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cumpanis

Frammenti di un discorso su Marx e le teorie novecentesche della dinamica economica

di Alessandro Volponi*

Presentiamo l'intervento svolto dal professor Volponi alla Festa Nazionale di "Cumpanis" tenutasi a Castelferretti (Ancona) dal 2 al 4 settembre scorso

IMMAGINE PRIMO ARTICOLO SEZIONE SCUOLA QUADRI articolo di di VolponiCom’è noto, toccò ad Engels il duro compito di mettere ordine nel vasto lascito di Marx dando veste organica alla massa di appunti che costituirono, tra l’altro, il secondo e il terzo libro del Capitale e proprio nel secondo libro del suo capolavoro Marx espone un’idea che si rivelerà assai feconda: dividere l’apparato produttivo in due grandi settori e descrivere le relazioni che necessariamente intercorrono fra di essi in due situazioni diverse che sono quella di un’economia stagnante e quella di un sistema in crescita (riproduzione semplice e riproduzione allargata).

Proprio questa seconda rappresentazione fornisce la base di una teoria della dinamica che nel ‘900 darà i suoi frutti più maturi, in particolare dopo il terribile ‘29. Si ricordi che nel secolo di Marx il pensiero economico dominante nega la possibilità delle crisi che sarebbero, dunque, sempre prodotte da cause extraeconomiche (cause esogene). Per Marx, le crisi sono non solo possibili ma necessarie, esse producono periodicamente un temporaneo aggiustamento dei rapporti tra le grandezze fondamentali del sistema; da esse, per tutta la durata della giovinezza del capitale, si fuoriesce con rinnovato slancio verso più gloriosi destini del sistema. Egli, però, nei suoi schemi della riproduzione, non descrive la crisi ma, con esempi aritmetici, presenta un percorso ideale in cui tutto il plusvalore è consumato o investito dai capitalisti, tutto il salario è consumato dai lavoratori, i beni di consumo prodotti da un settore equivalgono esattamente alla domanda complessiva e allo stesso modo i beni di investimento prodotti corrispondono esattamente alle necessità di entrambi i settori. Nello schema della riproduzione allargata una quota di questi beni, soprattutto di investimento, è in eccesso e costituisce una base più larga della produzione nel periodo successivo.

Con ciò Marx non voleva dimostrare una naturale tendenza del capitalismo ad uno sviluppo armonioso, salvo disturbi casuali, al contrario mostrava quanto fosse improbabile la perfetta coincidenza di domanda e offerta nelle dovute proporzioni, inoltre faceva astrazione dal movimento del capitale fisso pur accennando ad esso quale ragione di fondo della periodicità delle crisi.

Eppure, anche un marxista come Bauer, in polemica con la Luxemburg, sviluppò gli schemi della riproduzione per dimostrare la possibilità di una crescita illimitata e senza crisi purché si rispettino le dovute proporzioni. Nel 1929, alla vigilia della grande crisi esattamente prevista in tutta la sua drammaticità, Henryk Grossman pubblica La teoria del crollo, un volume nel quale, tra l’altro, sviluppa ulteriormente lo schema di Bauer e dimostra l’impossibilità della sua prosecuzione oltre un certo limite con l’avvertenza che sono proprio le crisi periodiche, piccoli crolli, ad allontanare il grande crollo. La parte più corposa del libro fu dedicata all’esposizione dei tanti mezzi messi in campo dal capitale per rinviare il crollo e costituiscono un enorme contributo alla teoria della dinamica, ma Grossman, come Engels d’altra parte, vuole darci ad intendere che il suo è solo un lavoro di restauro filologico e di difesa del pensiero genuino del Maestro.

Il più originale, forse, tra i grandi economisti del ‘900, Michał Kalecki, prende anch’egli le mosse dagli schemi di Marx ai quali apporta una modifica: i settori divengono tre, oltre al settore che produce beni di investimento avremo beni di consumo per i lavoratori e beni di consumo di lusso per i capitalisti (già Marx aveva distinto tra le due categorie di consumo senza conseguenze sugli schemi). Così le condizioni di equilibrio si complicano ulteriormente mentre la teoria si avvicina progressivamente alla realtà. Inoltre, fin dalla sua prima proposta di una teoria del ciclo, Kalecki si concentra sull’andamento del capitale fisso dal quale Marx aveva fatto astrazione per amore di semplicità, supponendo per esso la durata di un solo anno. Coerentemente con la sua tripartizione costruisce una contabilità nazionale nella quale i profitti equivalgono alla somma degli investimenti e dei consumi dei capitalisti supponendo, come Marx, che i lavoratori non risparmino. Contro l’evidenza intuitiva, però, afferma che sono gli investimenti e i consumi a determinare i profitti e non viceversa perché i capitalisti decidono quanto investire e quanto consumare ma non possono decidere l’entità dei profitti che sarà determinata dal loro comportamento come classe. Nell’equazione del ciclo Kalecki dà forma matematica all’idea di Marx che l’accumulazione del capitale costituisca un freno all’ulteriore accumulazione, ogni investimento trascina con sé nuovo investimento finché la capacità produttiva accumulata, e non pienamente utilizzata, scoraggia ulteriori investimenti (1). Come Marx e Grossman avevano affermato, le crisi cicliche avvengono anche nella riproduzione semplice, più esattamente nel ciclo stazionario cioè senza trend, l’equazione del ciclo di Kalecki mostra algebricamente come questo avviene e mostra anche che lo sviluppo non dipende dall’entità degli investimenti ma dall’aumento della produttività. I primi determinano l’ampiezza delle fluttuazioni, il secondo inclina verso l’alto la sinusoide degli investimenti che spingono la produzione, il reddito etc. L’aumento della produttività non è inesorabile, così come lo sviluppo, ma dipende dalle innovazioni che Kalecki chiama fattori semi-esogeni perché pur derivando dalla concorrenza non sono prodotte dal meccanismo del ciclo. Questa concezione dello sviluppo è implicita negli schemi esemplari della riproduzione allargata di Marx perché il capitale costante e la produzione lorda crescono più del capitale variabile e quindi dell’occupazione (col saggio di salario costante il capitale variabile misura anche l’occupazione) e se calcoliamo la produttività in base al rapporto prodotto lordo/occupati è evidente il suo continuo, lento, graduale incremento (2).

Il più sorprendente riconoscimento della potenza dell’impostazione di Marx proviene dal principe dell’econometria, Lawrence Klein, salito alla ribalta internazionale giovanissimo con un bestseller il cui titolo, La rivoluzione keynesiana, rivela eloquentemente l’orientamento e la formazione del futuro premio Nobel. Autore di un numero sterminato di ricerche e pubblicazioni, Klein è uomo di numeri e la statistica economica è il suo pane quotidiano; l’econometria, infatti, costituisce il territorio più tecnico della scienza economica, il suo compito consiste nello studio delle correlazioni tra le grandezze significative dell’economia, nella indicazione delle loro tendenze attraverso la appropriata distribuzione dei ruoli di cause ed effetti e infine nella misurazione degli effetti delle politiche economiche. Tutte le previsioni economiche di cui sentiamo parlare derivano da studi econometrici che nutrono l’ambizione dell’oggettività scientifica. Bene, a differenza di Keynes che si rifiuta persino di leggere Marx malgrado l’insistenza dell’amico Sraffa, Klein trova il tempo di formalizzare la dinamica di Marx in un sistema di sei equazioni con una sola correzione, l’abbandono dell’assunto che il salario rimanga bloccato al livello della sussistenza (più rigorosamente Marx aveva parlato del necessario per la riproduzione della forza lavoro come singoli e come classe). Effettuata una analoga operazione con la dinamica di Keynes, egli procede ad un confronto il cui risultato è impietoso: “Il principale vantaggio del modello marxiano rispetto al sistema Keynesiano è che esso fornisce un maggior numero di informazioni … Il modello marxiano ha … Il merito di fornire sempre tutte le condizioni della domanda e dell’offerta. Ciò non può dirsi, in generale, per il modello Keynesiano”. E ancora: “… Chi scrive ha applicato diversi metodi di stima statistica al modello marxiano ottenendo valori altamente plausibili delle dimensioni dei parametri stimati … i lavoratori e i capitalisti sembrano essersi comportati, nella realtà, conformemente a quanto suggerito dal modello marxiano. Per avvicinarsi maggiormente alla realtà, nei modelli statistici sono stati introdotti ritardi, investimenti pubblici, tasse e così via... non si tratta di un modello puramente ipotetico”. (Teorie della domanda effettiva e dell’occupazione 1947, pp. 115-116). Inoltre: “… il modello che meglio si presta all’analisi degli effetti della redistribuzione non può essere altro che un modello che tenga pienamente conto del ruolo dei salari tanto come fattore di costo quanto come fattore di domanda. Il modello marxiano si presta assai bene a un’analisi di questo tipo” (op. cit. p. 120).

Sulla provenienza del realismo degli esempi di Marx può illuminarci la corrispondenza con il compagno imprenditore, Friedrich Engels, paziente maestro di contabilità ed economia aziendale sempre a disposizione di quell’insaziabile ricercatore che fu Karl Marx. Di quel realismo è parte essenziale la previsione di un aumento inesorabile degli ammortamenti; per quanto lento e graduale, esso si è verificato in tutte le economie industrializzate fino alla terziarizzazione e alle delocalizzazioni e anche oltre. La crescita di c, come si chiamano negli schemi di Marx, fonda la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, empiricamente constatabile solo se e finché il saggio di plusvalore rimane costante. La comprensione di questo meccanismo è decisiva perché spiega non solo la ragione dei mille marchingegni elaborati dal sistema per contrastarla, ma spiega anche un paradosso a prima vista irragionevole: l’accanimento contro il salario reale in presenza di enormi aumenti di produttività. Sono due le principali conseguenze storiche della lotta per salvare il saggio di profitto: lo sviluppo dei monopoli e l’intervento dello Stato; a partire da Hilferding, Rosa Luxemburg e Lenin, il marxismo del ‘900 ha sviscerato i nuovi fenomeni (peraltro intravisti e previsti da Marx ed Engels) prendendo le mosse dalla dinamica del Capitale. La straordinaria onestà intellettuale di Klein è testimoniata anche dal riconoscimento riservato al marxista Kalecki: “A mio avviso, Kalecki costruì in modo completo e indipendente un modello matematico che contiene tutti gli elementi essenziali presenti nei modelli matematici di Keynes costruiti da Lange e Hicks”. (Il ciclo economico nella concezione di Ragnar Frisch 1998).

Come si vede, Klein non esita a citare un altro Maestro del marxismo del ‘900 e sarà proprio Lange, a scanso di equivoci, ad affermare che il punto di partenza di Kalecki è costituito dagli schemi di Marx. Manca, in Klein, solo il riconoscimento della priorità dell’opera di Kalecki, pubblicata negli anni ‘33, ‘34 e ‘35, rispetto al capolavoro di Keynes che è del 1936. Riferendosi proprio ai terribili anni ‘30, tragici ma luminosi per la teoria, Lange scriveva: “Il problema delle crisi e del ciclo congiunturale, nonché quello della disoccupazione di massa … hanno … costretto il pensiero economico borghese … ad occuparsi del processo della riproduzione e accumulazione capitalistica. Questo, sotto forma di problema di realizzazione del plusvalore, … aveva provocato fra gli economisti marxisti una discussione animata… Solo la grande crisi del 1929-30, che scosse profondamente l’economia capitalistica del mondo intero, e la lunga depressione derivatane, spinsero gli economisti borghesi ad interessarsi a quest’ordine di problemi … Bisognava interessarsi ai fattori che decidono del ritmo dello sviluppo economico” e nacquero varie teorie dello sviluppo i cui autori sono elencati da Lange: Frisch, Tinbergen, Lundberg, Samuelson, Hicks etc. ma poi aggiunge che “il modello costruito da M. Kalecki ha tutt’altro carattere … la sua idea direttrice deriva dalla teoria marxista della riproduzione ed accumulazione” e, infine, “La teoria dello sviluppo economico deve … prendere in prestito i suoi strumenti teorici dal marxismo, oppure crearsene dei propri, molto somiglianti a quelli usati dall’economia marxista”. (Oskar Lange, Economia politica vol. I pp. 296-298).

Ancora a proposito di salario reale e produttività, scrive Marx: “A forza produttiva del lavoro in aumento il prezzo della forza lavoro potrebbe essere in costante caduta, mentre la massa dei mezzi di sussistenza dell’operaio potrebbe contemporaneamente e costantemente aumentare” (Il Capitale I, p. 571) ed Henryk Grossman si chiede: “ma come si può conciliare con questa tendenza all’aumento del salario reale l’altra teoria marxiana, quella cioè della tendenza al peggioramento della situazione della classe operaia?” e risponde da par suo: “anche se l’accumulazione di capitale può includere ai suoi livelli più bassi una massa sempre crescente di forze lavoro nel processo di produzione e può contribuire all’aumento del livello salariale, tuttavia da un determinato livello dell’accumulazione in poi deve avvenire il processo inverso, cioè l’espulsione delle forze lavoro e con ciò necessariamente una diminuzione dei salari. La tendenza all’aumento del salario reale e la tendenza all’impoverimento, ben lontano dal contraddirsi, rispecchiano piuttosto due differenti livelli dell’accumulazione di capitale. Ciò costituisce anche la spiegazione del fatto … per cui l’esposizione della teoria marxiana dell’impoverimento viene trattata non in connessione con l’analisi degli altri fattori della formazione del salario, ma si trova invece nel capitolo sulle tendenze storiche dell’accumulazione di capitale” e ancora: “l’impoverimento non si presenta soltanto in quel periodo del capitalismo nel quale non esiste alcuna organizzazione operaia. Esso può e deve essere piuttosto il risultato della fase avanzata dell’accumulazione di capitale” (Il crollo del capitalismo, pp. 549-553).

Quest’ultima asserzione può suscitare diverse obiezioni, ad esempio: centinaia di milioni di lavoratori nel mondo sono usciti dalla povertà negli ultimi decenni eppure la traiettoria dei salari francesi e tedeschi è ben diversa da quella italiana. Occorre tenere presente che l’intervento dello Stato influisce sul salario reale per diverse vie, indirettamente con la spesa pubblica, il prelievo fiscale, il contrasto alle delocalizzazioni, il diritto del lavoro (speciale settore del diritto commerciale perché assume il lavoro come merce speciale), il prezzo politico di servizi come l’istruzione, la salute o i trasporti pubblici, e direttamente con la fissazione del salario minimo e dei tempi di lavoro (orari, ferie, età di pensionamento) e con la determinazione delle retribuzioni nel settore pubblico. Accanto a ciò va considerata la competitività delle diverse economie nazionali per cui l’andamento del salario reale deve essere osservato su scala globale facendo la tara, fin dove è possibile, degli effetti dello Stato. Risulta, ad esempio, che l’80% dell’emersione dalla povertà nel mondo dipende da due soli paesi, la Cina e il Vietnam, nei quali il ruolo dello Stato e delle imprese pubbliche è decisivo, mentre nei paesi più ricchi si assiste ad un complessivo impoverimento, con notevoli differenze interne, soprattutto se si guarda al monte salari più che alla retribuzione individuale. La riduzione della natalità, cioè della capacità di riproduzione della classe operaia, è un sintomo dell’insufficienza crescente del salario, del fatto che il lavoro è pagato al di sotto del suo valore. Secondo Grossman la svolta doveva avvenire quando il monte salari non avrebbe più consentito di mantenere il ritmo dell’accumulazione e un modello derivato dalla formula del ciclo di Kalecki è in perfetto accordo con la sua posizione: la prosecuzione del processo di accumulazione esige ad un certo punto la compressione della quota dei salari ma la pressione sul salario può bastare a difendere il saggio di profitto nel capitalismo senile? Ed eventualmente con quali conseguenze? “… un aumento dei salari … porta un aumento dell’occupazione, contrariamente ai principi dell’economia classica … al contrario una diminuzione dei salari … porta a una riduzione dell’occupazione. La debolezza dei sindacati in una depressione, che si manifesta nell’incapacità di evitare tagli dei salari, contribuisce ad aggravare la disoccupazione piuttosto che a ridurla”, questa è la risposta di Kalecki (Lotta di classe e distribuzione del reddito, 1970) che altrove aveva espresso la convinzione che il destino del salario sarebbe stato determinato da due fattori fondamentali: il grado di monopolio e il prezzo delle materie prime (una prospettiva agghiacciante!).

Non meno netta la posizione di Casarosa: “un sistema economico concorrenziale con salari flessibili non solo non è in grado di garantire il conseguimento del pieno impiego delle forze di lavoro ma si presenta completamente instabile e tende ad alimentare processi deflazionistici senza fine. I sistemi economici capitalistici sono in grado di rimanere abbastanza stabili proprio perché (e finché, N.d.A.) non sono perfettamente competitivi nel mercato del lavoro e … i lavoratori … qualora accettassero riduzioni dei salari monetari fino a che permanesse una qualche disoccupazione, non otterrebbero … il risultato di ridurre la disoccupazione ma provocherebbero un inarrestabile processo deflazionistico che condurrebbe al dissesto del sistema economico” (in Pesenti, Economia politica II, p. 494). Tutto ciò, naturalmente, in assenza dello Stato e delle Banche centrali pronte a inondare di liquidità il sistema in pericolo con la conseguenza di un debito pubblico crescente (nell’ultimo quarantennio è esploso nell’insieme dei paesi ricchi con un azzeramento tendenziale del patrimonio netto degli Stati, in Italia l’azzeramento è già avvenuto).

Concludiamo con l’autore che intendeva salvare il capitalismo da se stesso e la democrazia; come è noto Keynes riteneva che la rigidità dei salari monetari eliminasse l’instabilità del sistema concorrenziale e garantisse il raggiungimento di una posizione di equilibrio anche se non caratterizzata dal pieno impiego e, più in generale: “se invece i salari monetari dovessero scendere illimitatamente ogni qual volta vi fosse una tendenza ad un’occupazione meno che piena … non vi sarebbe alcun punto di equilibrio al di sotto dell’occupazione piena fino a quando o il tasso di interesse non potesse più diminuire oppure i salari fossero pari a zero … è necessario che vi sia qualche fattore il cui valore in termini di moneta sia, se non fisso, almeno vischioso, affinché possa esservi una benché minima stabilità dei valori in un sistema monetario” (cioè stabilità dei prezzi, N.d.A.). (Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, p. 495 ultima edizione italiana). È interessante osservare che dal punto di vista pratico, vale a dire della politica economica, il meglio dell’economia politica borghese tende a convergere con le posizioni del marxismo più originali anche se con opposte finalità e diversissima consapevolezza. Per i keynesiani la raggiunta e prolungata stabilità del pieno impiego annuncia l’età dell’oro, per i marxisti la distruzione, auspicabile, del sistema capitalistico; sembra, ahimè, che i capitalisti propendano per quest’ultima concezione. Dai frammenti della letteratura economica del ‘900 che abbiamo citato, spero emerge con chiarezza l’enormità del contributo di Marx alla comprensione del mondo, così mutato e così immutato, che abbiamo di fronte e almeno un’idea della potenza esplicativa del marxismo novecentesco. La grandezza dei grandi marxisti risiede prima di tutto nell’aver considerato Marx un punto di partenza, insostituibile e insufficiente, per l’analisi di una realtà mille volte più complicata del suo mondo. Per quanto intimiditi di fronte alla loro statura, dobbiamo considerarli allo stesso modo con l’urgenza che il capitalismo decrepito ci impone.


* Docente di filosofia e studioso di questioni economiche.

Note
1) “Cosa provoca le crisi periodiche? … il fatto che l’investimento è non solo prodotto ma anche produttivo … è la fonte della prosperità e ogni suo accrescimento … stimola un ulteriore aumento dell’investimento … al tempo stesso … rappresenta un’aggiunta al capitale produttivo e fin dalla nascita compete con le generazioni più vecchie di questo. La tragedia dell’investimento è che provoca le crisi perché è utile. Senza dubbio molta gente considererà questa teoria paradossale. Ma non è la teoria che è paradossale, ma il suo oggetto, l’economia capitalistica”. Kalecki, Saggi sulla teoria delle fluttuazioni economiche ed. inglese, pp. 148-149 1939.
2) Per un refuso di stampa la bella edizione del Capitale del 1997 (libro secondo, p. 534) riporta un valore errato della produzione del I settore (7986 invece di 7896), il fatto incredibile è che l’errore si trasferisce pari pari sulla produzione complessiva impedendo di vedere la maggiore crescita del capitale costante e del prodotto lordo rispetto al capitale variabile e al prodotto netto.

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