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sinistra

Per una critica dell'economia politica dei corpi

di Christian Marazzi

Tratto dal volume AA.VV. L’enigma del valore dei corpi perduti e dei corpi ritrovati, Atti del convegno organizzato da Effimera, 10 ottobre 2020, Milano, Casa delle Donne, a cura di Cristina Morini

convegno marazziEsiste una “economia politica dei corpi” da quando esiste, storicamente e politicamente, la forza lavoro, da quando, cioè, esiste la questione della riproduzione di questa merce particolare, “scrigno che contiene la facoltà più importante della vita”, la condizione che rende possibile il lavoro vivo e la sua capacità di produrre valore32. La biopolitica foucaultiana, il nesso tra esercizio del potere e vita biologica, è di fatto un'economia politica dei corpi iscritta nei processi di accumulazione del capitale. Riprendendo sinteticamente una riflessione iniziata tempo fa33, vorrei ragionare sul divenire macchina, cioè capitale fisso, del corpo della forza lavoro a partire dalla fine del capitalismo industriale fordista. A partire, anche, dal “Frammento sulle macchine”, il capitolo dei Grundrisse in cui Marx, situando il general intellect, cioè il sapere astratto, la scienza e la conoscenza impersonale, nel capitale fisso, definisce il lavoro necessario, vivo e immediato, come “una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata e che è stata creata nel frattempo dalla grande industria stessa”34. L'ipotesi da cui parte questa riflessione è che, nella transizione al postfordismo, il general intellect si sia per così dire risituato nel corpo della forza lavoro, trasformandolo in contenitore non solo della facoltà di lavoro vivo, ma anche del suo opposto: capitale fisso, macchina, lavoro passato. Questa metamorfosi, questa trasposizione delle principali funzioni del capitale fisso nel corpo della forza lavoro, è stata possibile con l'ingresso del linguaggio e della comunicazione direttamente nei processi produttivi. È il linguaggio che ha veicolato il capitale macchinico nel corpo stesso della forza lavoro, rovesciando il “lavoro superfluo” del Marx del Frammento in “lavoro necessario”, lavoro vivo di cui il capitale si appropria per riprodurre sé stesso, per crescere oltre sé stesso.

È noto che, nei Grundrisse, Marx, quando parla del sapere scientifico accumulato nelle forze produttive generali (il general intellect), lo vede materializzato, fissato nelle macchine separate dal lavoratore. “L'accumulazione del sapere e dell'abilità, delle forze produttive generali del cervello sociale, in tal modo è assorbita nel capitale in contrapposizione al lavoro, e si presenta quindi come qualità del capitale, e più precisamente del capitale fisso, nella misura in cui esso entra nel processo produttivo come mezzo di produzione vero e proprio". A questo punto, e in virtù della separazione tra lavoratore e strumenti di lavoro, l'attività del lavoratore "si limita a mediare il lavoro della macchina", è un'attività "determinata e regolata in ogni direzione dal moto della macchina". Quanto più è complessa e regolata la struttura del capitale costante, tanto più il lavoratore viene atomizzato, ridotto alla condizione di individuo che lavora senza libertà dentro una macchina immensa. Tanto più, aggiunge Marx, il lavoro si rivela come "base miserevole" del valore.

Col passaggio al capitalismo postfordista, il corpo della forza-lavoro, oltre a contenere la facoltà di lavoro, funge anche da contenitore delle funzioni tipiche del capitale fisso, dei mezzi di produzione in quanto sedimentazione di saperi codificati, conoscenze storicamente acquisite, grammatiche produttive, esperienze, insomma lavoro passato. "Una grossa conseguenza di ciò - scriveva Rossi-Landi a proposito dei materiali e degli strumenti linguistici - è che noi ci portiamo dentro l'intera esperienza linguistica della specie; che ogni bambino, cominciando a parlare, adopera subito materiali e strumenti immensamente complicati. Ma lo stesso è della produzione materiale"35.

Scrivi Ricci:

"Nel processo produttivo postfordista, la macchina, intesa come tecnologia e organizzazione, cioè come impresa, non solo agisce ma pensa la propria azione attraverso il lavoratore. Il lavoratore deve introiettare la logica, la procedura, la razionalità della macchina perché deve guidarla, adattarla, dirigerla come essa vuole, secondo ciò che essa internamente chiede. In realtà la macchina non pensa, non vuole, non chiede ma è il lavoratore che si è fatto pensiero, volontà, linguaggio della macchina, che è diventato un'appendice non solo fisica ma mentale della macchina. La macchina postfordista succhia non solo il corpo ma anche la mente del lavoratore. Nell'organizzazione del lavoro postfordista il lavoratore deve pensare nel senso che deve conferire alla macchina la facoltà del pensiero, la coscienza”36.

Il lavoro vivo, presente, del lavoratore è una attività di trasformazione continua del materiale umano, frutto di lavoro passato, con cui e su cui si lavora. Questa attività consuma o, meglio, conserva consumando l'insieme dei saperi e delle conoscenze socialmente date in un determinato periodo. E' proprio per questo consumo riproduttivo, per questo riutilizzo nel tempo del capitale fisso socialmente determinato, che l'investimento nel capitale umano dovrebbe includere l'ammortamento. L'ammortamento assicura la riproduzione delle "forze produttive generali del cervello sociale", del materiale umano accumulato che, senza l'attività del lavoro vivo, resterebbe "lingua morta".

Sennonché, in Marx l'ammortamento del capitale fisso non è spiegabile sulla base della teoria del valore-lavoro. Per certi versi, la contraddizione logica della teoria marxiana è simile all'altra e più famosa contraddizione, quella della trasformazione del valore nei prezzi di produzione. Ma, come ebbe a dire Claudio Napoleoni a proposito della questione della trasformazione, "la vera rilevanza teorica della teoria del valore-lavoro sta proprio nella contraddizione a cui essa mena"37.

Nelle Teorie del plusvalore38 Marx dimostra di essere perfettamente consapevole del problema: "Ma qui la questione è questa: chi lavora per ricostruire l'equivalente del capitale costante già impiegato nella produzione?" La questione è duplice. In primo luogo, il lavoro vivo produce salario e profitto che, assieme, confluiscono nel valore di scambio delle merci prodotte. Ma il lavoro passato, il lavoro necessario per produrre le macchine acquistate dal capitalista, non può essere riprodotto o ammortizzato dal lavoro vivo. "Tutti gli elementi della tela si risolvono così in una somma di quantità di lavoro che è uguale alla somma del nuovo lavoro aggiunto, ma non è uguale alla somma di tutto il lavoro contenuto nel capitale costante e perpetuato mediante la riproduzione" (Teorie, vol. I, p. 214). Basterebbe questo paradosso quantitativo per concludere che la differenza tra lavoro vivo e lavoro morto è un'aporia irrisolvibile. Il lavoro vivo non può in alcun modo creare quella parte di valore del capitale fisso che viene consumata nel processo di produzione (se fosse possibile si arriverebbe alla conclusione che il capitale costante viene prodotto due volte!). Il capitale costante, insomma, "È una parte del prodotto annuo del lavoro, ma non del prodotto del lavoro annuo (più esattamente: una parte del prodotto del lavoro annuo più una parte del prodotto del lavoro preesistente" (Teorie, Vol. I, p. 220).

In secondo luogo, l'ammortamento presuppone la costituzione di una somma di denaro tale da permettere al capitalista di acquistare una nuova macchina dopo aver utilizzato ripetutamente il capitale investito. Questa somma di denaro si ottiene vendendo le merci prodotte ad un prezzo tale da coprire la somma di salario e profitto e capitale costante consumato. "Ma ecco la difficoltà. A chi le vende? Nel denaro di chi lo converte? (Teorie, vol. I, p. 182). Non solo il valore del capitale costante consumato nel corso della produzione non può essere trasferito nel valore di scambio finale delle merci prodotte, ma (anche se lo fosse) i redditi distribuiti nel corso della produzione (salario e profitto) non bastano a convertire il prodotto totale in denaro. Il salario può solo riprodurre il valore della forza lavoro, e se il capitalista volesse utilizzare il suo profitto per ammortizzare il capitale costante (cosa che, peraltro, presuppone la conversione del plusvalore delle merci in denaro, altro problema irrisolto della teoria marxiana), cesserebbe semplicemente la sua funzione di capitalista.

Scrive Marx nel primo Libro del Capitale:

"Dunque, conservare valore aggiungendo valore è una dote di natura della forza lavoro in atto, del lavoro vivente; dote di natura che non costa niente all' operaio, ma frutta molto al capitalista: gli frutta la conservazione del valore capitale esistente. Finché gli affari vanno bene, il capitalista è troppo sprofondato nel far plusvalore per vedere questo dono gratuito del lavoro. Ma le interruzioni violente del processo lavorativo, le crisi, glie lo fanno notare in maniera tangibile"39.

Ma la "soluzione" del problema dell'ammortamento che Marx suggerisce, il fatto che il rompicapo dell'ammortamento è spiegabile sulla base della "dote di natura" della forza-lavoro, è l'aspetto più interessante di tutta la questione. La "dote di natura" di cui parla Marx a proposito della forza-lavoro, la sua capacità di "conservare valore aggiungendo valore", non è altro che l'eccedenza della natura umana rispetto ai modi di produzione storicamente determinati del capitale. Si tratta di una eccedenza di valore perché non è riducibile al rapporto materiale tra capitale e lavoro, e si tratta altresì di un'eccedenza come "dote di natura" perché è la parte naturale, per così dire invariabile, del vivente che attraversa la storia umana. Diciamo "invariabile" nel senso che, mentre i modi di produzione variano nel tempo, e variano a ritmi sempre più serrati passando da una crisi all'altra, questa "dote di natura" dell'uomo è la forza vitale, soggettiva, che si conserva malgrado l'erosione, malgrado il consumo riproduttivo che è costretta a subire lavorando per il capitale.

La lotta per il riconoscimento monetario del lavoro vivo riproduttivo delle donne è particolarmente interessante perché, se da una parte svela l'esistenza materiale di quella quantità di lavoro vivo che Marx cerca invano all'interno del circuito D - M - D' per spiegare l'ammortamento del capitale fisso, dall'altra parte introduce la possibilità di un reddito d'esistenza indipendente dal circuito del capitale. Si tratta infatti di una quantità (e di una quantità notevole) di lavoro vivo che riproduce la forza lavoro nella sua qualità di valore d'uso ma, a rigore, non in quanto valore di scambio. Infatti, se il lavoro riproduttivo fosse anche all'origine di quella quantità di valore di scambio necessaria all'ammortamento del capitale fisso (e della forza lavoro come capitale fisso), si arriverebbe alla conclusione che lavoro delle donne e lavoro morto del capitale sono la stessa cosa! Così ragionando, la parte più interessante della teoria del valore-lavoro di Marx, la contraddizione a cui essa conduce in virtù della distinzione tra lavoro vivo e lavoro morto, verrebbe a cadere.


Note
32 R. Ciccarelli, Forza lavoro. Il lato oscuro della rivoluzione digitale, Derive Approdi, Roma, 2018
33 C. Marazzi, Il comunismo del capitale. Biocapitalismo, finanziarizzazione dell'economia appropriazioni del comune, Ombre Corte, Verona, 2010
34 K. Marx, Grundrisse. Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia 1968-70, II vol. pp.389-411: https://criticalab.wordpress.com/2007/02/25/karl-marx- frammento-sulle-macchine-estratto/
35 F. Rossi-Landi, Linguistica ed economia, Mimesis, Milano, 2016 [ed.orig. Linguistics and Economics, L'Aia, 1974]
36 A. Ricci, Dopo il liberismo. Proposte per una politica economica di sinistra, Fazi, Roma, 2005, p. 132.
37 C. Napoleoni, Elementi di Economia Politica, La Nuova Italia, Roma, 1974
38 K. Marx, Teorie del plusvalore, 2 volumi, Ed. Riuniti, Roma, 1972-73
39 K. Marx, Il Capitale, Ed. Riuniti, Roma, 1970, p. 240.

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