La putrescenza del Capitalismo contemporaneo e la teoria del crollo
Antonio Carlo
Parte prima: La putrescenza del Capitalismo contemporaneo
1) L’economia mondiale nel 2012. Disoccupazione, sovraproduzione e crisi della finanza pubblica
Il rimbalzino del 2010 è ormai un ricordo, nel 2011 le cose sono andate peggio1, ed a inizio 2012 la signora Lagarde n. 1 delle FMI dice: “nel 2012 molte delle cose che potevano andare storte sono andate storte”. Lucidità cartesiana si potrebbe dire, e nel 2012 la situazione peggiora ulteriormente. A metà anno, infatti, la Banca Mondiale rende note le sue stime per l’anno corrente: PIL mondiale + 2,5%, ma la crescita sarà concentrata essenzialmente nei paesi emergenti, + 5,1% contro il 6,1% del 2011 ed il 7,4% nel 2010. Leggermente migliori le previsioni del FMI, che però peggiorano nel corso dell’anno: ad ottobre, in concomitanza con l’assemblea annuale di Tokyo, il FMI prevede + 3,3% PIL mondiale, così suddiviso + 1,3% paesi ricchi, + 5,3% paesi emergenti; per l’Eurogruppo siamo a – 0,4% per il corrente anno e a + 0,2% per l’anno prossimo, ciò che qualche bello spirito potrebbe definire “ripresa”.
Ci si potrebbe obiettare, che comunque si cresce anche se di poco, ma allora non si capirebbe il coro da tragedia greca che accompagna questo sviluppo da quattro soldi2, che in realtà è una recessione strisciante e nascosta da cui non si vede via di uscita nel breve e nel medio periodo (nel lungo si sa saremo tutti morti), qualcosa cioè di molto simile ad una depressione.
La verità, invece, è che i paesi ricchi sono fermi in tendenziale ristagno, e per stare fermi devono continuare ad indebitarsi a ritmo crescente, come vedremo tra breve, se fossero imprese private sarebbero fallite da tempo. Quanto ai paesi emergenti, che sono in netta flessione di crescita, per essi un ritmo del 5% o poco più, rapportato alla modestissima base di partenza (l’India ha un PIL procapite di poco superiore ai 1000 dollari, quello della Cina è più elevato ma enormemente inferiore a quello delle province più povere del sud Italia) è irrisorio3; la Cina, il colosso tra gli emergenti, dovrebbe crescere quest’anno del 7,5% (obiettivo del governo cinese fissato in marzo 2012), ma come vedremo l’indice PMI , che misura l’attività manifatturiera centrale per quel paese, si è collocato spesso sotto livello 50 che segna lo spartiacque tra sviluppo e ristagno o recessione4, in altre parole con 7,5% di crescita del PIL la Cina è in ristagno, ma gli altri paesi emergenti stanno peggio, l’India crescerà quest’anno sotto il 5% e l’anno prossimo rimbalzerà (si fa per dire) al 6%. Il mondo è fermo e non sa come ripartire, mentre tutte le contraddizioni che ho segnalato nei miei precedenti lavori si appesantiscono.
A) La sovraproduzione di forza lavoro (disoccupazione)
Nel corso dell’anno vengono diffusi i dati dell’OCSE e dell’ILO sulla disoccupazione: 205 milioni a livello mondiale (75 milioni giovani), 50 milioni in più rispetto alla fase pre-crisi, nell’OCSE siamo a 48 milioni, 15 in più rispetto al periodo pre-crisi5. Rispetto al picco della crisi (2009) solo una lieve limatura (allora era a 212 milioni), più formale che reale perché è cresciuto il numero degli scoraggiati che non cercano più lavoro e che formalmente non sono considerati disoccupati; solo in USA sono una cifra maggiore della lieve “limatura” realizzata6. A questi poi bisognerebbe aggiungere quelli che il lavoro non lo hanno mai cercato, pur essendo in età da lavoro: il tasso di attività media a livello mondiale si colloca intorno al 60%7 (così anche in USA e Giappone)8, nella UE siamo al 63,9%, in Italia al 56,9% (Eurostat): in sostanza a livello mondiale su 5 persone in età da lavoro ne sono occupate solo 3.
Ma non è tutto, accanto alla disoccupazione c’è il fenomeno della sottoccupazione, che l’ILO considerava il vero problema occupazionale dei paesi emergenti: nel suo rapporto del 1976 si rilevava che la disoccupazione nei paesi poveri era solo al 5% contro il 36% della sottoccupazione. Ma chi sono i sottoccupati? Nel rapporto ILO del 2005 si dice che sono persone che non hanno “a decent work”, ciò che concretamente significa che si lavora 12-14 ore al giorno per 1-2 dollari al giorno senza diritti sociali o sindacali, per cui se hai un infortunio sul lavoro il problema è solo tuo. Il disoccupato, invece, vive, nelle aree povere del mondo, di lavori occasionali, carità, piccola delinquenza, prostituzione etc., una situazione per certi versi migliore del sottoccupato o comunque non peggiore. Ma quanti sono i sottoccupati? Nel rapporto del 1976 erano stimati in 500 milioni ed in quelli del 2005 erano stimati in 1,2 miliardi pari al 58,7% della forza lavoro dei paesi emergenti e al 49,7% di quella mondiale.
Poi con la crisi la cifra crescerà di altri 200 milioni9, il che significa che oggi tra disoccupati e sottoccupati siamo a 1,6 miliardi di persone, ed in più bisognerebbe considerare gli scoraggiati , che il lavoro non lo cercano più, o gli inattivi in età da lavoro che il lavoro non lo hanno mai cercato (pur non studiando né vivendo di rendita). Un panorama globale semplicemente catastrofico. Ma per meglio capire l’entità del problema mostreremo l’andamento della disoccupazione mondiale ufficiale (senza sottoccupati, scoraggiati ed inattivi) dal 1995 (fonte “Economist”).
Come si vede una tenacia estrema delle tendenze di lungo periodo, che oscillano tra il 6-7%, solo nel 2008 scendiamo di un soffio sotto quel livello per poi balzare all’8,1% nell’anno nero della crisi, il 2009.
Spesso si dice che per combattere la disoccupazione occorrerebbe aumentare gli investimenti, però nel mondo negli ultimi anni non si è assolutamente investito poco come evidenzia la tabella che segue (fonte “Economist” e nostre elaborazioni su quei dati).
Come si vede anche in un anno di crisi come il 2009 si investe e non poco sia in % del PIL che in cifra assoluta, il nodo vero non è la quantità ma la qualità degli investimenti che non producono più occupazione, il problema ormai non è il rapporto tra investimenti ed occupazione ma il rapporto tra investimenti e disoccupazione. Si noti poi che se consideriamo la sottoccupazione (variante della disoccupazione e spesso peggiore di questa) abbiamo che nel 2005 accanto al 6,4% formale di disoccupati dobbiamo considerare il 49,7% di sottoccupati rilevati nel rapporto dell’ILO e quindi arriviamo al 56,1% della forza lavoro totale a livello mondiale, nel 2009 al 8,1% di disoccupati vanno aggiunti i sottoccupati cresciuti di altri 200 milioni rispetto al 2005, e siamo ai 2/3 della forza lavoro mondiale con oltre 11 mila miliardi di dollari di investimento; da una parte una montagna di investimenti dall’altra un mercato del lavoro che si restringe sempre di più.
Perché questo avvenga l’ho posto in luce da oltre 30 anni10: nei paesi industriali avanzati lo sviluppo tecnologico ha sempre meno bisogno di lavoro e di lavoratori per espandersi, già negli anni ’70 l’ILO rilevò, con alcune documentatissime inchieste (ampiamente utilizzate nelle mie ricerche) che per finanziare lo sviluppo occorrevano solo per il 10% nuove assunzioni mentre l’altro 90% dello sviluppo era finanziato dalla crescita della produttività del lavoro, sicchè le nuove assunzioni erano un fatto sporadico e residuale. La cosa risulterà evidente con la ripresa del ’76-’79 dopo la recessione degli anni precedenti: nei paesi OCSE il PIL cresce del 4,3% anno e la disoccupazione, ereditata dalla crisi, crescerà di oltre il 10%11. È questa la situazione che ha davanti agli occhi uno dei più grandi economisti accademici del secondo dopoguerra, il premio Nobel Solow, che a 20 anni interruppe gli studi per arruolarsi nell’esercito USA “perché combattere contro Hitler era più importante dei miei studi”12.
Una situazione davanti alla quale risulta evidente il fallimento del mercato, infatti:
Questo stesso senso di impotenza emerge nelle pagine del prof. Malinvaud (francese), che in quegli anni scriverà:
“La disoccupazione di massa deriva da un cattivo funzionamento dell’economia. Quando questo fenomeno dura tanto da sembrare permanente, viene spontaneo chiedersi se non bisogna apportare qualche modifica fondamentale al nostro sistema economico. Questo quesito è servito a motivare molti atteggiamenti politici radicali anche senza chiarire i possibili esiti delle rivoluzioni che si prospettano (…) in effetti è sorprendente che la discussione scientifica della possibilità di riformare le nostre istituzioni economiche per ridurre la disoccupazione di massa sia stata così scarsa”14.
In altre parole per non dare spazio a posizioni politiche radicali gli economisti ufficiali hanno guardato dall’altra parte, facendo gli struzzi ed inventando spiegazioni assurde e risibili per il problema15. Il guaio è, però, che da allora, (anni ’80) la situazione si è pesantemente incancrenita: negli anni ’60 e ’70 le nuove assunzioni erano un fenomeno residuale e minimo adesso non più, infatti:
La crescita della produttività serve a creare disoccupati e non occupati. In genere i difensori del capitalismo osservano che se è vero che il problema esiste si può superarlo ampliando la produzione a nuovi beni, che permetta di recuperare i lavoratori “esuberanti” (si dice così)17, ma questo è solo un desiderio non certo suffragato da analisi e verifiche empiriche. Anzi se una verifica c’è va in senso contrario: il capitalismo USA ha prodotto nuovi tipi di beni a getto continuo, ad opera di pionieri della innovazione (Gates, Jobs, Zucherberg) ma questo ha prodotto 5 milioni di posti distrutti come si è visto; oltre 30 anni or sono ho evidenziato come le nuove tecnologie permettano di raddoppiare la produzione ogni 5 anni senza aumentare l’occupazione, ma anzi contraendola, ed i nuovi settori non solo producono di più con meno addetti, ma forniscono agli altri settori i mezzi per fare lo stesso (computers o programmi di produzione)18 per cui il risultato è che puoi produrre masse crescenti di beni con masse decrescenti di lavoratori anche di alta qualifica, poiché le tecnologie moderne richiedono sì lavoratori di alta qualifica ma in misura minima, per cui le professionalità più richieste in futuro saranno baristi, badanti, cuochi, sguatteri etc. molto più degli ingegneri informatici19.
Questa è la realtà ed è inutile girarci intorno. Qualcuno, perciò potrebbe obiettare che il fenomeno della “disoccupazione tecnologica” non è nuovo già Marx ne parlava nell’800 (come vedremo tra breve), epperò perché questa realtà tragica potesse esplicarsi, senza mandare in frantumi il sistema, occorreva che vi fossero aree e settori in cui potesse essere recuperata la forza lavoro liberata dalla crescita della produttività. La legge enunciata da Petty nel 1672, secondo cui la forza lavoro emigrava dal primario (agricoltura) al secondario (industria) e poi al terziario (servizi), si fondava su un presupposto, implicito ma chiaro, che i due settori produttivi di base razionalizzavano (producevano di più con meno addetti), mentre il terziario faceva da spugna; per contro se anche il terziario copia l’efficientismo dell’industria, salta tutto ed esplodono le contraddizioni.
Ed è esattamente quello che è accaduto: non è la società che si è terziarizzata ma è il terziario che si è industrializzato20, copiando l’efficientismo dell’industria, in ciò favorito dal fatto che nei servizi dominano imprese multinazionali, gigantesche che operano con criteri capitalistici (produrre di più con meno addetti) che in genere fanno parte di gruppi conglomerati integrati in cui ci sono imprese industriali, banche, finanziarie, imprese commerciali etc. I servizi si industrializzano e tendono a contrarre la forza lavoro occupata21: è sintomatico quello che avviene nel commercio, che è un settore che ancora sembra operare con criteri relativamente “labour intensive”, almeno in rapporto all’industria pertrolchimica o informatica: ebbene la grande catena Wal-Mart, che occupa due milioni di dipendenti in 15 paesi (il più grande datore di lavoro privato del mondo) , fattura 450 miliardi di dollari l’anno tra 1/4 e 1/5 del PIL italiano, se noi avessimo il rapporto prodotto-occupati della Wal-Mart produrremmo il nostro PIL con 9-10 milioni di addetti con un esubero di 12-13 milioni di unità. A livello mondiale il fatturato della Wal-Mart è di un 1/160 circa del PIL mondiale. Se il mondo imitasse la Wal-Mart potrebbe ottenere lo stesso volume di ricchezza con 320 milioni di lavoratori più o meno, ed in questo caso l’esubero supererebbe i 2 miliardi di lavoratori. Il terziario privato, dunque, non può svolgere alcuna funzione di spugna e rimane quindi il terziario pubblico. In USA nel periodo 1950-1966 un quarto dei nuovi posti di lavoro è stato creato nel settore pubblico22; ancora durante la crisi del ’73 – ’75 il settore pubblico ha svolto una funzione di spugna della disoccupazione. Epperò c’è un problema: i posti di lavoro nel pubblico impiego richiedono soldi e risorse, se lo Stato non li ha non li può creare e dopo il 1973-75 la situazione si appesantisce:l’evasione fiscale insultante ed elevatissima ed il debito crescente impediscono allo Stato di svolgere questa sua funzione essenziale all’equilibro del mercato del lavoro, per cui occorrerebbero delle risorse che non ci sono più.
I contrappesi alla disoccupazione sono esauriti irrimediabilmente e la disoccupazione stessa esplode, anche se le statistiche si affannano a mascherare il problema chiamando i disoccupati con nomi diversi (inattivi, scoraggiati, missing men) e considerando i lavoratori parziari o precari allo stesso modo dei lavoratori a tempo pieno e indeterminato; è la tipica politica dello struzzo che risolve il problema guardando dall’altra parte.
In parte diverso è il problema dei paesi emergenti dove il livello di produttività del lavoro è molto più basso che nell’area dei paesi ricchi, in Cina siamo al 5% in media della produttività dei paesi avanzati (con punte del 15%), mentre in India siamo addirittura al 2%23, eppure la disoccupazione e, soprattutto la sottoccupazione (piaga ancor più grave come si è visto), imperversano24. Perché?
Il problema in quella parte del mondo (dove vivono oltre 5 miliardi di persone) è aggravato dalla piaga della sovrapopolazione, di cui vedremo tra breve le cause sociali25. Dove si lavora con metodi arcaici puoi creare masse enormi di disoccupati (o sottoccupati) anche se utilizzi tecniche da società industriale del XIX secolo, usare il telaio meccanico al posto del telaio a mano, oppure macchine primitive dove si usavano solo martelli, scalpelli, badili (o solo le mani), può avere effetti dirompenti. Ciò del resto avveniva anche nell’Inghilterra del XIX secolo, scrive Marx:
E qui si parla dell’Inghilterra, un paese con una popolazione irrisoria rispetto all’India o alla Cina attuale e di tecniche che oggi sono tecniche da archeologia industriale, che a quel tempo, però, erano tecniche capital intensive e che oggi invece sarebbero considerate labour intensive. La verità è molto semplice, per chi voglia vederla, la tesi efficientista per cui devi ossessivamente produrre di più con meno addetti in un mondo popolato da oltre 7 miliardi di individui è semplicemente assurda: l’aumento della produttività deve tradursi in riduzione di orario per tutti, senza produrre riduzione di occupati, in un’ottica che metta il lavoro e non il profitto al primo posto, ciò che nel capitalismo è ovviamente impossibile. La tesi secondo cui ciò che va bene alla General Motors deve andare bene all’economia, è assurda come evidenzia il massacro occupazionale che si è verificato nell’industria USA dal 2000 al 2010: ciò che va bene alla GM può essere un disastro per l’economia nel suo complesso.
B) La sovraproduzione di forza lavoro e le sovraproduzioni conseguenti
La crescita di disoccupazione e sottoccupazione ha indebolito il potere dei sindacati e della classe operaia sul mercato del lavoro, determinando un calo dei salari e delle retribuzioni del lavoro dipendente in generale: quando due imprenditori inseguono un operaio i salari salgono e quando due operai inseguono un imprenditore (per farsi assumere ben inteso) gli stessi scendono. È la cara vecchia legge della domanda e dell’offerta che caratterizzava la società industriale dell’’800 e del ‘900 e anche quella attuale che secondo alcuni dovrebbe chiamarsi società post-indutriale, e che, in questo campo, funziona esattamente come per il passato. Di recente varie istituzioni ufficiali dal FMI alla BRI (Banca dei Regolamenti Internazionali) hanno rilevato che dagli anni ’70 al nuovo millennio i lavoratori dipendenti hanno perso da 7 a 10 punti di PIL nei paesi industriali avanzati, un salasso enorme27. Sintomatico è quello che il prof. Zingales, esponente della famosa scuola di Chicago (dove insegna), ma capace di considerazioni critiche sul capitalismo (cosa rarissima per quella scuola), ha osservato: fino al 1973 la curva della crescita della produttività procedeva di conserva con quella della crescita dei salari reali, poi l’equilibrio si rompe, giù i salari e sù la produttività28. Il 1973 è l’anno della più grande recessione del dopoguerra (prima della depressione attuale), in cui riesplode la disoccupazione di massa, che la ripresa del 1976-79 rafforzerà e che non sarà mai più recuperata: anche durante la ripresa USA del 1995-2000, quando formalmente la disoccupazione era al 4-5%, eravamo al 20% in termini reali29, lo sostenne il prof. Phelps che, nove anni dopo aver scritto questo articolo, vinse il Nobel per l’economia. Ora, però, salari più bassi significano un potere d’acquisto inferiore, vendi meno e/o vendi male nel senso che la dinamica delle vendite non ti permette di utilizzare adeguatamente gli impianti (spreco di capitale), che per vendere il consumatore deve indebitarsi in modo patologico (scivolando verso la bancarotta) e così deve fare lo Stato per sostenere un’economia che non produce più ai ritmi miracolosi del periodo 1945-70; inoltre al consumo buono si sostituisce il consumo cattivo (surrogati e falsi che spesso arrivano dai paesi emergenti), o il consumo assistito e cioè i consumatori che, nei paesi ricchi, fanno la spesa con l’aiuto dello Stato30 ed a carico di un deficit pubblico crescente; nei paesi poveri la competitività si regge su salari da fame, favoriti dall’enorme abbondanza di forza lavoro senza (o quasi) tutela sindacale.
Qualche bello spirito potrebbe osservare che le merci comunque si vendono, certo si vendevano anche nel 1932, al picco della Grande Crisi, ma si vendevano poco e male allora come adesso. Di ciò mi sono occupato nei miei precedenti articoli sulla crisi31, ma i dati che arrivano sul mio scrittoio anche ora sono montagne. Cominciamo dalla casa, bene tipico del consumo capitalistico: in USA il mercato edilizio è in coma dalla fine del 2007, di recente si è rilevato un rimbalzino, ma è un rimbalzino in fondo al baratro in quanto i prezzi sono ancora inferiori del 30% al periodo precrisi32 e la falcidie dei prezzi stessi ha pesantemente impoverito le famiglie americane che hanno visto calare i loro attivi (beni patrimoniali dedotti i debiti) da 126.400 $ a 77.300 $ dal 2007 ad oggi, un calo del 38,6% stimato dalla FED (giugno 2012)33. Inoltre, i comuni americani, come S. Francisco, si sono attrezzati con nuovi strumenti urbanistici che prevedono la costruzione di miniappartamenti di 14 mq, che con bagnetto e angolo cottura arrivano a 20 mq, si è parlato di loculi gonfiati34: come si vede al consumo buono si sostituisce quello cattivo, né questo è l’unico caso perché da anni in USA si è diffusa, a livello di massa, la coabitazione: due o tre nuclei familiari si mettono in società per affittare una appartamento di 50-60 mq, dividendone le spese35. In Italia 700 mila appartamenti sono invenduti36 e analogamente in Spagna37; in India il Ministero dell’edilizia di quel paese ha diffuso le risultanze di una ricerca (settembre 2012): il 62% degli 11 milioni di abitazioni prodotti negli ultimi anni, è rimasto invenduto o sfitto malgrado il bisogno e la fame di abitazioni in quel paese38.
Ancora. Un altro bene simbolo: l’auto. In USA la produzione di auto passa da 13.276.000 nel 2000 a 8.389.000 del 2011 (dopo la ripresa)39, del resto da tempo gli USA non sono più il paradiso dell’auto come nei decenni passati: si vendono meno auto che nei paesi europei, sicchè il livello di motorizzazione nel 2009 era al 27° posto nel mondo contro il nostro 5° posto, in quella graduatoria gli USA sono preceduti anche da Malta e dalla Grecia40. In Giappone si passa da 9.316.000 del 2000 a 7.831.000 nel 2011, e le prospettive di vendita sul mercato interno sono calanti, in Germania invece il mercato è stagnante e piatto nello stesso periodo41; in Europa il tasso di utilizzo degli impianti nell’industria dell’auto è bassissimo (75%), in Italia è sottomarino (54%)42.
Esiste però la Cina, la nuova terra dell’auto dove nel 2011 si vendono 13 milioni di auto e 490 milioni di biciclette (!!!)43. È chiaro che esiste in Cina un mercato di 150 milioni di nuovi ricchi (o di classi medie agiate) che possono acquistare auto occidentali (i più ricchi) o le auto made in China , imitazioni di basso livello dei nostri modelli, che non possono per questo mettere piede (o ruota) in occidente44. Per il resto buio pesto nel senso che per la grande massa dei consumatori cinesi il sogno non è l’auto o la moto ma la bicicletta, ciò perché i consumi delle famiglie sono in Cina attorno al 35% del PIL (media mondiale 61-62%), per cui una élite consuma e gli altri tirano la cinghia. Il modello cinese, infatti, è un modello export led, che mira ad esportare fondando la propria competitività su salari da fame, ma che ha bisogno anch’esso dei consumi, quelli degli altri, nel senso che se gli altri non consumano acquistando le merci a basso prezzo (e bassa qualità) che la Cina produce, l’economia cinese va in tilt, ed è esattamente quello che sta accadendo a causa della crisi mondiale per cui la crescita del PIL cinese, trainata da l’export è calata dall’11-12% degli anni passati all’attuale 7,5%, che, come si è detto, per la Cina è ristagno. E questo succede anche ai paesi avanzati che hanno puntato sull’export per reggere alla crisi: così il Ministero delle Finanze giapponese comunica che ad agosto 2012, su base annua, l’attivo della bilancia commerciale segna un calo del 40,6% ed è il 17° calo mensile consecutivo; analogamente per la Germania, che ha cercato la soluzione della crisi nell’export, ma che al massimo riesce a galleggiare su di essa con prospettive grigie o nere anch’essa indebitandosi come mai in passato45.
La sovraproduzione (o sottoconsumo) di merci determina inoltre varie forme di sovraproduzione di capitale come il basso tasso di utilizzo degli impianti: un tasso ottimale dovrebbe essere attorno al 90% e più e siamo molto più in basso nei paesi avanzati46; di recente il Centro Studi della Confindustria ha calcolato che nell’Eurozona l’inutilizzo degli impianti causa una perdita pari in media al 2,6% del PIL, 2,9% in Italia, 3,7% in Olanda, 4,4% in Spagna, 4,6% in Portogallo e 10,7% in Grecia47; ovviamente di ciò non si tiene conto della contabilità ufficiale della crisi, quando una casa è prodotta entra a far parte del PIL anche se rimane invenduta, e così è per un impianto anche se rimane inutilizzato (tutto o in parte), come diceva Soros l’economia politica dei libri è una cosa, quella reale un’altra48.
La sovraproduzione di impianti come variante o equivalente della sovraproduzione di merci: le imprese sanno che il mercato è bloccato e quindi non producono, ma così il capitale investito rimane inutilizzato e diventa una perdita.
Non meno importante è un’altra sovraproduzione di capitale, la sovraproduzione di debito: un’economia bloccata ha bisogno di dosi crescenti di debito da parte dello Stato, delle famiglie e delle imprese, e di fatto il debito globale delle società ricche esplode negli ultimi 20 anni49; anche negli USA degli anni 1995 – 2000, quando vi fu una lieve limatura del debito federale (comunque sempre elevato) le altre fonti di debito crebbero molto di più sicchè l’indebitamento globale della società si impennò50.
Alla sovraproduzione di debito si unisce la sovraproduzione di capitale speculativo o fittizio: l’industria non tira più e allora si cerca di fare profitti con azioni speculative che sono vere e proprie scommesse (ad es. sul prezzo del petrolio o del grano) o sul default di questo o quello Stato o sui corsi delle valute, speculazioni che negli ultimi tempi hanno alimentato il mercato dei cd. derivati, titoli speculativi ad altissimo rischio con cui si punta su un evento futuro ed incerto: chi centra la previsione guadagna a spese di chi non ha indovinato, si trasferiscono così soldi da una tasca all’altra senza produrre ricchezza reale, non diversamente da una scommessa fatta in una bisca o alle corse dei cavalli. Sul mercato dei derivati ho fornito varie cifre nei miei precedenti lavori, qui mi limiterò a citare tra le previsioni e le stime più recenti, quella minima della BRI, che è di 647 mila miliardi di dollari51, e quella massima (per ora) della Commissione di inchiesta del Congresso americano sulla crisi bancaria esplosa a fine 2007: 1,5 quadrilioni di dollari (cioè un milione e mezzo di miliardi di dollari)52.
Viviamo seduti su una montagna di debiti che non ha precedenti nella storia del capitalismo. La crescita enorme del volume delle attività speculative ha fatto crescere altresì il peso dei servizi finanziari sul PIL americano, scrive Zingales: “Nel 1860 la quota del PIL americano rappresentata dai servizi finanziari era solo l’1,6%. Quasi un secolo più tardi (nel 1950) era ancora il 2,9%. Da allora è esplosa. Nel 1980 era del 4,7%, nel 2007 dell’8%”53.
Ciò dà un’idea abbastanza precisa della degenerazione del capitalismo attuale, che produce sempre meno ricchezza reale e molto più speculazioni e debiti.
Un ultimo rilievo riguarda il sistema previdenziale anch’esso drammaticamente messo in crisi dal calo occupazionale, e che non riesce più a svolgere la sua funzione di sostegno ai consumi e alla produzione. In Italia si è verificato, nel 2012, un fatto emblematico che va al di là delle nostre vicende particolari ed assume un significato generale valido per tutti i paesi di capitalismo avanzato. Si è rilevato che l’INPDAP (Istituto Previdenziale dei Pubblici Dipendenti) assorbito dall’INPS ha portato in dote una gestione in passivo per un motivo molto semplice: per ogni pensionato ci sono solo 1,7 lavoratori pubblici che versano i contributi con cui si alimenta il bilancio dell’Istituto previdenziale. In altre parole pochi contribuenti (cioè lavoratori occupati) per pagare pensioni adeguate e quindi i conti vanno in sofferenza. Tutto ciò è la conseguenza del blocco del turnover praticato da tanti anni nella PA, al fine di ridurre i costi della macchina statale, ma questo ha un effetto negativo e perverso sui conti previdenziali54.
Ma era imprevedibile una simile conseguenza?
Assolutamente no, perché c’è chi l’ha prevista quasi trent’anni or sono: l’ILO di Ginevra che, in due ricerche, evidenziò come il calo occupazionale, già allora evidente, avrebbe creato in prosieguo di tempo, il crack del sistema previdenziale55: l’unica soluzione era aumentare l’occupazione e con essa il volume dei contributi e dei contribuenti. Dirò di più a quell’epoca il sistema previdenziale era usato come un ammortizzatore sociale indiretto: una ricercatrice dell’ILO rilevò, analizzando il sistema bancario e finanziario, che le banche quando utilizzavano nuove tecnologie, che rendevano esuberanti quote di lavoratori, preferivano tenerli in servizio fino al pensionamento per evitare conflitti estenuanti col sindacato, sopravvenuta la pensione i lavoratori non venivano rimpiazzati56. Ciò, però, è possibile se l’età pensionabile non è lontana, ma se viene elevata, come è accaduto dappertutto, questa soluzione diventa costosa e quindi si passa alla macelleria sociale (licenziamenti di massa), anche perché da allora il sindacato si è indebolito di molto; a questo punto il problema degli esodati (lavoratori senza stipendio e senza pensione) corre il rischio di diventare mondiale, i dati che ho fornito nei miei articoli precedenti, sul massacro occupazionale nelle banche (a livello mondiale) sono indicativi57.
La crisi occupazionale produce effetti a catena su tutta la società e fa saltare gli equilibri della previdenza sociale, che non è un lusso ma un pilastro fondamentale del sostegno del sistema: pensioni decorose contribuiscono ai consumi e all’espansione economica per cui il crack del sistema previdenziale collegato alla crescita della disoccupazione e della sottoccupazione, finisce col tradursi in una nuova spinta verso il sottoconsumo ed il blocco dell’economia.
C) La crisi della finanza pubblica
La crisi della finanza pubblica mondiale procede come un torrente in piena e rappresenta un’altra spina nel fianco di un’economia mondiale sempre più disastrata.
L’OCSE, ad inizio 2012, comunica che nei paesi membri la media del rapporto debito-PIL è del 100%58, siamo cioè ad un debito di guerra in tempo di pace, un debito di quel livello gli USA lo realizzarono solo durante la seconda guerra mondiale, a causa dell’enorme sforzo bellico e della spesa che questo richiedeva. La tabella che segue ben illustra la drammaticità della situazione e il suo sviluppo negli ultimi anni59.
Sono dati che si commentano da sé e già in parte superati come vedremo: L’Eurostat a giugno di quest’anno ci dà al 126,1%, e la Banca d’Italia anche peggio60, mentre all’assemblea del FMI di Tokio si rileva che i paesi industrializzati sarebbero ormai al 110% (sia pure con differenze a loro interno tra Giappone e Germania); viviamo in tempi in cui le previsioni durano qualche mese e poi vengono ritirate e sostituite da altre peggiori. Ma l’esplosione del debito negli ultimi anni ha avuto una lunga incubazione che dura dagli anni ’80 in USA (in Italia con l’anticipo di un decennio); in Giappone l’esplosione del debito risale agli anni ‘9061, in Europa nel 1999 solo tre paesi avevano un debito superiore all’80% del PIL (Italia, Belgio, Grecia)62, ma in seguito la situazione è pesantemente peggiorata come si deduce dalla tabella che precede. Per comprendere meglio, però, il problema del debito sovrano sarà bene considerare l’evoluzione storica del rapporto debito-PIL nel paese più rappresentativo dell’occidente avanzato: gli USA.
Come si vede negli USA il debito esplode con la guerra , ma poi il boom del dopoguerra lo fa rientrare, anche se la spesa militare rimane comunque elevata e gli USA sono impegnati in guerre importanti (Corea e Vietnam), a riprova che uno sviluppo economico consistente può sostenere spese rilevanti (sia militari che civili) poi, dal 1982, riprende a salire e non si fermerà malgrado un lieve calo tra il 1995 e il 2000, più che compensato, come si è visto, dalla crescita delle altre voci del debito interno americano, una lieve battuta d’arresto più apparente che reale, poi dal 2000 riprende impetuosamente la crescita del debito; Obama vincerà le elezioni nel novembre 2008 con un debito che preoccupa ma sembra quasi un’inezia rispetto alle previsioni del FMI per il 2013 di cui alla tabella n. 3.
Questa impennata, preceduta da una crescita pressoché costante, è spiegata dagli esponenti della cultura conservatrice con un virus, quello della “spendaccionite” che colpirebbe da alcuni decenni (negli ultimi anni con particolare virulenza) i nostri governanti. Il trattato di Maastricht, ponendo il limite del 60% nel rapporto debito pubblico-PIL, voleva essere una sorta di vaccino preventivo contro il virus di cui sopra. Nel corso delle trattative per l’adesione dell’Italia al trattato il premier Prodi si lasciò sfuggire un giudizio pesante sui parametri del trattato stesso che egli definì “imbecilli”. La cosa destò stupore per la durezza del giudizio, anche se poi non si capiva perché Prodi faceva fuoco e fiamme per aderire ad un trattato dai parametri “imbecilli”. Il fatto è però che Prodi aveva ragione perché non puoi comprimere gli effetti se non intervieni ed elimini le cause. Inoltre le forze politiche che hanno governato i paesi ricchi negli anni del dopoguerra fino al 1980 sono le stesse che governeranno dopo quella data: se, dunque, prima del 1980 si poteva conciliare un rapporto debito-PIL sostenibile con una spesa elevata, c’è da capire perché questo dopo non sia stato più praticabile.
Le vicende dei due paesi in cui il problema del rapporto debito pubblico-PIL si è manifestato in un primo tempo illumineranno meglio le vere cause del problema, e i paesi in questione sono l’Italia e gli USA. Da noi fino al 1970 circa il nostro governo, pur spendendo non poco, aveva cercato di conciliare l’equilibrio del bilancio, il miracolo economico ed un’elevata spesa pubblica, riuscendovi sostanzialmente. Dopo le cose cambiano. Infatti: “La spesa pubblica che fino al 1970, assorbe il 35% del reddito nazionale, balza al 41% in pochi anni senza che aumentino le entrate sicchè il deficit annuo, in media 2000 miliardi l’anno tra il 1965 ed il 1969 sarà di 8000 miliardi nel 1974 e 16.000 miliardi l’anno dopo”64.
Ma a chi va questa enorme crescita della spesa pubblica? Nel 1970 i trasferimenti della PA alle imprese erano solo 538 miliardi, che diventano 9719 miliardi nel 1975 secondo i calcoli di Reviglio, e 17 mila miliardi secondo quelli di Pedone65.
In altre parole lo Stato è volato in soccorso di imprese che, pesantemente colpite dalla crisi degli anni ’70, sarebbero fallite. Teoricamente il governo avrebbe potuto imitare il presidente americano Hoover, che nel periodo 1929-’32 affrontò la crisi tenendo i conti in ordine: la spesa federale crebbe pochissimo, il debito federale USA passò dai 16.931.000 milioni del 1929 a 19.487.000 nel 1932 (16.801.000 nel 1931)66: la crisi venne affrontata con la lesina di Quintino Sella e l’economia USA andò a picco quasi dimezzando in tre anni il proprio PIL, il che fece risalire il rapporto debito-PIL dal 16,3% del 1929 al 33,2% del 1932, ciò perché non era tanto la spesa a salire ma il PIL a crollare; dopo poco, dunque, la politica dell’austerità finì col fare esplodere il rapporto debito federale-PIL, sicchè l’America affogò senza neanche la magra consolazione di avere i conti in ordine.
Ciò premesso, e tornando alla situazione italiana, non mi sembra che i governi degli anni ’70 avessero fatto delle scelte folli (da un’ottica capitalistica ben inteso, che non è la mia), realizzare una politica alla Hoover avrebbe fatto naufragare la nostra economia che annaspava faticosamente: ci si indebitò ma si galleggiò.
Analogo discorso per Reagan sotto la cui presidenza riprese a correre alla grande il debito federale USA, malgrado che Reagan avesse fatto una campagna elettorale contro il povero Carter accusato di essere uno spendaccione, con un debito al 32,2% nel 1980! Nel primo anno della presidenza, Reagan cercò di contenere il debito che calò di pochissimo (neanche un punto) poi dal 1982 la curva si impenna: dal 1981 al 1988 il debito cresce di circa 18 punti sino al 51% circa, superiore a livello del 1942 (44,7%) anno di guerra. Questo porterà alla rottura con Milton Friedman e la sua scuola di pensiero, che lo accusò di aver tradito il proprio programma iniziale ed un consulente di Reagan, che a quella scuola apparteneva, racconterà, in un documentatissimo libro-requisitoria, quello che era accaduto dietro le quinte67: l’economia non tirava più come una volta e dalla Casa Bianca arrivano torme di capitalisti che chiedevano sostegni, ottenendoli: esemplare il caso delle arance della California, di cui vi era sovraproduzione, ma la cui produzione veniva sovvenzionata per poi mandare le arance prodotte al macero, il fatto era che i Naranjeros californiani sostenevano Reagan68.
Caso esemplare che esprime, però, una tendenza generale che continua anche dopo con il ritorno dei democratici al governo con Clinton, e qui abbiamo la testimonianza di un Ministro del governo Clinton, Robert Reich , segretario al lavoro, che delinea uno scenario del tutto simile a quello dell’amministrazione Reagan69. Più di recente il prof. Zingales ha rilevato come l’attività di lobbying sia la più profittevole che ci sia: finanziare una campagna presidenziale americana costa qualche miliardo di dollari (l’ultima pare che abbia superato i 6 miliardi) ma chi vince si aggiudica un piatto di spesa pubblica di 8000 miliardi di dollari70. Non male direi.
Esemplare è la vicenda della spesa militare, che già negli anni ’70 secolo passato (prima di Reagan), raggiunge e supera in USA la spesa sociale71; scrive in proposito Galbraith:
Un vecchio generale-presidente denuncia l’asservimento del bilancio statale agli interessi dell’industria privata militare, che produce armi e controarmi (carri armati e cannoni anticarro ad esempio), che rendono le prime obsolete e richiedono continuamente il rinnovo dei vecchi arsenali, le cui armi obsolete tecnicamente possono servire solo ad alimentare le guerre nei paesi del c.d. Terzo mondo. La cosa è ancor più disgustosa perché fin dagli anni ’70 si è rilevato che negli arsenali c’era quanto bastava a distruggere venti volte la popolazione mondiale73 e cioè 80 miliardi di individui all’epoca.
Poi col crollo dell’impero sovietico avrebbe dovuto ridursi la spesa militare perché non si vedeva chi potesse attaccare gli USA, ma ciò non è accaduto; è vero che c’è il terrorismo ma non lo si combatte con missili e sommergibili atomici.
L’assurdità di una simile spesa faraonica è stata rilevata anche in rapporto alla Grecia, che spende il 2,5% del suo disastrato PIL in spese militari, per parare non si sa quale minaccia di invasione e così si comprano sommergibili che non servono a nulla se non ai profitti delle industrie tedesche e francesi che li producono74.
Il discorso sulla spesa militare vale per tutte le spese faraoniche ed inutili compiute dagli Stati, dalle arance della California alla ricostruzione postterremoto a Napoli, dal tunnel sotto la Manica, al ponte sullo Stretto, dalle centrali nucleari (pericolosissime) alla TAV; dovunque lo Stato butti soldi dalla finestra c’è sempre qualcuno appostato sotto la finestra che li raccoglie. Il deficit, dunque, si forma dalla parte delle uscite (coi debiti) ma anche dalla parte delle entrate. Un tempo, in USA, nel 1957, la tassa sui redditi più elevati era pari al 91% (avete letto bene)75, l’anno scorso ho rilevato che il signor Buffet, il terzo uomo più ricco al mondo, ha espresso il desiderio di poter pagare le tasse della propria segretaria (il 39% aliquota massima attuale) invece del 17,4% calcolato su una base imponibile di 40 milioni di $, cui corrisponde un patrimonio di 50 miliardi di dollari: il reddito imponibile del signor Buffet è meno dello 0,1% del proprio patrimonio76. Tra il 1957 ed oggi c’è una storia di esenzioni crescenti e sfacciate (non solo in USA)77, di spostamento crescente della pressione fiscale dal capitale al lavoro, per cui già all’inizio degli anni ’70 un signore come Paul Getty, che avrebbe dovuto pagare 70 milioni di dollari di tasse, se la cavava con qualche migliaio di dollari78; negli anni ’90 in USA 2000 super ricchi non pagavano tasse ed altri 18mila sborsavano solo il 5% del loro reddito, per non parlare del reddito nascosto ed occultato nei paradisi fiscali79.
Fiscalmente parlando lo Stato si è arreso al capitale. Perché?
La risposta la diede in una trasmissione TV del 1997 il commissario europeo Monti (l’attuale nostro Premier) , quando disse che le IM giganti mettevano in concorrenza gli Stati e allocavano i propri investimenti dove si pagano meno tasse80. In altre parole centinaia di grandi centri di potere, che controllano quote enormi della ricchezza mondiale, ricattano gli Stati e ne condizionano pesantemente la politica fiscale e di bilancio, oltre 25 anni prima di Monti, nel 1971, il governatore della Banca d’Italia Guido Carli aveva detto qualcosa di simile, aggiungendo che le banche centrali non avevano strumenti di difesa81.
Tornando a Monti nel 1998 all’annuale convegno di Rimini di “Comunione e liberazione” ammise che la pressione fiscale in Italia e in Europa si era spostata dal capitale al lavoro82, ed è chiaro che la posizione del 1998 si integra con quella del 1997: siccome non si possono scontentare le IM (altrimenti sono guai) le tasse dovranno pagarle altri, i lavoratori che non hanno le armi di pressione e di ricatto delle IM.
Viene qui in piena luce la vera natura delle politiche di austerità, lacrime e sangue per alcuni (lavoratori e pensionati) ed esenzioni e finanziamenti per altri (il grande capitale che conta).
L’origine del deficit e del debito pubblico e tutta e solo qui.
2) Segue. Crisi bancaria, crescita delle ineguaglianze e dell’evasione fiscale, caos delle teorie economiche
D) La crisi bancaria
Un aspetto fondamentale dell’attuale crisi è la crisi bancaria. Di recente una ricerca di Mediobanca ha evidenziato come, per salvare le banche in Europa ed in USA, i governi abbiano dovuto sborsare 3500 miliardi di dollari83, cifra enorme ma errata per difetto (di moltissimo). Ciò che, però, è rilevante osservare in prima battuta, è che i salvataggi degli Stati sono ammontati ad 1/9 circa di quello che sarebbe stato erogato per le banche84, senza che queste ultime abbiano dovuto subire le trafile umilianti della Grecia, il che significa che quando si tratta di salvare le banche tutto va “de plano”, quando si devono salvare gli Stati emergono mille difficoltà e si richiedono enormi sacrifici , che nessuno chiede alle banche.
Tuttavia quello che va posto in luce ancora è che le cifre prima indicate sono completamente errate, per difetto. Abbiamo, infatti, la valutazione del governo Obama aggiornata all’ottobre 2010: 3300 miliardi di dollari, mentre la Commissione Europea fornisce il dato per lo stesso mese ed anno: 4500 miliardi di euro e cioè circa 6000 miliardi di dollari85. Siamo a cifre da capogiro erogate senza niente che ricordi la trafila umiliante e disgustosa imposta alla Grecia per cifre infinitamente inferiori. Tornando all’economia europea possiamo rilevare che il commissario al mercato unico Michel Bernier ha confermato, in una lettera a “La Repubblica”, il dato di 4500 miliardi di euro per i salvataggi bancari86, precisando che dall’inizio della crisi gli Stati UE hanno mediamente speso il 13% delle loro entrate per salvare le banche, il che oggi non è più sostenibile perché il peso ricade sul contribuente europeo87, quest’ultimo se deve spremersi per salvare le banche non può consumare più in modo adeguato alle potenzialità produttive del sistema e tutto si avvita verso una crisi senza sbocchi positivi.
Il fatto è, però, che se questo è insostenibile, come rileva Bernier, si continua a caricare sulle spalle del lavoratore – contribuente europeo pesi sempre più grossi: così per salvare le banche spagnole in rapporto debito-PIL di quel paese supererà il 90% nel 201488, mentre ad inizio anno la BCE ha erogato 500 miliardi di euro alle banche europee al tasso irrisorio dell’1%, il che permetterà loro di prestare a Stati, imprese e famiglie quei soldi a tassi molto più elevati. Non si può continuare così, dice Bernier, eppure si continua così. Ancora una volta, perché?
La risposta è che le banche, collegate ad un’economia che affonda, affondano anch’esse e quindi impongono agli Stati di salvarle col ricatto: “sono troppo grande per fallire e se fallisco è lo sfascio”. Realtà dura da digerire, epperò i salvataggi sono come i cerotti o gli impacchi sulla cancrena: tamponi la crisi (o meglio i suoi sintomi) ma non la risolvi, se l’economia non riprende a crescere le banche non puoi salvarle, cadranno travolte dal tracollo generale, il salvataggio è solo un palliativo momentaneo che opera sugli effetti e non sulle cause: se l’economia langue , languono anche le banche, puoi pagare le loro perdite, ma poi le perdite si riformano. E le banche lo sanno e cercano disperatamente di sopravvivere con operazioni speculative audaci e piratesche, a sostegno dell’evasione fiscale, del riciclaggio dei narcodollari o ricorrendo alla finanza creativa (speculazioni sui derivati di cui si è fatto cenno). Si tratta di operazioni da “magliari” o da “gangsters”, espressioni che trovi sui giornali della Confindustria, la prima, o su “Repubblica” la seconda89, un tempo queste espressioni le avresti trovate solo su “Lotta continua”. Sembra che sui giornali che esprimono l’industria o la borghesia illuminata sia divenuta di moda l’espressione di Brecht che diceva: “Rapinare una banca è niente, fondarne una è la vera rapina”. Un tempo sulla tolda del “Titanic” che affondava si ballava adesso volano i coltelli. Il fatto è che in un’economia imballata e bloccata le banche possono sopravvivere solo con manovre speculative od illegali, che permettono di fare profitti senza creare ricchezza: vedremo tra poco che, nei paradisi fiscali, giacciono 21 mila miliardi di dollari evasi arrivati lì grazie ai canali ed alle consulenze delle banche multinazionali e poi riciclati (sempre tramite queste). Come può avvenire questo?
In un modo assai semplice: non esiste alcun potere mondiale che controlli il flusso dei capitali che, con un click si possono trasferire da un capo all’altro del mondo, e il dominio delle IM sull’economia mondiale impedisce che tale potere si formi90. Il “potere regolante” degli Stati nazionali è del tutto impotente: le riforme tentate a livello nazionale sono assolutamente inconsistenti a partire da quelle di Obama91, sulle quali il vicedirettore del “Sole 24 Ore” ha detto che conteneva spazi così ampi attraverso cui poteva passare un tir92. Nella sua audizione al congresso americano Bernanke è stato deprimente infatti: “… La triste conclusione è che le banche centrali non sanno fare il loro mestiere e chiudono un occhio e anche due su mille violazioni di cui oggi non sono neanche al corrente”93.
Lo Stato e le banche centrali sono deboli in rapporto ad un potere che può scavalcarle ed umiliarle, ad esempio evitando di sottoscrivere le emissioni dei bonds di uno Stato, che fa una politica monetaria e fiscale sgradita o attaccandone la moneta. L’economia langue e le banche per sopravvivere fanno le operazioni più ciniche e spericolate che siano possibili senza nessun controllo perché poteri controllanti a livello mondiale non ce ne sono e non ce ne possono essere94, per cui sostenere il riciclaggio dei narcos o un’evasione fiscale senza precedenti è del tutto normale.
Intendiamoci le banche non furono mai il simbolo della moralità capitalistica (ammesso e non concesso che esista), le canagliate che portarono al “Banking act” rooseveltiano del 1933 sono note come pure la famigerata “baraonda bancaria” italiana di fine ‘800, mai le banche furono un convitto per educande inglesi del XIX secolo, epperò oggi siamo alla trasformazione nel senso della più totale illegalità: il dato sui 21 mila miliardi di dollari fatti evadere dal sistema bancario verso i paradisi fiscali non ha precedenti come la crescita del volume delle spese per servizi finanziari a cui prima accennavamo, che esprime il supporto ad una finanza d’assalto e piratesca. Un capitalismo che non può più produrre profitti attraverso la creazione di ricchezza reale cerca di produrli attraverso operazioni spericolate e/o criminali, che non fanno altro che trasferire soldi da una tasca all’altra senza produrre ricchezza.
Una degenerazione totale.
E) Diseguaglianze sociali ed evasione fiscale
All’inizio della crisi, nel 2008, sembrò che anche i patrimoni dei Paperoni fossero colpiti, poi dal 2009 la tendenza cambia e non a caso: le politiche di salvataggio poste in essere producono i loro effetti, salvare le banche ed i grandi centri finanziari a spese dei contribuenti e dei lavoratori, significa trasferire ricchezza dai piani bassi a quelli alti della società, i costi dei salvataggi sono stati enormi, come si è visto, ed hanno salvato le classi alte a spese delle classi basse e medie (queste ultime sempre più spinte verso il basso).
Nei miei articoli degli ultimi due anni ho evidenziato le dimensioni del fenomeno95 confermate anche quest’anno: da gennaio ad aprile del 2012 il patrimonio dei 40 miliardari più ricchi al mondo è cresciuto di 45 miliardi e cioè di 33 milioni di dollari l’ora96; in USA il patrimonio della famiglia Walton (i proprietari della Wal-mart) è pari al patrimonio dei 150 milioni di americani meno ricchi97 etc.
Una accelerazione brutale di un trend che è evidente dagli anni ’60 del secolo scorso quando il 20% più ricco della popolazione aveva un reddito 30 volte superiore a quello del 20% più povero, 30 anni dopo il rapporto è diventato 1:6098; a fine millennio l’ONU rileva che il 20% superiore si taglia l’86% della ricchezza mondiale contro l’1% che va al 20% inferiore, mentre i tre uomini più ricchi al mondo hanno una ricchezza pari al patrimonio che si dividono i 600 milioni di uomini più poveri al mondo99. Passano una dozzina di anni e a Davos l’anno scorso si rileva che il 10% superiore della popolazione mondiale si taglia l’83% della torta100. Un progressione spaventosa che spiega come il sistema non riesca ad espandersi più: la grande massa della popolazione consuma poco, male o in modo asfittico (indebitandosi in maniera crescente ed insostenibile) mentre chi è ricco dispone di capitali enormi e crescenti che non possono essere investiti in un sistema produttivo imballato (per produrre devi consumare) per cui la speculazione finanziaria impazza ed il capitalismo, che pure non è mai stato un collegio per educande, sembra diventato una bisca per bari.
Collegato al fenomeno delle diseguaglianze crescenti c’è quello dell’evasione fiscale rampante: chi ha ricchezze enormi, assai spesso frutto di manovre poco chiare, mira a metterle al sicuro dal pericolo di rivolgimenti politici e sociali, che non possono mai escludersi in un mondo dove l’instabilità a tutti i livelli è sovrana; inoltre occultare la ricchezza è utile anche nei confronti dei concorrenti o creditori (i propri fratelli di classe), i paradisi fiscali non servono solo a nascondere al fisco le ricchezze ma anche ai concorrenti, per cui se fallisci o chiudi un’attività in un paese puoi liquidare le attività e nasconderle in un paradiso fiscale, intestandole ad una società di comodo i cui i veri soci sono nascosti, e così si lasciano a secco concorrenti e creditori. Da quando mi occupo di questo problema (poco meno di 40 anni) ogni volta che mi capita di riprenderlo mi rendo conto che i miei precedenti dati sono invecchiati nel giro di pochi anni: la tendenza è sempre la stessa (l’evasione cresce), ma l’impeto della corrente si ingigantisce, negli anni ’70 il fenomeno in questione era un torrente in piena adesso è un oceano in tempesta.
Così è stato anche quest’anno quando ho avuto tra le mani le conclusioni di una ricerca condotta su dati quanto mai ufficiali (BCE, Banca mondiale, FED, BRI, etc.) per conto della Banca mondiale, che ha evidenziato come nei paradisi fiscali vi sino depositati, in circa 10 milioni di conti, 21 mila miliardi di dollari, il 30% del PIL mondiale o la somma del PIL di USA e Giappone, con una crescita annua del volume dei conti del 16% annuo negli ultimi anni, ritmo molto più elevato della crescita della ricchezza mondiale101. Su solo 91 mila conti, al top della classifica, sarebbero depositati 10 mila miliardi con una media di 110 milioni circa a conto, la media generale è di 2,1 milioni a conto, quella dei conti più poveri (detratti cioè i 91 mila del top) è solo di 1,1 milioni a conto. Si noti poi che questa evasione non è un dato completo perché concerne solo il capitale liquido, ne sono esclusi sia gli immobili che mobili registrati (barche, auto di lusso, aerei, elicotteri, etc.) o i gioielli, inoltre stiamo parlando di depositi su conti non di persone, assai spesso i grandi redditieri dispongono di decine o centinaia di conti variamente intestati o mascherati, sicchè una frazione minima della popolazione mondiale controlla risorse enormi. Era così anche in passato ed in modo molto rilevante ma non insultante come ora: in un mio libro del 2000 ho citato una valutazione di una grande banca d’affari (la Merril Lynch) che stimava l’evasione, alla metà degli anni ’90 a 3000 miliardi di dollari, i 40% circa del PIL americano dell’epoca, allora era tantissimo adesso i superlativi assoluti non bastano più.
I due fenomeni (evasione e diseguaglianze crescenti) si alimentano a vicenda: chi è ricco evade, nasconde e pone al sicuro i propri patrimoni, impedendo ogni forma di redistribuzione anche moderata attraverso il fisco, sicchè il patrimonio tende a crescere e riprodursi su scala allargata, e crescendo aumentano le connessioni e i legami con banche e società finanziarie, che forniscono consulenze evasive in modo non occasionale ma generalizzato (le cifre di cui sopra non si realizzerebbero se non ci fosse un coinvolgimento generalizzato di banche e finanza), per cui più sei grande e più sei ricco e più i tuoi capitali sono ricercati e richiesti e quindi le tue capacità evasive crescono. Inoltre in un mondo in cui i profitti si possono fare sempre meno legalmente (perché l’economia è imballata), diventa un imperativo di sopravvivenza farli in modo illegale ed un profitto illegale non può essere dichiarato, va occultato; abbiamo rilevato che anche sui giornali della nostra Confindustria si parla dei banchieri magliari della City (una volta tempio del capitale) che forniscono consulenze e coperture ad altri magliari per non dire gangsters.
F) Lo stato confusionale della teoria economica
Un mio vecchio amico con cui convivo da oltre 70 anni, e che ama scrivere epigrammi, una volta me ne lesse uno in cui due buoi con grandi corna (l’uno chiamato DS e l’altro Forza Italia) si incontravano ad un crocicchio e si davano del cornuto. Avevano entrambi ragione solo che ognuno vedeva le corna dell’altro e non le proprie. Questo epigramma mi ricorda la polemica tra economisti liberisti (monetaristi, marginalisti etc.) ed i neo-keynesiani, ognuno vede le pecche dell’altro ma sorvola generosamente sulle proprie, tra loro non c’è dialogo ma un “duologo” neologismo che indica due monologhi tra sordi. Cominciamo dai liberisti di varia scuola che rimproverano ai neo-keynesiani due cose: a) è assurdo indebitarsi ancora con un livello di debito come quello che si è raggiunto; b) lo sviluppo non si fa per decreto ma lo fa l’economia (o il mercato).
La prima critica è giusta, la seconda tesi si può sostenere solo con un’ignoranza enorme della storia economica e sociale che ha visto nell’intervento dello Stato una forza fondamentale dello sviluppo economico102, sia negli anni recenti che passati. In anni recenti come dimenticare la politica di Roosevelt negli anni ’30 che non risolse la crisi ma la fermò ed aprì, poi, negli anni ’40 la strada al boom post-bellico con un mix di spesa militare e spesa sociale103; nello stesso periodo Hitler con un dirigismo forsennato assorbiva 6 milioni di disoccupati e ricostruiva poderosamente l’economia tedesca, sino a tentare la scalata al potere mondiale104. In anni più lontani non si può ignorare il ruolo enorme del protezionismo all’ombra del quale sono nate le industrie di paesi come Italia, Giappone, Germania; in USA addirittura la tariffa Morril del 1861 causò una guerra terribile, la guerra di Secessione105.
La stessa Inghilterra prima di diventare libero scambista, fu fortemente protezionista con i Navigations act, lodati anche da Smith, assai meno liberista di quanto si creda, che nella Ricchezza delle Nazioni , analizza con giudizi altamente positivi l’intervento dello Stato in economia a vari livelli: intervento fiscale, incentivi in agricoltura, creazione della Banca d’Inghilterra, disciplina del salario, lavori pubblici, politica doganale etc.106. Tornando alle dogane l’Inghilterra emanò ben 7 leggi doganali tra la fine del ‘700 ed il 1846107; quanto agli USA la colonizzazione del West, immortalata da centinaia di film western, fu favorita in modo decisivo da una legge proposta dal Congressman Homstead in base alla quale chi coltivava per 5 anni una superficie di almeno 170 acri (34 ettari) di terre pubbliche ne diventava proprietario; dietro le carovane di contadini irlandesi immortalate da tanti film c’era la politica del Congresso americano108.
Con buona pace di chi lo ridicolizza, l’intervento dello Stato in economia non è solo il raddoppio della Salerno-Reggio Calabria che è solo la “macchietta” dell’intervento statale109.
Per contro i liberisti non si scomodano a rispondere alla critica di Solow che prima abbiamo citato: sul tema dell’occupazione il mercato ha fallito clamorosamente e dal 1980 (anno del lavoro di Solow) ad oggi, la situazione si è così appesantita da diventare incontrollabile; le tesi di Friedman (che ho respinto nel 1980)110 secondo cui bisogna ridurre la spesa statale per dare spazio agli investimenti privati, che rilanceranno occupazione e produzione, è una pia illusione poiché gli investimenti l’occupazione la distruggono e non la creano: quando Larry Summers, consigliere di Obama, dice che è più facile creare ricchezza che lavoro ha perfettamente ragione e ne abbiamo viste le cause111, il guaio è che se non si produce occupazione alla lunga non produci neanche ricchezza. Quanto sosteniamo può essere confermato da un altro punto di vista, questa economia, piaccia o no, non riesce a fare a meno di massicce dosi di debito pubblico, che non risolvono i problemi (anzi in prospettiva li aggravano) ma permettono di sopravvivere nel breve e medio periodo.
Le illustrazioni di quanto scritto sono numerosissime: di Hoover si è detto, cercò di tenere i conti in ordine davanti alla Grande crisi ed andò a fondo, Reagan cambiò precipitosamente politica nel secondo anno del suo primo mandato per non andare a fondo, la signora Thatcher fu più caparbia di Reagan ed allora accadde una cosa incredibile: dopo 10 anni di governo, tre elezioni ed una guerra vinta, il suo partito la mandò in pensione, i conservatori (come l’economia inglese), non la reggevano più112.
Di recente poi, si è osservato che le politiche lacrime e sangue imposte al Portogallo, Grecia, Spagna e Irlanda hanno aggravato le loro crisi strutturali e finanziarie113, ma non sono solo i Pigs che hanno fatto tale politica, Inghilterra, USA, Francia, Germania l’hanno perseguita114 ed i risultati sono evidenziati nella tabella 3, un disastro115. Ma è sintomatico tale proposito, quello che ha scritto un giornalista tedesco sulla Germania: nel periodo tra il 2000-2006 (quando la crisi era solo latente o strisciante) il PIL tedesco è cresciuto in 6 anni di 354 miliardi, poco ma meglio di niente, mentre il debito pubblico è cresciuto di una cifra quasi eguale e cioè di 342 miliardi116, in altre parole se vuoi crescere di 1 devi indebitarti di 1 (più o meno), poi esploderà la crisi e per crescere di 1 devi indebitarti anche di 4 (USA)117, per non parlare dell’Italia dove il PIL cala ed il debito cresce118. Questa economia non può fare a meno di un debito crescente e sempre più insostenibile anche solo per galleggiare119.
È emblematico, ancora una volta, quello che accadde da noi dove il termine austerità diventa di uso corrente assieme a “stangata” dagli anni ’70, quando un sindacalista della c.d. “sinistra sindacale” sosterrà che l’austerità è un pilastro della democrazia operaia120. Poi, negli anni ’90, una drastica accelerazione: il debito pubblico è a livello di allarme rosso, nel 1991 arriviamo a rompere la barriera del 100% nel rapporto debito-PIL (i paesi OCSE ci arriveranno in media solo nel 2011) e bisogna intervenire. Manovre lacrime e sangue senza precedenti: muore la scala mobile, si passa dal retributivo al contributivo nel sistema pensionistico, il che permetterà di “razionalizzare” la spesa per pensioni che si ridurranno dall’80% al 60% dell’ultimo stipendio (adesso i tagli si chiamano razionalizzazioni)121, viene abolito il recupero del fiscal drag, cosa iniqua si ammette, ma si sa i tempi sono duri; dal 1992 al 1997 le varie manovre, manovrine e correzioni (anche tre all’anno) cumulano 335 mila miliardi di vecchie lire, un’enormità122.
Né dopo la situazione cambia: la CGIA di Mestre ha calcolato che nel periodo 2000-2011 le manovre hanno cumulato oltre i 570 miliardi di euro, più di 50 all’anno, di quello che hanno combinato prima Tremonti e poi Monti nell’attuale legislatura ci occuperemo tra breve123, qui mi limiterò a dire che prosegue la macelleria sociale. Oltre 20 anni di sacrifici devastanti e qual è il risultato? Il rapporto debito-PIL arriva al 124,8% nel 1994, poi lentamente regredisce ed arriva al 103,6% nel 2007, sempre al di sopra del livello di allarme rosso del 1990-91, poi riprenderà a salire per arrivare al 120,1% nel 2011124; infine grazie alla cura Monti (ancora tagli e tasse) siamo nel giugno 2012 al 126,1% (Eurostat), quest’ultimo dato viene confermato dalla Banca d’Italia ad inizio novembre: il debito ha raggiunto, a settembre 1.995,1 miliardi di euro in crescita di 19,5 miliardi su agosto 2012, mentre scrivo si dà per scontato che avremo superato la soglia critica di 2000 miliardi. Si dice che Monti ci avrebbe salvato dal baratro, figuriamoci che sarebbe accaduto se non ci avesse salvato, ed è in genere l’argomento che viene usato per dire che la cura era necessaria, il fatto è che non c’è alcuna verifica di cosa sarebbe accaduto senza Monti, quello che vediamo è quello che è accaduto: un disastro totale.
In compenso l’economia italiana, colpita pesantemente da queste manovre, che si protraggono da decenni, ha visto calare la propria crescita a livelli bassissimi: nel 1990-98 cresciamo dell’1,2% all’anno in media, nel 19992005 cresciamo dell’1,3% mentre nel periodo 2004-2009 siamo ai numeri negativi – 0,5% l’anno (“Economist”), il disastro degli anni più recenti è cosa nota. Il fatto è che con un PIL che cresce dell’1% poco più non paghi neanche gli interessi su un debito che supera il 100% del PIL, interessi che sono pesantissimi125. Il significato della nostra esperienza è chiaro, se tagli i consumi con manovre lacrime e sangue, tagli lo sviluppo e senza sviluppo non paghi neanche gli interessi sul debito che cresce su se stesso in una spirale drammatica; di recente anche nell’autorevolissimo “Economist” si leggono considerazioni di questo genere126, lo sfascio delle politiche liberiste e ragionieristiche è evidente a tutti, tranne che agli struzzi.
Passiamo adesso ai neo-keynesiani, per cui si deve spendere di più, molto di più di quanto si è fatto: il dott. Koo (giapponese dirigente della grande banca Nomura) osserva che non si capisce perché gli europei e gli americani temano tanto il debito (come i vampiri temono la luce del sole) che in Giappone è esploso negli anni ’90127 e da allora è cresciuto fino a rasentare il 230%, un livello doppio rispetto a quello degli USA del 1945. Il limite di questo ragionamento è che il Giappone non è un bell’esempio di soluzione dei problemi della crisi: infatti il PIL giapponese cresce solo dell’1,3% nel periodo 1997-2007 e poi anche lì si passa ai numeri negativi come in Italia, nel 2004-2009 siamo a – 0,3% annuo (“Economist”). Inoltre ciò che il Giappone ha fatto, ha potuto farlo perché gli altri paesi, pure indebitandosi sempre più, non erano certo ai livelli incredibili del Giappone, una corsa generalizzata dei paesi ricchi ad un debito giapponese farebbe impennare la domanda di capitali sul mercato mondiale e con essa i tassi di interesse che crescerebbero deprimendo ancor più l’economia; aumenterebbe inoltre la subalternità degli Stati ai grandi centri finanziari che sono i signori del debito con le conseguenze immaginabili. Inoltre, come vedremo tra breve, anche in Giappone si pone il problema di un indebitamento mostruoso ed insostenibile per cui si prospettano manovre lacrime e sangue128 che, per i motivi più volte esposti, avranno gli stessi risultati che in USA ed UE: un fallimento totale.
Le due scuole di pensiero, tuttavia, hanno un punto in comune, al di là delle polemiche, il dominio del Dio della produttività e della competitività da cui non si può prescindere, senza che nessuno faccia i conti con la realtà macroscopica e documentatissima del fatto che la produttività crea disoccupazione, per cui non crei lavoro e sviluppo né con gli investimenti privati né con la spesa pubblica non almeno ai livelli attuali di investimento altamente capital intensive, e altamente produttivi. Roosevelt con la sua azione nel campo della spesa civile poteva assorbire 7 milioni di disoccupati negli anni ’30, e Hitler 6 milioni con la spesa militare, adesso non più.
Un esempio chiarirà quanto voglio dire: il ministro Passera ha di recente ipotizzato che, con 100 miliardi di spesa pubblica e di investimenti privati nel campo delle opere pubbliche, si potrebbero creare 120 mila posti di lavoro e stabilizzarne altri 280 mila129. Lascio da parte i posti da stabilizzare, che sono un’entità molto discutibile dal punto di vista statistico, i nuovi posti sono solo 120 mila con un investimento (o spesa) di oltre 800 mila euro a posto, per assorbire i disoccupati italiani (circa 2,8 milioni a fine 2012) ci vorrebbe investimenti aggiuntivi per oltre 2300 miliardi, in un paese in cui gli investimenti annui si aggirano sui 300 miliardi o poco più, è una cifra impensabile, grosso modo sarebbe il 4% del PIL mondiale e assorbiremmo solo i disoccupati “ufficiali” che, come vedremo tra breve, sono molto meno di quelli reali. Si consideri poi che l’Italia non è certo il paese più capital intensive dell’occidente, al contrario; con questo rapporto tra spesa pubblica e/o investimenti privati ed occupazione creata non si va da nessuna parte, o meglio si va in fondo ad un baratro.
Si noti poi che gli investimenti ad alta tecnologia nelle grandi imprese possono produrre un effetto perverso rilevato dal famoso economista brasiliano Celso Furtado, il c.d. effetto del grande albero tropicale che ramifica le sue radici nel terreno, assorbe tutta l’acqua disponibile e fa morire le pianticelle circostanti che, nella metafora di Furtado, sono le piccole e medie imprese ad alta intensità di lavoro. L’esperienza degli investimenti italiani al sud è una buona illustrazione di questo effetto, si crea un posto di lavoro e se ne distruggono due, puntare dunque sulla grande impresa capital intensive è una soluzione pericolosissima per i livelli occupazionali.
Qualcuno potrebbe osservare che senza la competitività si va a comunque a fondo e sarebbe vero, ma è anche vero che si va a fondo pure con la competitività. In altre parole se punti sulle PMI, imprese a bassa produttività e fragili, punti su attività marginali che danno un lavoro precario e con bassi salari, se punti sulla grande impresa punti su una realtà che di posti di lavoro non ne crea ma ne distrugge, comunque vai a fondo, e questa, sia chiaro, non è una contraddizione logica di Antonio Carlo ma è una contraddizione strutturale del capitalismo che oggi si trova letteralmente in un vicolo cieco, cosa che io mi limito a rilevare.
Finchè esistevano contrappesi e spugne che assorbivano la disoccupazione creata dall’industria, il sistema poteva svilupparsi, ma eliminati irreversibilmente questi contrappesi il sistema è davanti a problemi insolubili e mortali.
Entrambe le scuole di pensiero non risolvono, e neanche affrontano, questa contraddizione nodale per il sistema.
3) Gli USA nella tempesta: PIL in “panne”, deficit e debito incontrollabili, disoccupazione alle stelle
Nel corso del 2012 l’economia USA cresce a ritmo del 2% nel primo trimestre (base annua), dell’1,3% nel secondo trimestre, mentre si prevede una crescita tra l’1,5% ed il 2% nel secondo semestre; meglio di niente si dirà, ma il fatto è che per crescere poco ti devi indebitare in modo rovinoso: il rapporto deficit-PIL è al 7,6%, in cifra assoluta 1100 miliardi di dollari, quattro volte o più la crescita del PIL, come ho rilevato anche in anni passati, se gli USA fossero un’impresa sarebbero falliti da tempo; la realtà è quella di un’economia che procede su una sedia a rotelle sempre più costosa, in una situazione di recessione stabile mascherata dall’aumento enorme del debito130.
Senza il debito gli USA crollerebbero e lo sa anche il CBO (Congressional Budget Office) che a settembre dirama le sue previsioni sulle conseguenze del “fiscal cliff” (baratro fiscale) che dovrebbe entrare in atto a fine anno con crescita di imposte e tagli lineari della spesa per tutti i settori, da quello sociale, alla difesa e alla sicurezza; la conseguenza sarebbe, per il CBO, un calo del deficit a soli 640 miliardi di dollari (4% del PIL) a fronte però di un calo del PIL dello 0,5% per l’anno prossimo131. Epperò la signora Lagarde (FMI) parla di un calo del 2% e altri arrivano ad ipotizzare un calo del 4% con oltre 2 milioni di nuovi disoccupati132, il tutto con il rapporto deficit-PIL che rimarrebbe elevato col debito che continua a crescere. Una situazione disperata, dunque, ma la considerazione peggiore è un’altra: che avverrà dopo un calo dell’1% o del 4% del PIL? Ormai sempre meno si crede ad una ripresa spontanea ed automatica dell’economia: se il PIL cala e la disoccupazione (sottostimata) cresce assieme al debito globale e alla spese per gli interessi, come si potrà risorgere dal baratro? Il fiscal cliff toglie al malato terminale la bombola di ossigeno perché troppo costosa, ma guarirà per questo il malato? Può darsi che Obama, fresco di rielezione, possa ottenere un rinvio o un ammorbidimento del fiscal cliff, e con ciò l’America rinuncerebbe ad un rimedio peggiore del male, ma rimarrebbe il male e cioè un debito che è arrivato a livello incredibile di 16 mila miliardi di dollari, un peso insopportabile per una economia bloccata: in sintesi la navicella dell’economia americana naviga tra Scilla e Cariddi e prospettive diverse non se ne vedono.
Il vero problema per gli USA e per il mondo è la disoccupazione, che blocca produzione, consumi, salari e prospettive di ripresa e qui, diranno gli statisticistruzzi, le cose vanno un po’ meglio: dal picco negativo del 10,2% (ottobre 2009), siamo arrivati all’8,1% (agosto 2012) ed al 7,8% di settembre. Ancora una volta un piccolo miracolo solo statistico: ad agosto si creano appena 96.000 posti di lavoro ma si riducono di 370 mila unità quelli che cercano lavoro , per cui la forza lavoro globale si contrae133, in USA dopo 7 mesi senza lavoro scivoli via dalle statistiche, non sei più disoccupato ma inattivo e la disoccupazione si contrae semplicemente perché cala il numero dei componenti della forza lavoro attiva; a settembre si creano solo 114 mila nuovi posti di lavoro e la disoccupazione cala al 7,8%134, il che è assurdo poiché un paese con oltre 315 milioni di abitanti e una dinamica demografica dell’1% l’anno, per avere un calo reale dello 0,3% della disoccupazione in un mese, dovrebbe produrre attorno a 500 mila posti di lavoro, altrimenti hai solo un calo fittizio di natura statistica ma non reale. I disoccupati reali in USA non sono 12-13 milioni ma 24 milioni, osserva il Nobel Krugman, che considera anche gli scoraggiati135. Ma non basta. Sempre Krugman osserva che il 40% di quelli che hanno un lavoro in USA, lavorano ad orario o salario ridotto136 e questo significa che 55 milioni o più di americani sono sottoccupati; infine il tasso di occupazione della forza lavoro si aggira attorno al 60% un livello decisamente basso oltre agli scoraggiati che non cercano più lavoro ci sono gli inattivi che il lavoro non lo hanno mai cercato. Per un paese che ha nelle proprie mani tra 1/5 e 1/4 del PIL mondiale, la migliore tecnologia, le migliori università e centri di ricerca con meno del 5% della popolazione mondiale, è un autentico disastro che ben illustra il fallimento generale del capitalismo.
L’America è in ginocchio e il governo non ha più i soldi non solo per sostenere i costi dell’impero137, ma neanche per pagarsi la pena di morte. Qui tocchiamo una vicenda che ha del grottesco, poiché tra gli alfieri della sua abolizione troviamo esponenti della peggiore destra repubblicana, quella tutta legge, ordine e Bibbia. Ora il motivo per cui dei “reazionari biblici” sono contro la pena capitale, non è dovuta al fatto che le nuove tecniche (DNA) hanno permesso di scagionare oltre 200 dei 1500 condannati a morte con pena eseguita (cosa che nella tomba li avrà consolati), ma è dovuto al fatto che la pena di morte costa di più dell’ergastolo (incredibilmente); infatti la condanna capitale dà il via ad una serie infinita di ricorsi (c’è chi rimane ospite del braccio della morte per 25 anni), per cui i governi (sia federale che statali) hanno dovuto pagare negli ultimi anni oltre 4 miliardi di dollari di parcelle legali138 e questo con i tempi che corrono, è un lusso e un rischio che vari Stati americani hanno deciso di non correre più, abolendo la pena capitale.
Continuano, inoltre, le insolvenze delle entità pubbliche (municipalità, contee e Stati) che hanno regalato all’America il fenomeno dei “disoccupati di Stato” (pubblici dipendenti licenziati), l’ultimo caso in ordine di tempo di cui abbia notizia è il caso di Stockton, una città di 300 mila abitanti in California che ha un posto nella storia USA, era la città della corsa all’oro: è andata in crisi, ha cercato di quadrare i conti con licenziamenti massicci di poliziotti e pompieri prima di gettare la spugna e fallire139.
Ovviamente in USA come altrove, si potrebbero quadrare i conti con una lotta feroce all’evasione fiscale: la fama degli USA , paese fiscalmente inflessibile, ha ancora proseliti140, ma è una colossale balla (lo scrivo da anni) e si deve al giornale della Confindustria l’aver reso note alcuni risultanze di recenti ricerche che hanno evidenziato come gli USA, non solo ospitano sul proprio territorio paradisi fiscali come Deleware, Nevada o Puerto Rico, ma siano essi stessi un enorme paradiso fiscale che attira capitali sporchi da tutto il mondo a cominciare dalla nostra “ndrangheta”141. Il prof. Sharman che ha compiuto, con alcuni suoi colleghi uno studio sui paradisi fiscali per conto della Banca mondiale, osserva: “Gli USA pretendono dagli altri paesi quello che non fanno a casa propria. La realtà è che il loro è il più importante sistema finanziario al mondo. Sia per le attività legittime che per quelle illegittime”142. Dalle analisi contenute nella ricerca in questione risulta: “… Di 817 società di facciata emerse in 213 casi di corruzione investigati in tutto il mondo, ben 102 sono risultate essere registrate negli Stati Uniti (in particolare Deleware , Nevada e Wyoming). Due volte tanto quelle registrate a Panama e ben 7 volte quelle delle isole Cayman”143. Ogni anno in USA vengono costituite quasi 2 milioni di società di comodo i cui veri proprietari sono ignoti , né l’autorità richiede informazioni su di esse, lo stesso giornale della Confindustria ha accertato che in un villino di Las Vegas ne risiedono 631, la Reuters ne ha trovate 2000 presso un altro indirizzo144. Inezie, qualche anno fa, ho rilevato che in un palazzo di Willmigton, cittadina capitale del Deleware, ce ne sono 200 mila145. Anche la signora Rebecca Williams, dirigente della ONG USA “Cittadini per la giustizia fiscale” rivela:
Quando Obama nel 2009, lanciò la crociata contro la Svizzera per il rimpatrio dei capitali americani in fuga in quel paese, chiedeva solo ai suoi compatrioti di far rientrare in patria i propri capitali, dove avrebbero potuto continuare ad evadere ma nei confini nazionali, e cioè patriotticamente147.
Il perché questo avvenga non devo ripeterlo: gli Stati (anche gli USA) sono subalterni verso il capitalismo delle IM, che condizionano e ricattano gli Stati, i quali oscillano tra impotenza e connivenza con l’evasione fiscale, e il debito pubblico ovviamente si impenna in USA come altrove.
Un ultimo rilievo sulla politica esterna USA: in Afghanistan si moltiplicano i casi di militari americani o delle forze alleate uccisi da poliziotti o soldati afghani, ciò che ha fatto ridurre il numero delle azioni congiunte considerate troppo pericolose148. Una politica estera, che sa solo usare la forza senza affrontare le radici dell’odio antiamericano e antioccidentale, è alle corde: l’America in Afghanistan non è una potenza occupante ma assediata, che giorno dopo giorno non ha più i soldi per sostenere l’assedio.
4) Cina, Giappone, India, Brasile: i miracoli non abitano più qui
Per quel che concerne la Cina abbiamo già visto che l’obiettivo fissato a marzo dal governo cinese è molto modesto (+ 7,5% di PIL), nel primo semestre siamo al 7,6% mentre nel terzo trimestre siamo al 7,4% ed è il settimo calo trimestrale consecutivo della crescita. Scrive Visetti: “L’indice dell’attività manifatturiera è scesa in marzo per il quinto mese consecutivo sotto i 50 punti. Il deficit commerciale è stato a febbraio di 31,5 miliardi di dollari record dal 1989. I redditi delle famiglie che rappresentavano nel 2000 il 65% del PIL non arrivano al 58%. Nei prossimi 5 anni la crescita nazionale non dovrebbe superare il 7%”149
Ma anche nei mesi successivi l’indice PMI è rimasto sotto quota 50 (49,7 ad agosto e 49,8 a settembre) ad ottobre un piccolo rimbalzino oltre quella quota (che segna lo spartiacque tra sviluppo e stagnazione), ma solo a 50,2 il che ha fatto dire ad un dirigente cinese che la crescita dell’economia potrà proseguire moderatamente150, il fatto è però che alla Cina, come abbiamo detto, una crescita del 7-8% non è assolutamente sufficiente151. La verità è che in un mercato mondiale che non tira un modello export led si imballa o scoppia. Nel frattempo le tensioni sociali (sia rivolte ecologiche che scioperi) rimangono su livelli elevati152 e l’atmosfera nel paese si fa irrespirabile: il 60% dei cinesi con più di 1,6 milioni di dollari, medita di andarsene e cresce il numero di chi chiede di andare a vivere in USA o Canada, per gli USA 2969 famiglie cinesi che chiedono di andare a vivere negli States nel 2011 contro 787 del 2009, per il Canada i dati sono 2567 richieste contro 383153, la borghesia cinese è in fuga dal proprio paese.
Del Giappone abbiamo già detto, anche quello è un modello export led, in crisi a causa della crisi mondiale154, oppresso da un debito enorme ed insostenibile: 78 mila euro a persona, sicchè anche lì si prospettano misure di austerità recessiva analoghe a quelle europee e americane155, presumibilmente, con le stesse conseguenze, che colpirebbero un’economia che negli ultimi 15 anni ha oscillato tra ristagno e recessione.
In India il PIL dovrebbe crescere del 4,9% quest’anno e del 6% l’anno prossimo, se per la Cina, che ha un Pil procapite molto più alto dell’India, il 7% è poco, per l’India il 5-6% è una miseria; gli investimenti stranieri caleranno del 20% quest’anno, la bilancia commerciale è in pesante deficit e la rupia svaluta156.
Infine il Brasile dove il PIL è cresciuto del 7,5% nel 2010 per calare al 2,7% nel 2011 mentre si prevede un magro 2% quest’anno157 e questo, per un paese che nel 2009 aveva un PIL procapite di 8.230 dollari ed una crescita demografica dello 0,94% l’anno, non è certo un risultato accettabile.
Il governo sta reagendo con una politica di investimenti pubblici che prevede l’erogazione di 66 miliardi di dollari nei prossimi anni per costruire strade e ferrovie con un rapporto deficit-PIL del 2,8% ed una crescita di appena il 4,5%158 e cioè decisamente contenuta, tenuto conto della base di partenza del paese (modesta) e per oltre il 60% mangiata dai debiti che si dovranno fare. L’era dei miracoli è finita.
5) Eurozona e UE: impotenza monumentale
Il 2012 è un anno nero per UE e Eurozona: nell’Eurozona il PIL è in crescita negativa – 0,4% , secondo il FMI dovrebbe seguire un + 0,2% nel 2013 (che per alcuni si chiamerebbe ripresa); fuori dall’Eurozona il principale paese (l’Inghilterra) entra ed esce dalla recessione (secondo i canoni definitori ufficiali della stessa), all’interno dell’Eurozona andamento disastroso dell’Italia, Grecia, Spagna e Portogallo, encefalogramma piatto per la Francia, minicrescita asfittica per la Germania (sotto l’1%). Inoltre ad ottobre 2012 l’indice PMI tedesco segna il 9° calo consecutivo attestandosi a 45,7 ben al di sotto della cifra spartiacque di 50 che segna il confine tra sviluppo e ristagno, è il dato peggiore dal 2009 (anno di crisi).
L’andamento del debito pubblico e le sue prospettive sono evidenziate dalla tabella n. 3 e non è un bel vedere. La disoccupazione ufficiale è all’11,4% nell’Eurozona contro il 10,7% della UE a 27 (9,5% l’anno prima – Eurostat luglio 2012), tra il 2003 e il 2010 l’occupazione precaria raddoppia159, mentre, come abbiamo già rilevato, il tasso di occupazione della forza lavoro è appena il 63,9%, decisamente basso. La Francia ha 3 milioni di disoccupati ufficiali, l’Italia a settembre 2012 ne ha quasi 2,8 milioni, la Germania naviga tra il 56% della forza lavoro disoccupata, che sembra poco ma è tanto per la storia di quel paese: al culmine del miracolo economico (1966-71) la disoccupazione oscillava tra lo 0,7-0,9%, poi con la grave recessione del 1974-75 arriva al 2,6% ed al 4,7% (fonte ILO), si disse allora che era tornata la disoccupazione di massa160.
Ma non è tutto l’andamento dell’economia tedesca (la più forte dell’UE) mostra i chiari segni della crisi: l’indice PMI a luglio cala come si è visto, la DB (la più grande banca tedesca) vede calare nettamente i suoi utili, la Ford tedesca è in perdita, l’Opel deve ricorrere all’orario ridotto ed analoga misura si prospetta Volkswagen (che aveva retto discretamente alla crisi), le agenzie di rating riducono le valutazioni degli Laender e delle banche tedesche161; il debito pubblico è oltre la soglia, impensabile qualche anno fa, dell’80% del PIL. Ma c’è chi dice che in realtà la Germania è più indebitata dell’Italia, perché il tasso di copertura del risparmio sul debito pubblico, è inferiore a quello italiano, inoltre gli attivi patrimoniali delle famiglie italiane sono pari al 600% del PIL, un tasso più elevato dei tedeschi che sono al 15° posto del mondo come attivi delle famiglie contro il nostro 12° posto162. Il nostro debito cioè è più elevato ma più garantito.
Si dice, però, che le banche europee sarebbero solide; l’EBA, il nuovo ente costituito da poco per controllare le banche europee, batte un colpo (l’unico, per il resto non si è notato) per dire che le banche europee sono sane, ma non la pensa così il commissario Bernier come si è visto, che osserva come con i salvataggi bancari (addossati al contribuente) bisogna finirla, non la pensano così le agenzie di rating che declassano le banche di vari paesi europei, non la pensa così il dott. Saccomanni che osserva, come abbiamo visto, che la crisi del debito sovrano è un permanente pericolo per le banche. Tutto ciò è anche a conoscenza degli hedge funds americani che hanno dislocato 100 miliardi di dollari sul mercato europeo per acquistare i gioielli di famiglia nelle banche europee, quando queste a causa della crisi dovranno svenderli163. Infine arriva la notizia che le banche spagnole stanno fallendo ed il loro salvataggio porterà il rapporto debito-PIL della Spagna (uno dei cinque grandi della UE) al 90,5% nel 2013; delle banche italiane parleremo tra breve, qui mi limito a dire che la situazione se non è spagnola non è certo positiva164.
Occorrerebbe, dunque, una politica di sviluppo, ma lo sviluppo si fa con le risorse ed allora si parla di 130 miliardi da investire, non molti per un colosso economico come la UE, ma meglio di niente, epperò si scopre subito dopo che i miliardi veri sono solo 10, un’inezia165.
Ma forse la UE non ha neanche quelli poiché ad inizio ottobre si viene a sapere che la UE stessa ha speso tutto mentre l’esercizio finanziario non è finito, per cui non è in grado di pagare neanche le fatture per il programma universitario “Erasmus”166.
Ancora una volta per trovare le risorse sarebbe necessario combattere il fenomeno dell’evasione fiscale, che nella UE è elevatissima come nel mondo intero del resto, è fin troppo noto che sul territorio della UE ci sono paradisi fiscali illustri e protetti come il Lussemburgo, le Isole della Manica francesi e inglesi, i territori d’oltremare francesi e inglesi, Gibilterra, l’Irlanda, nonché paesi che gravitano nell’orbita di potenze europee (pur essendo estranei all’UE) e cioè l’Andorra, Monaco e S. Marino. Il gruppo socialista del Parlamento Europeo ha incaricato il Tax Research di Londra di compiere una valutazione sull’evasione fiscale nei cinque grandi d’Europa, anno di riferimento il 2009167.
Come si vede le tasse evase sono elevatissime, noi siamo al top, ma gli altri tengono botta: la Spagna ha un PIL inferiore di 1/3 e tasse più basse delle nostre, per cui in termini relativi è molto più vicina a noi di quanto sembri (ma anche i suoi 72 miliardi non sono niente male). Qui come altrove la risposta è evidente: nell’UE gli Stati sono impotenti o conniventi con gli evasori per i motivi più volte visti, per cui sono a corto di soldi in tutti i campi dalla difesa, alla sicurezza alla spesa sociale ed allo sviluppo. Non si obietti che la Germania ha sottoscritto un patto di ferro con la Svizzera, per la lotta all’evasione, perché quel patto che si vorrebbe copiare anche da noi è un patto …. di mollica.
Infatti si prevede che i capitali occultati saranno tassati con aliquote variabili e la Germania riceverà quanto riscosso, ma chi farà tutto, dall’identificazione dei conti da tassare fino alla tassazione stessa, saranno gli svizzeri, mentre gli interessati (gli evasori) conserveranno l’anonimato168. Ora affidare alla Svizzera la severità fiscale sui capitali in fuga è logico come affidare la custodia del tesoro di Paperon de' Paperoni alla Banda Bassotti: gli svizzeri sanno benissimo che se facessero la faccia feroce ci sarebbero tanti altri paradisi fiscali disposti ad accogliere i capitali in fuga, né occorrerà andare lontano, quando Hollande ha avanzato la proposta della tassa al 75% sui redditi oltre 1 milione, Cameron ha invitato i capitali francesi ad emigrare nella City169, mentre alcuni esponenti del grande capitale gallico hanno minacciato di prendere la cittadinanza del Belgio, paese molto più accomodante in tema di fisco.
È questo il panorama deprimente dell’economia europea e le proposte fatte per uscire dalla stagnazione lo sono ancor più. Della politica di sviluppo si è detto: non c’è, come non c’è una politica del lavoro, né alcuna seria lotta all’evasione fiscale. Tutte le proposte sul terreno riguardano effetti e palliativi non le cause della crisi: fare gli eurobond potrà servire a qualcosa (forse), ma il problema è intervenire sulle cause che producono il debito piuttosto che dividerlo. Un sistema di garanzia bancarie e di vigilanza europea può servire a qualcosa, ma le banche annaspano perché l’economia reale annaspa, ed è lì che occorre intervenire, vigilare su chi annega non è una grande consolazione per chi va a fondo, ed una garanzia sulla bancarotta è efficace solo se la bancarotta è isolata, se è generalizzata non serve a nulla perché anche il garante sarebbe travolto. Lo stesso dicasi per la cessione di una parte del potere nazionale ad un centro sovranazionale, come ha proposto di recente Draghi in relazione alla formazione dei bilanci statali.
Lo stesso Draghi ha esortato gli Stati nazionali a non lamentarsi per la perdita della loro sovranità, in quanto tale sovranità l’hanno già persa nei confronti di un mercato da cui dipendono per il finanziamento del debito170. In questo ragionamento, però, c’è un evidente sfasatura logica: se gli Stati hanno perso la sovranità non possono cedere quello che non hanno più ad un organo sovranazionale. Ma a parte la evidente contraddizione, nel ragionamento di Draghi c’è un’inversione causa-effetto: a nostro avviso è accaduto il contrario, siccome gli Stati hanno perso la sovranità si sono indebitati, il che ha aggravato la loro posizione, abbiamo visto, infatti, che le IM sono in grado di far fallire politiche monetarie, fiscali e di bilancio a loro sgradite, cosa denunciata da Carli (nel 1971) e da Monti (nel 1997), per cui gli Stati sono costretti a fare politiche fiscali accomodanti verso le IM che di tasse pagano poco o nulla, sicchè gli Stati stessi si indebitano e diventano sempre più subalterni ai mercati dominati dalle IM. Si tratta di un circolo chiuso da cui non si sa come uscire, ed inventarsi una autorità sovranazionale che controlla i bilanci degli Stati e non le IM (che sono il nodo del problema) è solo fingere una soluzione.
Si potrebbe dire, tuttavia, che una soluzione c’è: il nuovo fondo salva Stati (ESM), dotato di ben 2000 miliardi di euro e quindi in grado di controbattere alle iniziative speculative e devastanti che arrivano dai mercati. Il guaio è che i 2000 miliardi sono una cifra virtuale o meglio irreale171, poiché la somma vera è 80 miliardi da sborsare in tre rate entro il 2014; con questa somma l’ESM potrà acquistare bonds degli Stati a rischio e poi presentarsi sul mercato e chiedere altri capitali garantiti dai bonds che ha comprato e così via172; in altre parole si comprano debiti per fare altri debiti in una spirale crescente di indebitamento, mentre il vero problema è spezzare questa spirale, si interviene ancora una volta sugli effetti e non sulle cause, l’impacco caldo sulla cancrena in altre parole.
Ma non è tutto. Se il mercato dovrà valutare le garanzie fornite dalla ESM e se il fondo ha acquistato, come è nella sua natura, titoli di Stati in difficoltà, è chiaro che questi titoli saranno poco considerati dal mercato, che non darà i capitali richiesti, oppure chiederà interessi esorbitanti che renderanno l’operazione costosissima173: Dovrebbero allora intervenire gli Stati per rifornire di capitali freschi l’ESM fino alla concorrenza dei 2000 miliardi prima indicati, ma il problema è dove gli Stati prenderanno questa cifra enorme? La tabella n. 3 è chiara: le finanze statali stanno affondando, sicchè gli autori della trovata chiamata ESM in realtà sperano che il mercato sottoscriva le emissioni del fondo contentandosi delle garanzie rappresentate da titoli spazzatura, una speranza irrazionale ed inconsistente: l’ESM è solo un bluff per dare la sensazione che l’Europa esiste e batte un colpo. E questa convinzione ormai si fa strada anche nell’ambito della stampa autorevole ed ufficiale: ad inizio anno sulle colonne dell’ “Economist” leggiamo: “Angela Merkel principale sponsor del trattato fiscale l’ha definito un grande successo. Ma c’è chi non è così entusiasta “è un diversivo” confessa un diplomatico. “Siamo passati dal dannoso all’inutile” gli fa eco un europarlamentare. Persino Mario Monti, di questi tempi l’italiano più apprezzato all’estero, ha definito l’accordo “un merlo decorativo”174.
Da allora nulla è cambiato, siamo passati da soluzioni decorative e di facciata a soluzioni di facciata e decorative.
6) Italia: i disastri e le gaffes del Governo tecnico
A fine 2011 arriva in Italia il Governo dei tecnici che chiude l’era Berlusconi, e che viene presentato come il “team” dei salvatori della patria, mantra nel quale non ho mai creduto, pur detestando Berlusconi, in poche parole siamo passati dalla padella alla brace. E valga il vero.
A) Il bilancio disastroso dei tecnici
Ad inizio anno il prof. Monti presenta il suo Governo come un Governo che rompe con “buonismo” precedente, ci vuole una cura drastica lacrime e sangue175. Evidentemente negli ultimi 40 anni, quando abbiamo subito stangate a ripetizione (negli ultimi 20 tremende)176 il prof. Monti era sulla luna. In realtà il Nostro cerca solo di accreditare per nuove politiche vecchie, stantie e fallimentari: il giornale della Confindustria pubblica una rassegna analitica delle manovre fatte da Berlusoni e Tremonti con relativi costi, che sono di gran lunga superiori a quelle di Monti177, il fatto è però che la manovra del professore arriva dopo 20 anni e più di donazioni di sangue, il corpo del paese è spremuto e non può tollerare altri prelievi selvaggi, le stangate si cumulano e diventano insostenibili, ma soprattutto inutili.
Il salvataggio attribuito a Monti è inesistente, Monti ha finito di strangolarci e lo dicono i numeri che i plauditori (o struzzi) del suo governo ignorano a cominciare proprio dai numeri della finanza pubblica. Il rapporto deficit-PIL si contrae un poco, ma quello debito-PIL si impenna: a fine 2011 siamo al 120,1%, nel primo trimestre 2012 siamo al 123,3%, nel secondo trimestre l’Eurostat ci accredita di un 126,1% e dei dati più recenti da record di Bankitalia abbiamo già parlato. Si impenna inoltre il costo del debito dal 5% e più del PIL per l’anno in corso al 6% e più nei prossimi anni178, ormai lavoriamo non per pagare il debito (nessuno sa come farlo) ma per pagare gli interessi sul debito. Se questo è un salvataggio sembra un impiccagione nel senso che siamo impiccati al debito e ai suoi costi crescenti. Il perché sia ciò non è un mistero: il presidente della Federauto osserva che , a causa del crollo dei consumi di auto, lo Stato ha perso 3 miliardi di incassi tra IVA ed accise179 , in altre parole se tagli i consumi con una politica di lacrime e sangue, tagli le entrate ed il debito risale, per Watson questo sarebbe elementare, ma non per il governo tecnico. Lo stesso dicasi per l’aumento dell’età pensionabile che riduce le entrate dell’INPDAP (passato all’INPS) per i motivi che abbiamo visto; il Governo tranquillizza se c’è un deficit sarà ripianato e si pagheranno le pensioni180, il fatto è che una tale politica doveva prevenire il deficit non contribuire a riprodurlo. In altre parole si fa cassa nel breve periodo senza curarsi delle conseguenze negative di medio e lungo periodo: la miopia al potere.
Quanto al PIL doveva calare dell’1,2% invece calerà del doppio, mentre, riferisce il FMI, che i capitali stranieri abbandonano l’Italia per 235 miliardi di euro (il 15% del PIL)181, possiamo consolarci con la Spagna dove la fuga è al 27% del PIL, ma è una consolazione amara.
L’occupazione poi è in caduta libera: l’8,3% di disoccupati a fine 2011 che diventano il 10,6% a settembre 2012 (35% disoccupazione giovanile), un dato spaventoso ma irreale poiché il nostro tasso di occupazione della forza lavoro è solo al 56,9%, un tasso “spagnolo” per cui non si capisce perché noi siamo al 10,6% e la Spagna al 25% e la risposta è semplice: statistiche da struzzi. Il fatto è che lo stesso prof. Giovannini, presidente dell’Istat, rileva (settembre 2012) che nella fascia di occupazione 18-29 anni, dove stazionano 7,7 milioni di persone in età da lavoro, è occupato solo il 40,3%, il 13% cerca lavoro ed il restante 46,7% è del tutto inattivo ed assente182, non studia, non lavora e non cerca lavoro, si tratta di 3,6 milioni di persone che non sono chiamati disoccupati ma inattivi o scoraggiati, sostanzialmente si gioca con le parole e con i numeri, il tipico atteggiamento da struzzo. Realisticamente il Ministro Passera ammetta che il problema del lavoro riguarda, direttamente o indirettamente 28 milioni di italiani (i vari disoccupati, scoraggiati, inattivi , precari con relative famiglie), e cioè poco meno della metà degli italiani183.
Ma non c’è solo la disoccupazione poiché il lavoro precario è un’altra piaga: ad inizio anno sono segnalati 690 mila contratti di lavoro a termine della durata di un giorno184, mentre il 68% dei nuovi contratti di lavoro è a termine nel primo semestre 2011185, poco male poiché per l’anno in corso una ricerca del Ministero del Lavoro con Unioncamere rivela che oltre l’80% dei nuovi contratti sono a termine186; in altre parole chi ha un lavoro a tempo determinato, quando lascia il mercato del lavoro viene sostituito da precari, il lavoro cattivo che scaccia quello buono, come era un tempo con la moneta.
I salari reali sarebbero fermi a livello del 1993, negli ultimi 10 anni gli stipendi medi sarebbero cresciuti solo di 29 euro, da 1.410 a 1.439187, quanto alle pensioni l’indagine Istat-INPS, certifica che nel 2010 il 38,8% non andava oltre i 499,9 euro mensili, ed un altro 30,8% si collocava tra 500 e 999,9188. Inoltre la Corte dei Conti nel mese di novembre 2012 ha rilevato che i conti INPS sono a rischio a causa della scarsità di nuove iscrizioni, e quindi di nuovi contribuenti (allarme analogo a quello lanciato dall’ILO 30 anni or sono e di cui abbiamo parlato)189 ed ha altresì rilevato che l’esplosione del lavoro precario e sottopagato renderà ancor più inadeguate le future pensioni190.
Pesantissima la pressione fiscale che grava, secondo l’OCSE, sui salari con un cuneo del 47,9% tra salario netto e lordo, siamo al 5° posto per incidenza del cuneo nell’area OCSE e solo al 23° posto come salario netto nel 2011191. Sempre nel 2011 la pressione fiscale era al 42,9% del PIL ma il dato è invecchiato , grazie a Monti, adesso siamo al 45% e siccome l’evasione è elevatissima accade che su chi paga le tasse la pressione arrivi al 55%, con punte del 70%, dati riferiti da Befera, responsabile delle Agenzie delle Entrate ad un convegno della Confcommercio192.
Ovviamente con simili salari, pensioni e pressione fiscale i consumi sono in caduta libera: saremmo fermi a 20 anni or sono193, calano le vendite al dettaglio, 700 mila case rimangono invendute, crollano i mutui casa194, crolla il mercato dell’auto195 etc. etc.
Quanto al risparmio la recente ricerca Acri-Ipsos ha evidenziato che, nel corrente anno, il 72% degli italiani non risparmia nulla (l’anno scorso eravamo al 75%) mentre il 31% per consumare deve attingere al vecchio risparmio o indebitarsi (29% l’anno scorso)196.
Ci si consola col mantra che “le nostre banche sono solide”, il fatto è però che, ad inizio anno il presidente dell’ABI (Mussari) rileva che le banche hanno accusato perdite per 26 miliardi nel 2011197 mentre la raccolta è in calo e le sofferenze aumentano del 20%198. A fine anno di nuovo Mussari rileva che le banche hanno 35 mila esuberi199; nel complesso un panorama alquanto deprimente e ovviamente, è il caso di ripeterlo, se l’economia reale va male le banche andranno anch’esse male, a meno di un intervento di mago Merlino.
Davanti a questo quadro disastroso, il governo a fine anno lancia segnali di ottimismo: nel 2013 avremo (a fine anno) la ripresa, la famosa luce in fondo al tunnel, epperò subito dopo (inizio novembre) l’Istat dirama le sue previsioni per il 2013: PIL – 0,5% (governo – 0,2%) , disoccupazione ufficiale (molto più bassa di quella reale) all’11,4% e cioè attorno ai 3 milioni, consumi – 0,7%, (contro il – 3,2% del 2012), se questa è luce sembra quella di un perdurante incendio. Sintomatico è il dato sulla disoccupazione, soprattutto rapportato alle dichiarazioni del governo sulla riforma del mercato del lavoro, volta a ridurre le tutele per favorire le assunzioni (intervista di Monti a Matrix di inizio anno), sembra evidente che il mercato del lavoro se ne infischia delle riforme del governo tecnico, stando almeno alle previsioni dell’Istat che fornisce al Governo i dati per la sua politica economica.
Si dirà che la colpa è della crisi, ma le crisi si affrontano con la politica economica, chi crede nel futuro del capitalismo e governa deve farlo, e l’efficacia della politica del lavoro posta in essere è del tutto nulla. Ancora: un sondaggio Bankitalia fatto tra settembre e ottobre 2012 è arrivato alla conclusione che il 30% delle imprese italiane chiuderà il 2012 in rosso e ridurrà il personale, l’anno scorso i dati erano 23,6% per le perdite e 29,3% per le riduzioni del personale200.
B) I provvedimenti del Governo tecnico
Ovviamente se i risultati del governo tecnico sono stati quelli suesposti potremmo risparmiarci di analizzare in dettaglio le molte decisioni prese, tutte fallimentari, tuttavia lo faremo per evidenziare come l’attuale classe dirigente italiana sia in stato confusionale, balbetti e improvvisi, rimediando uno strafalcione dopo l’altro. Dei provvedimenti lacrime e sangue (istituzione dell’IMU, aumento di accise, IVA ed addizionali, aumento dell’età pensionabile, etc.) si è già implicitamente detto: il solito taglio di consumi, salari e pensioni che, cumulandosi ai precedenti ha portato ad una recessione da cui non sappiamo come e quando usciremo, c’è solo qualcuno che periodicamente ci dice che si vede la luce infondo al tunnel, che vi sono segni di ripresa etc., più o meno come Hoover nel 1929-32, che per questo si coprì di ridicolo e si fece per giunta la fama di menagrano perché subito dopo le dichiarazioni ottimistiche arrivavano dati disastrosi che suonavano come uno sberleffo.
Tornando ai nostri tecnici assieme al decreto “salva Italia” (quello con stangate varie) ne viene varato un altro detto “cresci Italia” volto a stimolare la ripresa. Come? Aprendo il mercato e suscitando nuove energie: bisogna cioè attaccare le lobbies che ingessano il mercato e soffocano le forze potenziali dell’economia. Ma chi sono i reprobi in questione? Il prof. Monti ben conosce gli interessi forti che dominano il mercato e condizionano la politica di bilancio e fiscale degli Stati, le IM che egli denunciò nel lontano 1997 come si è visto201. Epperò nel corso degli anni deve essersene dimenticato perché il decreto in questione colpisce tassisti, farmacisti e notai che sarebbero i veri nemici dello sviluppo economico italiano ed i veri responsabili della crisi; in verità c’è anche una puntatina contro l’esosità delle commissioni bancarie, ma dopo la levata di scudi dei banchieri rientrerà rapidamente202.
Francamente non si sa se ridere o piangere: qualche migliaio di posti di lavoro per nuovi tassisti o nuovi farmacisti (nella migliore delle ipotesi) non cambia certo il problema occupazionale italiano che ha ben altra dimensione. Inoltre, si prevede, per favorire l’imprenditoria giovanile la possibilità di creare per gli under 35 delle srl senza costi e con un solo euro di capitale (avete letto bene), costoro dovrebbero aprire il mercato alla concorrenza lottando contro le grandi ed invadenti IM che hanno ben altra potenza economica203. È come se il generale Montgomery avesse chiesto ai suoi fanti, durante la seconda guerra mondiale, di attaccare i carri Tigre tedeschi da 65 tonnellate con le sciabole di latta. Si noti poi che il giudizio dell’UE (presso cui Monti gode una notevole stima) sui provvedimenti volti ad aprire il mercato è stato fortemente negativo: con un comunicato del 6/10/12, l’UE rileva che l’Italia negli ultimi sei mesi ha realizzato il peggior risultato di sempre per quel che riguarda le norme per l’attuazione del mercato unico204.
Evidentemente, però, i provvedimenti “sciabole di latta” non bastano ed a giugno il governo vara un nuovo decreto “sviluppo Italia”, che conterrebbe 80 miliardi di investimenti, cui però nessuno crede, ed alla trasmissione “Ballarò” del 19/6/12 il sottosegretario Catricalà ammetterà candidamente che la cifra vera è poco più di un miliardo in tre anni, 350 milioni l’anno più o meno: una miseria.
C’è poi la politica del lavoro che si esprime tra l’altro nella controriforma dell’art. 18 Statuto dei lavoratori: i lavoratori hanno troppe tutele sicché i poveri capitalisti non potendo licenziarli, non assumono nuovi dipendenti205 ancora una volta un’asserzione risibile; in un paese con una disoccupazione elevatissima e dove il lavoro precario si estende a macchia d’olio, è evidente che è possibile creare disoccupazione: in un simile paese: nulla vieta ad un imprenditore di licenziare il proprio dipendente per scarso rendimento , per crisi aziendale, per utilizzo di tecnologie che rendano esuberante il lavoratore etc., in tutti questi casi esiste un giustificato motivo sia oggettivo che soggettivo, come nulla vieta ad un imprenditore di sostituire lavoratori a tempo indeterminato che si ritirino dal mercato del lavoro, con lavoratori precari o di non sostituirli affatto, o di chiudere fabbriche e trasferirsi in Serbia o Romania e così via, che da noi le tutele siano eccessive è una asserzione che non sta né in cielo né in terra, la verità è che gli unici licenziamenti che sono veramente vietati sono quelli per rappresaglia politico-sindacale o per avversione personale e cioè una minoranza trascurabile dei licenziamenti, tanto è vero che le cause di lavoro che riguardano la riassunzione del lavoratore sono solo 300-500 il 2-3‰ su un monte cause di lavoro di 160 mila206.
Inoltre non è certo che per questo motivo che gli investitori stranieri non vengono da noi, a tal proposito lo stesso Monti ha riferito che il sovrano del Quatar , da lui incontrato, gli aveva detto che le remore ad investire in Italia erano due: lentezza burocratica e corruzione207, l’art. 18 non era citato; più o meno nello stesso periodo il presidente della Confindustria Squinzi parlando della riforma Fornero, imperniata sulla “contrazione” della’art. 18 la definì una “vera boiata”, cosa che destò grandissimo scalpore perché non si era mai visto un presidente della Confindustria che trattasse con tanto esplicito disprezzo la politica del Governo.
Ad onor del vero però Monti una sua idea di riforma del lavoro ce l’aveva e consisteva nel tutelare non tanto il posto di lavoro ma il lavoratore, secondo un modello che ha avuto la sua massima espressione in Danimarca dove il lavoratore che perde il lavoro è accompagnato a trovare altri posti di lavoro alternativi e nel frattempo gode di una indennità di disoccupazione di 1.600 euro superiore allo stipendio medio di un lavoratore italiano, che come si è visto si aggira sui 1.439 euro; ovviamente il lavoratore licenziato in Danimarca non può rifiutare il nuovo posto di lavoro che gli viene offerto per cui può capitare che un professore universitario finisca col fare il postino208.
Senza dubbio una riforma avanzata ma che interviene sugli effetti non certo sulle cause: la disoccupazione in Danimarca è al 7,5% ed imporre ad un professore universitario di fare il postino non è certo moralmente condannabile, ma è economicamente assurdo, se produci un urbanista, uno specialista di letteratura nordica, un informatico etc. impegnerai delle risorse sia dello Stato che del singolo, mandarlo poi a fare il postino significa ammettere che quelle risorse sono state sprecate e questo non è certo razionale economicamente. Il modello danese, dunque, non manca di contraddizioni e limiti ma è soprattutto un modello che richiede un notevole esborso economico (un’indennità di disoccupazione da 1.600 euro mensili non è cosa da poco) ed infatti in quel paese la spesa per gli ammortizzatori sociali assorbe il 3,37% del PIL contro l’1,84% italiano209, e qui vale la solita considerazione che non puoi fare le nozze con i fichi secchi: se vuoi imitare il modello danese, pur con i limiti che indubbiamente vi sono, devi spendere come in Danimarca e non come in Italia altrimenti fai solo una caricatura da quattro soldi (nel senso letterale del termine).
Ancora. La vicenda incredibile e vergognosa degli esodati: l’aumento dell’età pensionabile lascia un numero enorme di lavoratori, precedentemente spinti ad andare in pensione anticipata, senza stipendio e senza pensione per alcuni anni. Il governo tecnico si accorge del problema ed emana un decreto per 65 mila esodati, che potranno usufruire del vecchio regime, epperò dall’INPS trapela che il numero vero degli esodati è di gran lunga superiore sarebbero più di 300 mila; il Ministro Fornero insorge con una strana e contorta smentita secondo cui i dati sarebbero imprecisi e non critici, a sua volta il dott. Plateroti, vicedirettore del giornale della Confindustria rileva che qualche settimana prima il dott. Mastrapasqua, direttore dell’INPS, aveva fornito il dato in una audizione alla Camera senza che la signora Fornero obiettasse alcunchè210, per cui la tardiva smentita della signora Fornero appare alquanto dubbia. Peraltro il governo ha dovuto estendere la platea ad altri 55 mila esodati e poi ancora ad altri 10 mila, ed altri 10 mila ancora, ma quale sia il numero reale non lo sappiamo ancora, più volte ci è stato detto che sarebbe stato reso pubblico ma, mentre chiudo questo articolo, ancora rimaniamo a valutazioni fatte da fonti indipendenti, il governo tace e da più parti gli si fa notare che tecnici che giocano con i numeri e con la vita delle persone, non sono uno spettacolo edificante211.
Al di là di confusione e di improvvisazione quello che colpisce è che il governo non abbia valutato la conseguenza dell’innalzamento dell’età pensionabile in un momento di crisi pesantissima. Se aumenti l’età, con esuberi che crescono continuamente (i 35 mila delle banche solo per fare un esempio) il rischio, non solo in Italia, è che crei persone che si troveranno senza stipendio e senza pensione e che non potranno consumare e sostenere così l’economia (a parte ogni considerazione morale, che, per gli imbecilli, non ha peso alcuno ma che per me ce l’ha). Anche qui l’impressione che si ricava è di un governo che procede a tentoni ed alla giornata, e che non sa valutare in anticipo le conseguenze della propria azione, sono tecnici appunto.
Non meno fallimentari sono stati i provvedimenti sulla spending review, provvedimenti volti a ridurre gli sprechi per i quali ci sarebbe un vasto campo basti pensare agli aerei F35 che ci dovrebbero costare 12 miliardi di euro per difenderci non si sa bene da quale pericolo che viene dall’aria212, o ai costi enormi di corruzione ed evasione fiscale, invece accade che si riducano le spese per la ricerca scientifica, sicchè 30 scienziati faranno appello a Monti perché tali tagli siano revocati213, mentre il prof. Giovannini dirigente dell’Istat osserva che, a causa dei tagli, dal gennaio 2013 non potrà più produrre statistiche, il che è il colmo per un governo di tecnici e di economisti214. Si riducono, accorpandole, le province ma senza licenziare i dipendenti, il che è giusto ma riduce il risparmio a molto poco (si parla di qualche centinaio di milioni).
Nel frattempo la ragioneria centrale dello Stato ci fa sapere che l’Italia non riesce ad usare i fondi strutturali europei per i quali ha ottenuto 59,4 miliardi nel periodo 2007-2013, di cui sono stati spesi solo 16,1 miliardi, rimangono non spesi 43,3 miliardi che l’Italia perderà se non saranno usati per la fine del 2013215; il governo ha cercato di fare qualche cosa ma senza grandi risultati216.
Ancora, l’anno scorso sulla scia di una bella ricerca di Nunzia Penelope ho rilevato che il governo non riscuoteva ben 45 miliardi l’anno di propri crediti, 450 miliardi negli ultimi 10 anni217, una cifra enorme, ma non risulta che si sia fatto nulla, il nostro Stato non è nei guai solo per i debiti ma anche per i crediti che non riesce a riscuotere.
Infine l’evasione fiscale e la corruzione: 120 miliardi le tasse evase per il governo, molte di più per il Tax Research londinese come si è visto, e anche per la nostra Corte dei Conti, che stima il peso di evasione e corruzione a 200 miliardi l’anno218, ciò che viene rilevato anche da altre fonti219. Inoltre la Banca d’Italia a metà 2012 pubblica uno studio secondo cui l’evasione concerne il 31% del PIL (e non il 17-18% come sostiene il governo), in quanto oltre al PIL legale nascosto (18-19%) c’è il PIL della criminalità, un altro 12%, il che con una pressione fiscale del 45% del PIL fa ascendere il volume delle tasse evase a 220-230 miliardi220. Intendiamoci non voglio sostenere che occorra pagare le tasse sul commercio di coca o lo sfruttamento della prostituzione, ma che quei capitali e quelle risorse andrebbero confiscati e reimmessi nell’economia legale in attività legittime e tassate.
Befera, responsabile dell’Agenzia delle Entrate ammette che il fenomeno è enorme ma non si dimette per la palese inutilità della sua agenzia, che andrebbe sciolta (dati i risultati) in sede appunto di speding review. Gli obiettivi della lotta all’evasione che vengono proposti sono sempre 10-12 miliardi l’anno da recuperare, il che, come ho detto negli anni passati221, è uno spot per l’evasione fiscale poiché il rischio statistico di incappare nella maglie del fisco è minimo (il 5-6% delle probabilità), poi se ti beccano comincia la lotta defatigante dei ricorsi e se tutto manca la PA può dimenticarsi di riscuotere il suo credito, cosa frequentissima, che all’occorrenza può essere incentivata (corruzione). Si noti poi che queste cifre non hanno nulla di eccezionale: che in Italia circa 1/3 del PIL sia occultato è cosa che era già stata rilevata nel libro bianco del Ministero delle Finanze nell’ormai lontano 1977222. Basterebbe, dunque, che lo Stato annullasse l’enorme massa delle esenzioni IVA (oltre 38 miliardi), poiché i gruppi sociali che dovrebbero pagare quella tassa la evadono largamente, un’esenzione doppia è veramente eccessiva (lavoratori autonomi ed imprenditori si autoesentano evadendola), ma nessuno ipotizza queste soluzioni che sarebbe “staliniste” o da Stato di polizia tributaria, e così il bilancio dello Stato salta e scopriamo che il welfare è un lusso che non ci possiamo permettere, come le pensioni oltre i 1000 euro, e conseguentemente si tagliano i consumi e lo sviluppo economico e oscilliamo tra ristagno e recessione da oltre 20 anni.
La corruzione, un’altra tassa enorme che fa lievitare del 40% il costo delle opere pubbliche, come rileva la Corte dei Conti223, e ad ottobre il governo conferma questi dati pubblicando un libro bianco sulla corruzione da cui si evince che il nostro tasso di sviluppo nel periodo 1970-2000, con una corruzione “normale”, sarebbe stato doppio e ancor più elevato negli anni più recenti. Nel frattempo il parlamento approva la legge anti-corruzione, che solleva critiche pesantissime per la sua timidezza in tema di ritorno ad un vero falso in bilancio (dopo la controriforma di Berlusconi), di prescrizione, di concussione (lo scorporo del reato in due ipotesi di cui una più lieve devitalizza in parte la norma), mentre il reato di auto-riciclaggio (il reinvestimento delle mazzette avute come prezzo della corruzione) non è previsto224. Ad ottobre l’On. Buongiorno, presidente della Commissione Giustizia della Camera, dichiara in un’intervista ad “Otto e mezzo” ( TV LA7 ), che nell’attuale legislatura non c’è stato grande interesse per la lotta alla corruzione, la Camera si è occupata di altro, del lodo Alfano (le vicende giudiziarie di Berlusconi) e dell’ipotesi di ridurre l’incidenza delle intercettazioni telefoniche, ciò che certo avrà terrorizzato mafiosi e corrotti. Non sembra che il nuovo governo segni una seria inversione di tendenza rispetto al passato.
Un panorama nel complesso disastroso e sinanche in un giornale come “Repubblica”, filomontiano dalla prima ora, si ritrovano giudizi molto pesanti sul governo (ci si rende conto che la liberazione del Berlusconi ha avuto costi pesantissimi) tra questi citiamo quello di Riva , secondo cui il governo ha preso decisioni “di insolita durezza” “poi ha creduto o ha fatto finta di credere che chissà quali stimoli alla crescita potessero venire da provvedimenti di dubbia efficacia e di mal certa gestione, come i decreti sulla liberalizzazione e la semplificazione”, quanto alla riforma dell’art. 18 è definito “un inutile teatrino”225.
C) I nodi irrisolti dell’economia italiana
L’economia italiana presenta vari nodi irrisolti con cui il governo tecnico avrebbe dovuto confrontarsi e cioè: a) L’enorme debito pubblico; b) la disoccupazione in particolare quella dei giovani; c) la bassa produttività e competitività del nostro sistema economico.
Sul primo punto è evidente che bisogna trovare un mezzo per ridurre il debito, poiché il peso oppressivo degli interessi mangia una parte rilevante della ricchezza nazionale, che può emigrare all’estero (impoverendo il paese), dal momento che una fetta consistente del nostro debito è in mani straniere che, in questi ultimi tempi, come si è visto, non prediligono l’investimento in Italia anzi sono in fuga dal nostro paese. Fioriscono, dunque, i piani per il rientro dal debito e si mira alla vendita dell’enorme patrimonio edilizio pubblico (carceri e caserme e dismesse per fare un esempio) e girano cifre e valutazioni rilevanti ma anche molto criticabili in dettaglio226. Senza, però, entrare nei particolari dei singoli progetti, due cose in via generale sono da porre in rilievo: quando vendi in una situazione profonda crisi, non vendi ma svendi a prezzi di strozzo, chi compra, in genere, sono fondi speculativi specializzati in “operazioni avvoltoio” che sono tra i pochi a disporre della liquidità necessaria, inoltre, caserme o carceri non sono facilmente riciclabili e richiedono ulteriori spese di intervento ai fini della riconversione ad altri scopi profittevoli.
Si corre il rischio, cioè , di ottenere molto poco; inoltre (e questo rilievo è anche più pesante) si interviene sugli effetti e non sulle cause (la produzione del debito), per cui se continuano ad operare le cause che hanno prodotto il buco nero che divora tutto, c’è il rischio che si buttino anche le poche entrate ottenute, già in passato si sono operate vendite di rilievo (ad. es. azioni ENI) e non è cambiato nulla. Occorrerebbe una politica di intervento sulle cause che manca del tutto.
Sui giovani e sulla loro disoccupazione Monti in un’intervista a “Sette” del 27/7/12 ha detto: “Esiste un aspetto di generazione perduta purtroppo. Si può cercare di ridurre al minimo i danni, ma più di attenuare il fenomeno con parole buone credo che chi (…) partecipa alle decisioni pubbliche debba guardare alla crudezza di questo fenomeno e dire: facciamo il possibile per limitare i danni alla generazione perduta, ma soprattutto impegniamoci a non ripetere gli errori del passato e a non creare altre generazioni perdute”227. Qui con estremo candore, Monti ammette che non sa cosa fare davanti alla disoccupazione giovanile, le sue esortazioni del passato, del tipo “non fossilizzatevi nella ricerca di un noioso posto fisso”, oppure “cercate di andare all’estero”, nascondono una verità molto semplice: il governo dà per scontato che l’attuale generazione di giovani sia perduta, non sa cosa fare (al di à di qualche palliativo e di qualche buona parola) anzi potremmo dire che Monti è conscio di aver dato un contributo alla “perdita” dell’attuale generazione di giovani. Un’economista, per quanto ottocentesco come Monti, non può ignorare che se si eleva l’età pensionabile, in un momento in cui l’occupazione si contrae stabilmente in Italia e all’estero (per cui l’invito di andare all’estero è platonico)228, si contraggono altresì gli sbocchi occupazionali per i giovani: è stato stimato, infatti, dal CNEL, che nel 2020, grazie alla riforma Fornero, gli over 57 al lavoro saranno il 46,9% contro il 25% attuale, cresceranno gli occupati vecchi e si ridurranno parallelamente i giovani a causa dell’aumento dell’età pensionabile229.
La risposta a questi rilievo è che il prolungamento dell’età pensionabile era obbligato per salvare i conti degli enti previdenziali, ma una risposta di questo genere è assolutamente miope. La disoccupazione giovanile è l’espressione della contrazione del mercato del lavoro che non produce nuovi posti, per cui i giovani rimangono a piedi, la loro disoccupazione è l’espressione di una tendenza generale del sistema, non è un problema che riguardi solo i giovani, non sono loro una generazione perduta ma è il sistema che si sta perdendo o disfacendo; inoltre abbiamo visto che se l’occupazione si contrae, si riduce il numero dei contribuenti e dei contributi agli enti previdenziali per cui i loro conti saltano, così assieme alla “generazione perduta” si perdono pure i conti degli enti previdenziali, sempre che si sappia guardare al di là del proprio naso.
In sintesi se non si risolve il problema dell’occupazione giovanile non si risolve il problema dell’occupazione in generale ed il sistema rimane stabilmente depresso, e la depressione del sistema manda in tilt gli enti previdenziali.
Il terzo e ultimo nodo dell’economia italiana è la bassa produttività e competitività, che, in passato, dal ’70 al ’79 aveva uno dei tassi di crescita della produttività più elevati al mondo230. Chi, come me, quegli anni li ha vissuti ricorda benissimo le lamentazioni delle industriali sulla bassa produttività dei nostri operai, troppo conflittuali e poco diligenti sul lavoro, per cui gli investimenti erano scarsamente dinamici; è una tesi che contestai allora231, adesso, “a babbo morto”, apprendiamo che erano balle. Ma, dopo esserci tolta questa piccola pietra dalla scarpa, occorrerà considerare il perché oggi la produttività è bassa e la risposta è semplice: in Italia non mancano gli investimenti, ma sono carenti gli investimenti in macchinari e tecnologia: tra il 2000 e il 2010 il peso degli ammortamenti sul fatturato cala dal 6,5% al 3,8%, mentre la vita dei macchinari passa da 10 a 16 anni, livello bassissimo per UE ed OCSE232. D’altro canto se l’economia ristagna e gli impianti rimangono inutilizzati (54% è il tasso di utilizzo nell’industria dell’auto, come si è visto) investire di più diventa difficile. Inoltre aumentare la produttività crea una situazione occupazionale in caduta libera, come abbiamo più volte sottolineato, il che acuisce il ristagno-calo dei consumi e scoraggia nuovi investimenti in macchine e tecnologie. Un altro circolo vizioso insolubile, e dal momento che il circolo vizioso è insolubile il governo “saggiamente” non fa nulla.
Parte seconda: Per una rifondazione della teoria del crollo
7) Economia politica borghese e marxismo sulla teoria del crollo
E’ largamente dominante la tesi che la teoria del crollo del capitalismo sia di matrice marxista, mentre l’economia politica liberale in larga misura ne prescinde, considerandola ideologica e politica ma non scientifica. In realtà, però, la situazione è molto più complessa di quanto sospettino i sostenitori delle due correnti di pensiero233. Osserva in proposito Galbraith che in USA, dopo la grande crisi del 1907, si diffuse il timore che il capitalismo potesse crollare, timore che contagiò anche i repubblicani americani234.
Poi, durante la prima guerra mondiale, un grande borghese (nel senso migliore del termine) Walter Rathenau, amministratore del grande trust elettrico AEG, scrisse, nel 1917, un piccolo libretto in cui, con chiarezza cartesiana, sosteneva che l’economia di mercato concorrenziale ed “anarchica”, era finita: solo con un massiccio e generalizzato intervento dirigistico nell’economia da parte dello Stato (come negli anni di guerra) il capitalismo poteva sopravvivere, altrimenti … …
Leggiamo infatti:
Un grandissimo capitalista, che maledice la libertà di mercato e l’adorazione della ricchezza e benedice la lotta di classe e l’egualitarismo, non si era mai visto! E si vedrà ancora per poco: come Ministro degli Esteri della Repubblica di Weimar, Rathenau aprì alla Russia di Lenin ed alcuni esponenti della destra tedesca, che poi partorirà il nazismo, uccisero il “traditore” nel 1922.
Nel frattempo, però, le tesi di Rathenau non sembravano attecchire: gli USA del primo dopoguerra tornarono al liberismo più sfrenato, mentre l’Europa annaspava alla ricerca di nuovi equilibri, lontanissima dai sogni del capitalismo regolato e non più dominato dalla concorrenza mercantile, epperò con la crisi del 1929 e la Grande depressione, le idee di Rathenau tornarono di attualità, anche se esse vennero attribuite a Keynes e a Roosevelt, Rathenau fu uno di quelli che vinsero da morto. Si affermò allora una visione dello Stato che si assumeva in prima persona il ruolo di promotore del pieno impiego e con esso di sostenitore di salari e consumi, con un sistema che si chiamò Welfare State, sicché nel 1971 un economista anglo-polacco di matrice marxista, Kalecki, arrivò a sostenere che il capitale aveva sconfitto il ciclo e le crisi garantendo uno sviluppo continuo senza scosse e rotture di rilievo236. Mai profezia fu più inopportuna: ad agosto 1971 la crisi e l’inconvertibilità del dollaro, a febbraio 1973 seconda crisi del dollaro, a fine anno la famosa crisi energetica con crollo della produzione e impennata dell’inflazione a due cifre e col riemergere della disoccupazione di massa.
Ritorna alla grande la crisi e le teorie di Keynes, fin ad allora dominanti, finiscono sul banco degli imputati: se lo Stato spende e la disoccupazione riemerge vuol dire che lo “statalismo” è fallito, sicché occorre ritornare al mercato, i monetaristi e i marginalisti riprendono slancio ed il liberismo impazza: espressioni come “meno Stato più mercato”, “il welfare è un lusso che non ci possiamo permettere”, “lo Stato non è la soluzione ma il problema” (Reagan), diventano il mantra del momento, anche se, come abbiamo visto, personaggi alla Reagan predicano in un modo e razzolano nell’altro, sicché l’inno all’austerità altro non è che il modo per far pagare ai lavoratori ed alle classi subalterne i costi di un sistema sempre più asfittico ed imballato.
In realtà la forza delle teorie liberiste non sta nei buoni argomenti ma nel fallimento (dopo decenni di successi) del keynesismo e nell’affermarsi, soprattutto, di un enorme potere sovranazionale privato (le IM) che è interessato a ridurre il peso dello Stato, a non pagare le tasse e ad imporre i propri interessi sul bilancio statale (la spesa militare ne è un esempio), e che adesso ha la possibilità di realizzare questi interessi come mai prima237. La forza delle teorie liberiste non riposa sulla logica ma sugli interessi che le sostengono, chi è più forte può rendere logiche anche le teorie più illogiche dal razzismo di Hitler alla bontà del capitalismo selvaggio e deregolato.
Eppure il contrasto con la realtà è così evidente che anche nella cultura dominante emergono paure e perplessità sul destino di questo capitalismo selvaggio che predica la razionalità autoregolante del mercato e va incontro a problemi e crisi sempre più frequenti. Accade allora che un economista indiano, all’epoca capo dell’Ufficio studi del FMI, ed un economista italiano, esponente della scuola conservatrice e liberista dei “Chicago boys” scrivano un libro dal titolo emblematico “Salvare il capitalismo dai capitalisti”, dove si rileva la sostanziale degenerazione del sistema che non è più un’economia della produzione ma dell’appropriazione indebita generalizzata (e cioè dell’imbroglio)238, fa loro eco un vecchio “liberal” come Galbraith che parla di un’economia della truffa239, ed un’economista banchiere inglese, che vede nella finanza internazionale molto più una bisca per giocatori d’azzardo che non un’occasione di sviluppo240.
Il senso di queste ricerche può essere riassunto in un’espressione: “così non si può più andare avanti”; riemerge il timore che il capitalismo si trovi davanti ad una stagnazione (o stagflazione) di lungo periodo senza serie prospettive di ripresa, tesi questa sostenuta da Hansen negli anni ’40 (la c.d. stagnazione secolare) che scriveva: “Questa è l’essenza del ristagno secolare, deboli riprese che soccombono nella loro infanzia e depressioni che si autoalimentano e lasciano un duro e apparentemente ineliminabile strascico di disoccupazione”241. Parole che furono scritte nel 1941 e che sembrano scritte ieri.
Come si vede, anche all’interno della cultura accademica liberale, le perplessità sull’eternità del capitalismo e della sua impermeabilità al crollo sono rilevanti per quanto minoritarie.
Altro discorso per il marxismo: qui in un primo tempo sembrò pacifico che esistesse in Marx una teoria del crollo, scriveva il giovane Lenin: “Il signor Struve dice che Marx ha concepito il passaggio dal capitalismo ad un nuovo regime sociale sotto forma di una brusca caduta di un crollo del capitalismo (egli ritiene che autorizzano questa interpretazione “alcuni passi” di Marx, mentre in realtà questa tesi è contenuta in tutte le opere di Marx)242”. È difficile essere più chiari e recisi di così, ma passano alcuni anni (pochi) ed il giovane Lenin scriverà (a proposito della teoria del crollo): “Questo non è che un travisamento ad opera degli avversari, i quali espongono unilateralmente la teoria di Marx, prendendo a casaccio singoli passi da singole opere per poi confutarne trionfalmente “l’unilateralità” e “la grossolanità”. In realtà Marx ed Engels facevano discendere la trasformazione dei rapporti economici dell’Europa occidentale dalla maturità e dalla forza delle classi che la storia europea contemporanea aveva spinto in primo piano”243.
Dal crollo oggettivo del sistema si passa alla trasformazione della società dovuta alla lotta di classe, la teoria del crollo, usata come arma polemica contro i socialisti, viene precipitosamente abbandonata e si nega addirittura che Marx ed Engels l’avessero mai sostenuta, un modo di agire polemico che, con lo stalinismo, diventerà normale: quando qualcosa detta da Marx o da Engels era imbarazzante si negava che l’avessero mai detta, al più in qualche caso si parlava di un capzioso travisamento di quanto avessero sostenuto.
In realtà in Marx non c’è una teoria del crollo, ma ce ne sono due, alternative e contraddittorie, e dobbiamo porci il problema di un’analisi critica di esse non per stabilire “quello che ha veramente detto Marx”, che è un problema da chierichetto dogmatico del marxismo, che mi lascia del tutto indifferente, ma per vedere se in Marx ci siano spunti che corrispondano alla dinamica del capitalismo attuale che si è avviato verso il crollo anzi lo sta già vivendo. Non mi interessa un’analisi filologica per chierichetti, ma l’analisi di una realtà che viviamo (che è poi è quella da dove siamo partiti) per vedere se al suo interno è possibile recuperare le intuizioni di Marx. Ma il problema vero è l’analisi della realtà presente non la riscoperta del Verbo.
8) La veneranda (ed inutile) legge della caduta tendenziale del tasso di profitto. Una critica radicale
La veneranda legge della caduta tendenziale del tasso di profitto porta senza dubbio ad una teoria del crollo, infatti se il tasso di profitto tende a calare nel lungo periodo verrà un momento in cui si azzererà o sarà a livello tanto basso da impedire la riproduzione del capitale che, come è noto, opera in funzione della realizzazione del profitto che è il suo fine e la sua molla vitale, scrive in proposito Mandel: “La teoria del crollo è basata in ultima analisi su questa impossibilità per il capitale di compensare a lungo andare, la caduta tendenziale del tasso medio di profitto con l’aumento del tasso di plusvalore …”244.
Prima, però, di passare all’analisi ed alla confutazione di questa legge, occorre delimitarne bene il significato: quando Marx parla di profitto non allude solo al profitto industriale (come Ricardo) ma a tutte le voci che compongono i redditi di plusvalore e cioè profitto industriale (o manifatturiero), profitto commerciale, interesse e rendita, leggiamo infatti (nel Capitale):
Il plusvalore poi si divide tra varie categorie di persone: capitalista industriale, banchiere, rentier e commerciante, ma è tutto il plusvalore che tende a decrescere in rapporto a tutto il capitale anticipato (secondo Marx), questa precisazione è importante perché i marxisti ortodossi e (dogmatici) nei pochi riscontri empirici sull’operare della legge che essi fanno, considerano solo il profitto manifatturiero246, che potrebbe calare anche in rapporto ad altri redditi di plusvalore, come ad esempio l’interesse bancario con cui il profitto industriale è spesso in rapporto inverso: un’industriale in difficoltà può essere costretto a pagare interessi elevati alle banche trasferendo ad esse una parte dei propri profitti, ma questo significa solo che c’è un trasferimento di ricchezza all’interno della classe dominante ma non la caduta di tutto il tasso di profitto, inteso come tasso di plusvalore generale.
Ciò premesso da che deriva la pretesa caduta tendenziale del tasso di profitto? Deriverebbe dal fatto che il plusvalore trae la sua origine dallo sfruttamento della forza lavoro, il c.d. capitale variabile rappresentato dai salari che, però, tendono nel lungo periodo a contrarsi, sicché la parte del capitale che crea ricchezza (per Marx le macchine non producono ricchezza ma sono gli uomini a produrla azionando le macchine che sono un prolungamento della mano e del cervello umano) tende a ridursi e così si riduce la fonte stessa che crea il profitto; in altre parole il capitale riducendo il volume del capitale variabile tende ad autodistruggersi perché riduce la fonte dei profitti stessi. Ovviamente la prima obiezione che viene in mente a questo asserto teorico è che se è vero che il capitale contrae la forza lavoro ed i salari, è anche vero che accresce la produttività del lavoro grazie all’uso delle macchine, per cui abbiamo meno operai e meno capitale variabile ma molta più produttività. Marx non ignora questo fatto che gli è evidente ma ritiene che nel lungo periodo la contrazione del capitale variabile non sia più compensata dall’aumento della produttività, quest’ultimo sarebbe solo una controtendenza che frena ma non rovescia la tendenza prevalente quella cioè che si afferma nel lungo periodo247.
Fin qui l’illustrazione della legge, che è minata da varie contraddizioni che la rendono insostenibile.
A) Crescita della produttività e caduta del tasso di profitto
Esiste una prova che l’aumento della produttività sia solo una controtendenza frenante? Il marxista nordamericano Paul Sweezy (che molto ha influenzato la mia formazione culturale) ne dubitava248 ed ha ragione, anzi nel primo volume del Capitale Marx dice a chiare lettere che nulla è impossibile per l’aumento della produttività del lavoro249, non c’è dunque nessun motivo per ritenere che essa debba crescere meno dell’aumento del capitale investito, tutto il discorso di Marx nel terzo volume del Capitale (opera che è una raccolta di bozze incompiute pubblicata dopo la sua morte) è un discorso astratto fondato su equazioni matematiche prive di verifica empirica. È il discorso tipico di un economista politico tradizionale (non di un critico dell’economia politica); qualche decennio fa vi fu una ricerca fatta sugli articoli della “American Economic Review”, rivista ufficiale degli economisti americani, che evidenziò come negli articoli pubblicati sulla rivista stessa vi fossero, nella metà dei casi, solo ricerche matematiche prive di verifiche empiriche, mentre in un altro 25% dei casi, le verifiche fossero molto limitate (in Italia le conclusioni della ricerca furono pubblicate sul giornale “Il Manifesto”). Ora è ben noto che si possono tranquillamente manipolare i dati di un’equazione in modo da addomesticarne i risultati: nel caso in esame se io calcolo che il capitale crescerà del 100% e la produttività solo dell’80% è evidente che, a parità di tutte le altre condizioni, il saggio di profitto calerà. Ma avviene questo nella realtà, e Marx lo verifica empiricamente? Assolutamente no, anzi nel primo volume del Capitale vi sono dati empirici che vanno in senso del tutto opposto: abbiamo visto che Marx nota come nell’industria tessile (cuore dello sviluppo inglese) la produttività del lavoro cresca di 200 volte nell’arco di un secolo, ciò che si produce nell’’800 con 500 mila operai avrebbe richiesto nel secolo precedente 100 milioni di addetti, il che significa che la produttività è cresciuta di 200 volte e cioè del 20.000% , un’enormità, e per quanto ne sappiamo dagli studi sulla rivoluzione industriale inglese, il capitale investito crebbe di alcune volte in un secolo e non certo di 200 volte e più. Ancora il cotton gin, macchina relativamente semplice che non richiedeva molto capitale e che aumentò di 100 volte la produttività del lavoro (e cioè del 10.000%) dall’oggi al domani e poi con alcune modifiche crebbe ulteriormente250. Come si vede non esistono barriere insuperabili alla crescita della produttività del lavoro. La tesi di Marx, che egli mutua dall’economia classica, è solo un’ipotesi indimostrata e contraddetta da altre posizioni di Marx, questa volta documentate.
B) La caduta dei prezzi e il carattere storico-limitato della legge
I marxisti ortodossi riconnettono la caduta del tasso di profitto all’aumento della composizione organica del capitale e cioè all’aumento degli investimenti in capitale costante (macchine, impianti, materie prime) rispetto al capitale variabile (i salari), la cui produttività dovrebbe crescere meno dell’aumento degli investimenti in capitale costante. Epperò, se leggiamo Marx, scopriamo che occorre un altro anello intermedio perché la legge operi e cioè la concorrenza ottocentesca sui prezzi che ne determina la caduta e con essa la caduta dei profitti, infatti: “Non esiste un capitalista che applichi di buon grado un nuovo metodo di produzione quando questo, pur essendo più produttivo e aumentando considerevolmente il saggio di plusvalore, produca una diminuzione del saggio di profitto, ma un tale metodo di produzione fa diminuire il prezzo delle merci. Il capitalista vende in un primo tempo le merci al di sopra del proprio valore (…) Il suo metodo di produzione è superiore alla media sociale: ma la concorrenza non tarda a generalizzarlo e sottometterlo alla legge comune. Ha allora inizio la diminuzione del saggio di profitto…”251.
E ancora: “Il capitalista che applichi metodi di produzione perfezionati, ma non ancora generalizzati, vende la di sotto del prezzo di mercato ma al di sopra del proprio prezzo individuale di produzione; il saggio di profitto aumenta per lui finché la concorrenza non ristabilisce l’equilibrio …”252. In sintesi il capitalista, a causa degli investimenti in tecnologia vende a prezzi e costi molto più convenienti dei suoi concorrenti sicché in un primo tempo il saggio di profitto aumenta per lui (Marx lo dice esplicitamente) e solo la concorrenza, che all’epoca di Marx è sui prezzi, determina la caduta del tasso di profitto: è evidente che c’è un anello intermedio nell’operare della legge che i marxisti dogmatici ignorano, questo perché in genere i dogmatici sono anche ignoranti. Si noti che anche Gramsci, che di economia non capiva molto ma che il Capitale almeno lo aveva letto, notava che la legge richiedesse l’anello intermedio della caduta dei prezzi per operare253, si tratta quindi di una legge legata alla dinamica ed alla concorrenza del mercato ottocentesco, epperò nel XX secolo la dinamica è opposta, i prezzi si muovono solo verso l’alto sicché la legge è incompatibile col mercato oligopolistico che esiste da più di un secolo, quindi non può avere alcuna portata esplicativa della realtà presente.
C) La critica di Steindl e Robinson alla legge
Negli anni ’40 del secolo passato due economisti di notevole rilievo (Steindl e la Robinson) rilevarono come la legge in questione fosse contraddittoria rispetto alla teoria di Marx sull’impoverimento crescente della classe operaia254, infatti se è vero che il tasso di profitto (inteso come plusvalore nelle sue varie componenti) tende ad azzerarsi è la classe dominante che si impoverisce perché si prosciugano le sue fonti di reddito, un capitalista, il cui capitale non rende più, è finito e fa bancarotta, se questo capita alla classe dei capitalisti in generale, la bancarotta è generale; in altre parole se la classe operaia si impoverisce, dato il rapporto inverso che esiste tra salari e profitti per Marx255, la classe dei capitalisti si arricchisce e viceversa. Si tratta di una contraddizione macroscopica davanti alla quale i marxisti dogmatici non hanno risposto nulla malgrado il prestigio che, anche presso di loro, riscuotevano personaggi come Steindl e la Robinson.
Ma al di là delle considerazioni che si possono fare in sede di coerenza logica la cosa più importante è l’andamento della distribuzione della ricchezza dagli anni ’60 ad oggi a livello mondiale: negli ultimi 50 anni, come si è visto, le classi dominanti si sono arricchite in modo spropositato, le fonti della loro ricchezza non si sono prosciugate, al contrario, sicché ci sembra indiscutibile che la veneranda legge non abbia operato.
D) La contraddizione tra premesse e conclusioni della legge
Ma c’è un’altra contraddizione logica nella legge di Marx poiché quando Marx dice che il capitale costante (C) aumenta in rapporto a quello variabile (V), dice che aumenta la quota di ricchezza che il capitale controlla, sicché se nel 1960 C è 50 e V è 50 e nel 1970 C è 60 e V è 40, sarà chiaro che è cresciuta la quantità di ricchezza che il capitale controlla in rapporto alla quantità di ricchezza che va alla classe operaia. È evidente dunque che l’equazione di Marx esprime l’impoverimento crescente degli operai in rapporto ai capitalisti e non la caduta del saggio di profitto, poiché se C cresce in rapporto a V e C è alimentata dal reinvestimento dei profitti è chiaro che il tasso di profitto deve crescere e non calare. È evidente che l’impostazione di Marx finisce col descrivere l’impoverimento relativo della classe operaia e non la caduta del saggio di profitto, sicché c’è un’evidente contraddizione logica tra le premesse e le conclusioni della legge di Marx.
Se Marx avesse scritto solo i capitoli del Capitale sulla legge della caduta del tasso di profitto sarebbe solo un ricardiano minore di nessuna portata scientifica, per fortuna nostra e sua ha scritto ben altro. Altro discorso dovrebbe farsi sulla ottusità di certi marxisti dogmatici che hanno trasformato in verità di Vangelo un errore di Marx. Ma di questo la colpa non è certo di Marx ma di alcuni ottusi chierichetti del marxismo.
E) La riproposizione della legge in Grossmann, Gilman o Solow
Tra coloro che hanno tentato di riproporre le tesi di Marx c’è, primo tra tutti Grossmann, il cui libro è molto vecchio e datato ed in esso, come è stato notato, ci si occupa molto più delle controtendenze che ritardano l’operare della legge che non della legge stessa256, epperò la cosa fondamentale è che nessuno dei problemi da noi (e non solo da noi) sollevati, sono affrontati e risolti, pochi libri sono inattuali ed inutili come quello di Grossmann.
Molto più originale e creativa è la riproposizione della legge fatta dal marxista americano Gilman negli anni ’50 del secolo passato. Costui non crede alla veneranda legge intesa nel senso di Marx, ma cerca di riproporla su basi nuove: il capitalista investe per il profitto netto non certo per quello lordo ma i costi di produzione del profitto sono crescenti: crescono i costi di distribuzione e cresce la pressione fiscale dovuta alla complessità di un sistema sempre più difficile da governare, per cui i profitti netti calano in modo progressivo257. Varie obiezioni possono farsi poiché i costi di distribuzione sono tali per il capitalista singolo ma sono profitti per altri capitalisti, per cui non c’è nessuna caduta del plusvalore globale ma un trasferimento all’interno della stessa classe dominante tra un’industriale e il gestore di una catena di supermercati. Si noti poi che assai spesso le industrie hanno partecipazioni incrociate con il settore della distribuzione e viceversa: le Big Seven del petrolio controllano non solo la produzione ma anche la raffinazione e la distribuzione dei prodotti petroliferi, e ciò avviene per moltissime imprese industriali, per cui il trasferimento dei profitti spessissimo avviene all’interno dello stesso gruppo conglomerato ed integrato, si tratta cioè di un trasferimento più apparente che reale. Quanto alle tasse non posso che rilevare ancora una volta come esista il fenomeno enorme dell’evasione fiscale che esisteva anche ai tempi di Gilman, basti pensare che il volume di Kolko, già citato, sull’evasione fiscale in America esce negli stessi anni della ricerca di Gilman258; da allora tanta acqua è passata sotto i ponti e l’evasione fiscale è diventata ancor più insultante e generalizzata di allora, per cui il discorso di Gilman è assolutamente improponibile.
Infine Solow, un’economista accademico, la cui legge “dei vantaggi decrescenti della tecnologia”259, altro non è che una riproposizione della legge di Marx, può accadere che, riprendendo una tesi sbagliata di Marx, si vinca un Nobel. Il professore Easterly, seguace di Solow, così riassume lucidamente le sue teorie: “In altre parole per aumentare la produzione per lavoratore, dobbiamo aumentare il numero dei macchinari per lavoratore, ma l’aumento del numero dei macchinari per lavoratore ci porta immediatamente ad affrontare alcuni problemi, siccome aumenta il numero di macchinari per lavoratore, alla fine ogni lavoratore si troverà ad usare più macchinari contemporaneamente, passando freneticamente dall’uno all’altro come Charlie Chaplin nel film “Tempi moderni”260.
Ho già criticato questa tesi alcuni anni or sono261 evidenziando come lo sviluppo della tecnologia permetta di sintetizzare le funzioni dei vari macchinari: i primi computers erano alti come un palazzo di vari piani e non svolgevano le funzioni che oggi svolge un pc da tavolo, oggi è possibile per pochi operatori, o anche per uno solo, controllare e azionare un intero laboratorio automatizzato; con la tecnologia si possono concentrare enormi funzioni anche in una capocchia di spillo (le c.d. nanotecnologie); già negli anni ’70 esisteva una macchina che da sola (e con un solo operatore) produceva il fabbisogno annuo di coperte di un paese come la Svizzera262. La battuta sull’omino dei tempi moderni è solo una battuta e non un ragionamento scientifico.
Ancora, se la tecnologia avesse dei vantaggi decrescenti dovremmo verificarlo nel contegno del capitale, dovremmo assistere cioè ad un suo abbandono e invece questo non avviene anzi avviene che i paesi che investono poco in tecnologia siano emarginati sul mercato mondiale (abbiamo visto il caso Italia), mentre paesi che di tecnologia ne hanno poca, cercano disperatamente di procurarsela (i paesi emergenti come la Cina). Senza dubbio lo sviluppo e l’uso della tecnologia pongono problemi drammatici per la società nel suo complesso (crescita della disoccupazione) ma la logica del capitale è quella che ciò che va bene per l’impresa, che ne aumenta cioè la produttività e i profitti, deve andare bene per la società, è una logica assurda come abbiamo visto ma è la logica sulla quale si muove l’impresa capitalistica.
9) Lenin, l’imperialismo e la caduta del saggio di profitto. Una seconda critica radicale
La veneranda legge della caduta tendenziale sul saggio di profitto si collega alla non meno veneranda teoria dell’imperialismo di Lenin, che, infatti, scrive: “L’esportazione di capitali influisce sullo sviluppo del capitalismo nei paesi nei quali affluisce accelerando tale sviluppo. Pertanto, se tale esportazione, sino ad un certo punto può determinare una stasi nello sviluppo dei paesi esportatori, tuttavia non può non dare origine ad una più elevata ed intensa evoluzione del capitalismo in tutto il mondo (…) In complesso il capitalismo cresce assai più rapidamente di prima, senonché tale incremento non solo diviene in generale più sperequato, ma tale sperequazione si manifesta particolarmente nell’imputridimento dei paesi capitalisticamente più forti (Inghilterra)”263.
In altre parole la caduta dei profitti nei paesi ricchi spinge il capitale ad investire nelle aree povere, che crescono più rapidamente di quelle ricche, sicché in realtà lo sviluppo diseguale di cui parla Lenin è uno sviluppo che tende all’equilibrio e cioè a realizzare una perequazione nella distribuzione della ricchezza: i poveri, crescendo più rapidamente dei ricchi, tenderebbero nel lungo periodo a raggiungerli.
È questa una visione sostanzialmente apologetica dell’imperialismo, che Lenin mutua da un economista borghese (Hobson)264, da cui deriva le tesi di fondo del suo libro265, l’imperialismo cioè favorirebbe l’ascesa economica dei paesi poveri e il superamento degli squilibri con quelli ricchi.
A questa tesi, che ha dominato per anni il panorama culturale del mondo marxista, se ne è contrapposta un’altra, sviluppatasi nella seconda metà del ‘900, che vedeva nell’imperialismo un fenomeno non di esportazioni di capitali, ma, al contrario, di importazioni di capitali da parte dei ricchi a danno dei poveri, che finivano col finanziare lo sviluppo dei ricchi266. In altre parole l’investimento nelle aree povere è solo un mezzo per sequestrare le poche (relativamente) occasioni di investimento profittevole, realizzare profitti, che non sono riciclabili nei paesi poveri per la ristrettezza del mercato, e che vengono perciò importati nelle aree ricche. A tale corrente di pensiero (il c.d. neo-marxisti) ho aderito anch’io, per molteplici ragioni: innanzitutto lo stesso Lenin rivela, in altra parte del suo lavoro, che in Inghilterra dal 1865 al 1898 i profitti prodotti dall’investimento estero e reimportati in Inghilterra crescono di nove volte mentre la ricchezza del paese raddoppia soltanto, sembrerebbe dunque che la reimportazione dei profitti sia molto più rapida della crescita economica del paese e fondamentale per quest’ultima, l’investimento estero è solo un mezzo per saccheggiare i paesi poveri a vantaggio di quelli ricchi267. Ma, indipendentemente dalle contraddizioni di Lenin, sono i dati di lungo periodo quelli che confermano la tesi dei neomarxisti: una ricerca USA condotta sulle IM americane operanti in America latina, ha evidenziato che esse hanno ottenuto dai loro investimenti un flusso di ritorno di profitti pari al 136,3% in più di quanto investito, nei paesi del Medio Oriente produttori di petrolio, gli investimenti delle grandi compagnie petrolifere sono stati (nel periodo 1900-1960) pari ad 1,7 miliardi di dollari ed hanno prodotto un flusso di ritorno di profitti pari a 14,6 miliardi, Allende, presidente cileno, ha rilevato che gli investimenti nel rame cileno delle IM USA sono stati pari a solo 103 milioni di dollari ed hanno prodotto un flusso di ritorno di profitti in USA pari a 10,8 miliardi268; nell’Africa sub-sahariana investimenti di 2,6 miliardi ottengono un flusso di ritorno di profitti di 4,2 miliardi269.
In altre parole chi è ricco diventa più ricco chi è povero diventa relativamente più povero e sono i poveri che finanziano i profitti e l’accumulazione dei ricchi e non viceversa (come pensavano Hobson e Lenin), il mondo in cui viviamo è un mondo diviso in modo stabile, in cui non si nota nessuna reale tendenza alla perequazione tra aree ricche e paesi poveri270. Anche i dati più recenti lo confermano: nel 2010 i paesi del G7 con poco più del 10% della popolazione mondiale avevano il 50,7% del PIL mondiale, con gli altri paesi avanzati (Spagna, Austria, Benelux, Paesi Scandivi, Australia, Nuova Zelanda, Svizzera) si arrivava ai 2/3 del PIL con una popolazione attorno al 15% (o poco meno)271. Anche fenomeni recenti, su cui alcuni hanno voluto imbastire la tesi di una rincorsa vincente dei paesi poveri ed emergenti su quelli ricchi, provano esattamente il contrario: il grande trasferimento di ricchezza che si ebbe con la crisi petrolifera nel 1973 (50 miliardi e più di dollari finiti nelle tasche dei gruppi dominanti dei paesi produttori di petrolio) non ha innescato alcuno sviluppo reale di quei paesi, è accaduto invece che le élites dei paesi petroliferi hanno investito le loro rendite nelle aree ricche, oppure hanno acquistato beni (ad es. armi e beni di lusso) prodotti dall’industria delle aree avanzate, sicché quel capitale è rimasto a gravitare nelle aree ricche pur essendo passato sui conti dei grandi petrolieri272.
Lo stesso avviene per la Cina, il grande colosso straccione e sottosviluppato, che avrebbe un gran bisogno di sviluppare la propria agricoltura per sfamare una popolazione enorme e crescente, ed invece investe il surplus della propria bilancia commerciale nelle aree ricche, acquistando i bonds del tesoro americano (o dei paesi europei) e cercando disperatamente di acquistare la tecnologia che non ha; inoltre, la cosa è notissima, si è rilevato che in anni recenti i 2/3 delle esportazioni targate Cina, sono in realtà prodotte da imprese cinesi sussidiarie di IM dei paesi ricchi, che rastrellano i profitti e li reimportano nei paesi d’origine273. Uno sviluppo straccione e subalterno quello cinese, egemonizzato dagli interessi forti delle IM dei paesi avanzati274, tale subalternità è risultata evidente con lo sgonfiamento del miracolo cinese di cui si parlava prima: la crisi delle economie ricche è ricaduta sulla testa della Cina, il cui sviluppo al 7,5% , commisurato alla modesta base di partenza, è ben povera cosa per la Cina.
Ma non è tutto. Se analizziamo l’andamento del PIL pro-capite nei più grandi colossi emergenti (Cina, India, Brasile) nel periodo 1998-2009 e lo rapportiamo a quello USA, potremmo trarre alcune conclusioni interessanti ai nostri fini275. La Cina nel 1998 ha un PIL pro-capite di 750 dollari contro 29.240 degli USA il che significa che il PIL cinese è pari al 2,56% di quello americano con una differenza in cifra assoluta di 28.490 dollari. Nel 2009, dopo 11 anni di miracolo le cifre sono 3740 dollari per la Cina e 45.990 per gli USA, il PIL cinese è l’8,13% di quello americano, ma la differenza in cifra assoluta è di 42.550 dollari, in 11 anni la Cina ha un po’ limato le distanze in termini percentuali, con un trend che la porterebbe a raggiungere l’America tra 180-190 anni (rosicchia infatti circa 5,5 punti in 11 anni), sempre che si rimanga a tassi da miracolo cosa che adesso non è più come si è visto. Epperò la differenza in cifre assolute è cresciuta notevolmente, e se è vero che in genere in economia contano i rapporti relativi, è anche vero che in questo caso le cifre assolute hanno un peso non inferiore, perché ci dicono quanti dollari ha potenzialmente a disposizione un cittadino cinese ed un cittadino americano per sviluppare consumi, investimenti, istruzione, salute etc.: ebbene nel 1998 un americano aveva 28.490 dollari in più di un cinese, e nel 2009 ne ha 42.250 in più: mondi divisi ed in misura sostanzialmente crescente.
Lo stesso discorso può farsi per l’India in modo anche più evidente: nel 1998 il PIL pro-capite indiano è di soli 440 dollari contro i 29.240 degli americani e cioè 1,5% circa in termini percentuali con una differenza in cifra assoluta di 28.800 dollari; nel 2009 arriviamo a 1190 dollari contro 45.990 e cioè al 2,6% con una differenza in cifra assoluta di 44.800 dollari, un abisso e la lieve crescita percentuale richiederebbe circa 500 anni per raggiungere gli USA. Infine il Brasile dove nel periodo considerato si passa, da un rapporto di 4360 dollari contro i soliti 29.240 americani (14,9% e 24.480 dollari di differenza in cifra), a 8230 dollari contro 45.990, 17,9% e 37.760 di differenza in cifra. Anche qui una modestissima limatura percentuale (circa 300 anni per raggiungere gli USA a parità di trend), accompagnata da una dilatazione della cifra assoluta che non è meno fondamentale per quanto detto.
In conclusione non è la caduta del tasso di profitto delle aree ricche che spiega l’investimento a quelle povere ma la spinta al saccheggio che anima il capitalismo per cui sono i poveri che finanziano i ricchi ed i loro profitti.
Quanto poi alla putrescenza dei paesi ricchi esiste, ma per motivi ben diversi da quelli supposti da Lenin e soprattutto riguarda tutto il mondo capitalista (ricchi ed emergenti) e la crisi delle aree avanzate ricade pesantemente su quelle emergenti “soffocandole”.
10) La rifondazione marxista della teoria del crollo. Il “Frammento sulle macchine” e il capitalismo attuale. Il boom demografico dei paesi poveri e la legge della disoccupazione crescente
Sgombrato il campo da quel vecchio rottame che è la legge della caduta tendenziale del tasso di profitto (e dal suo derivato, la teoria leninista dell’imperialismo), occorrerà verificare se in Marx c’è un’altra possibile teoria del crollo e soprattutto se questa è attuale e verificabile nel nostro tempo. A mio avviso questa teoria c’è e trova il suo fondamento nel celebre “Frammento sulle macchine” dei Grundrisse276, dove Marx, tra l’altro, parla esplicitamente di crollo del capitalismo partendo dalla considerazione che il macchinismo tende a distruggere la classe operaia che è alla base del sistema, ma se si distrugge la base del sistema, si distrugge il sistema stesso. Le considerazioni di Marx sono ellittiche ed intuitive (prive cioè di verifica empirica), come è logico che sia in una raccolta di bozze e di spunti neanche lontanamente pronti per la stampa, per cui dobbiamo cercare di integrarle: perché il capitalismo non può fare a meno della classe operaia?
La riduzione in sé degli operai, dovuta all’automazione, non è decisiva dal punto di vista produttivo poiché aumenterebbe enormemente la produttività del lavoro, ma il problema è il realizzo del plusvalore: le merci che contengono il lavoro degli operai vanno vendute e se la massa dei salariati si riduce ad una pattuglia, per giunta mal pagata, si pone il problema di chi possa acquistare un’enorme, crescente quantità di beni; quando Keynes (il Marx della borghesia) diceva che bisognava garantire un reddito a tutti i lavoratori, anche per fargli fare buche per terra che poi dovevano riempire, diceva una paradossale verità: se non c’è mercato per i beni che produci e se non c’è il c.d. consumo pagante, vai a gambe all’aria. Il dramma dell’automazione è che produce una massa enorme di beni ma anche una massa ancor più spropositata di disoccupati, che il sistema non può sopportare al di là di un certo limite. Nel Capitale Marx parla del telaio a vapore che ha aumentato a dismisura la produttività del lavoro, ma ha messo sul lastrico 800 mila tessitori inglesi. Il sistema può sopravvivere solo se ci sono dei contrappesi riequilibranti, delle spugne che assorbono la disoccupazione tecnologica. Queste spugne ci sono state ed hanno funzionato fino agli anni ’70 del secolo passato. Adesso abbiamo visto che sono del tutto esaurite e non si vedono altre soluzioni valide per risolvere il problema: il sistema crea disoccupazione e sottoccupazione e non la riassorbe; il “Frammento sulle macchine”, che era un’intuizione geniale nel 1857 è diventato realtà nel nostro tempo, Marx è molto più attuale oggi che nel 1857. Una cinquantina di anni or sono (quando ero un ragazzetto) il grande storico marxista Isaac Deutscher disse che Marx ci sembrava superato per un nostro errore di prospettiva: appariva fuori del tempo solo perché era almeno 50 anni avanti a noi. Adesso i 50 anni sono passati e stiamo sbattendo col naso sul “Frammento sulle macchine”, fuori del tempo nel 1857 (se non come tendenza embrionale ed in nuce) attualissimo oggi, quando ormai è evidente che esiste una legge tendenziale all’aumento della disoccupazione a livello mondiale nelle sue varie articolazioni che vanno dal disoccupato, al sottoccupato all’inattivo o scoraggiato etc. Le dimensioni del problema le abbiamo viste, 1,6 miliardi di disoccupati o sottoccupati (a parte gli inattivi che un lavoro non lo hanno cercato mai) una cifra enorme e spropositata. Non meno agghiacciante il trend di sviluppo del fenomeno: nel 1976 il BIT (o ILO) denunciò che il problema della disoccupazione e sottoccupazione, concentrata allora prevalentemente nei paesi poveri, poteva essere risolto entro il 2000 con 500 milioni di posti di lavoro che assorbissero occupati e sottoccupati, 20 milioni di posti di lavoro l’anno in un arco di 25 anni277. Ora la Banca mondiale ci fa sapere che di qui al 2020 occorre creare 600 milioni di posti di lavoro (75 milioni l’anno)278, così, aggiungo io, non si assorbirebbe neanche il 40% della disoccupazione e sottoccupazione esistente, valutabile prudenzialmente in 1,6 miliardi: ecco una buona illustrazione fenomenologico-statistica della legge della disoccupazione crescente.
Ma la situazione è resa vieppiù drammatica da un fenomeno che Marx a suo tempo non poteva valutare: il boom demografico dei paesi del Terzo mondo che adesso si chiamano emergenti. Nei prossimi anni l’incremento demografico sarà dell’1,16% (“Economist”, prospettiva 2015) e cioè di 80 milioni l’anno, con questo trend saremo oltre 10 miliardi nel 2050 a cui andrebbe aggiunta la popolazione nascosta che viene registrata in ritardo nei paesi emergenti, a causa del loro apparato amministrativo inadeguato, si tratta secondo i demografi, di un altro 5-15% della popolazione che sfugge all’appello ma esiste279. In tal modo arriveremmo a 11 miliardi e più reali, ma anche accettando le stime più prudenziali per il 2050 (9 miliardi contro i 7 “ufficiali” di ora), siamo davanti alla prospettiva di dover creare un altro miliardo di posti di lavoro di qui al 2050 in aggiunta all’1,6 miliardi attuali, una prospettiva semplicemente disperante almeno nella logica di un sistema che produce costantemente di più con meno addetti, aprendo una forbice ingovernabile con la popolazione che cresce.
La situazione potrebbe aggravarsi ulteriormente se i paesi emergenti riuscissero ad acquistare le tecnologie dell’occidente, cosa che io non ritengo possibile per i costi proibitivi che questo avrebbe, ma se lo facessero accadrebbe che il 90% e più della loro forza lavoro diverrebbe esuberante e passerebbe dalla sottoccupazione alla disoccupazione: da anni rilevo che se la Cina avesse la produttività italiana (non quella di Germania, USA o Canada) potrebbe ottenere il suo PIL con qualche decina di milioni di lavoratori e si porrebbe il problema di dove collocare gli altri 700 milioni esuberanti.
Ma da che deriva il boom demografico dei paesi emergenti?
La tesi che il povero abbia una capacità riproduttiva eccezionale ormai non la sostiene più nessuno, mentre è molto diffusa la tesi che nei paesi poveri si procreino figli per sfruttarli (ad esempio indirizzandoli all’accattonaggio o alla prostituzione minorile); oltre 30 anni or sono ho polemizzato con questa tesi, utilizzando proprio i dati di un sostenitore della tesi in questione, l’americano Lester Brown, che rivelava come in India vi fossero 3 milioni di aborti l’anno, fatti in condizioni indiane, il che portava nel 5% dei casi alla morte delle donne indiane (150 mila morte su 3 milioni), ciò significava che la possibilità di sopravvivenza di una donna indiana che abortiva era più bassa di quella di un soldato americano che andasse a combattere in Vietnam nel momento più acuto della guerra280. Non sembra proprio che le nascite siano desiderate ma piuttosto che si cerchi di evitarle, quando poi questo non è possibile si cerca di sfruttare il nuovo nato a fini economici, ma è chiaro che si tratta di un ripiego. Si noti poi che per ogni donna morta ci sono statisticamente un numero molto più elevato di donne che subiranno delle menomazioni in conseguenza di un parto fatto in condizioni indiane, africane o latino-americane, il che conferma ulteriormente quanto sosteniamo.
E allora quale può essere la spiegazione del boom demografico? La risposta era ed è molto semplice, un problema di costi281. Il planning familiare costa e non poco sia in costi diretti che indiretti, i paesi ricchi possono affrontarlo, quelli poveri non possono, non almeno della logica di una classe dominante che mira ossessivamente allo sviluppo e quindi investe tutto il possibile in fabbriche, infrastrutture etc. e poco o nulla per il costoso planning familiare che non rende immediatamente in termini di crescita del PIL. C’è spazio al massimo per interventi repressivi come in India dove si tentò la politica della sterilizzazione incentivata (stavo quasi scrivendo castrazione), un pugno di centesimi con sterilizzazioni fatte in condizioni indiane, al fine di bloccare la spirale demografica: il risultato fu una crisi senza precedenti del partito del Congresso che fu clamorosamente sconfitto alle elezioni e si abbandonò una simile iniziativa282. In Cina fino a ieri c’era l’obbligo del figlio unico che ha prodotto, per comune ammissione, 200 milioni di cinesi nascosti nelle campagne dove i contadini hanno comprato il silenzio dei corrotti funzionari di partito. Lo stesso PCC sarebbe orientato di recente a legittimare anche il secondo figlio a testimonianza del fallimento della precedente politica. Ma in realtà il problema è di una brutale semplicità, la Cina, anche se non esistessero i 200 milioni di cinesi nascosti, non può dare lavoro ad una popolazione lavorativa di circa 800 milioni, non almeno nella logica capitalistica di produrre sempre di più con meno addetti. Adesso la grande massa della popolazione cinese è sottoccupata283, non ha cioè a decent work perché la produttività media è bassissima. Come abbiamo visto se la Cina riuscisse ad accedere alla tecnologia occidentale si porrebbero problemi di “esubero” esplosivi. Con ciò non voglio dire che il problema sia insolubile in generale, lo è nella logica del capitalismo, ma se si espropriasse l’enorme ricchezza della classe dominante a cominciare dai 21 mila miliardi di dollari liquidi giacenti nei paradisi fiscali, si potrebbero avere le risorse per lo sviluppo socio-economico e per il planning familiare. Ma questo richiederebbe la rottura del capitalismo e la creazione di un sistema che metta al centro non il profitto ma il lavoro e l’uomo con le sue esigenze. Spero (ma non posso prevederlo scientificamente) che questo possa avvenire, ma una cosa mi sembra certa: questo sistema con la sua logica demenziale (produrre di più con meno addetti in nome del profitto) sta andando verso la sua fine ingloriosa.
11) Il putrescente Stato nazionale e il dominio delle IM. La seconda gamba di una teoria del crollo
La crisi attuale (senza possibilità di soluzioni positive) cammina su due direttive parallele: la prima è la legge tendenziale della disoccupazione crescente, la seconda è la putrescenza o il disfacimento dello Stato nazionale-borghese. Usai questa espressione “putrescenza” in un mio libro del 1981 dove analizzavo la crisi senza ritorno degli Stati nazionali284, che si cumulava con l’esplosione della disoccupazione, tale crisi era dovuta all’emersione di un potere nazionale privato (le IM giganti) che scavalcava e paralizzava gli Stati, impedendo loro di svolgere le proprie funzioni essenziali per l’equilibrio (sia pure instabile) della società capitalistica. Si noti che il capitalismo ha avuto sempre bisogno di centri regolatori il cui compito non era quello di realizzare un mitico “piano del capitale” che ne vincesse le contraddizioni, ma quello più limitato ma importantissimo di creare una forma nella quale le contraddizioni potessero operare senza mandare in frantumi il sistema e che fungesse da ammortizzatore delle stesse; non si trattava di una funzione neutrale di giustizia, indipendente dalle classi sociali, ma di una funzione di equilibrio per garantire la sopravvivenza del sistema stesso e cioè del capitalismo e della classe dei capitalisti, dunque una funzione classista per eccellenza.
Per fare questo, però, lo Stato deve avere un potere contrattuale che gli permetta di imporre ai singoli capitalisti le regole del gioco, volte a far funzionare il gioco anche contro la loro volontà. Un esempio chiarirà quanto voglio dire: nel 1847 il Parlamento inglese vara la legge delle 10 ore che limita l’orario di lavoro e che verrà accolta come un affronto dalla maggioranza dei capitalisti inglesi, ma che era stata richiesta da una minoranza degli stessi con una petizione al Parlamento. Dicevano questi industriali, lo riferisce Marx nel Capitale, che la situazione stava diventando esplosiva: l’orario di lavoro senza limite alcuno rischiava di uccidere la classe operaia, di cui essi avevano bisogno, oppure di spingerla verso un’esplosione rivoluzionaria; né essi potevano unilateralmente ridurre il loro orario, perché così avrebbero ridotto i loro profitti e sarebbero stati sconfitti dai concorrenti, ci voleva dunque un intervento generale, una legge che valesse per tutti285. Nel capitalismo infatti, l’imprenditore può regolare il lavoro nella sua impresa, piccola o grande che sia, ma non oltre, per cui occorre un centro di potere distinto dall’economia e collegato ad essa, che detti delle regole funzionali alla dinamica del sistema stesso, questo centro di potere è lo Stato come è evidente dall’esempio che abbiamo fatto sulla legge delle 10 ore, lo Stato svolge cioè la funzione di “coscienza collettiva del capitale” che i singoli capitalisti non possono realizzare, essendo la loro attività volta a produrre i profitti della propria impresa e non equilibri sociali globali che sfuggono al loro controllo. Nel caso in esame il Parlamento inglese, vincendo le opposizioni della maggioranza dei capitalisti, limitò l’orario di lavoro, ciò che fu il tipico caso di razionalizzazione-modernizzazione del sistema, poiché lo sfruttamento fondato sulla lunghezza dell’orario di lavoro, non può superare certi limiti fisici (diciamo 18 ore al giorno mediamente)286, inoltre un operaio stanco e spremuto lavora poco e male, invece con la limitazione dell’orario il capitale è spinto ad utilizzare tecniche nuove che aumentino a dismisura la produttività del lavoro, ciò che è molto più moderno e razionale nel senso della produzione di profitti. La legge delle 10 ore non eliminò l’anarchia del sistema (crisi e conflitti) ma la indirizzò verso esiti più moderni ed efficientisti, cose di questo genere può farle lo Stato ma non i capitalisti singoli.
Ma per svolgere questa funzione di gestione delle contraddizioni del sistema lo Stato, in quanto coscienza collettiva del capitale e fonte delle regole che ne permettano la sopravvivenza, deve potersi imporre ai capitalisti singoli e per imporsi deve averne la forza. Ora la multinazionalizzazione delle economie e cioè il formarsi di un numero ristretto di imprese giganti, che possono trasferire da un paese all’altro i propri capitali (oggi basta un click almeno per il capitale liquido), rende lo Stato nazionale debole e ricattabile, ed abbiamo visto come la politica fiscale e monetaria degli Stati sia pesantemente condizionata da questi centri di potere, che possono metterla in crisi in ogni momento (basta non sottoscrivere i bonds che vengono emessi); gli Stati sono diventati Stati a sovranità limitata nel senso che uno Stato che non può fare una politica fiscale, monetaria e di bilancio autonoma, non è più uno Stato sovrano, lo ha ammesso di recente lo stesso Draghi anche se, come abbiamo visto, la ricetta che propone è del tutto inconsistente287.
Si potrebbe obiettare che gli investimenti internazionali sono cosa vecchia e si sbaglierebbe, poiché in passato gli investimenti erano per lo più finanziari, l’apertura di nuove filiali produttive all’estero era un fatto eccezionale, il capitale cioè era legato prevalentemente al proprio paese di origine, anche quando si trattava di oligopoli erano prevalentemente oligopoli nazionali, ovviamente c’erano rapporti di interdipendenza commerciale tra le varie economie sul mercato mondiale288, ma era un’interdipendenza tra imprese e settori a carattere prevalentemente nazionale legati al proprio entroterra; la tabella che segue illustrerà meglio la tendenza alla creazione delle IM che esplode veramente solo col secondo dopoguerra.
Come si vede il fenomeno esplode dopo il 1938 nel secondo dopoguerra e da allora la proliferazioni di filiali corrisponde ad una crescita enorme della dimensione delle IM che, durante il boom post-bellico, hanno un ritmo di sviluppo 2,5 volte maggiore rispetto a quello dell’economia complessiva290 e quindi crescono mangiandosi l’economia mondiale. Infatti: “… Alla metà degli anni ’90 il volume degli affari delle sole 40 maggiori IM (non di tutte si badi) oscilla tra i 175,8 miliardi di dollari della Mitsubishi ed i 41,1 della Deutsche Telekom, sommando le cifre delle grandi 40 arriviamo ad un totale di 3178,5 miliardi di dollari, un po’ meno della metà del PIL americano, 3/4 di quello giapponese, 1,5 volte quello tedesco, quasi 3 volte quello italiano. Fin dal 1969 nelle cento più grandi unità economiche del mondo più della metà sono IM ed il resto Stati291”.
Le tendenze naturali del capitale ad aumentare le dimensioni delle imprese (la concorrenza divora i piccoli e lo sviluppo tecnologico esige masse enormi di capitali) ha portato ad uno sviluppo che scavalca le barriere nazionali: quando un mercato è protetto dalle dogane si apre al suo interno una filiale e lo si conquista dall’interno (esemplare è la vicenda degli investimenti americani all’interno del neonato MEC); inoltre la ricostruzione post-bellica, esigendo masse enormi di capitali, ha favorito la creazione di giganti292 e lo stesso dicasi per le tecniche scoperte sul terreno militare (energia atomica, computers) e poi emigrate nel campo civile, tecniche che esigono un’enorme concentrazione di capitali293. Il capitalismo mondiale diventa, dunque, un capitalismo dominato da IM che scavalcano, umiliano, ridicolizzano lo Stato nazionale; oggi una legge riformista e razionalizzatrice come la legge delle 10 ore incontrerebbe delle reazioni violente: fuga di capitali, aste di bonds deserte, attacchi speculativi alla moneta nazionale, etc. sicché lo Stato, ogni Stato, dovrebbe sottomettersi al mercato.
Qualcuno ha sostenuto che, secondo me, esisterebbe una cupola che dirige l’economia mondiale, le IM appunto, ora il termine cupola ricorda la mafia e può andare benissimo per le IM, ma il fatto è che non esiste una sola cupola ma alcune centinaia di cupole tra cui nascono e si rompono alleanze in continuazione. Emblematica è la vicenda della Trilaterale, organizzazione che nasce nel luglio 1973 e che raccoglie il Gotha del capitalismo mondiale, grandi imprenditori (da Agnelli a Rockfeller), uomini politici, intellettuali, con un programma che prevede la deregulation e l’esaltazione della spontaneità del mercato, molti pensano che sia una sorta di governo ombra dell’economia, un super Stato che realizzi il mitico “piano del capitale”. Epperò nell’ottobre del 1973 gli uomini del petrolio e quelli dell’auto (entrambi presenti nella Trilaterale) si scannano in una crisi terribile che fa esplodere recessione, inflazione e disoccupazione e ci regala problemi che nel corso degli anni si sono aggravati; appare chiaro che il programma della Trilaterale è il programma di un supergruppo di pressione privato, che chiede agli Stati di ridurre tasse e controlli sulle grandi imprese (salvo poi a chiedere aiuti e salvataggi nei momenti di crisi) e di lasciare mano libera al mercato: non un programma di governo dell’economia e delle sue contraddizioni, ma il programma di un supergruppo di pressione privato che chiede allo Stato di ritirarsi dall’economia e di lasciare che le contraddizioni dell’economia stessa abbiano il loro libero corso. In altre parole si chiede di lasciare mano libera alla concorrenza tra giganti senza alcun limite o controllo da parte dello Stato294. I grandi interessi che sono dentro alla Trilaterale impediscono agli Stati di funzionare e di svolgere le loro funzioni regolatrici, nei limiti in cui è possibile nel capitalismo, senza per questo sostituire o surrogare le funzioni che vengono impedite, non un piano del capitale, ma la strada verso l’anarchia più selvaggia ed incontrollabile.
Né la crisi del 1973 è un caso eccezionale di conflitto tra giganti, poiché anche di recente abbiamo visto come i fondi speculativi americani abbiano trasferito capitali in Europa per profittare di un’eventuale crisi (attesa ed auspicata) delle banche europee295; questo è un sistema in cui ognuno agisce per il proprio profitto, le cupole sono molte e sono in conflitto, e il mercato senza una solida presenza dello Stato si trasforma in una giungla. Di recente due studiosi americani hanno censito le crisi avvenute dal 1970 al 2011, in poco più di 40 anni abbiamo avuto 147 crisi bancarie, 218 crisi monetarie e 66 crisi del debito sovrano, in totale 431 crisi, più di 10 all’anno296. La perdita del ruolo regolatore dello Stato significa questo che il mercato deregolato è il caos e le crisi in questione sono state spesso pesantissime: la crisi delle tigri asiatiche (1997) ha bruciato 2000 miliardi di dollari secondo valutazioni correnti, quella della borsa USA del 1987 ha bruciato in un giorno il 25% dei corsi azionari (il doppio del grande crollo del 1929), e poi la crisi del bonos argentini, quella del rublo, quella della borsa messicana, quella degli junke-bonds, etc. etc. La cosa più grave, però, è che dalla fine del 2007 quando, con la crisi dei mutui subprime esplode l’attuale depressione297, il fenomeno crisi non diventa più un fenomeno intermittente per quanto frequente, ma una realtà quotidiana e giornaliera. La crisi dei debiti sovrani ci accompagna da allora giorno dopo giorno, così come la crisi delle banche e la crisi delle monete nessuna delle quali è in grado di svolgere il ruolo di moneta di riferimento internazionale.
Una situazione caotica e catastrofica e sono catastrofista per un motivo molto semplice: non sono uno struzzo, questo sport (lo “struzzismo”) lo lascio agli altri, quelli che periodicamente vedono la luce in fondo al tunnel senza avere alcun senso del ridicolo. In sintesi il capitalismo ha avuto sempre bisogno dei poteri regolanti (nei limiti che abbiamo visto), di prassi condivise e legittimate da questi poteri che fossero dei punti di riferimento solidi nella tempesta della concorrenza298, gli Stati nazionali erano la massima espressione di questi poteri regolanti, che erano un pilastro fondamentale di sostegno e di equilibrio nello sviluppo capitalistico, ora il pilastro è crollato e nulla lo ha sostituito se non il caos della deregolazione più selvaggia, e questo elemento di crisi irreversibile si cumula, in una miscela esplosiva, alla legge della disoccupazione crescente.
12) La teoria del crollo ed il meccanicismo economico. Critica di un luogo comune
La teoria del crollo è stata spesso tacciata di meccanicismo economico ed anche chi scrive aderì a questa critica nel 1974299, ma oggi non ho alcuna difficoltà ad ammettere che avevo sbagliato.
Innanzitutto una teoria può essere meccanicistica ma non per questo sbagliata, la legge della caduta dei gravi lo è , ma non è errata, una tesi è errata solo quando non riproduce la realtà. Ma, a parte questa considerazione generale, la teoria del crollo, almeno nella versione che proponiamo, non è per nulla meccanicistica, se per meccanicismo intendiamo un evento che si produca indipendentemente o contro la volontà umana. In realtà, però, le leggi economiche sono l’espressione e il prodotto dell’azione dell’uomo in società, le leggi economiche sono una forma particolare e fondamentale di azione sociale. Scrive in proposito Bucharin :
In altre parole noi dimentichiamo spesso che sono gli uomini a produrre le strutture economiche e le leggi che le reggono, che sono leggi concernenti l’azione sociale, per pensarla diversamente bisognerebbe condividere le tesi di un filosofo marxista, oscuro e superficiale, che fu molto “à la page” in Italia negli anni ’60, Louis Althusser, che a suo tempo sostenne che nella società capitalistica gli uomini sono portatori di una funzione nell’ambito della divisione del lavoro e della struttura economica, niente altro che questo301. Contro di lui si osservò che l’uomo non enuncia solo una struttura ma la denuncia302, l’operaio cioè non è solo lavoro salariato ma può essere sciopero o Soviet ed il contadino salariato messicano può diventare un guerrigliero dell’armata zapatista. Più precisamente Lucien Goldmann, ha osservato che l’attività dell’uomo consiste nello strutturare e destrutturare la realtà socioeconomica, per cui il marxismo è uno strutturalismo genetico303, che studia cioè la genesi delle strutture e la loro fine entrambe collegate all’agire umano, strutturalismo genetico ma anche umanista.
Tornando ad Althusser, egli non fa che riproporre, in una cultura che si vorrebbe marxista, niente altro che le tesi della sociologia funzionalista (e ultraconservatrice) americana, secondo cui l’uomo è solo portatore di una funzione richiesta dalla società e che serve all’equilibrio sociale, ciò che è disfunzionale non esiste o al più viene rapidamente emarginato dalla società, tutto ciò che si verifica avviene perché è funzionale, compresa la criminalità organizzata e la corruzione: Merton, il più grande dei funzionalisti, ha funzionalizzato anche Al Capone e la corruzione politica e non è una battuta304: il povero Al Capone infatti non faceva altro che produrre dei beni richiesti dal mercato, l’alcool di contrabbando, mentre senza la corruzione politica il sistema istituzionale americano, frammentato e contraddittorio, non funzionerebbe305. Ho criticato queste tesi quasi trent’anni or sono, evidenziando come nella stessa azione si trovano in equilibrio instabile elementi funzionali e disfunzionali: l’evasione fiscale serve a sostenere gli investimenti e i profitti delle imprese capitalistiche, che sono la base del sistema, ma fa saltare i bilanci dello Stato impedendogli di svolgere la propria funzione di equilibrio e governo della società, la disoccupazione tecnologica aumenta i profitti delle imprese ma crea problemi enormi e disfunzionali di equilibrio sociale ed economico306. Nella realtà esiste sia la funzione che la disfunzione, disfunzione che noi marxisti preferiamo chiamare conflitto o contraddizione, che si esprime attraverso l’azione dell’uomo nella società.
Di ciò si rendono conto anche alcuni funzionalisti come Coser , che afferma, senza mezzi termini, che se il conflitto esiste è perché è funzionale, serve cioè a modernizzare la società o a sfogare tensioni che altrimenti potrebbero incancrenirsi e degenerare307; addirittura una studiosa come la Stockpol arriva a sostenere che anche la forma più estrema di conflitto, la rivoluzione, in realtà è funzionale, le rivoluzioni servono a modernizzare il sistema308. Ora è vero che a volte il conflitto può essere funzionale ma assai spesso non lo è, poiché può debordare dai limiti di sicurezza del sistema: le conquiste operaie degli anni ’60 e ’70 in Italia non erano digeribili dal sistema che, nei decenni successivi si è mosso per svuotare o controriformare quelle conquiste a partire dallo Statuto dei lavoratori e dal processo del lavoro309.
Quanto alla rivoluzione come modernizzazione è appena il caso di notare che la rivoluzione francese, o quella inglese del secolo precedente, non modernizzarono il vecchio sistema ma lo distrussero, così come Stalin con la collettivizzazione forzata del 1928-29 non modernizzò la vecchia economia della Nep (che era pur sempre una forma di capitalismo) ma la distrusse310, nella Storia non c’è solo la modernizzazione ma anche il cambiamento radicale, la rottura, la distruzione di un vecchio mondo, bene o male non viviamo ancora sulle palafitte, delle società si sono succedute e sono state distrutte.
Quanto diciamo non vale solo per il capitalismo, poiché anche nelle società precapitalistiche l’uomo è ben lungi dall’essere solo il portatore passivo e ripetitivo di una funzione che si colloca in una struttura socio-economica, anche in quelle società esiste la ribellione e la negazione, e ciò accade anche nella più autoritaria delle società precapitaliste e cioè la società schiavistica greco-romana, che addirittura tende a ridurre la classe subalterna ad un mero oggetto privo di qualità umane, lo schiavo è solo “uno strumento che parla”.
Eppure questo strumento parlante poteva ribellarsi e le rivolte di schiavi vi furono, non molte certo ma a volte assai significative311; inoltre anche quando non c’erano fenomeni collettivi e generalizzati di rivolta c’erano ribellioni individuali (lo schiavo che uccide il padrone) per cui il diritto romano prevedeva pene terribili312, e ribellioni di gruppo: la fuga di un certo numero di schiavi che si dava al brigantaggio o alla pirateria, ciò che a volte disturbava e non poco gli equilibri sociali313. Ancora, quando nel 410 d.C. Alarico calò in Italia per regolare i suoi conti con il fisco romano esoso e vessatorio314, ben 40 mila schiavi corsero ad arruolarsi sotto le sue bandiere e furono alcuni schiavi che gli aprirono nottetempo le porte di Roma, dando il via al famoso saccheggio della città eterna, che stupì il mondo315.
L’uomo, dunque, non è il portatore passivo di una funzione imposta da una struttura economica, eppure a volte sembra esserlo, ciò avviene perché le azioni umane non sono coordinate ma contrapposte e conflittuali. Lenin diceva che gli uomini viventi agiscono scontrandosi con ostacoli frapposti loro da altri uomini viventi316, le azioni degli uomini in società sono azioni contrapposte e conflittuali, sicché assai spesso il risultato globale del processo storico è una media diversa dai progetti posti in essere dai singoli o dai gruppi317, per cui questo risultato ci sembra essere la conseguenza di una forza estraniata rispetto all’uomo ed indipendente da esso e dalla sua azione.
Il linguaggio della nostra cultura, impregnato di idealismo, alimenta questa illusione, con modi di dire che attribuiscono a cose o entità astratte qualità che sono degli uomini318. Ci si chiede allora “per chi lavori il tempo”, quando è chiaro che il tempo (un’astrazione - convenzione dell’uomo per organizzare e sistemare la sua azione)319 non lavora per nessuno è solo l’uomo che lavora320.
Lo stesso dicasi per “la situazione” di cui si dice spesso (io stesso lo faccio per comodità di espressione) che è pesante ed ingovernabile, e così si finisce col pensare che sia la situazione il vero soggetto, mentre in realtà essa è un oggetto, una conseguenza, un prodotto dell’agire umano, in cui però avviene che varie azioni contrapposte si elidano e si neutralizzino reciprocamente portando alla paralisi, all’immobilismo ed alla ingovernabilità. Ciò avviene, chiaramente, nel caso del rapporto IM-Stati nazionali: le IM esprimono una realtà concorrenziale ed egoistica che non ha alcun progetto di governo dell’economia ma ha la forza di paralizzare gli Stati impedendo loro di svolgere le funzioni di equilibrio generale che sono di propria competenza.
Tutto avviene attraverso l’uomo e nulla avviene sopra la sua testa, il crollo del capitalismo è il prodotto di meccanismi socio-economici impazziti ed ingovernabili, ma questi meccanismi e la loro pazzia sono il prodotto dell’agire sociale degli uomini in maniera disorganizzata e conflittuale.
13) I nuovi movimenti di ribellione, la dissoluzione dello Stato e l’impoverimento senza ritorno delle classi medie. Il vecchio ’68 ed i nuovi movimenti
Il crollo sociale del capitalismo non è solo qualcosa che non ha nulla di meccanicistico, ma è la condizione perché sia possibile un’azione di radicale trasformazione della società. Si è detto che un potere ci sembra divenuto insopportabile quando è in crisi ed è debole e vulnerabile, e questo è normalmente vero: quando un potere è forte la ribellione appare se non impossibile, difficile e velleitaria e viceversa. Gli esempi storici in tal senso non mancano: nel 1715 ci fu in Francia una carestia biblica, che sembra abbia ucciso 6 milioni di persone321, ma la rivoluzione ci fu solo nel 1789, 20 anni prima del suo scoppio i contadini normanni sopravvivevano mangiando l’erba322, ma la rivoluzione scoppierà dopo a Parigi ed avrà come “massa di base” i sanculotti che, come dice la parola, non avevano le mutande ma non mangiavano erba.
Ciò premesso cerchiamo di evidenziare quale sia la situazione nel 2012 cominciando dai due colossi asiatici (Cina e India) dove vive oltre il 35% della popolazione mondiale (ed anche più se consideriamo quella nascosta) . In Cina non mancano notizie di conflitti seri, sia a livello operaio che per motivi ecologici, ma la cosa fondamentale è che la crescita del PIL sia scesa sotto il livello dell’8% che , per la Banca Popolare di Cina, è un livello sotto il quale la situazione sociale potrebbe diventare ingovernabile323. Abbiamo visto che la paura prende anche l’alta borghesia che cerca di scappare dal paese e si propaga anche ai vertici del partito: due episodi sono emblematici, il primo è la catastrofe che si abbatte su Pechino (nubifragio) ponendo in luce l’inefficienza della macchina comunale dei soccorsi, la popolazione chiede la testa del sindaco e il partito gliela concede324; ancora, ben 1600 dirigenti e quadri del PCC chiedono il pensionamento di Hu e di Wen, a causa delle tensioni socio-economiche che sconvolgono il paese325, pensionamento che il recente congresso del PCC (novembre 2012) ha effettivamente concesso.
In India, come ho rilevato qualche anno fa, esiste un movimento di guerriglia in forte espansione cui si contrappone un apparato repressivo inadeguato326. La cosa viene normalmente ignorata dai media occidentali a meno di casi clamorosi e all’inizio anno abbiamo il caso di due cittadini italiani rapiti dai guerriglieri che impongono le proprie condizioni al governo indiano, che cede.
Come si diceva l’apparato repressivo è inadeguato a fronteggiare la guerriglia e con uno sviluppo al 5-6% del PIL (bassissimo per l’India, molto più indietro della Cina), le risorse per sostenere la repressione si riducono ed il malcontento popolare cresce.
Ma anche in occidente la situazione si fa sempre più incandescente: il 14 novembre sciopero generale contemporaneo in 23 paesi della UE indetto dalla CES, alla crisi europea comincia a corrispondere un conflitto sociale europeo, fortissima l’adesione e gli scontri in paesi come la Spagna, il Portogallo, la Grecia e l’Italia. Ma è la Spagna che, in questo momento, manda segnali estremamente interessanti: il 19 luglio grande manifestazione a Madrid contro le nuove misure di Rajoy, che bloccano per due anni le tredicesime dei pubblici dipendenti compresi i militari e i poliziotti. Avviene allora un fatto eccezionale su cui la stampa italiana (e non solo) tace: l’associazione delle Forze armate spagnole emette un comunicato durissimo contro un governo di incapaci che tocca diritti che mai avrebbero dovuto essere lesi327. I militari che scoprono di essere lavoratori e di avere interessi simili agli altri lavoratori, una mina vagante per il sistema poiché nessun potere può permettersi il lusso di non pagare i propri legionari o pretoriani328. Ma non è tutto, i tagli di Rajoy colpiscono anche le autonomie locali che si ribellano: a settembre un milione e mezzo di catalani scende in piazza per chiedere l’indipendenza, ad ottobre elezioni locali in Galizia e nei Paesi baschi, Rajoy vince nel suo feudo storico (la Galizia) ma non nei Paesi baschi dove trionfano gli indipendentisti; le due regioni più ricche prendono il largo, la crisi fiscale dello Stato fa saltare tutto dai rapporti con i militari a quello delle province autonome ed anche con i sindaci, infatti si rileva che in molte cittadine dell’interno della Spagna i sindaci guidano i loro concittadini a fare la spesa nei supermercati, ma senza pagare, poiché si dice “Noi pensiamo ai problemi della gente e non allo spread”329; un tempo in Italia queste cose si chiamavano “espropri proletari” oggi in Spagna le guidano i sindaci: “l’albero della storia è sempre verde” diceva Lenin e, aggiungo io, pieno di imprevedibili sorprese. Non meno rilevanti le notizie che vengono dalla Grecia dove gli scioperi generali e l’assedio del Parlamento sono un fatto normale: ad ottobre il premier Samaras comunica che ha soldi fino a novembre, poi lo Stato dovrà chiudere. Un chiaro messaggio alla UE perché allenti i cordoni della borsa, infatti se lo Stato chiude nessuno affronterà la folla inferocita, non lo faranno certo soldati e poliziotti senza stipendio.
Credo che a questo punto il governo greco spunterà qualche elemosina ma come dico da anni, non puoi chiudere la falla se la pressione dell’acqua rimane invariata ed insostenibile, anche qui non puoi intervenire sugli effetti senza eliminare le cause, il guaio è che nessuno sa come farlo in UE come in Grecia e non sarà una piccola elemosina della UE a risolvere il problema. Inoltre, sempre in Grecia, avviene un altro fatto emblematico: il giornalista Costas Vaxevanis, detto l’Assange greco, pubblica l’elenco di 2059 di evasori fiscali (tra cui due ex ministri), che il governo ha avuto dalla signora Lagarde, senza agire in alcun modo contro gli evasori stessi, al contrario il governo fa arrestare il giornalista che viene processato per direttissima, ed assolto per direttissima. Negli stessi giorni la Corte dei Conti greca dichiara incostituzionale la quinta riduzione consecutiva delle pensioni dal 2010 e l’innalzamento dell’età pensionabile da 65 a 67 anni. Un potere screditato come non mai non riesce a controllare neanche più la magistratura come è accaduto (e accade ancora) in Italia330.
Da noi avvengono vari eventi di notevole interesse come il disfacimento dei partiti (ascesa del Movimento 5 Stelle, crisi delle Regioni Lombardia e Lazio, crisi di PDL e IDV, esplosione dell’astensionismo elettorale), ma tra essi uno mi ha colpito in particolar modo, come indice della crisi: un’inchiesta ha evidenziato che 100 mila tra poliziotti, finanzieri e carabinieri dismessa l’uniforme fanno un secondo lavoro “regolarmente in nero”, con retribuzioni bassissime331. Anche qui emerge come uno Stato in crisi e in disfacimento non ha neanche i soldi per pagare coloro che dovrebbero garantire l’ordine pubblico (e capitalistico) il che è un segno di una crisi radicale ed estrema che, però, è generale: la rivolta di Tottenham dell’anno scorso ha evidenziato la carenza degli organici della polizia inglese tagliati dalle manovre degli ultimi anni, in USA si licenziano i pubblici dipendenti siano essi poliziotti o pompieri, ed in genere si riducono le spese della difesa (come anche altrove)332. Se, a fine anno, non potrà evitarsi il fiscal cliff, di cui abbiamo parlato, nel bilancio americano si taglierà tutto in modo selvaggio e lineare dalla spesa sociale a quella per la difesa, ma anche se il baratro verrà momentaneamente evitato, il problema del debito e del deficit americano è drammatico ed insolubile.
Dall’India agli USA il panorama generale è chiaro: lo Stato nazionale è alle corde e non può pagarsi neanche la sicurezza, tutto si sfascia e si sbriciola. Un tempo il pubblico impiego era uno dei pilastri del consenso al sistema: garantiva il posto fisso (quello che oggi sarebbe noioso secondo alcuni), era una spugna della disoccupazione, si andava in pensione in un’età accettabile, gli orari ed i ritmi di lavoro non erano quelli molto più duri dell’industria etc.333. Adesso tutto questo è un ricordo ucciso dall’austerità incalzante negli ultimi anni: si licenzia, si blocca il turnover nella pubblica amministrazione, con conseguenti carichi di lavoro crescenti, aumenta l’età pensionabile sicché l’era dei privilegi è finita. È quello che accade ai pubblici dipendenti accade anche ai colletti bianchi privati, per comune ammissione le classi medie si stanno impoverendo, del resto i dati forniti prima sulla stratificazione dei redditi, e sulla disoccupazione generalizzata, sono chiari: c’è un 10% della popolazione mondiale che si taglia una fetta spropositata della ricchezza ai danni del rimanente 90%: non è solo la vecchia classe operaia che viene colpita ma anche le c.d. classi medie impiegatizie e non.
Accadono allora fatti emblematici: a Tel Aviv un medio borghese di oltre 50 anni si brucia in pubblico e lascia tra le sue carte uno scritto in cui accusa lo Stato, il suo Stato, di averlo derubato di tutto a cominciare dal futuro334; oltre 30 anni prima, nel 1980 40 mila quadri della Fiat di Torino marciavano per affermare la loro diversità dalla classe operaia con cui non volevano essere confusi, loro erano altra cosa e altra classe. Da allora tanta acqua è passata sotto i ponti, la media borghesia di Israele impoverita e disperata, invade le piazze e un proprio esponente si brucia, compiendo un atto estremo: le classi medie stanno cambiando da portatori di privilegi modesti ma reali, da sottoufficiali del capitale, sono diventati dei disperati che fanno parte del 90% inferiore della società, che, con diversi ritmi, scivola lentamente ma inesorabilmente verso il basso anno dopo anno.
Sul problema delle classi medie, Marx ed Engels assunsero due posizioni diverse ed inconciliabili. Nel “Manifesto”, essi parlano di classi medie che precipitano verso il basso andando a fondersi con il proletariato335, ma dopo nelle “Teorie sul plusvalore”, Marx scopre che le classi medie crescono e che esse possono pericolosamente allearsi con il capitale dandogli una base di massa336; nel “Capitale” scoprirà poi che queste classi, stando ai dati del censimento inglese del 1861, erano già diventate più numerose degli operai337. Chi scopre, nel secondo dopoguerra, che i colletti bianchi hanno superato gli operai numericamente, scopre l’acqua salata nel mare, in realtà queste tendenze sono molto antiche ed esprimono non il superamento ma il coronamento della società industriale338.
È accaduto che entrambe le previsioni di Marx ed Engels si sono verificate non certo contemporaneamente, essendo alternative, ma in tempi diversi, la seconda previsione (quella del “Capitale” e delle “Teorie sul plusvalore”) si è verificata per prima, e quella del “Manifesto”, enunciata per prima si sta verificando per seconda.
Il capitalismo, infatti, ha cooptato nel suo sistema di potere (grazie all’azione dello Stato e delle sue mediazioni politiche) le classi medie, da Bismarck a Giolitti in poi339. L’espressione la società dei 2/3 ed 1/3 esprimeva bene questa realtà: 2/3 garantiti ed 1/3 (una minoranza cioè) che non lo era, il sistema si era dato una base di consenso di massa. Nel giro di pochi decenni questa realtà si è sbiadita, uccisa dalle sperequazioni sociali insultanti e crescenti, e da una disoccupazione di massa dilagante, ben al di là dei dati statistici ufficiali pur rilevanti: la previsione del “Manifesto” è diventata realtà e sicuramente molti dei 40 mila che parteciparono alla marcia del 1980 sono finiti licenziati e impoveriti (la crisi della Fiat all’inizio degli anni ’90 colpì pesantemente i colletti bianchi).
La base di massa dei movimenti che agitano ora il mondo occidentale sta in questa realtà: da Occupy Wall Street , agli Indignatos spagnoli, ai sindaci di quel paese che guidano gli espropri proletari, ai borghesi israeliani che invadono le strade di Tel Aviv, tutto ci fa supporre che le cause che alimentano queste esplosioni sociali rimarranno vive e si estenderanno negli anni a venire. Crisi insolubile e diseguaglianze crescenti non possono che buttare benzina sul fuoco.
Un ultimo rilievo riguarda la natura di questi movimenti e del loro rapporto con i vecchi movimenti di ribellione in particolare con il mitico ’68. Noi (parlo da vecchio sessantottino) eravamo molto più ideologizzati dei nostri discendenti poiché vivevamo in un mondo diviso in blocchi, anche ideologicoculturali, per cui ci si schierava, vivevamo altresì in una realtà in cui il problema dell’imperialismo si poneva in modo brutale (la guerra in Vietnam), ma come spesso accade nella storia ci sono momenti in cui è possibile porre un problema ma non risolverlo. L’imperialismo c’era ed ostentava sfacciatamente la sua aggressiva potenza , ma era ancora forte ed aveva una solida base di consenso. La ripresa delle lotte operaie negli anni che segnano la fine del miracolo post-bellico, dette la sensazione che avanguardie operaie e studentesche potessero fondersi in un quadro alternativo al sistema, che guardava anche alle lotte nel Terzo mondo (Vietnam innanzitutto). Poi la crisi del 1973-75 e il riesplodere della disoccupazione di massa, acuitasi con la ripresa del ’76-’79 ed in seguito, fecero rifluire le lotte operaie e gli studenti e gli intellettuali rimasero isolati: la marcia dei 40 mila a Torino fu il segno di questo isolamento anche a livello internazionale: il capitalismo era ancora forte ed aveva la sua base di massa, spezzate le lotte operaie con la crisi si aprì un lungo periodo di stabilizzazione sociale.
Adesso, però, questo quadro è cambiato, la crisi-depressione che viviamo sta facendo saltare ogni equilibrio e sta erodendo la base di massa del sistema. Qualche vecchio sessantottino “purista” manifesta una sorta di puzza al naso nei confronti dei giovani dei nuovi movimenti che non avrebbero una adeguata preparazione politico-culturale, e che sarebbero troppo pragmatici, il che può anche essere vero ma personalmente me ne infischio. I movimenti alternativi nascono spesso, se non sempre, su parole d’ordine pragmatiche: la politica dei Soviet del 1917 era condensata in tre parole: pane, pace, terra, il socialismo non era contemplato. Quando nel 1927 un oscuro quadro cinese del PCC analizzò le lotte contadine nell’Hunan identificò nelle parole d’ordine dei contadini la via per la rivoluzione cinese, eppure quelle parole d’ordine era moderatissime, non dico per una rivoluzione ma anche per un riformismo modernizzatore, si chiedeva la lotta al brigantaggio, la riduzione (non l’eliminazione) dei fitti, la riduzione (non l’eliminazione) dei tassi usurai etc.340, richieste minimaliste ma che quel sistema non poteva dare come nella Russia del 1917 non poteva dare il pane, la pace e la terra. Analogamente oggi: gli Indignati ed altri movimenti simili, chiedono alla democrazia liberale di essere meno lontana dai loro problemi, le chiedono un futuro ed un lavoro di cui vivere dignitosamente341, quello che il nostro sistema, sia a livello economico che politico, non può dare.
Il sistema non lo si rompe con le proclamazioni rivoluzionarie, ma con parole d’ordine concrete che partano dai bisogni reali degli agenti sociali e perciò stesso evidenzino l’incapacità del sistema a soddisfarli. La vera differenza tra noi sessantottini e nuovi movimenti sta in ciò che noi, dopo la crisi degli anni ’70 eravamo condannati a perdere, loro possono vincere e non è una differenza da poco.
Cosa nascerà dalla fine del capitalismo non lo so, e non credo sia possibile prevederlo, come diceva Lenin “L’albero della teoria è grigio e quello della storia è sempre verde”.
Una cosa, però, è certa questo sistema sta crepando e niente e nessuno potrà salvarlo, prepariamoci, dunque, a vivere questa realtà.
_______________________________