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Article Index

 

 

§. 5 - Urgenti compiti, oggi, della teoria.

Quali sono i problemi principali, a cui dobbiamo applicarci teoricamente, per dare una base solida alla prassi?

1 - La borghesia è riuscita a rendere la loro storia qualcosa di estraneo per gran parte dei comunisti, ottenendo così di distruggere l’identità epocale del movimento comunista. E che a ciò la borghesia sia riuscita è, ovviamente, un problema di egemonia ideologica. D’altra parte è vero che noi siamo comunisti, nella misura in cui ci riconosciamo parte e risultato della intera storia del movimento rivoluzionario dei lavoratori -con il suo eroismo, i suoi successi, ma anche con tutti gli errori e delitti, che ci si può attendere in una tale “lotta per la vita o la morte” (Hegel).

Lo snodo principale nella storia del movimento rivoluzionario è dato dalla Rivoluzione d’Ottobre, in cui la classe lavoratrice ha saputo conquistarsi la vittoria politica contro un intero mondo nemico ed iniziare, anche, la costruzione di una società socialista.

Questi son punti fermi, pur se le non risolte contraddizioni interne nella fase di costruzione del socialismo e la potenza del nemico esterno, alla fine, hanno portato alla sconfitta di questo primo tentativo.

Resta che la classe lavoratrice, guidata dal PC, ha di fatto dimostrato che, pur in condizioni certamente sfavorevoli, è capace di ottenere, lottando, effettivi progressi - l’impoverimento, dopo la contro-rivoluzione, dei Paesi un tempo socialisti non fa che sottolineare la portata delle conquiste, che erano state realizzate.

Tuttavia, non possiamo difendere la nostra eredità, se non ci impegnano a spiegare, con lo strumento dialettico offertoci dal materialismo storico, quelle stesse obiettive contraddizioni interne, che hanno portato al crollo. La solidarietà emozionale e la difesa morale -per quanto parti integrali del nostro comportamento, della nostra soggettività e del nostro slancio rivoluzionario- certamente non bastano.

Dobbiamo distinguere, infatti, tra moralità personale e strutture storiche sovra-personali, se non vogliamo precipitare in quel ‘punto di vista del cameriere’, di cui Hegel con disprezzo diceva; il quale punto di vista comporta la riduzione della politica alle categorie della vita personale: alla coscienza del borghese, noi dobbiamo invece contrapporre quella del cittadino!

Un’analisi storico-materialistica della nostra stessa vicenda come storia di un’aspra lotta di classe internazionale, ci garantisce la nostra identità di comunisti.

Identità, che comprende entro di sé Marx, Engels, Labriola, Gramsci, Lenin, Stalin e Mao; identità che -come vuole la dialettica- è identità di identità e non-identità. Solo con una critica fondata teoreticamente possiamo acquisire la forza di riconquistare l’iniziativa strategica.

 

2. Diciamo con nettezza che la Rivoluzione d’Ottobre non fu un errore storico, pur se avvenne in condizioni di immaturità e arretratezza. Per chiarire quale significato paradigmatico abbia la Rivoluzione d’Ottobre, dobbiamo comprendere che il capitalismo del XX° secolo possedeva sufficienti risorse e possibilità di sviluppo, da sopravvivere nel lungo termine alla crisi generale provocata dalla prima guerra mondiale. Non esiste, però, una ‘fine della storia’, come vorrebbero farci credere certi filosofi borghesi; e poiché la storia va oltre l’attuale fase di dominio universale del capitale, la nostra epoca resta quella del passaggio dal capitalismo al socialismo (oppure -in alternativa- alla barbarie, come opportunamente chiariva la Rosa Luxemburg). Ma poiché il capitalismo oggi -come nel 1917/18- è sufficientemente forte, ricorrendo sia alla repressione che alla manipolazione ideologica, da affermarsi contro le forze rivoluzionarie, permane, di nuovo come nel 1917, la possibilità che la catena si rompa in un qualche suo anello debole, vale a dire in un Paese che, per quanto arretrato, presenti tuttavia contraddizioni aspre ed esplicite.

Ma qualunque rivoluzione, oggi, non potrebbe che essere tendenzialmente socialista: infatti, in nessun paese sviluppato esiste più la possibilità che si determini una rivoluzione borghese, capace di confermare che al socialismo si può arrivare solo attraverso la società borghese. Detta in altre parole, ogni rivoluzione borghese renderebbe il paese in cui avvenisse, diponibile non ad una fase di sviluppo capitalistico proprio, ma sì oggetto di sfruttamento per l’accumulazione capitalistica delle Potenze imperialiste: a partire dal 1945 abbiamo acquisito molti esempi di ciò.

Non è improbabile che, anche nel futuro, la società che passerà dal capitalismo al comunismo, dovrà aver compiuto -così come l’Unione Sovietica del 1917- un salto da un capitalismo quasi coloniale al socialismo, con tutte le contraddizioni -economiche, istituzionali, ideologiche- conseguenti.

Da ogni rivoluzione -che avverrà o da quella che, oggi, ancora può resistere (com’è il caso di Cuba) alla pressione del capitalismo- chiamato in causa è l’intero movimento comunista mondiale: non solo per solidarietà, quanto piuttosto  per una concezione internazionalistica della lotta di classe, libera da ogni interclassismo, perché questo non altro significa se non la vittoria della classe dominante.

Mi sembra evidente che una rivoluzione, dovunque avvenga, può garantire se stessa solo costruendo un regime che, almeno in certi tratti essenziali, sia socialista; altrettanto evidente mi appare che ciò è possibile, solo, attraverso la dittatura del proletariato. Nella quale, però, si nascondono pericoli di deformazioni -e nel passato ne abbiamo sperimentato esempi precisi-, per evitar i quali è necessaria una teoria dell’organizzazione dello Stato e della società in Paesi, che vengono alla rivoluzione senza esser passati attraverso un regime di Stato di diritto, qual è proprio di società borghesi pienamente sviluppate.

Ché, infatti, un conto è passare da un sistema borghese del diritto ad uno socialista; tutt’altro è, invece, passare a quest’ultimo, partendo da livelli giuridici pre-borghesi.

Per quanto possa aver un peso decisivo la particolarità delle situazioni, tuttavia, esattamente quella particolarità storica nasconde in sé il pericolo di scadere in un pragmatismo opportunistico, il cui contrappeso può esser rappresentato dalla elaborazione teorica di precise condizioni formali della legalità socialista.

 

3 -  Sia l’esperienza storica cha abbiamo accumulato, sia la conoscenza dialettica delle contraddizioni strutturali di ogni costruzione sociale ci apprendono, entrambe, che la lotta di classe continua anche durante il processo di costruzione del socialismo -lotta di classe, che le minacce esterne ovviamente acuiscono. Sia Stalin che Mao hanno sottolineato questo lato della dialettica storica.

Anche dopo che siano stati instaurati rapporti socialisti di proprietà, per un lungo periodo di tempo continuano ad agire sugli uomini orientamenti, attese e scale di valore pre-socialisti.

Il potere della coscienza non gioca solo a favore della rivoluzione, ma sì anche a vantaggio dell’aperta controrivoluzione e della resistenza passiva ad essa (altrimenti, fenomeni come Krusciov e Gorbaciov risulterebbero incomprensibili).

Ogni teoria della costruzione del socialismo -e noi per poterci dare obiettivi credibili abbiamo, certo, bisogno della critica del capitalismo ma, appunto, anche di una teoria del socialismo- deve riuscire a precisare gli aspetti qualitativi nuovi della lotta di classe, quando il problema sia difendere il potere politico conquistato dal proletariato.

Prima della rivoluzione noi combattiamo un sistema di potere esistente, ma dopo la rivoluzione noi dobbiamo assumere il potere allo scopo di costruire una società priva di dominazione e, poste le crescenti resistenze interne ed esterne, il potere statale non può privarsi dell’arma della repressione: questa, appunto, era la situazione, in cui si trovava l’Unione Sovietica fra le due guerre e questa è una contraddizione che, in situazioni analoghe, si ripeterà.

Da parte nostra dobbiamo attrezziarci, anche teoreticamente, ad affrontarla, se non vogliamo commettere gli stessi errori, che son stati compiuti durante il primo tentativo di costruzione del socialismo.

E’ evidente che ogni società socialista che si svilupperà in un ambiente capitalistico ostile dovrà prepararsi a respingere atti di sovversione e di aggressione: regola aurea della sua azione politica e della sua pianificazione economica sarà non lasciarsi dettar condizioni dal nemico (la compressione del socialismo mediante le conclusione del Ksze (?), obiettivo dell’Occidente oggi apertamente confessato, a suo tempo fu sottovalutata).

L’unità politica della direzione statale socialista, la rimozione delle basi economiche delle strutture classiste ed un attento processo d’educazione sono momenti irrinunciabili d’un programma di trasformazioni di lungo periodo.

Ma su questo bisogna aver le idee chiare: la trasformazione verso il socialismo può esser raggiunta solo se ad essa collabora la maggioranza del popolo. E ciò significa: partecipazione crescente dei cittadini all’attività dello Stato, forme democratiche che dal basso vadano verso l’alto, espansione degli istituti d’autogoverno, coinvolgimento dei lavoratori nella direzione delle imprese, ecc.

Molto di ciò la Costituzione sovietica prevedeva, ma solo in parte fu effettivamente realizzato: il fatto è che, però, la democratizzazione della società costituisce un tutto e, dunque, deve improntare di sé ogni ambito dell’esperienza collettiva.

La contraddizione tra fini stabiliti e loro realizzazione non sta, in primo luogo, nella coscienza degli attori politici, ma nello squilibrio obiettivo, che segna ogni epoca di passaggio da una formazione sociale ad un’altra e che, naturalmente, si riflette anche nella coscienza degli uomini; è questa una contraddizione che può esser risolta da un’adeguata riflessione teorica.

Chiaramente, la libertà del confronto teorico è un presupposto in vista del superamento di tali contraddizioni e per rinvenire le strategie pratiche, attraverso cui giungere alle adeguate forme d’organizzazione sociale.

Ma altrettanto è chiaro che gli scontri frazionistici per il potere mettono in pericolo la già precaria stabilità raggiunta dal regime e, pure, sono un aiuto certo -per quanto involontario- al nemico.

L’unità del Partito -dunque, della forma in cui si organizzano le forze rivoluzionarie- è una condizione della sua capacità di agire. Va da sé che la costruzione di una società nuova è un percorso che prevede la possibilità di varianti: di qui l’altrettanto possibile presentarsi di dissensi all’interno del Partito. Solo un alto livello teorico può garantire che quei dissensi non si traducano in lotte frazionistiche, ma sì in dibattiti da risolvere con argomenti.

La fondatezza di questa prospettiva è data dal fatto che, nel contesto della nuova società, il problema nella sostanza non è come realizzare compromessi fra interessi diversi, ma piuttosto come giungere a decisioni, da cui derivino norme di comportamento coerenti con la stessa natura profonda della società in questione.

Nella prospettiva della costruzione di una nuova società, il modello del parlamentarismo borghese non è proponibile; nella costruzione dell’Unione Sovietica, un grave limite, foriero di autentiche sciagure, fu rappresentato dal fatto che le strutture di potere mediante cui esercitare la dittatura del proletariato furono, a dir così, assunte ‘naturalmente’ e per questo presero forme burocratico-poliziesche. Non avendo avuto il dibattito sull’ordinamento costituzionale effettive radici nella vita sovietica, la stessa Costituzione del ‘36 restò qualcosa di astratto e inefficace.

 

4. Nel tentativo di costruire il socialismo, i comunisti si trovarono nella condizione di procedere al progressivo raggiungimento della nuova società, immediatamente, per via puramente pratica, partendo solo dalla critica al capitalismo.

Oggi, dopo il fallimento del primo tentativo di costruzione del socialismo e per rettificare gli errori compiuti, i comunisti abbisognano non solo di una critica del capitalismo, ma anche di delineare, sia pure a larghi tratti, il profilo fondamentale d’una società socialista e del suo modo di funzionare -e ciò anche allo scopo di battere l’argomento, secondo cui il nostro progetto è già stato sconfessato dalla storia.

Per chi pensi dialetticamente risulta chiaro che la nuova qualità si va definendo solo mediante la “negazione determinata” della formazione superata: il che significa che l’analisi strutturale dell’attuale capitalismo e delle sue interne contraddizioni è un presupposto per rispondere ai problemi posti dal passaggio al socialismo.

Abbiamo bisogno di una teoria dell’economia politica nell’attuale capitalismo, che sia capace di dire a cosa porti il fatto che l’accumulazione del capitale venga perseguita con crescente rapidità e che, nello stesso tempo, il potere d’acquisto delle masse diminuisca nelle metropoli, mentre nei Paesi dipendenti progredisce un impoverimento assoluto che, ormai, colpisce la metà del genere umano.

Il fatto, inoltre, che l’accumulazione avvenga sempre di più nella forma di operazioni finanziarie e non per effetto della crescita della produttività sta a segnalare un nuovo stadio della crisi.

Quali nuove forme dinamiche ha assunto, allora, la contraddizione fra capitale e lavoro ed in quali istituzioni sociali si manifesta?

Quali effetti ha la contraddizione, che necessariamente si va approfondendo, fra economia capitalistica e condizioni ecologiche di sopravvivenza?

Quali sono le strategie che assume la spoliticizzazione, il cui effetto è mettere la sordina sulla lotta di classe?

Quali forme d’organizzazione deve promuovere la classe lavoratrice, per contrapporsi all’internazionalizzazione del capitale? Ecco le molte domande, a cui poche risposte son state date finora.

Quello che è certo è che tali risposte non possono esser ricavate dalla casualità della lotta politica quotidiana, dacché richiedono, invece, concezioni teoriche, che consentano una comprensione della realtà non per via di mère descrizioni fenomeniche, ma sì attraverso elaborazioni categoriali.

 

5. Oggi la coscienza gioca un ruolo quanto mai importante per il movimento rivoluzionario, se consideriamo l’opacità e la frammentarietà di dati empirici, con cui la realtà si presenta a noi; o se badiamo all’impenetrabilità di quelle strutture, che sembrano dare un corso inevitabilmente determinato ai processi sociali ed, infine, se abbiamo a mente la funzione deviante ed ingannatoria dell’ ‘industria culturale’.

Coscienza significa “tensione del concetto” volta a cogliere la complessità delle mediazioni al di sotto dell’immediato apparire; ma significa, anche, scelta di quel punto di vista di classe, a partir dal quale la lotta deve esser combattuta; infine,  coscienza significa, anche, proiezione della consapevolezza del generale sui contenuti degli interessi e dei vissuti soggettivi.

Senza quell’ “algebra della rivoluzione” di cui diceva Herzen, l’immediatezza delle esperienze di vita condurrebbe ad un castrante pluralismo soggettivistico; come d’altro lato è vero che se non riuscisse a tradursi nella particolarità delle situazioni, quella stessa “algebra” si inaridirebbe in vuoto schematismo.

La via regia della dialettica si muove nei due sensi: la visione individualizzante del soggetto umano vien sollevata all’altezza dell’universalità del concetto, trovando nel punto di vista di classe il proprio superamento, dunque, conferma e negazione ad un tempo; da parte sua, l’universalità del concetto si mostra e realizza nell’unicità dell’esistenza individuale.

“La via in su e la via in giù son la stessa via”, diceva Eraclito; ma quella via va percorsa nei due sensi -appunto, in su e in giù-, perché si realizzi la dialetticità del vero, l’unità di teoria e prassi.

Nella sconfitta, la parte più consistente e solida del DKP si è mantenuta e riorganizzata: che questo nucleo possa tornare a costituire l’avanguardia combattiva della classe lavoratrice, dipende dal suo riuscire a battersi per una nuova società (socialista), senza illusioni ma anche senza disfattismo. Al fine di determinare gli scopi e la strada per raggiungerli, senza sbandamenti opportunistici, è necessario il rigore della teoria, del materialismo storico, della dialettica, del marxismo-leninismo. Poichè né la coscienza di classe né la solidarietà fra i lavoratori si danno e conservano spontaneamente ma, al contrario, per potersi sviluppare e consolidare richiedono una conoscenza generale della condizione della classe. La teoria, dunque, la visione scientifica del mondo, giocano un ruolo centrale, determinante, ineludibile: è solo sul terreno di una comune visione del mondo che la classe lavoratrice può superare la propria frantumazione, prodotta dal capitalismo stesso.

Quindici anni dopo il congresso di Mannheim, con le tesi programmatiche accolte nel 1993 (di nuovo a Mannheim), la DKP è tornata a posarsi sul terreno della visione del mondo della classe lavoratrice. Nel suo statuto il Partito si è impegnato “a contribuire dal punto di vista organizzativo alla precisazione ed ulteriore sviluppo del socialismo scientifico ed a far sì che i comprovati risultati di questo lavoro scientifico contribuiscano a determinare la sua volontà.” (art. 3). La volontà dei militanti sollecita il Partito a verificarsi, praticamente e teoricamente, nell’adempimento di questo suo impegno: il socialismo non ci cadrà in grembo, ma deve esser conquistato da un agire, che abbia alla base conoscenze e concezioni  scientificamente corrette.

 

3° capitolo - Carattere d’un partito leninista.

 

Nel Che fare? -opera decisiva per definire la teoria del Partito- [21], Lenin elabora il tema dell’unità fra orientamento scientifico-filosofico e strategia politica come forma essenziale e principio organizzativo di un PC. A circa un secolo di distanza le tesi leniniane sono ancora di somma attualità, perché non si confrontano solo con i problemi organizzativi e di linea politica di un Partito frantumato in tante formazioni locali e, per lo più, costituito di un piccolo nucleo centrale intorno al quale ruotavano simpatizzanti con deboli legami organizzativi;  ma in generale e prima di tutto quelle tesi fanno i conti con la tendenza a contenere l’orizzonte del lavoro politico nella piccola dimensione locale, nelle iniziative a corto raggio, nell’ambito immediatamente sindacale, senza dunque proiettarlo su dimensioni di più ampio respiro.

Quelle attività di base son destinate a sboccare in un orientamento riformistico, se non vengono integrate da elaborazioni teoriche e processi di formazione culturale, legati ad un’analisi complessiva della società e se non vengono, in questo modo, ricavati dalle e collegati alle contraddizioni fondamentali della società capitalistica ed al quadro storico complessivo della lotta di classe.

L’argomentazione di Lenin - in primo luogo orientata sulla situazione del POSR-, tuttavia, ha valore per l’intero movimento rivoluzionario, dacché le tendenze riformistiche da lui criticate (promosse in primo luogo dagli scritti di E. Bernstein), in ogni tempo hanno indebolito politicamente il movimento dei lavoratori ed immiserito la sua forza d’urto contro il sistema capitalistico nella prospettiva di una linea tattica, volta a ritocchi e miglioramenti del sistema stesso. In questo modo, la socialdemocrazia finiva con l’essere una forza che, dal’opposizione, contribuiva alla stabilizzazione della società borghese (in piena corrispondenza col parlamentarismo inglese, in cui l’opposizione è, appunto, “l’opposizione di Sua Maestà”). Si tratta, insomma, di una linea che, a dir così, si arrotola in se stessa, poiché manca della concezione, teoreticamente fondata, di una nuova società.

 

§ 1. Il “Che fare?” di Lenin.

Lenin ha criticato la corrente socialdemocratica non solo avendo in mente la Russia, ma anche in generale il riformismo di fine secolo (egli cita espressamente E. Bernstein per la Germania e Millerand per la Francia).

“La socialdemocrazia non può che trasformarsi da partito della rivoluzione sociale in partito democratico per le riforme sociali. Bernstein ha circondato questa rivendicazione politica con un’intera batteria di «nuovi» argomenti e considerazioni abbastanza ben concatenati. Si negava la possibilità di dare un fondamento scientifico al socialismo e di dimostrare che, dal punto di vista della concezione materialistica della storia, esso è necessario ed inevitabile; si negava il fatto della miseria crescente, della proletarizzazione e dell’inasprimento delle contraddizioni capitalistiche; si dichiarava inconsistente il concetto  stesso di scopo finale e si respingeva categoricamente l’idea della dittatura del proletariato; si negava l’opposizione di principio tra liberalisno e socialismo; si negava la teoria della lotta di classe, che sarebbe inapplicabile in una società rigorosamente democratica, amministrata secondo la volontà della maggioranza, ecc.” [22]

E’ in questo contesto che si colloca il chiarimento di quale sia il carattere di un Partito marxista e la determinazione delle sue forme organizzative e di lotta nelle condizioni della Russia zarista.

E’ alla trattazione di questi temi che Lenin dedica il Che fare? ed in particolare al “carattere e contenuto principale della nostra agitazione politica; dei nostri compiti organizzativi e della costruzione di una combattiva organizzazione panrussa, che sorga nello stesso tempo da parti diversi.” [23]

La struttura dello scritto ne riflette lo scopo: i primi tre capitoli si occupano dei caratteri fondamentali del Partito; il quarto della concreta forma organizzativa; il quinto dei compiti organizzativi più ravvicinati.

In apparente contraddizione con lo scopo immediato, la discussione di principio, svolta nella prima parte, occupa più spazio delle altre due messe assieme e abbraccia tre dei cinque capitoli; questo squilibrio ha, per Lenin, un significato metodologico centrale: come leggiamo nella prefazione: “E’ ora indubbio che la diversità delle opinioni sul modo di risolvere questi tre problemi si spiega in misura molto maggiore con l’opposizione radicale di due tendenze nella socialdemocrazia russa che non con una divergenza su questioni di dettaglio.” [24]

Neppure è difficile rendersi conto del fatto che l’energia con cui, nel testo, vengono messe in discussione decisioni politiche attuali, anch’essa, presuppone un preciso atteggiamento metodologico -o, strategico, per dirla col linguaggio della politica-, il quale deriva dalla forte consapevolezza dell’unità di teoria e prassi.

La teoria non è mèra riproduzione ed interpretazione del dato, ma sì anticipa norme di comportamento, adeguate a modelli sistematici della realtà ed a prospettive finalistiche, le cui radici stanno nelle possibilità che si lasciano ricavare dai modelli «reali», perché inerenti all’effettuale. Il procedimento di Lenin consiste nel ricavare dall’analisi particolare teorie che pretendono di valere ad un alto livello di generalità. Tale procedura esemplifica quella che chiamerei deduzione dialettica.

Essa si esercita non solo su una difficoltà da indagare ulteriormente, ma sì anche su una contraddizione, espressa da due correnti interne alla socialdemocrazia russa e rispetto alla quale è necessario decidere.

Questa contraddizione vien riportata al suo fondamento teoretico ed, esattamente, alla opposizione tra opportunismo e cosidetto dogmatismo; in fine si mette in luce come questa contraddizione riguardi in generale il movimento operaio internazionale.

“Infatti, non è un mistero per nessuno che nella socialdemocrazia sociale contemporanea si sono formate due tendenze e che la lotta fra di esse ora si accende e arde di vivida fiamma, ora si smorza e cova sotto la cenere di importanti «risoluzioni di tregua». In che cosa consista la «nuova» tendenza che tratta «criticamente» il «vecchio» marxismo «dogmatico», Bernstein lo ha detto, e Millerand lo ha mostrato con sufficiente chiarezza.” [25]

Che tale contraddizione non sia solo generale ma anche necessaria, lo si ricava dalle condizioni in cui nasce il movimento dei lavoratori.

Lo organizzazioni del proletariato sorgono dalla convergenza degli interessi dei lavoratori, in particolare, dall’interesse di rafforzarsi per lottare contro uno sfruttamento ed un’oppressione, sperimentati vissuti e sentiti in prima persona.

Ma, appunto, le esperienze e i sentimenti vissuti -nel loro contenuto- rimandono al caso singolo o, al più, alla somma dei casi singoli: laddove manchi la generalizzazione, che proviene da una teoria della società come un tutto, la questione si riduce al cercar rimedio ad un danno sentito come tale e, dunque, politicamente ne conseguono solo riformismo, opportunismo, trade-unionismo.

Il carattere del movimento dei lavoratori vien definito dal livello di astrazione, al quale si comprendono ed articolano gli interessi della classe lavoratrice: è per questo che Engels indicava la classe lavoratrice come l’erede della filosofia classica tedesca. Ovviamente, le astrazioni della teoria presuppongono l’esperienza dell’oppressione, dato che -e Kant lo diceva- se in mancanza di concetto le rappresentazioni sono cieche, a loro volta vuoti sono i concetti senza le rappresentazioni.

 

§. 2 - La forza della teoria contro lo spontaneismo e l’irresponsabilità

opportunistica.

Quella tra opportunismo e dogmatismo è un’opposizione che, sorgendo dalla pratica politica, si riflette in ambito teorico e, così, si media con la prassi. Nella misura in cui si trasferisce sul terreno della teoria, la prassi risulta allora determinata da decisioni teoriche. Il pluralismo delle opinioni -introdotto mediante lo slogan della ‘libertà di critica’-, nel momento della decisione, risulta del tutto inadeguato poiché vi è solo una verità scientifica.

“Chi fosse effettivamente convinto di aver fatto progredire la scienza rivendicherebbe non la libertà delle nuove concezioni di coesistere accanto alle vecchie, bensì la sostituzione di queste con quelle.” [26]

Per quanto importante e necessaria sia la varietà degli approcci alla verità quando si discutono concezioni e teorie, altrettanto è indispensabile il convergere unitario in un risultato del conoscere scientificamente fondato -il quale, ovviamente, resta sempre provvisoriamente vero e, dunque, superabile ma, nel momento della decisione pratica, può esservi solo una opinione e non una pluralità di pareri.

Assicurarsi la corretta conoscenza è, dunque, un compito necessario alla vita stessa dell’organizzazione proletaria: fa parte della natura stessa di una tale organizzazione che la discussione conduca, in fine, ad una sola teoria valida e praticamente impegnativa.

Per dimostrare la validità generale di tale tesi, Lenin ricorre all’esempio della situazione russa: qual è il ruolo che gioca la teoria nello sviluppo del movimento russo dei lavoratori? La conclusione a cui Lenin giunge è che  senza il lavoro teorico “uno sviluppo soddisfacente del movimento non era possibile.” [27]

L’impossibilità di prescindere da una elaborazione teorica dalle solide fondamenta nei principi, ecco qualcosa che Lenin ha ribadito in più di un’occasione: “Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario. Non si insisterà mai abbastanza su questa idea in un momento in cui la predicazione in voga dell’opportunismo va a braccetto con l’entusiasmo per le forme più anguste di attività pratica... Adesso vogliamo semplicemente far osservare che soltanto un Partito guidato da una teoria d’avanguardia può svolgere la funzione di combattente d’avanguardia... Engels riconosce non due forme della grande lotta socialdemocratica (la politica e l’economica) -come si fa abitualmente da noi-, ma tre, poiché accanto a queste egli pone anche la lotta teorica.” [28]

Queste non sono mère dichiarazioni.

E’ vero piuttosto che il valore della teoria può ricavarsi dalla particolarità storico-politica e dalla costituzione stessa del movimento dei lavoratori. Il quale può raggiungere il proprio scopo -cioè, la liberazione della classe lavoratrice e, così, il superamento di ogni società classista, solo se si pone quell’obiettivo appoggiandosi allo strumento della scienza dialettica, che è, poi, il  modo stesso per individuare quali siano le strade da percorrere.

L’importanza della teoria deriva dal carattere particolare della lotta di classe proletaria, che è formulato nella terza, ottava e undicesima “Tesi su Feuerbach”. [29] Ed, ovviamente, di tanto è imprescindibile la teoria, d’altrettanto la pura spontaneità va respinta.

Com’è naturale, presupposto d’ogni movimento rivoluzionario è la spontanea resistenza allo sfruttamento ed all’oppressione da parte di chi ne fa immediata esperienza: la ribellione contro le macchine, la resistenza dei tessitori della Slesia, scioperi e dimostrazioni operaie, in cui trova sfogo il rancore accumulato, tutti questi sono esempi di manifestazioni spontanee di lotta di classe; da esse si ricava che il proletario è cosciente non solo della propria individuale situazione ma, anche, d’appartenere ad una stessa classe; ciò di cui ancora manca è la coscienza della posizione e ruolo della classe lavoratrice come un tutto -coscienza, d’altronde, che può esser conquistata solo mediante astrazioni e generalizzazioni, che assicurano la mediazione sociale delle particolarità.

In definitiva, la spontaneità, non salita ancora al livello della riflessione teorica, è una condizione necessaria, pur se non sufficiente, della lotta di classe rivoluzionaria.

“Ciò prova che, in sostanza, l’«elemento spontaneo» non è che la forma embrionale della coscienza. Anche le rivolte primitive esprimevano già un certo risveglio di coscienza. Gli operai perdevano la fede secolare nella saldezza del regime che li opprimeva, comiciavano... non dirò a comprendere, ma a sentire la necessità di una resistenza collettiva e troncavano decisamente la sottomissione servile all’autorità. Ma tuttavia ciò era molto più una manifestazione di disperazione e di vendetta che una lotta. Gli scioperi degli anni novanta rivelano bagliori di coscienza molto più numerosi: si pongono rivendicazioni precise, si calcola in anticipo il momento più conveniente, si discutono i casi e gli esempi noti di altre località, ecc. Se le rivolte erano semplicemente sollevazione di gente oppressa, gli scioperi sistematici esprimevano già embrioni di lotta di classe, ma embrioni soltanto. Presi in sé, quegli scioperi erano una lotta tradunionistica, ma non ancora socialdemocratica, annunciavano il risveglio dell’antagonismo tra operai e padroni, ma gli operai non avevano e non potevano ancora avere la coscienza del contrasto irreconciliabile fra i loro interessi e tutto l’ordinamento politico e sociale contemporaneo, cioè la coscienza socialdemocratica.” [30]

La spontaneità si orienta su quegli interessi che, immediatamente e caso per caso, vengon sentiti; si muove, dunque, essenzialmente nel limite dell’ economicismo e non va oltre l’orizzonte del miglioramento di questa o quella condizione di vita e di lavoro; è sì volta al cambiamento sociale, ma solo nel senso di combattere particolari situazioni di ingiustizia.

Con ciò la spontaneità resta dentro i confini di quei rapporti generali di potere, che rendono possibili le singole situazioni d’ingiustizia, contro cui pur si lotta. Quando l’attività politica si confina entro il solo miglioramento di situazioni particolari, con ciò stesso accetta il vincolo degli schemi ideologici, che supportano l’esistente ordine sociale.

Come scrive Lenin, “ogni culto della spontaneità nel movimento operaio, ogni trascuratezza circa la funzione dell’«elemento cosciente», della funzione della socialdemocrazia significa -lo si voglia o no- un’aumentata influenza dell’ideologia borghese sugli operai.” [31]

 

§. 3 - Rivoluzionari nella e contro la società.

Il fatto che l’ economicismo sia interno all’ideologia borghese dominante ha pure conseguenze sulla forma logico-scientifica. La società borghese produce da sé la contraddizione radicale tra capitalisti e proletari ed esiste nella forma di questa contraddizione radicale, come elementi strutturali di se stessa e del suo sviluppo storico. Finché l’attività politica della classe lavoratrice si limita a rappresentare la propria contraddizione radicale alla classe capitalistica come interna alla società borghese -dunque, ad intenderla come contraddizione di interessi parziali-, si mantiene sul terreno di quella società, in cui gioca e giocherà sempre il ruolo della vittima sacrificale.

Nel limite dell’economicismo, l’ideologia borghese, quale espressione della coscienza che di sé ha la società borghese e quale strumento per la perpetuazione di essa, resta l’universale entro cui si mantiene anche l’ideologia proletaria del tradunionismo e del riformismo: la conseguenza è che l’ideologia proletaria vien snaturata a modo particolare di quella borghese.

Lo “sviluppo spontaneo del movimento operaio fa sì che questo si subordini all’ideologia borghese...il movimento operaio spontaneo è tradunionismo, è purosindacalismo, e traduzionismo significa appunto asservimento ideologico degli operai da parte della borghesia. Perciò compito nostro, compito della socialdemocrazia, è lottare contro la spontaneità, deviare il movimento operaio dalla tendenza spontanea del tradunionismo a rifugiarsi sotto l’ala della borghesia e avviarlo sotto l’ala della socialdemocrazia rivoluzionaria.” [32]

Ma nella misura in cui i lavoratori si concepiscono solo come articolazione interna della società borghese, non possono sottrarsi alla coscienza spontanea dei loro interessi come mèri interessi particolari, per i quali ci si batte solo con mezzi sindacali, che non vanno oltre l’orizzonte della stessa società borghese.

La sua coscienza spontanea non consente al lavoratore di cogliere il carattere radicale dell’opposizione tra sfruttati e sfruttatori, tra produzione sociale ed appropriazione privata; né dunque di comprendere che quell’opposizione può esser tolta, solo, superando ogni forma classista di società.

L’inserimento razionale dell’interesse parziale entro quello sociale complessivo richiede una costruzione teorica, di cui la scienza offre gli strumenti. Tale scienza, tuttavia, si è sviluppata nel grembo stesso della società borghese e l’impiego dei suoi strumenti nella lotta di classe proletaria -la qual cosa comporta un mutamento qualitativo della scienza stessa- ha da essere realizzato da scienziati, formatisi all’interno delle scienze borghesi.

“Abbiamo detto che gli operai non potevano ancora avere una coscienza socialdemocratica. Essa poteva esser loro apportata soltanto dall’esterno. La storia di tutti i Paesi attesta che con le sue sole forze la classe lavoratrice è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionista, cioè la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di cercar di ottenere dal governo determinate leggi necessarie ai lavoratori, ecc. La dottrina del socialismo scientifico, invece, è cresciuta dalle teorie filosofiche, storiche, economiche che furono elaborate dai rappresentanti colti delle classi possidenti, gli intellettuali.” [33] In questo modo è posto il problema del carattere di classe della scienza.

Le dottrine scientifiche sono astrazioni teoriche circa problemi reali (Sachproblem), che si pongono in epoche determinate dello sviluppo scientifico e sociale. Queste astrazioni sono legate allo stadio raggiunto dallo svolgersi di quei problemi, il quale a sua volta è condizionato dalla società.

Le astrazioni scientifiche -come capita per la formulazione di leggi scientifico-naturali o di regole matematiche-, possono essere adeguate alla materialità del problema, anche se risultano distorte dalla prospettiva ideologica entro cui la società si pone i problemi. Per quanto, dunque, possano rimandare a stati di fatto effettivi (Sachverhalt), le ideologie non ne offrono tuttavia modelli (Abbild) adeguati.

 

§. 4 - Verità e partiticità.

La deformazione ideologica si opera in seguito alla pressione dei bisogni ed interessi, che una teoria scientifica serve; ma, se ben compreso, l’interesse della classe lavoratrice in quanto sta nel superamento in generale di una società classista, comporta anche il superamento di quei parziali interessi di classe, che conducono a deformare la stessa scienza. In questo senso, cioè considerando la particolare collocazione storica (dunque, anche storico-scientifica) della classe lavoratrice, non si dà propriamente un’ideologia di tale classe, perché i casi son due.

O i lavoratori non sono ancora coscienti della loro posizione di classe e, quindi, sono anch’essi portatori di un’ideologia borghese e si battono per loro interessi parziali,interni alla società borghese.

Oppure, i lavoratori giungono a prender coscienza della loro situazione di classe, ed allora pervengono ad una scienza, la socialista, che non è più affètta in generale da parzialità di interessi.

Con scienza socialista si intende una scientificità, che non rinuncia in nulla al rigoroso rapporto con il vero ed al rispetto, dunque, dei criteri di verità, ma che è caratterizzata dalla partiticità socialista e, proprio per questo, da obiettività ed indipendenza da interessi parziali.

Per la prima volta, la scienza socialista raggiunge quel livello di sviluppo nei diversi ambiti del sapere scientifico, per cui non ha più rilievo la dipendanza dallo scontro fra interessi, deformanti in quanto parziali.

Tuttavia, la stessa scienza socialista si sviluppa solo nello scontro con le posizioni ideologiche della scienza borghese; nella sua prima fase, essa è la teoria del proletariato che, all’interno della società borghese, combatte la sua lotta di classe; nella seconda fase, la scienza socialista è la teoria della dittatura del proletariato, impegnato nella transizione ad una società comunista e, dunque, priva di classi.

Usando un linguaggio comune e non tecnico, Lenin contrappone all’ideologia borghese quella socialista e per caratterizzare il carattere sovrastrutturale di qualsiasi teoria, osserva che “in ogni società contrassegnata da contraddizioni di classe, non può darsi ideologia che si collochi al di fuori o al di sopra delle classi.” [34]

In quanto la cosiddetta “ideologia socialista” assume quale contenuto delle sue teorie scientifiche l’interesse del proletariato e, dunque, la prospettiva di una società priva di classi, di nuovo per la prima volta nella storia della scienza, può essere ad un tempo l’ideologia di una classe e, però, esser libera dalle deformazioni indotte dalla parzialità degli interessi. Ciò perché l’interesse di classe del proletariato coincide con quello dell’umanità in generale. Di qui la distinzione, che opera Lenin.

“Dal momento che non si può parlare di un’ideologia indipendente, elaborata dalle masse operaie nel corso stesso del loro movimento, il problema si può porre soltanto così: o ideologia borghese o ideologia socialista.”; ma consideriamo anche l’illuminante nota posta di Lenin a questa stessa pagina: “ ciò non significa che gli operai non partecipino a questa elaborazione. Essi, tuttavia, vi partecipano non come operai, bensì come teorici del socialismo, come i Proudhon e i Weitling, in altre parole, solo in quanto riescono ad impadronirsi in varia misura delle conoscenze del proprio secolo ed a farle progredire. Ma perché  gli operai vi riescano più spesso è necessario avere la massima cura di elevare il livello della loro coscienza in generale, è necessario che essi non si segreghino nei limiti artficialmente ristretti delle «pubblicazioni degli operai», ma imparino a padroneggiare sempre di più le pubblicazioni in generale.” [35]

Chiaramente, qui, Lenin si muove dal punto di vista di una continuità nella storia della scienza, che ci mette di fronte al compito di concepire il rapporto fra scienza borghese e scienza socialista in termini sia di collegamento che di cambiamento di terreno.

Il “sapere di un’epoca” è un tutto connesso, ma che include anche contraddizioni, nel senso che queste ultime si svolgono, comunque, all’interno dell’orizzonte, circoscritto dall’autocoscienza scientifica di una certa era: in altre parole, quelle contraddizioni sono  compossibili, ovvero, tutte “contemporaneamente possibili”, possono, tutte, coesistere l’una accanto all’altra. Infatti, se quelle contraddizioni fossero tali da impedire ogni unitarietà dell’autocoscienza scientifica, la scienza stessa cadrebbe in una crisi tale, da richiedere una nuova autocoscienza o comprensione di sé.

La contraddittorietà del capitalismo ha trovato subito un’espressione scientifica nella teoria borghese classica della dialettica: l’hegeliana Fenomenologia dello spirito, ad es., disegna il “sistema della scienza”, che è proprio della società borghese; mentre la Filosofia del diritto -sempre di Hegel-  analizza la struttura sociale, che sta alla base di quel sistema della scienza. Il passaggio al socialismo si compie quando queste contraddizioni interne alla società borghese son divenute non più compossibili. L’ideologia socialista si distingue da quella borghese in quanto mette chiaramente in luce come l’intollerabilità delle contraddizioni segni la caduta del sistema sociale ed in quanto fa della teoria il perno dell’azione politica, vale a dire ciò che rende possibile una prassi, legata alla comprensione della società. Ciò significa che la scienza socialista non si differenzia da quella borghese per il criterio formale di scientificità, ma sì per il suo contenuto e per la sua interna, strutturale capacità di connessioni dinamiche. Per due aspetti, in particolare, va sottolineata questa differenza strutturale e di contenuto.

In primo luogo, la scienza socialista, da un lato, individua i processi, che producono -all’interno di uno stesso sistema- contraddizioni radicali ed incompatibili, fino alla caduta del sistema-; dall’altro lato, però, sa dare di essi una esposizione scientifica e, dunque, in questo senso, sa connetterli sistematicamente: in altre parole, oggetto della scienza socialista à il rapporto fra connessione e caduta.

In secondo luogo, la scienza socialista assume l’agire finalizzato del soggetto della lotta di classe -in particolare l’attività del Partito rivoluzionario- quale effettivo fattore codeterminante della realtà -la quale ultima, dunque, vien descritta come un sistema di riflessione, nel quale i singoli elementi agiscono l’un sull’altro e sanno rappresentarsi.

Ciò significa che la scienza sviluppatasi entro la società borghese trova il proprio posto all’interno di quella socialista e che le sue asserzioni son misurate nel loro grado di validità proprio dal modo, in cui si collocano all’interno della scienza socialista, se quest’ultima procede criticamente ed ordina e “supera” i risultati scientifici del pensiero borghese.

In altre pareole, la nascita delle categorie del pensiero borghese dev’esser concepita come un momento del suo porsi entro il sistema della scienza socialista. Vale, dunque, quanto Lenin cita favorevolmente da Kautsky: “Infatti, la scienza economica contemporanea è, al pari della tecnica moderna, una condizione della produzione socialista, e il proletariato, per quanto lo desideri, non può creare né l’una né l’altra: entrambe sorgono dal processo sociale contemporaneo.” [36]

Di qui deriva che la coscienza teorica del proletariato, capace di analisi genetico-strutturali, non può -giusta la posizione del proletariato- nascere spontaneamente dall’esperienza della lotta economica (nell’ambito della quale, gli interessi dei lavoratori sono un’articolazione del sistema capitalistico). Quella coscienza, piuttosto, può costituirsi solo come riflessione scientifica sull’insieme del processo sociale. Ancora una citazione da Kautsky, che troviamo in Lenin: “Il socialismo, come dottrina, ha evidentemente le sue radici nei rapporti economici contemporanei, al pari della lotta di classe del proletariato, e deriva, al pari di quest’ultima, dalla lotta contro la miseria e dall’impoverimento delle masse generate dal capitalismo; ma socialismo e lotta di classe nascono l’uno accanto all’altra e non l’uno dall’altra; essi sorgono da premesse diverse.” [37]

 

§. 5 - Missione storica e avanguardia della classe operaia.

Sapere che la lotta di classe ha un’origine propria, indipendente dalla coscienza teorica della situazione di classe e che conosce forme di svolgimento, spontanee e prive di riflessione teorica - tutto ciò ha grande rilievo per valutare il ruolo del Partito.

Nello sviluppo storico del genere umano, la classe lavoratrice occupa una particolare posizione di enorme rilievo; quando, infatti, essa -che è l’unica ad opporsi al capitale (della borghesia, della classe capitalistica)- riesce a togliere il potere dei capitalisti -dunque, ad abbattere il rapporto di capitale-, poiché non esistono più altre classi, nello stesso momento essa supera la società di classe in quanto tale.

Insomma, la classe dei lavoratori dà inizio ad una nuova fase della storia umana: quella delle società senza classi e, dunque, quella in cui l’esperienza sociale umana si nutre di e produce problemi qualitativamente nuovi.

Certamente, ciò richiede un lungo periodo di transizione, nel quale pesano ancora sopravvivenze della società classista, che solo poco a poco possono esser tolte.

Dato che la sua vittoria può produrre questa svolta epocale, chiamo missione storica della classe lavoratrice la funzione, che essa può (o non) svolgere nella storia appunto.

Per quanto retorica possa suonare, tale espressione non va intesa né moralisticamente, né in senso puramente agitatorio. Infatti, essa si limita a descrivere la situazione storica come realtà della contraddizione radicale fra lavoro salariato e capitale; contraddizione, il suo superamento contiene l’ effettiva possibilità  di concludere la serie delle società di classe in generale -e si badi che la contraddizione lavoro salariato/capitale può esser tolta solo ad opera del primo, dato che il rapporto di capitale presuppone il lavoro salariato e senza di questo non potrebbe esistere.

E’ certo che quella descrizione promuove una sollecitazione pratica ad attuarne la possibilità implicita: la conoscenza dello stato di fatto contine in sé, effettivamente, questa conseguenza politico-morale, la quale -lo si comprende facilmente- è tutt’altro, però, che un “vuoto dover essere” (Hegel).

Comprendere quale sia il significato obiettivo della missione storica della classe lavoratrice, toglie alla lotta per il socialismo l’impronta, soggettiva, di mèra aspirazione corrispondente alla particolarità degli interessi dei lavoratori salariati o delle vittime sacrificali del ‘progresso’ capitalistico - il che poi significa che il socialismo non può essere il risultato di un riequilibrio di interessi parziali, ottenuto mediante le tecniche della democrazia parlamentare borghese. Quest’ultima è esattamente la concezione riformistica, che di necessità rifiuta la filosofia della storia di Marx ed Engels e, di conseguenza, il materialismo storico.

Per la prima volta nella storia delle società di classe, la classe lavoratrice ha la possibilità di aprire all’ulteriore storia umana una prospettiva nuova: questo è il senso filosofico della critica marxiana all’economia politica. Non si può accettare questa critica e rifiutarne il significato filosofico, né si possono accettare solo singoli aspetti della analisi marxiana del processo sociale, lasciandone cadere altri: la struttura fondamentale di una teoria, che esprime concettualmente la storia a partire dal processo di produzione e riproduzione della vita umana, non si lascia spezzettare in frammenti a seconda del bisogno.

La categoria «missione storica della classe lavoratrice» ha la propria collocazione all’interno di una teoria del tipo appena descritto ed è, quindi, una parte insopprimibile della concezione marxiana della storia.

Ma poiché la classe lavoratrice non è spontaneamente cosciente della sua missione storica (non si tratta, infatti, di un semplice contenuto d’esperienza, ma piuttosto di un’elaborazione categoriale dei contenuti di esperienza, insomma di un «concreto del pensiero»), per la realizzazione di tale missione è necessario un portatore del processo di presa di coscienza e della strategia politica, da essa ricavabile.

Questo portatore può assumere, solo, la forma di un’organizzazione, poiché deve riuscire ad assicurare un processo di presa di coscienza da parte di individui, non però mediante un’attività educative di singoli, ma sì attraverso attività e discussioni collettive, che giungano fino al livello della generalizzazione teorica. I membri più coscienti della classe lavoratrice -dunque, una parte solo di essa- costituiscono l’ avanguardia, ovvero la punta avanzata di un processo storico di sviluppo.

Essere avanguardia non significa avanzar pretese di comando. Significa, piuttosto, collocarsi nei punti più pericolosi della lotta di classe.

Più pericolosi, poiché l’avanguardia deve prender posto nella lotta di classe, in quanto piccola minoranza, in anticipo sulle masse e, perciò, è il settore destinato ad offrire il maggior numero di vittime.

Più pericolosi, perché è possibile che, alla prova dei fatti, l’avanguardia scopra di aver sopravvalutato le possibilità di lotta e che di ciò debba pagare il prezzo.

Più pericolosi, perché l’avanguardia può trovarsi sempre nella situazione dell’isolamento e, quindi, di chi è lasciato in asso. Insomma, la posizione di avanguardia non è un privilegio, ma sì un gravoso impegno e, spesso, un autentico sacrificio.

Lenin non ha inteso in modo diverso il ruolo d’avanguardia del Partito, né lo si può intendere altrimenti, se si comprende cosa significhi sul serio «punta avanzata».

Punta avanzata, infatti, non è il comandante di un’esercito, ma piuttosto l’unità di prima linea, chiamata ad affrontare per prima il nemico, ad infliggergli le prime perdite e, così, aprire la strada agli attacchi da parte del grosso del proprio esercito. D’altronde, anche usando «avanguardia» nel senso artistico ed intellettuale, in tale espressione non è inclusa una funzione di comando, ma sì, collocandosi al vertice del progresso culturale, la funzione, invece, di proporre e metter a prova il nuovo, di elaborar concetti, imprimere impulsi e scoprire inediti orizzonti. Dal punto di vista, poi, dell’organizzanione sul terreno della lotta di classe, «punta avanzata» significa: offrire fondamenti teorici e guidare operazioni strategiche, che preparino la strada ad un movimento di massa, mostrandogli la direzione.

La coscienza di classe si sviluppa nell’intreccio di teoria ed azione politica ed è appunto questa unità di prassi e teoria, che un PC deve realizzare in sé per guidare esemplarmente le masse, se punta, effettivamente, a raggiungere il proprio obiettivo -che è quello di fungere da fermento per il processo di presa di coscienza di classe, di organizzazione di lotta di classe, nella prospettiva della missione storica della classe lavoratrice.

 

§. 6 - Excursus sulla dottrina del totalitarismo.

Dall’inizio della ‘guerra fredda’, la dottrina del totalitarismo è uno degli strumenti privilegiati, a cui ricorre la demagogia anti-comunista degli ideologi borghesi, con l’obiettivo -anche- di consolidare la socialdemocrazia nel ruolo di difesa della società capitalistica. La caduta dell’Unione Sovietica e degli altri Pesi socialisti est-europei è servita come ulteriore alimento all’accusa volta al regime (“stalinista”) socialista d’esser gemello del fascismo. Questa falsificazione storica -che s’appoggia su superficiali analogie-  ha prodotto notevoli sbandamenti.

Anche comunisti, che pur intendono contrapporsi a quella ottenebrante strategia, non sono tuttavia riusciti a sottrarsi alla dottrina del totalitarismo, mettendone in luce le forme argomentative. Sennonché, coloro i quali si fanno imporre i temi dalla propaganda ideologia borghese intorno al totalitarismo, contraddicendo le proprie intenzioni, finiscono con l’accogliere, all’interno di una strategia che vorrebbe esser di difesa, esattamente la prospettiva del nemico: infatti, accettano di mettere immediatamente a raffronto fenomeni funzionali diversi, dimenticando che chi si pone, in tal modo, sullo stesso terreno voluto dal nemico, ha già perso a metà la battaglia.

Nelle scienze sono ammesse forme di confronto, che rimandano alla struttura di cose diverse.

Si può, ad es., mettere a raffronto la burocrazia dell’Impero cinese, della Prussia e dell’Unione Sovietica e ritrovare analogie nel modo di organizzare i pubblici affari. Ma con ciò ancora non si è detto nulla circa il sistema statale.

Sistemi costruiti diversamente, essenzialmente differenti l’un dall’altro e con diverse finalità, tuttavia, possono esibire analogie funzionali. La biologia ci apprende cose circa gli organismi, la sociologia circa le società; il confronto di sistemi sostanzialmente differenti mostra la loro incomparabilità, dacché mostra che è errato pretendere di rapportarli l’uno all’altro sulla base di superficiali analogie funzionali. A nessuno storico può venire in testa di stabilir raffronti -o, se si vuole, paralleli- tra Cesare, Napoleone e Mussolini.

Il socialismo nel processo della sua costruzione ed il capitalismo nella fase della sua maturazione, in linea di principio, non sono confrontabili. Poiché, in primo luogo, il confronto dovrebbe avvenire fra il primo socialismo ed il primo capitalismo, per porre in relazione corrispondenti situazioni storiche epocali. Ma la non confrontabilità risulterebbe anche sotto l’aspetto funzionale.

La Ginevra di Calvino, la Francia di Richelieu. l’Inghilterra di Cromwell erano certamente assai diverse dall’Unione Sovietica dopo la Rivoluzione d’Ottobre e che sotto questo o quell’aspetto vi potessero essere fenomeni analoghi non toglie nulla alla loro sostanziale differenza. Ancora più rilevante è, però, questa ulteriore considerazione.

La struttura del socialismo è determinata dal fatto di porre, in luogo dell’appropriazione e accumulazione privata del capitalismo, l’appropriazione ed uso sociali del plusvalore.

L’essenza del socialismo è operare per favorire l’amancipazione di un uomo che si sviluppa multilateralmente; mentre il capitalismo persegue l’obiettivo dell’emancipazione di individui che si scambiano merci, come fattori della vicenda del mercato.

Scopo del socialismo è il superamento dello sfruttamento e dell’oppressione; quello del capitalismo, invece, è la continuazione della loro esistenza.

Tutto ciò che avviene nel socialismo serve a scopi e si inserisce in un ordine, che sono tutt’altri che quelli del capitalismo.

Posta la non confrontabilità per principio del potere statale socialista (in costruzione) e delle forme di dominio capitalistico (il quale ha raggiunto nel fascismo il vertice della disumanità, ma anche il borghese “Stato di diritto” include la sua brava dose di inumanità), il nostro interrogativo diviene, invece, quali forme non socialiste -addirittura, opposte per essenza al socialismo-, nel corso della nascita e sviluppo della società socialista, sono confluite, o si sono in essa compiute: questo è il  tema del dibattito sugli errori, deformazioni e delitti nel socialismo -è una discussione che va condotta a fondo, in modo che noi si possa apprendere dalla storia per poter costruire il futuro. Attenendoci strettamente alle conoscenze ed ai metodi del materialismo storico, possiamo spiegare e comprendere -senza ricercare attenuanti, né scusanti- ilperché di quanto è avvenuto: la storia ben compresa ci rende liberi per il futuro.

Nella prospettiva di una tale spiegazione e comprensione, le forme fenomeniche sono semplici indizi -pur se terribili indizi (come le tante vittime innocenti)-, che non dovrebbero esser rimossi, ma appunto usati come indizi per arrivare alle cause ricercate. Come è stato possibile che in una società -che si pensava destinata a realizzare i diritti dell’uomo e che si poneva l’obiettivo di assicurarne la liberazione- i mezzi per raggiungere tali obiettivi siano stati così spesso con essi contradditori? Quali presupposti materiali ed obiettive contraddizioni, inerenti alla transizione dal regime zarista al socialismo, hanno dato origine a tale antinomia?

Se ci poniamo queste domande, non stiamo più sul terreno propostoci dai teorici del totalitarismo, i quali non riescono a spiegare ma, solo, descrivono fenomeni.

Noi, al contrario, fondiamo il nostro interrogarci sul diritto che abbiamo alla nostra storia, nei confronti della quale siamo responsabili: ci poniamo, insomma, sul nostro terreno e non su quello dell’avversario. Senza trascurare di interrogarci intorno a cose come i Gulag, possiamo chieder conto ai rappresentanti del capitalismo dei milioni e milioni di vittime, che hanno richiesto e richiedono su scala mondiale le guerre, il colonialismo, la fame. Interrogarci sulla nostra storia significa interrogarci su ciò che abbiamo fatto di sbagliato e sul prezzo che abbiamo pagato in vista di un futuro migliore.

Nel caso del capitalismo, però, non è vero che esso sbagli, quando scatena guerre e produce miseria e dipendenza: infatti queste son tutte cose, che gli appartengono per essenza. Perchè il capitalismo stesso è falso.

La questione nodale, che ci consente di abbandonare le false comparazioni e di metterci, invece, sulla giusta prospettiva, è quella della democrazia.

Gli ideologi borghesi riempiono la nozione di democrazia con i contenuti della democrazia borghese ed anche il confuso ed ambiguo richiamo all’ hegeliano “superamento” non cambia nulla a questo fatto: infatti, “superare” nel senso di “conservare” dovrebbe identificarsi con “divisione dei poteri, parlamentarismo, pluralità di partiti concorrenti...”, insomma, con lo Stato di diritto.

E’ naturale che nel socialismo non tutte le conquiste della società borghese debbano esser gettate a mare: ma altrettanto è vero che bisogna ben distinguere tra conquiste che valgano solo per l’ordine borghese ed altre che abbiano invece un significato storico per l’umanità in generale. Il concetto di “Stato di diritto” non può semplicemente essere identificato col formalismo del nostro ordinamento borghese del diritto: che tutti gli atti amministrativi debbano essere legittimi rispetto al diritto, mi sembra norma ben sensata e parimenti mi sembra lo sia che istituzioni statali e di Partito risultino ben distinte.

Al contrario, parlamentalismo e pluralità dei partiti mi sembrano piuttosto un ridurre la vita sociale a ricerca continua di compromessi fra gruppi che hanno interessi diversi, in modo tale che chi più ha filo meglio riesce a tessere la sua propria, particolare tela.

Insomma, si tratta di qualcosa di completamente diverso rispetto ad una società, che punta a realizzare il solidarismo di uomini liberi: autodeterminazione ed integrazione dell’uomo entro il pianificato processo sociale generale, forse, trovano migliore realizzazione in un sistema di consigli.

L’ordinamento giuridico degli Stati socialisti segnò effettivi progressi democratici al livello del vivero quotidiano (diritto del lavoro, legislazione famigliare,....?), anche se certi diritti politici restarono invischiati nel gioco formale delle società borghesi. A ciò dovrebbero riflettere coloro, i quali si abbandonano facilmente all’equivoco di confrontare sistemi sociali diversi.

Il punto è cosa s’intenda per democrazia. Forse la sceneggiata delle nostre campagne elettorali, dominate dai mass-media e da slogans privi di senso e contenuto? Forse l’impotenza dei parlamenti nazionali in Europa di fronte al parlamento di Bruxells? Oppure l’influenza dei grandi potentati economici nell’attività legislativa?

Tutte queste son ‘conquiste’ della democrazia borghese, fortemente radicate nella struttura della società borghese e non deformazioni ad essa apportate dal capitalismo.

Nessun socialista ha, oggi, elaborato adeguatamente il quadro di una futura società socialista -ed, in effetti, farlo avrebbe dell’utopico.

Tutti noi dobbiamo impegnarci in questo compito, ma in stretto legame con la battaglia politica per il socialismo; tuttavia sicuramente è vero che, dal fatto che la democrazia socialista non sia stata realizzata, non dobbiamo ricavare la necessità di attestarci sulla democrazia borghese. Dobbiamo difendere la democrazia contro tutti i tentativi di appiattirla sulla difesa degli interessi capitalistici; sappiamo, tuttavia, che, nel socialismo, dovrà riempirsi di nuovi contenuti, che dovremo darle nuove forme, in modo che si tratti effettivamente di democrazia, dunque, di potere del popolo.

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