Print Friendly, PDF & Email

materialismostorico

Comunismo e/o marxismo? Note in margine a La questione comunista. Storia e futuro di un’idea, di Domenico Losurdo

di Luigi Alfieri (Università di Urbino)

SALVO HERO1.

È come filosofo politico che intervengo qui: toccherò quindi quello che in un’ottica filosofico-politica mi sembra il tema fondamentale proposto nel libro postumo di Losurdo.

Da un punto di vista filosofico-politico, direi che il punto centrale, sia per la sua obiettiva importanza intrinseca, sia per tutta una serie di conseguenze anche implicite ma comunque molto rilevanti che ha, è la polemica di Losurdo contro la teoria dell’estinzione dello Stato e in particolare contro le versioni anarcoidi e utopistiche recenti di questa teoria, il cui atteggiamento Losurdo, con un’espressione che mi piacerebbe rubargli, caratterizza come “gesto civettuolo” che maschera una posizione rinunciataria da slancio utopico1. E si riferisce a Badiou, a Negri, ad Asor Rosa, a Žižek, a coloro insomma che continuano a vedere nel marxismo essenzialmente una dottrina del superamento dello Stato, e quindi della politica, e quindi di ogni forma di potere2. Senza considerare abbastanza che il potere statale non è necessariamente soltanto strumento di oppressione, ma può anche essere strumento di garanzia, di protezione, di riconoscimento.

Mi sembra che a questo proposito Mimmo ragioni in un’ottica che è evidentemente, direi clamorosamente, hegeliana. Ci sono dei brani, dei capitoli interi di questo libro che potrebbero essere intitolati Hegel con- tro Marx3. Non c’è dubbio che la visione che Losurdo esprime dello Stato, in questo testo, è molto più hegeliana che non marxista. Anche se in verità Losurdo presenta la propria presa di distanza dalla teoria dell’estinzione dello Stato come conseguenza di un “processo di apprendimento” interno alla storia del marxismo, quindi come un almeno potenziale o incompleto autosuperamento del marxismo stesso:

«Dopo la “fine della storia” e a maggior ragione del movimento comunista e del marxismo, per qualche tempo avventatamente proclamata dai vincitori della guerra fredda, ai giorni nostri si assiste a una ripresa d’interesse per Marx e a un rilancio dell’idea di comunismo. Disgraziatamente, si tratta di una ripresa e di un rilancio che non si preoccupano di tracciare un bilancio storico e ignorano del tutto il processo di apprendimento che in modo faticoso e peraltro incompleto si è verificato nell’ambito del movimento comunista. Già assai difficile a causa della situazione oggettiva (le devastazioni del primo conflitto mondiale, la guerra civile e l’intervento straniero in essa, una situazione internazionale densa di pericoli) il problema del passaggio dallo stato d’eccezione alla normalità e della progressiva trasformazione in senso democratico dello Stato scaturito dalla rivoluzione d’ottobre era reso ancora più problematico o impossibile dall’attesa dell’estinzione dello Stato e del potere politico in quanto tale. […] L’esperienza tragica della guerra totale e del ruolo di Moloch sanguinari svolto dagli Stati impegnati nel gigantesco conflitto avevano rafforzato possentemente le tendenze anarchiche, e queste a loro volta rendevano quanto mai difficile se non impossibile l’acquisizione dei punti forti della tradizione liberal-democratica. Si verificava una dialettica per cui lo stato d’eccezione (provocato dalla guerra) radicalizzava l’utopia del dileguare dello Stato e del potere in quanto tali, e questa utopia astratta irrigidiva ulteriormente e rendeva insormontabile lo stato d’eccezione»4.

Con l’acribia filologica che manifesta in tutti i suoi testi, Losurdo rintraccia qua e là nella tradizione marxista, da Engels a Gramsci a Lenin, senza escludere neppure Stalin e Mao, un’ampia serie di prese di distanza riguardo alla teoria dell’estinzione dello Stato, che conosce perciò una sua critica interna al marxismo5. Nel riprendere così fortemente questa critica, di per sé mai portata a fondo e mai interamente esplicitata, Losurdo esprime però chiaramente un’opzione teorica personale impegnativa e con conseguenze rilevanti. Come risulta infatti anche dal brano appena citato, nell’ottica dell’estinzione dello Stato, che impedisce di per sé la costruzione di una “normalità” orientata verso la democrazia, non resta altra dimensione politica se non lo stato d’eccezione.

Se si deve considerare lo Stato nell’ottica della sua imminente estinzione, e quindi della sua sopravvivenza soltanto provvisoria all’interno di una fase finale della lotta di classe, come estremo strumento di essa, è del tutto evidente che c’è una sola forma di Stato che risulta pensabile: la dittatura del proletariato. E la dittatura del proletariato come forma finale dello Stato si sostanzia poi, come la storia purtroppo ci ha sempre mostrato, in una dittatura burocratica di partito, assumendo come principio ontologico che il partito è l’avanguardia del proletariato, e quindi è l’avanguardia della storia, e quindi ha una legittimazione, si potrebbe dire, metafisica alla gestione del potere. Sempre nell’ottica di un suo imminente superamento, ma di fatto producendo una sua estremizzazione, più o meno cruenta, più o meno oppressiva. Donde quello che è forse il più tragico paradosso della storia del Novecento: che la più rigorosa, la più conseguente, la più nobile teoria dell’emancipazione umana ha dato vita ad alcune delle forme politiche più oppressive, più retrive, più tragicamente conservatrici, oserei dire più reazionarie, che la storia conosca. Quest’esito paradossale non è una casualità, non è un’occasionale deviazione, è conseguenza proprio di una fondamentale incomprensione della dimensione politica, che ne produce la riduzione a un ruolo decentrato che si rovescia poi, come Losurdo stesso nota, in una nuova, e distruttiva, centralità.

Ne risulta un inevitabile divorzio tra la fedeltà alla teoria, o piuttosto alla versione ufficiale e stereotipizzata di essa, e l’esigenza di emancipazione, ormai in insanabile conflitto tra di loro. E quanto questo conflitto sia lungi dall’essere astrattamente teorico e si sia tradotto invece in drammi storici, la storia del Novecento ce lo mette sotto gli occhi in una maniera tale da impedirci di chiuderli.

Però, le conseguenze implicite di una presa di distanza dalla dottrina dell’estinzione dello Stato sono pesanti: determinano un vero e proprio smottamento teorico. Volendo fare i conti col marxismo fino in fondo, credo che di questo smottamento bisognerebbe prendere atto. Perché non è soltanto la dottrina dell’estinzione dello Stato che deve essere messa in questione, ma i suoi presupposti. E i suoi presupposti sono importanti, sono centrali. Viene messa in questione, inevitabilmente, anche la definizione dello Stato nell’ottica della lotta di classe, la concezione dello Stato come puro e semplice strumento della classe dominante, ma viene messo in discussione anche qualcosa di più, e cioè lo stesso nesso struttura/sovrastruttura. Forse, il vero punto debole, il cancro nascosto del marxismo, è proprio la pretesa di identificare nell’economia la struttura portante della società e della storia in ogni epoca e per ogni epoca, che è paradossalmente lo stesso punto di vista della società borghese, che viene certo criticamente rovesciato, ma mantenendolo come presupposto. L’homo oeconomicus, così, assorbe in sé lo spazio del citoyen e la dimensione politica finisce per diventare accessoria, dando luogo a una visione universale della storia alla luce del XIX secolo in Europa dopo la rivoluzione industriale.

 

2.

Ricordo – ma ci sarebbe tanto da ricordare a questo proposito – un bellissimo testo di un grande grecista, peraltro di formazione marxista, Jean-Pierre Vernant, il quale si chiede se è possibile applicare la teoria della lotta di classe come motore della storia e della rivoluzione come fattore di mutamento storico alla Grecia antica6. E conclude per il no: gli schiavi in Grecia non hanno mai fatto una rivoluzione, nessuna lotta di classe ha prodotto il superamento della schiavitù. Naturalmente, la lotta di classe in Grecia c’era, solo che non la facevano gli schiavi e non aveva come teatro le botteghe artigiane del Ceramico o i campi d’ulivi della Mesogea, aveva come teatro la polis, le istituzioni della polis, era lotta politica, era lotta per l’acquisizione e il rafforzamento del potere decisionale. La lotta politica aveva marcatissime connotazioni classiste, senza dubbio: tutto il pensiero politico greco non parla che di questo. Pensiamo alla teorizzazione della democrazia in Aristotele come governo dei poveri contro i ricchi, in un’ottica che è esplicitamente quella di un conflitto tra classi, ma tra classi di cittadini7. È lotta all’interno dello Stato, se così vogliamo chiamare la polis, è lotta per la sua conquista, non certo per la sua estinzione e per il libero controllo collettivo dei mezzi di produzione al di fuori della dimensione politica. Quindi è lotta di classe in un senso non marxiano, all’interno di una società che non ha nulla a che fare con la società borghese del secondo Ottocento, quella società che Marx si sforzava di comprendere e di superare, rischiando però di farne piuttosto, in piena convergenza col pensiero borghese dell’epoca, un modello atemporale di società.

Una rilettura storica spregiudicata mostrerebbe inevitabilmente come le categorie di Marx definiscano in maniera precisa, coerente, rigorosa, lucida la sua epoca, ma siano difficilmente estrapolabili da essa senza cadere in forzature, in atti di fede, in contraddizioni interne che determinano, in una teoria complessivamente molto forte, dei punti di tragica debolezza che bisognerebbe non difendere più. Mi pare che in questo testo – forse più che in altri – Mimmo abbia molto coraggio nel prendere le giuste distanze da questi aspetti critici del marxismo. Dobbiamo tener presente che il libro è incompiuto, lacunoso, che il pensiero che vi viene espresso in qualche misura – in notevole misura – dobbiamo non soltanto interpretarlo, ma indovinarlo. Ci sono dei nodi che non vengono stretti ma che abbastanza chiaramente erano destinati ad esserlo nel progetto di Mimmo: in particolare, il tentativo di recuperare in un’ottica comunista quelle che in maniera troppo riduttiva sono state definite le libertà borghesi. Che l’obiettivo di Mimmo fosse di coniugare l’emancipazione comunista con le forme più avanzate della visione liberale, diciamo pure del liberalsocialismo, emerge più volte nel testo. Un esempio tra i numerosi possibili (spesso ricavabili soprattutto dalle citazioni che Losurdo propone):

«Piuttosto che negare o svalutare le conquiste di cui erano stati protagonisti “i rivolgimenti liberali e i rivolgimenti democratici”, i comunisti si proponevano di universalizzarle (mettendo fine alle tenaci clausole d’esclusione della tradizione liberale) e di far valere tali conquiste anche nella materialità dei rapporti economici e sociali, tenendo conto di volta in volta della concreta situazione storico-politica»8.

Verso gli autori ascrivibili al liberalsocialismo Mimmo ha un atteggiamento molto differenziato: parecchio polemico contro Bobbio, salvando un po’ il Bobbio più giovane, ma molto adesivo nei confronti di certi aspetti del liberalsocialismo inglese9. A questo proposito è importante la convergenza che Losurdo sottolinea con aspetti della tradizione comunista che il comunismo più oltranzista, o se vogliamo “civettuolo”, di tempi recenti ha frettolosamente rinnegato: in particolare, c’è nell’opera di Mimmo una forte rivalutazione di Togliatti, che credo sia del tutto giustificata10.

Quindi direi che il disegno teorico, pur incompiuto, che emerge sia caraterizzabile come la prospettazione di una filosofia dell’emancipazione in cui comunismo e liberalsocialismo si incontrino, proponendo quindi un comunismo della e nella libertà, un comunismo in cui non ci sia più la distinzione del tutto artificiosa e del tutto fuorviante tra libertas maior e libertas minor11. Non ci sono gerarchie tra le libertà, la libertà o è piena o comporta la schiavitù di qualcuno, e quindi non è libertà. Non possiamo prendere le libertà a pezzi, il concetto di libertà è espansivo, intrinsecamente progressivo e inclusivo. La libertà non è pensabile come una dimensione chiusa e compiuta, strutturata gerarchicamente al proprio interno subordinando o limitando alcuni suoi aspetti a vantaggio di altri, il che significherebbe inevitabilmente che qualcuno è più libero di qualcun altro. In questo, mi pare che Mimmo intenda salvare una dimensione del liberalismo ben diversa da quella da lui tanto duramente criticata12: una sorta di liberalismo perennis, cioè un’esigenza di emancipazione umana che attraversa tutta la storia e di cui il marxismo stesso è un’importantissima espressione, ma non è l’unica né l’ultima espressione.

 

3.

Qui c’è un altro aspetto che credo debba essere sottolineato fortemente, perché è una sorta di radicale correzione del marxismo che Mimmo opera non soltanto in questo testo postumo, ma in tutti i suoi testi più recenti: uno spostamento del focus dalla lotta di classe all’interno della società industriale, la lotta di classe nella sua forma strettamente marxiana, che ha come protagonista il proletariato, verso un’esigenza di emancipazione collocata diversamente. Se vogliamo applicare un’etichetta a uno studioso che non è riducibile alle etichette, neppure a quelle che effettivamente lo caratterizzano, tra cui quella stessa di marxista, credo che la caratterizzazione appropriata a Mimmo sia: un radicale pensatore dell’emancipazione in un’ottica terzomondista, anticoloniale. È del tutto vistoso e inequivocabile in Losurdo lo spostamento della teoria della lotta di classe dalla dimensione tradizionale a quella dell’emancipazione dei popoli oppressi, inferiorizzati, schiavizzati, vittime di razzismo. E sebbene questo non sia per nulla un aspetto estraneo al marxismo, di sicuro non ne è l’aspetto centrale e determinante. Accentuandolo così fortemente, Losurdo contesta almeno implicitamente tutta la tradizione del marxismo classico. Tanto che si potrebbe dire, sia pur con qualche esagerazione, che quello di Losurdo è un comunismo non più marxista, o per meglio dire non più soltanto marxista.

Da parte mia, questo intende essere un elogio, non una critica. Intende essere un riconoscimento alla capacità di un pensatore molto importante, innovativo e coraggioso di correggere radicalmente il marxismo in alcuni dei suoi punti più deboli, che poi sono i punti su cui si sono innestate le tragedie della storia.

 

4.

Il marxismo – ma questo lo sappiamo tutti, è un’assoluta ovvietà – ha sofferto moltissimo del fatto di essere adottato come verità di Stato, o, per dirla con più precisione, come verità di regime. È indubitabile che il primo a rifiutare con sdegno e con la sua abituale feroce ironia un simile sviluppo sarebbe stato Marx stesso. E tuttavia resta un fatto che, pur contro la sua intima natura, il marxismo è stato degradato ad apparato retorico a sostegno di un potere. Un potere che indubbiamente è stato sconfitto, e che lo meritava ampiamente: non credo, pur senza essere manichei e pur tenendo conto di tutta la complessità del contesto, che si possa arrivare seriamente a conclusioni diverse.

Ci sono due modi per reagire a questa sconfitta, forse tre. Uno sarebbe la negazione dell’evidenza, ma non mi pare il caso di perderci tempo. Parliamo degli altri due. Il primo sarebbe l’abiura: il marxismo è stato un gigantesco equivoco, abbiamo sbagliato tutto, e quindi rinneghiamo il marxismo, il comunismo diventa “indicibile” (rimando in proposito al riferimento polemico di Mimmo a Bertinotti, che condivido totalmente13). Alla crisi del marxismo si reagisce dando ragione ai suoi avversari. È, più o meno, quello che ha fatto la sinistra negli ultimi decenni: in Italia, e non soltanto in Italia. L’altra possibilità, che mi sembra sia quella di Mimmo, è allargare il campo, aprire la teoria, uscire dai suoi limiti e spostare il discorso su un altro terreno: quello della lotta per l’emancipazione.

Il terreno della lotta per l’emancipazione non è soltanto, e probabilmente in molti casi non è più, quello descritto da Marx: è altrove. È il famoso problema del soggetto rivoluzionario: è evidente in questo libro, ma in molti altri libri di Mimmo, che per lui il soggetto rivoluzionario sono i popoli oppressi del Terzo Mondo, fondamentalmente, non più la classe operaia dell’Occidente industrializzato. E quindi il “luogo” della rivoluzione – una rivoluzione che non è quella di tipo classico – si sposta in questa direzione. Si tratta non soltanto di una lotta per il controllo dei mezzi di produzione, ma prima ancora per la conquista dei diritti, anche dei diritti elementari, anche dei diritti minimi: una lotta per la conquista, prima di tutto, della dignità umana. È un fenomeno che caratterizza massicciamente tutta la seconda metà del Novecento: è il momento in cui accadono le grandi rivoluzioni del Terzo Mondo, le grandi rivoluzioni anticoloniali, che tendiamo addirittura quasi a non vedere, a non percepire storicamente, considerandole come fenomeni marginali, in un’ottica centrata sull’Occidente che è ormai un’ottica del tutto provinciale.

Perché per Mimmo è così importante la Cina14? In un certo senso è un’ultima trincea del comunismo classico, ma questa è più un’apparenza, in questo testo forse più che in altri mi pare che la cosa diventi esplicita. La vicenda cinese è importante perché si tratta della “più grande rivoluzione anticoloniale della storia”15, una rivoluzione che ha ottenuto un successo straordinario, facendo uscire dalla povertà centinaia di milioni di persone. E questo è un fenomeno di importanza molto maggiore rispetto alle piccole lotte di retroguardia della sinistra occidentale. Questo non fa della Cina un mondo perfetto, certo, e Losurdo si mostra talvolta forse troppo generoso. Però è importante rendersi conto delle proporzioni del fenomeno storico di cui si parla. Siamo ormai alla periferia di un conflitto che si è spostato su altri fronti: mi pare che Mimmo questo lo veda benissimo. Ed è chiaro che questo processo storico sfugge in gran parte ai canoni del marxismo classico. Semplificando molto, probabilmente troppo, sarei tentato di dire che oggi è ancora possibile dichiararsi comunisti, mentre dichiararsi marxisti è più problematico. Cioè, se parliamo di comunismo oggi, il marxismo ne può essere una componente, ma non ne può essere la totalità.

 

5.

Troppo frettolosamente e non innocentemente, ci siamo abituati ormai da decenni a considerare il comunismo un’idea fallita, e purtroppo i primi sostenitori di questa visione autodistruttiva sono stati gran parte di coloro che una volta erano o proclamavano di essere comunisti. Credo che Mimmo esprima invece uno dei pochi punti di vista, forse alla fine l’unico realmente sostenibile, che ci consentano di pensare il comunismo come un’idea non fallita. La categoria di “fallimento”, del resto, non ha un senso filosofico preciso, e non mi pare che sia una categoria storica accettabile. Nella storia ci possono essere sconfitte, nella teoria ci possono essere errori, ma né sconfitte né errori sono fallimenti. L’idea di “fallimento” implica una dimensione di pentimento postumo, di rinnegamento, di (vogliamo dirlo?) passaggio al nemico, di (vogliamo dirlo?), tradimento. L’ottica per cui si considera il comunismo un’idea fallita è necessariamente l’ottica secondo cui i nemici del comunismo hanno sempre avuto ragione e i comunisti hanno sempre avuto torto. E questo è un punto di vista, chiamiamolo col suo nome, reazionario.

Credo che il discorso debba essere un altro. Nelle teorie ci sono errori, e nel marxismo ci sono tanti errori. Non esistono teorie esenti da errori, non esistono teorie perfette, non esiste la teoria che esprime “la verità”. Se pensiamo una cosa del genere abbiamo abbandonato il terreno della scienza, della filosofia, della storia, siamo passati sul terreno della metafisica, della religione, del dogma, della fede. Stiamo parlando d’altro. E non stiamo facendo il nostro mestiere. Non siamo teologi, e soprattutto non siamo, o non dovremmo essere, preti. Con tutto il rispetto per i preti: spesso sono persone degnissime, ma fanno un altro mestiere, non dovrebbe essere il nostro. Quindi non si può studiare oggi il marxismo senza rilevarne errori, in molti casi del tutto evidenti. E questi errori sono collegati, quando non ne sono cause determinanti, a sconfitte storiche, sconfitte storiche che ci sono state, e anche questo non possiamo negarlo, perché significherebbe negare i fatti. Ma le sconfitte storiche non significano il fallimento di un’idea. L’idea comunista non è un’idea fallita, come non lo sono altre due idee da cui non può né deve essere separata. Mi riferisco anzitutto all’idea di dignità umana: non soltanto di uguaglianza, ma soprattutto di dignità, che è qualche cosa di più dell’uguaglianza, perché la dignità è l’uguaglianza portata a un livello superiore, è l’uguaglianza nell’emancipazione, è l’uguaglianza nella promozione, l’uguaglianza nel portare l’umanità più in alto di dov’era. L’altra è l’idea di libertà. Il comunismo è il pensiero più radicale della dignità e della libertà come esigenze antropologiche fondamentali.

A questo proposito, non dobbiamo perdere di vista che qui abbiamo a che fare con un’etica. Non abbiamo a che fare con un’interpretazione dell’economia, se non secondariamente, non abbiamo a che fare con una visione asetticamente scientifica. Qui abbiamo l’affermazione di valori. E i valori hanno una caratteristica: che non sono fatti, all’inizio, ma idee, rappresentazioni, sogni, diciamo pure utopie. Però, se siamo capaci di trasfonderli in imprese storiche, diventano fatti. Fatti mai ultimi, mai finali, mai compiuti, mai perfetti, mai adempitivi. Tappe che acquistano senso soltanto nella prospettiva di un cammino ulteriore, soltanto nell’idea che ci sia ancora una strada davanti e dei passi avanti da fare.

Credo che questo valga per il comunismo. Uso questo termine in un senso generico, non necessariamente legato in maniera esclusiva o centrale a una certa visione, peraltro assai difficile da precisare, parecchio astratta, di una particolare gestione dell’economia come proprietà collettiva dei mezzi di produzione: una cosa che è sempre rimasta sulla carta e forse è davvero difficile che esca da lì. Quello che invece mi sembra centrale è una visione dell’uomo. Una visione dell’uomo come essere in cammino, come essere incompiuto, ma dotato, comunque, di un potenziale di liberazione che non può mai soddifarsi in nessun tipo di società gerarchizzata, diseguale, in nessun tipo di società esclusiva ed escludente. Una visione che ha quindi sempre un obiettivo politico, un obiettivo politico rivoluzionario, non necessariamente nel senso corrusco dell’incrociatore Aurora che spara sul Palazzo d’Inverno (peraltro a salve, come sappiamo) o delle ghigliottine in piazza, secondo un’idea di rivoluzione alquanto mitologica, ma rivoluzione come processo storico infinito, definitivamente incompiuto, che però implica una direzione della storia: non perché la storia abbia una direzione, ma perché noi gliela diamo.

Sull’incompiutezza e nello stesso tempo sulla concretezza del processo storico rivoluzionario, Losurdo offre, verso la fine del suo scritto, una lezione fondamentale:

«I comunisti sono chiamati ad ammettere una verità, per dolorosa che essa sia: anche l’ideale del comunismo può configurarsi come uno strumento di evasione, anzi come una religione di evasione. Rispetto al futuro luminoso ovvero al paradiso dei credenti, le lotte concrete di volta in volta imposte dagli oggettivi sviluppi della lotta di classe e le singole tappe del processo di emancipazione sembrano essere parte integrante di una valle di lacrime assolutamente priva di valore. […] occorre riconoscere il pericolo che […] l’“apostolo salvatore del mondo” prenda il sopravvento sul militante e teorico della rivoluzione. Sì, la diserzione dalle lotte concrete contro lo smantellamento dello Stato sociale, in difesa della sovranità statale, dell’indipendenza nazionale e del diritto allo sviluppo, tutto ciò viene talvolta giustificato rinviando all’ideale del comunismo: rispetto al futuro luminoso così evocato, come appaiono limitate e meschine le lotte oggi in corso! In tale prospettiva, il comunismo si configura come uno strumento di evasione dalla realtà, alla stregua di qualsiasi altra religione»16.

Non si potrebbe dire meglio. Con una riserva però: al pericolo di sacrificare le lotte reali a una visione salvifica e irrealistica di un futuro remoto fa da contraltare il pericolo, forse più grave e devastante nella storia del movimento comunista, di ipostatizzare il risultato di una lotta come se fosse di per sé l’adempimento salvifico di un futuro luminoso. Cosicché a una presa di potere segue la difesa a tutti i costi del potere conquistato, il movimento si ferma, la rivoluzione diventa conservatorismo se non reazione. È il modo più sicuro di trasformare le vittorie in sconfitte, ed è successo dovunque, in Russia come a Cuba come (anche se Mimmo non sarebbe d’accordo) in Cina. E da nulla bisogna guardarsi di più. Nell’ottica del comunismo come processo storico infinito di emancipazione umana, la rivoluzione non può che essere rivoluzione permanente: senza particolare bisogno di chiamare in causa quelle componenti del marxismo che lo hanno esplicitamente teorizzato, ma come semplice deduzione dall’idea. Senza aver troppa paura di mescolare alle lotte concrete un po’ di metafisica, di religione e persino di mistica: è questione di dosi.

Inteso in questo senso, credo che il comunismo sia la visione antropologico-filosofica che più di ogni altra valorizza l’uomo, insieme al cristianesimo, di cui si può considerare figlio non del tutto illegittimo, e insieme a tante altre visioni che non sono affatto sconfitte, e se dovessimo riconoscerle sconfitte dovremmo riconoscere definitivo che ci siano uomini che soffrono, uomini che vengono deprivati della loro dignità, popoli interi subordinati ad altri popoli, e insomma acconciarci a tutto l’apparato ormai ammuffito di un dominio che non è accettabile perché è una degradazione non soltanto di chi lo subisce, ma ancora di più di chi lo esercita, e non è lecito adattarsi a una visione dell’uomo che lo consideri come un essere definitivamente degradato e degradante.

Se vogliamo chiamare tutto questo “comunismo”, e io ci sto, il comunismo non è fallito: forse è fallito tutto il resto. Però se non prendiamo atto delle sconfitte storiche, degli errori, dell’esigenza di rivedere il passato e di cercare strade diverse per il futuro, rischiamo di girare a vuoto e di non incidere più sulla realtà. Il vero problema potrebbe essere questo. E credo che Mimmo non abbia mai abbandonato l’intenzione, la capacità, la voglia, di incidere sulla realtà, di mordere la realtà, in questo libro come in tutti quelli che ha scritto. E quindi come sempre ho fatto interloquendo con lui, aderisco fortemente al suo pensiero, pur se, come sempre, non lo condivido interamente o sento in qualche modo il bisogno di spingerlo in direzioni verso cui forse voleva in parte andare, per il resto forse prestandogli del mio, nell’ottica, comunque, di un cammino fatto insieme.


Riferimenti bibliografici ARISTOTELE, 2007
Politica, Laterza, Roma/Bari = AP
LOSURDO, DOMENICO, 2000
La sinistra, la Cina e l’imperialismo, La Città del Sole, Napoli. ID., 2005
Controstoria del liberalismo, Laterza, Roma/Bari. ID., 2021 = QC
La questione comunista. Storia e futuro di un’idea, introduzione e cura di G. Grimaldi, Carocci, Roma 2021.
VERNANT, JEAN-PIERRE, 1981
Mito e società nell’antica Grecia, trad. di P. Pasquino, Einaudi, Torino.

Note
1 QC, p. 165.
2 Ivi, cap. 4, pp. 161-186.
3 Questo sebbene, in tutto il libro, i riferimenti espliciti a Hegel siano relativamente pochi e riguardino per lo più aspetti marginali. Cfr. però QC, pp. 74 e 123.
4 QC, pp. 145-146.
5 QC, pp. 146-150.
6 Vernant 1981, sp. cap. I.
7 AP, III, 8 e IV, 4, 1290a.
8 QC, p. 74. Qui Losurdo sintetizza adesivamente la posizione di Togliatti in dialogo con Bobbio. Di Togliatti è la frase tra virgolette.
9 QC, pp. 75-114.
10 P. es., QC, p. 149.
11 QC, pp. 90-91.
12 Mi riferisco in particolare a Losurdo 2005.
13 QC, pp. 41-2.
14 Nel piano di lavoro progettato da Losurdo per QC (pubblicato in appendice, pp. 189-192), alla Cina era riservato un intero capitolo. Cfr. comunque QC, pp. 170-171 e 175-176. Ma cfr. anche Losurdo 2000. I riferimenti al tema sono però frequentissimi in tutta la produzione recente di Losurdo.
15 QC, p. 171.
16 QC, pp. 185-186. “Apostolo salvatore del mondo” è espressione ironica di Marx ed Engels.

Comments

Search Reset
0
Marco
Tuesday, 30 August 2022 19:59
La teoria dell'estinzione dello Stato è senz'altro sbagliata, ma non nel senso che lo Stato è eterno: lo è nel senso che esso non sparirà mai spontaneamente, "per opera dello Spirito Santo". Sulla questione si può dare un'occhiata qui: www.scribd.com/doc/243542301 .
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Mario Galati
Friday, 26 August 2022 09:59
Mi sembra che l'autore, mentre critica la dogmatizzazione e schematizzazione del marxismo, utilizzi versioni schematiche e dogmatiche, sostanzialmente deformanti del marxismo. Per es.,
1- è luogo comune attribuire a Marx una granitica dottrina dell'estinzione dello stato, conseguenza di una granitica e monolitica nozione di stato. La questione non è controversa solo con Engels, ecc., ma lo è già in Marx. E Losurdo lo rileva;
2- che la lotta di classe sia immediata e diretta, in una dimensione dell'"economico" distinta nettamente dalle altre, non è affatto idea marxista, ma delle categorie non marxiane proprie dell'autore. Che essa avvenga in forma mediata, soprattutto nella dimensione politica, e in ogni aspetto della vita sociale è cosa che trovo scontata per uno che ragioni in maniera marxista. Che Marx pensasse al conflitto di classe nei termini rozzi, astorici, come insinuato dall'autore, lo troverei persino offensivo dell'intelligenza di Marx.
3- l'accento di Losurdo sulla questione coloniale rispetto all'"operaismo" "ortodosso" non è una fuoriuscita dal marxismo. Ci troviamo nell'ambito della divisione internazionale del lavoro.
Sottolineare ciò non significa voler prendere le distanze dal carattere emancipatorio, umano e antropologico, anche hegeliano (lotta per il riconoscimento), della lotta di classe. Se l'autore è propenso a leggere un ritorno hegeliano estraneo al marxismo, credo che si sbagli e che egli proietti la sua visione economicistica e non totalitaria su Marx.
4- dissento totalmente sulla presentazione orrorifica dell'Unione Sovietica e del cosiddetto socialismo reale, come sul fatto che dovremmo rallegrarci per la loro fine. Anche in questo caso, mi sembra che l'autore rimanga totalmente interno alle logiche schematiche sul conflitto di classe e sul procedere della storia che, al contrario, sostiene di criticare quando concorda sulla messa in discussione della categoria di "fallimento".
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Pantaléone
Thursday, 25 August 2022 22:17
Nel suo ultimo lavoro pubblicato L'origine della famiglia, la proprietà privata e lo Stato, Engels riassume ancora una volta il suo punto di vista: "Lo Stato è (...) non da tutta l'eternità. C'erano società che gestivano senza di lui, che non avevano idea dello stato e del potere statale. (...) L'azienda, che riorganizza la produzione sulla base della libera ed equa associazione dei produttori, sposta l'intero apparato statale dove successivamente apparterrà, al Museo delle Antichità, accanto alla ruota che gira e all'ascia di bronzo. (Engels 1966, MEAS, Vol. II, p. 296).

(Marx 1962, MEW Vol. 17, p. 539) "La Comune è stata una rivoluzione contro lo Stato stesso, contro questo aborto soprannaturale della società". (ibid., p. 541)
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Fabio Rontini
Thursday, 25 August 2022 17:55
Se l'interpretazione di Alfieri, che la prospettiva dell'estinzione dello stato viene completamente abbandonata, fosse corretta, allora Losurdo sarebbe effettivamente uscito dal marxismo. E questo può anche essere perchè non ho letto il libro e può darsi che le cose stiano effettivamente così.

Ma ho letto il suo libro precedente, sul Marxismo occidentale e orientale, e lì Losurdo non rigetta affatto la prospettiva dell'estinzione dello stato, bensì la colloca in un orizzonte temporale molto più vasto di come in precedenza era stato fatto.

Losurdo, in un importante capitolo di quel libro, parla di differenti tempi del discorso marxiano, in cui convivono obiettivi tattici più immediati (es. la conquista dello stato con la rivoluzione) e obiettivi strategici più lunghi (l'utilizzo graduale del potere dello stato per riformare il sistema produttivo fino al comunismo, in cui lo stato cessa la propria funzione).

Se così non fosse il discorso marxiano sarebbe effettivamente contraddittorio, proponendo contemporaneamente sia l'abolizione che la conquista del potere statale da parte del proletariato. Ma sarebbe stata un'incongruenza troppo grossolana per non essere notata da nessuno per tutto questo tempo.
Like Like Reply | Reply with quote | Quote
0
Pantaléone
Saturday, 27 August 2022 23:06
"Lo Stato non è altro che un apparato per opprimere una classe da un'altra, e questo, tanto nella repubblica democratica quanto nella monarchia; Il minimo che si possa dire è che si tratta di un male ereditato dal proletariato vittorioso nella lotta per il dominio di classe e che, come la Comune, non potrà evitare di tagliarne gli aspetti più dannosi fino a quando una generazione cresciuta in condizioni sociali nuove e libere non sarà in grado di sbarazzarsi di tutta questa ferraglia statale.
F Hengels 18/03/1891".
La progressiva soppressione dello Stato è un obiettivo comunista, ovviamente non può essere decretato come hanno fatto Bakounine o Malatesta (che dimostra l'ignoranza del movimento storico da parte degli anarchici "volontarismo"), e come l'URSS non poteva fare, dipende molto dalle condizioni storiche delle forze produttive "determinismo" anche se ci rimanda alla concezione parziale materialista. Tradotto con www.DeepL.com/Translator (versione gratuita)
Like Like Reply | Reply with quote | Quote

Add comment

Submit