntiforme che lo rende vittima riconoscibile della schizofrenia capitalistica.
La pratica teorica, d’altronde, può uscire dal proprio guscio solo confrontandosi con le lotte reali, penetrandole, facendole comunicare «transversalmente», come preventiva conformazione di una strumentazione rivoluzionaria capace di distruggere i dispositivi di creazione padronale con cui, violentando e mortificando, commuta tutto a proprio favore. Se lo sfruttamento ed il profitto non sono venuti meno, a venir meno è invece l’utilizzazione del tempo di lavoro come classico modello di misurazione del plusvalore. E non è per caso che a fronte di un implacabile aumento della produttività e della produzione, corrisponda pur sempre una diminuzione dell’occupazione. Ne consegue allora che sia per il lavoro materiale che per quello immateriale, ai fini della produttività, ad assumere rilievo non è più dunque il tempo di lavoro in quanto tale, sostituito all’occorrenza da equivalenze di tipo codificativo quale misurabilità attraverso il diritto [e da qui l’importanza di Pashukanis, interessato a cogliere i collegamenti strutturali tra norma e forma del valore], quanto piuttosto la qualità della prestazione fornita. Il mercato globale (e la competizione da esso prodotta), ha di fatto costretto il singolo individuo o la singola impresa a vendere il proprio lavoro al massimo della qualità e al prezzo più basso. Come è stato incisivamente rilevato, in particolare a proposito dei lavoratori cognitivi, questi
«sono stati costretti nella trappola della creatività: le loro aspettative sono sottomesse al ricatto produttivo, poiché sono obbligati a identificare la propria anima (la parte linguistica ed emozionale delle loro attività) con il proprio lavoro». I meccanismi artificiosamente inoculati per incrementare la produttività, quali la meritocrazia, la competizione, l’individualismo, hanno spezzato il tema della solidarietà fra i lavoratori, lasciando ciascuno in completa solitudine difronte ai crescenti compiti richiesti, che in ogni caso vengono accolti nonostante siano impossibili da eseguire. E tale accettazione, in realtà, coincide con il fatto che «la solidarietà è stata rotta, e ogni lavoratore è solo di fronte al ricatto del merito, e all’umiliazione della valutazione individuale che sta nelle mani di una gerarchia di mascalzoni», facendo a ciò seguito solo «un sentimento di colpevolezza, ansietà, risentimento reciproco per la percezione dell’incapacità di aiutarsi l’un l’altro e di creare solidarietà»32.
Ma se, dunque, il lavoro immateriale è divenuto elemento costitutivo della composizione sociale del lavoro produttivo, a tal punto che la sua proletarizzazione ha aperto scenari circa l’impiego operaio della scienza e della tecnica, ne consegue che appaiono superati i tradizionali strumenti di mediazione del reale. Si tratta allora di sviluppare antagonismo in grado di tenere assieme attacco alla ricchezza sociale e rifiuto del lavoro, e poi bisogni e vite capaci di intensificare aperture di collettività e differenzialità radicali - perché
«la pratica è superiore alla conoscenza (teorica)», possedendo «la dignità non solo dell’universale, ma anche della realtà immediata»33.
Il rompicapo non è cosa sia meglio tra l’approccio orizzontale e quello verticale della politica e delle sue configurazioni, le quali procedono per distacco di «una avanguardia» onnisciente e burocratizzata, per prelievo di un «proletariato» accuratamente disciplinato e per residuo di un «sottoproletariato» da espellere o ricorreggere34, tutte sistematicamente assoggettate agli assiomi del capitale, la cui funzione è quella di rinnovare la frammentazione e la distanza tra i proletari stessi sradicando ogni carattere rivoluzionario, ma piuttosto come saltare da uno all’altro in base ai rispettivi vantaggi, a situazioni concrete che ogni volta richiedono una riconsiderazione del rapporto pratico tra i detti piani35. Il salto, che è sempre all’interno di un processo, impone - va ancora ribadito - una riconsiderazione della nozione tradizionale di proletario, quello, per intenderci, fordisticamente individuato, occorrendone ampliare la sua categoria a quella di proletario complessivo, in cui, come detto, la figura del proletario produttivo venga integrata da quella del proletario intellettuale o cognitivo. Vale a dire, per ritornare a Hans-Jürgen Krahl e alla sua straordinaria attualità, che è necessario andare oltre il cosiddetto proletario, sic et simpliciter, industriale:
«Se si discute della misura in cui scienza e tecnica sono diventate oggi un’universale forza produttiva sociale ed economica - anche senza inoltrarsi nella teoria del valore - allora, secondo l’impostazione marxiana, occorre muovere dall’allargamento del lavoro produttivo. […] In altre parole: se il lavoro intellettuale è sempre più incorporato al lavoro produttivo, allora il proletariato industriale, l’esercito degli operai meccanici che svolgono un lavoro fisico, non può più sviluppare da sé la totalità della coscienza di classe proletaria […] Se le scienze, secondo il loro grado di applicabilità tecnica, e i loro portatori, i lavoratori intellettuali, sono ormai integrati nel lavoratore produttivo complessivo, non è più ammissibile che strategie socialrivoluzionarie continuino a riferirsi in modo quasi esclusivo al proletariato industriale. Non è in questione la possibilità, per l’intellighenzia scientifica, di sviluppare una coscienza di classe proletaria in senso tradizionale; al contrario, bisogna chiedersi quale modificazione sia avvenuta nel concetto di produttore immediato, e quindi, di classe operaia»36.
Ed allora con Lenin, occorrono sempre salti e rotture connotate da svolte di qualità, contro i meccanismi reticolari del potere che in ogni istante, attraverso i propri dispositivi di cattura, pretendono di riprodurre il proletario per il suo sfruttamento seriale, e poi analisi concrete di situazioni concrete, accelerazioni tattiche, metamorfosi, intralci differenziali, destrutturazioni temporali, controtempi, rallentamenti strategici, improvvise riprese e scelte di nuove vie, se le precedenti si dimostrano inapplicabili o impossibili da perseguire37 - perché la «gradualità» delle strutture incentrate solo sulla teoria a cui tutto deve fare riferimento, «senza salti e interruzioni», con cui le soggettività proletarie, nell’individuarsi come forma relazionale, giungono a sperimentare il comunismo come potere costituente che sovverte l’organo capitalistico e le sue determinazioni connettive - «non spiega niente»38.
La transizione resta un processo aperto, in cui, ancora leninisticamente, occorre ricominciare sempre daccapo, superando la separatezza della rappresentanza e dell’agire politico, ma soprattutto evitando di pensare che sia possibile spaccare l’orizzonte neoliberale rieditando nuovi e più raffinati decisionismi e trascendenze. L’esigenza di organizzazione - si è detto - deve passare «all’interno della classe», non presentandosi «come ideologia o come funzione di supplenza», perché «il potere, la classe può delegarlo solo a se stessa»39. Nessun soggettivismo, dunque, ma esplicitazione concreta del materialismo dialettico, tale essendo «il materialismo della composizione»40, con la sua propensione a ridefinirsi sempre all’interno del dominio in cui è immerso, con la sua natura di classe al servizio dei proletari e con il suo carattere teso a dimostrare che alla base della teoria sta sempre la pratica - come conflitto che afferma collettività nella differenza - il cui punto di vista deve essere «il punto di vista primo e fondamentale della teoria della conoscenza del materialismo dialettico»41. Una conoscenza che, unificata con la pratica, sia capace di individuare quel nuovo soggetto che non ha più bisogno di essere mosso o diretto da qualsivoglia agente soggettivo, che «non accetta dinamiche che non muovano da se stesso e che non vi ritornino»42, proprio «come una realtà che esiste indipendentemente dalle opinioni soggettive (Setzen). (Questo è puro materialismo!)»43.
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Non si scosta pertanto, nonostante la pretesa, dagli atteggiamenti di smarrimento e confusione ideologici, dal velleitarismo donchsciottesco e dall'ansia di reificazione di parole tipici di gran parte della sparuta galassia antagonista sopravvissuta o non allineata con gli storici e ufficiali partiti di sinistra, che sono diventati tra i più arcigni esponenti del neoliberalismo, (con buona pace della teoria e pratica dell'avanguardia).
Non si può che concordare con l'istanza di sostegno alla prospettiva del materialismo storico, ma su basi scìentifiche e non rischiosamente caricaturali e lunatiche.
Il lunatico Don Chisciotte, come spiegherebbe Marx, nel suo irrisolto conflitto tra soggettivismo e esternalità, ha la prerogativa di confondere la personale percezione di un oggetto con la verità, cioè non è neanche più questione di fatti e oggetti per lui, ma di percezioni vere convertite automaticamente nella percezione della verità tout court. Il che può essere una strategia psicologica o una deriva ontologica curiosa o utile in certi casi, ma destinata a fabbricare prevalentemente fantasmi e un mondo fantasmagorico.
Infine, brevemente, ognuno ha naturalmente diritto a un'opinione, ma, a ribadire il concetto, esse non sono necessariamente conoscenza adeguata, né le varie rappresentazioni del capitalismo contemporaneo sono per esempio necessariamente ugualmente adeguate e scientifiche. E solo frustrante e illusorio è il surrettizio ricorso a espedienti, che siano il velleitarismo donchisciottesco o la reificazione di parole e slogan.
Concesso che l'evento e l'apparire della realtà siano la verità, e che da essa si debba partire e non dall'alto di spazi eterei e intellettualistici, nondimeno resta il problema della rappresentazione e del fatto che né è semplicisticamente spontaneistica, né conduce a una uguaglianza o equivalenza delle rappresentazioni stesse, pur sulla base di una grammatica comune, che oggi peralto neanche esiste, per essere stato annichilito il punto di vista marxiano e di sinistra.
Per esempio, negli anni settanta la classe dominante spaventata e insofferente di un capitalismo troppo "marxiano" rivoluzionario, ha progettato e imposto un radicale mutamento paradigmatico e il passaggio concreto al neoliberalismo fascista, che per inciso ha pure plasmato, nel suo incontrastato dominio, categorie antropologiche e rappresentative delle classi sociali inferiori. L'opposizione al dominante neoliberalismo fascista e capitalismo finanziario feudale, e alle degenerazioni e strutture materiali e ideologiche create, esige oltre a una posizione morale, conoscenze e narrazioni che vanno al di la di spontaneismi e reificazioni di parole e astrattismi antagonistici, nell'illusione di rincorrere cambiamenti, quando più probabilmente e inonsapevolmente si indulge a pratiche donchisciottesche, che indirettamente rafforzano il neoliberalismo.
Ma non ci si appoggi all'autorità di Lenin, il quale scrisse un intero libro (Che fare?) per spiegare la necessità di un'organizzazione partititica e di un avanguardia intellettuale del proletariato, e criticare le concezioni spontaneistiche dell'azione rivoluzionaria della classe proletaria.
Si adduca, piuttosto, l'autorità di Trotski, e la sua teoria della degenerazione burocratica del partito e dello stato.
un saluto...
Grazie