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7° capitolo - Modernizzazione o lotta di classe?

 

E’ una giusta osservazione che “la critica sociale non è mai riuscita ad armarsi con tanta rapidità, come nei momenti di crisi sociale”. E certamente, la coscienza che il sistema economico-sociale capitalistico ha prodotto di se stesso non ha mai offerto lo spazio ad una critica sistematica di principio.

“Un pragmatismo, incapsulato entro gli eternizzati confini dell’economia di mercato e della democrazia” ha sempre dominato le teorie di provenienza borghese, così come le molteplici varianti del revisionismo e riformismo socialdemocratici - a partire da Bernstein, fino ad arrivare a Karl Schiller, Helmut Schmidt ed Oskar Lafontaine (per tacere del tutto dell’ideologia di retroguardia, che domina la dirigenze del PDS [52]).

Una critica radicale al sistema capitalistico in quanto tale, invece, poteva scaturire da una contrapposizione radicalmente dialettica (cioè, capace di pensare lanegazione determinata del capitalismo), giungendo, così, ad una “differenza rispetto al tutto” (Th. Adorno).

Non è questo il momento di soffermarsi sugli errori e sui punti dubbi, che caratterizzano le “teorie critiche” [53]. Dopo tutto, anche quando polemizzavano con grande veemenza politica contro la realtà sociale del “socialismo realmente esistente” e svolgevano argomentazioni anti-comuniste, quelle teorie potevano vivere per il fatto che vi era stata la Rivoluzione d’Ottobre, che aveva dimostrato la possibilità storica di un’alternativa al capitalismo e che tale alternativa era -almeno come tendenza- politicamente realizzabile; insomma, quelle teorie vivevano poiché il fatto stesso che la Rivoluzione vi fosse stata offriva possibilità d’ulteriori sviluppi.

Inoltre, il sistema degli Stati socialisti -per quanto in maniera incompleta- costituiva una forza politica a livello mondiale, la quale -con la sua sola esistenza- riusciva ad avere un’influenza tutt’altro che trascurabile sui processi sociali delle metropoli capitalistiche e, più ancora, dei Paesi del Terzo mondo liberatisi dal colonialismo.

E’ anche vero, tuttavia, che l’esistenza dell’Unione Sovietica e del <campo socialista> faceva organicamente parte -col ruolo di contropotere o antitesi-  del concetto di attuale crisi sociale o, più specificamente, di crisi generale del capitalismo: per quanto ciò fosse del tutto corretto dal punto di vista descrittivo, era tuttavia falso dal punto di vista concettuale.

Concettualmente falso, poiché la crisi generale del capitalismo era, invece, da intendere come, costitutivamente, la manifestazione esteriore  delle contraddizioni interne del sistema capitalistico, nella fase di sviluppo della RTS, cioè del rivoluzionamento delle forze produttive. Le difficoltà esterne dovevano valere, invece, solo come fenomeno aggiuntivo.

La scomparsa dell’antitesi -cioè del <campo socialista>- e l’estendersi del dominio capitalistico ormai senza alcun impedimento su tutto il sistema mondiale degli Stati, lascia i principali critici del sistema senza più argomenti.

Gli stessi ideologi della “terza via” vedono dissolversi la loro tematica, esattamente perché non esistono più le due vie tra le quali inserire la loro prospettiva.

Insomma, il concetto di crisi, assunto del tutto empiricamente, non è più utilizzabile. E chi se la sentirebbe di dichiarare al vincitore, in un confronto mondiale senza lotta, che proprio la sua vittoria è un momento della crisi, se si considera l’epoca nel suo insieme? Chi volesse così mettere le cose sulla testa (o forse anche sui piedi), dovrebbe essere un maledetto dialettico, dato che il common sense si compiace di parlare di “fine della storia”. Robert Kurz, invece, non ha paura di porsi sul piano delle sottigliezze dialettiche.

Egli non intende accettare “la condanna della teoria in senso forte” e neanche vuol limitarsi a lamenti; egli vuole piuttosto lacerare il manto della superficie e superare l’apparenza fenomenica, per riuscire, così, a cogliere strutture e connessioni, che gli consentano di spiegare i processi; il suo interesse epistemologico lo spinge ad andare fino in fondo: - la sua mancanza di riguardo nei confronti della limitatezza sociologica mi risulta in effetti simpatica; ciò non di meno son costretto a contraddirlo.

Proprio per il fatto che condivido parzialmente i suoi giudizi, temo proprio che la strada della verità richieda che quegli stessi giudizi non restino senza replica: verità parziali non sono ancora una verità -e, perfino, facilmente si capovolgono in mancanza di verità; nella contraddizione si costruisce la concezione dell’insieme. Tenterò, ora, di condensare sotto forma di tesi alcuni punti di vista di Kurz (pur rischiando, così, di impoverirli), allo scopo, poi, di farne risultar con chiarezza le antitesi.

 

1Tesi: Il capitalismo ed il socialismo (di Stato) finora avutisi, entrambi, sono momenti di un’epoca, la cosiddetta <modernità>. Quest’ultima è determinata dalla rivoluzione tecnica, la quale -dalla fine del XVIII° secolo- ha prodotto una crescente accelerazione nello sviluppo di un’esperienza tecnica sempre più produttiva. Il periodo compreso tra il 1789 e il 1989 va caraterizzato come quello della dinamicizzazione del capitalismo. Nel corso di questo processo sempre di più la crescente produttività e accumulazione di capitale ha consentito la sostituzione di lavoro umano con strumenti scientificamente elaborati.

Ha ragione Kurz quando sottolinea che ogni formazione sociale conserva in sé per lungo tempo elementi della formazione precedente e che, prima del proprio trapasso, contiene, anche, elementi della formazione sociale successiva. Ha anche ragione quando sottolinea che le varie fasi di una stessa formazione sociale non son tra loro divise da confini netti, ma che invece presentano momenti di aggancio dall’una all’altra. Il carattere di un’epoca, dunque, può essere fissato solo mediante l’astrazione teorica della sua essenza e solo la dialettica di essenza e parvenza consente di coglierne movimenti e tendenze.

L’essenza del capitalismo è l’accumulazione del capitale. “L’accumulazione o produzione su scala crescente... diviene... una necessità per ogni capitalista individuale. Il continuo accrescimento del suo capitale diviene condizione per la sua stessa conservazione.” [54] 

Il capitale è effettivamente tale solo nelle mani del capitalista, il quale -per necessità strutturale- non può far altro che reinvestire il plusvalore ottenuto in vista di un’ulteriore produzione di plusvalore. “Tutti i metodi per la produzione di plusvalore sono, anche, metodi per l’accumulazione e, a sua volta, ogni ampliamento dell’accumulazione è un mezzo per lo sviluppo di quei metodi.” [55]

All’interno del capitalismo, è certamente contraddittoria rispetto al sistema una pianificazione sociale che, tra l’altro, destini il plusvalore alla soddisfazione delle necessità sociali, ovvero, una pianificazione che non lo utilizzi necessariamente in vista della produzione di ulteriore plusvalore. L’immediato abbattimento di ogni progresso sociale e prestazione culturale dello Stato socialista, dopo l’annessione della DDR (come d’altronde è avvenuto in ogni Stato ex-socialista), fornisce di ciò abbondanti esempi.

Allo stesso modo, in cui ciò mostra che gli Stati socialisti potevano prevedere una divisione del prodotto del lavoro sociale sottratta alla legge capitalistica della “riproduzione su scala allargata” e, dunque, ad una accumulazione sempre riproducentesi.

Non è dubbio che il prezzo da pagare era il ritardo della produttività nella concorrenza con il sistema capitalistico, nel quale le esigenze del reinvestimento di capitale privato debbono prevalere sulla crescente soddisfazione dei bisogni sociali.

Quella dei due sistemi non era, però, la concorrenza tra sfere di circolazione e consumo, isolate l’una dall’altra e, dunque, non significava l’astratto confronto fra ricchezze sociali. [56]

Vi era, piuttosto, un intreccio a livello di mercato mondiale, il quale ultimo -per parte sua- funzionava solo sulla base delle leggi capitalistiche, che imponevano, dunque, la propria norma anche sulle possibilità di concorrenza delle economie socialiste. Del tutto indipendendemente dall’handicap di partenza -di cui dice la Tesi 3-, le società socialiste non erano assolutamente in grado di affrontare una concorrenza secondo le regole del gioco capitalistico: avrebbero dovuto adeguare il proprio commercio estero a condizioni, contraddittorie rispetto al loro proprio sistema di distribuzione del plusvalore.

E’ anche giusto dire che, dal 1917 al crollo del socialismo, non si può parlare di coesistenza fra sistemi sociali contraddittori, ma ugualmente consolidati; la situazione, piuttosto, era descrivibile come esistenza di una società socialista in costruzione (con tutte le difficoltà e contraddizioni del periodo di transizione), all’interno di un sistema mondiale organizzato capitalisticamente, di cui la prima rappresentava certo un momento contraddittorio, nel quadro, tuttavia, di una persistente egemonia del capitalismo. [57]

Una ideologia legittimante, che mascherava il processo di costruzione del socialismo, con tutte le lotte implicite, spacciandolo per realizzazione già avvenuta del socialismo stesso (in tal modo non potendo, ovviamente, spiegarne gli aspetti di immaturità, di debolezza e di squilbrio), non era certamente in grado di assicurare una comprensione dialettica della situazione mondiale.

Analogamente, fu messa del tutto da parte la costruzione di una coscienza politica, quale necessario presupposto per una democrazia che si costituisse nella lotta di classe; fu, invece, favorita l’ affermazione di una visone del mondo, che puntava sull’addottrinamento e sull’uniformizzazione.

Ciò premesso, sussumere immediatamente sotto la categoria di moderno sia il capitalismo che il socialismo (di Stato) significa porsi fuori da una concezione dialettica del processo storico.

Il fatto che la formazione sociale a cui noi apparteniamo sia sempre (anche dopo la Rivoluzione d’Ottobre) capitalistica, non esclude, ma addirittura include - in forza della figura logico-dialettica di quell’ universale che non coincide mai con le sue proprie figure [58]- il costituirsi internamente del suo stesso opposto; né impedisce che l’universale contenga in sé tale opposto, fino a che quest’ultimo non si rafforzi tanto da dar luogo ad una nuova formazione sociale.

Dunque, tale universale, come diceva Hegel, contiene sé e il proprio opposto: ed, appunto, analogamente il capitalismo nella fase sviluppata della propria contraddittorietà interna contiene se stesso (nella varietà delle proprie forme) ed il proprio opposto, cioè il socialismo. [59]

Il concetto di <modernità> è troppo grossolano e generico per riuscire ad esprimere adeguatamente il movimento sociale e politico mondiale successivo alla Rivoluzione d’Ottobre. E ciò perché tale concetto si limita allo stadio dello sviluppo delle forze produttive e del modo di produzione (compresa la sovrastruttura ideologica), ma non riesce ad abbraccaire quello dei rapporti di produzione.

 

2Tesi: il movimento dei lavoratori fa parte della modernità. I suoi scopi ed il loro (parziale) raggiungimento son elementi dell’economia capitalistica come sistema. Ogni vittoria del movimento dei lavoratori ha comportato una conferma ed un ulteriore sviluppo del capitalismo, in quanto stimolo a realizzare nuovi livelli di modernizzazione. Proprio perché teorico della classe lavoratrice, Marx lo è anche della modernizzazione e, dunque, si colloca all’interno del capitalismo; e ciò mentre la sua critica radicale della <forma-valore> anticipa, invece, una alternativa storica.

Il punto di partenza di questa tesi è triviale: è noto, infatti, che -per la loro stessa natura- capitalisti e proletari sono figure, reciprocamente condizionantesi, interne al capitalistico, nel quale lavoro salariato e capitale rimandano l’uno all’altro, essendo gli elementi centrali del sistema produttivo.

“Nella stessa misura - si legge nel Manifesto di Marx ed Engels- in cui si sviluppa la borghesia (dunque, il capitale), si sviluppa anche il proletariato, la classe dei moderni lavoratori, i quali vivono finché trovano lavoro e trovano lavoro, fin tanto che il capitale si accresce.” [60]

Se la modernità la si definisce come l’epoca della formazione sociale capitalistica (che si va costruendo a partire dal tardo feudalesimo e che trova compimento nelle rivoluzioni borghesi del XVII° e XVIII° secolo), allora è ben certo che il movimento dei lavoratori sia parte della modernità.

Il costituirsi stesso della classe dei lavoratori salariati appartiene al processo di industrializzazione; il miglioramento delle condizioni materiali di vita dei lavoratori sta in una stretta connessione con il progresso tecnico, anche se senza lotta dei lavoratori di certo non si sarebbe avuto né si avrebbe attualmente.

Se tutto ciò è corretto, non lo è, invece, mettere semplicemente insieme classe capitalistica e classe lavoratrice nei rapporti capitalistici di produzione, in modo da ridurre la classe lavoratrice a mèro coagente delle crisi economiche capitalistiche.

Indiscutibilmente, il lavoratore salariato è anch’esso articolazione e, in questo senso, protagonista del sistema capitalistico, che, mediante il salario, gli dà la possibilità di vivere e riprodursi e non c’è “gran rifiuto”, che possa liberare il lavoratore dalla sua dipendenza dal sistema (come sognava, invece, H. Marcuse) [61]

Il fatto che lavoro salariato e capitale stiano in un rapporto contraddittorio insanabile -per quanto ciò possa momentaneamente non apparire- , sia pure in altro modo, è confermato dallo stesso Kurz nella Tesi 4. E’ questa una condizione oggettiva che fa tutt’uno con la immanente costrizione all’accumulazione di capitale, cioè con l’appropriazione privata di plusvalore.

La classe lavoratrice, da un lato, con il suo fare sollecita l’accumulazione ma, dall’altro, è ciò che si oppone contraddittoriamente alla stessa accumulazione. Nei momenti culminanti della crisi, tale opposizione si manifesta appieno e può assumere la forma dell’antagonismo politico. La politicizzazione della contraddizione sociale raggiunge la sua pienezza solo in connessione con una crescente consapevolezza delle condizioni di nascita e di svolgimento della crisi; è importante sottolineare che ciò non richiede necessariamente una corretta, adeguata conoscenza, dacché anche una consapevolezza in qualche modo falzata può avere esiti politici, pur se -è ovvio- nella prospettiva di finalità e secondo un orientamento falsi. La politicizzazione, dunque, si collega a forme di interazione e di organizzazione sociali, in cui si costruisce la coscienza e può nascere un potere collettivo.

Certamente, in quanto “teorico della classe lavoratrice”, Marx ha riflettuto organicamente su questi processi, che comportano mutamenti sistematici nella classe e nelle forme d’organizzazione del movimento. Non è giusto, dunque, sostenere che, in Marx, la teoria economica della forma-valore non si leghi organicamente al programma politico della lotta di classe. Né è corretto concepire la teoria leniniana del Partito o quella gramsciana dell’ “intellettuale organico” come deviazioni dalla concezione marxiana: si tratta, piuttosto, rispettivamente di una sua ulteriore elaborazione nella fase rivoluzionaria e di un suo riadattamento in condizioni, invece, di controrivoluzione.

Sembra a me che Kurz rielabori lo status storico (e, direi, filosofico-storico) del movimento dei lavoratori in una falsa prospettiva sociologistica, legata al concetto di modernizzazione; operazione, questa, che non può esser supportata dalla così detta evidenza della “scomparsa del proletariato” nelle metropoli capitalistiche.

La contraddizione, infatti, tra capitale e lavoro salariato non è superata ma ha, solo, mutato le proprie forme (dal che, certamente, deriva la necessità di nuove strategie per la costruzione della coscienza di classe). Ma, inoltre, quella contraddizione si ripropone su un nuovo terreno, nella forma di uno scarto tra crescente aumento della produttività nelle società industrialmente evolute ed immiserimento crescente nei Paesi arretrati.

Già Marx colse questa contraddizione quale inevitabile conseguenza della sottomissione del lavoro al dominio del capitale nello sviluppo delle forze produttive: “Le legge, secondo cui una massa sempre crescente di strumenti di produzione può esser messa in movimento da una massa analogamente decrescente di lavoro umano -grazie al progresso nella produttività del lavoro sociale- ... determina che all’accumulazione del capitale corrisponda un’accumulazione della miseria.” [62]

E che, in questo processo, il proletariato sia, ad un tempo, protagonista dei rapporti di produzione capitalistici ma, anche, loro elemento antagonistico, è quanto Marx sottolinea, in critica a Proudhon, dando una formulazione dialettica  dei rapporti di produzione: “Di giorno in giorno diviene sempre più chiaro che i rapporti di produzione in cui  vive la borghesia non hanno un carattere unitario e semplice, sì piuttosto duplice. Che quegli stessi rapporti, in cui si produce la ricchezza, si produce anche miseria; che nel quadro dei rapporti in cui le forze produttive si sviluppano senza difficoltà, si sviluppa anche una forza repressiva; che quegli stessi rapporti in tanto possono produrre la ricchezza borghese -dunque, la ricchezza della classe borghese-, in quanto continuamente distruggono la ricchezza del singolo borghese ed in quanto aumentano costantemente il numero dei proletari.” [63]

 

3Tesi: La storia dell’Unione Sovietica dopo la Rivoluzione non è quella di un tentativo (insufficiente) di costruzione del socialismo; s^ piutosto la storia della modernizzazione di un Paese arretrato, per ricongiungersi, mediante la pianificazione statale, all’economia di mercato.

Certamente è vero che, al momento della Rivoluzione d’Ottobre, i rapporti economici e politico-sociali, come anche il livello culturale di massa (si pensi all’analfabetismo!), non erano maturi per il passaggio al socialismo, partendo da uno sviluppo capitalistico solo iniziale e segnato, per altro, dall’impronta dell’assolutismo zaristico-feudale; in nessuna misura quelle condizioni corrispondevano, per altro, alle premesse obiettive, che per un tale passaggio postula la teoria marxista. [64]

Non ci soffermeremo, qui, a discutere i motivi, per cui si ebbe tuttavia la Rivoluzione e per cui addirittura vinse. E’ comunque fuori discussione che, dopo la Rivoluzione, il primo, dominante compito del regime sovietico era perseguire una strategia di industrializzazione e innalzamento di livello tecnologico, che fosse capace di superare l’arretratezza del Paese e di elevare progressivamente il livello culturale di massa; si aggiunga a questo la necessità di attrezzate lo Stato per la difesa da aggressioni militari esterne. Si tratta di obiettivi, che furono raggiunti -ma pagando un grande prezzo.

Rientra in quel prezzo anche la rinuncia ad alcune finalità, essenzialmente proprie del socialismo (ad es., una concezione non borghese della democrazia), e la loro sostituzione con una dittatura dispotica e paternalistica (allo scopo di non sviluppare a dismisura la discussione delle posizioni di Robert Kutz, tralascio qui la pur necessaria analisi differenziata del periodo che, con falsificante personalizzazione, vien detto stalinismo).

E’ unilaterale e, dunque, falso ridurre  alla categoria generale di modernizzazione tutto il processo, che iniziando dal 1917, arriva fino allo scoppio della seconda guerra mondiale. Le strategie basate sull’imperativo del raggiungimento degli obiettivi costituivano, solo, un aspetto essenziale della costruzione dell’Unione Sovietica ed erano, naturalmente, imprescindibili per poter cominciare la costruzione di uno Stato, fondamentalmente orientato verso il socialismo.  La sincerità di questo scopo non potrei porla in questione: un’indicazione di ciò è iol tono della Costituzione del 1937.

Ma già con i primi Decreti del governo risoluzionario del 1917 non solo si cominciò ad assicurare la proprietà comune degli strumenti di produzione, ma anche ad organizzare servizi sociali in modo adeguato ad una prospettiva socialista e capace di contribuire alla sua progressiva realizzazione. Lo stesso vale per aspetti importanti dell’ordinamento giuridico, ad es., il diritto del lavoro. [65]

La specificità della società sovietica si mostra adeguatamente nel fatto che dovette raggiungere livelli di sviluppo, che appartengono propriamente alla formazione sociale capitalistica, ma dovette farlo nel corso del passaggio al socialismo.

I problemi politico-economici e le contraddizioni specifiche, che comporta un tale ‘salto’ di fasi storiche intermedie, non sono stati oggetto di riflessione teorica né in Unione Sovietica né altrove. Va da sè che un tale studio sarebbe fondamentale per comprendere le particolarità del primo tentativo di costruire una società socialista, nel contesto -per di più- di un mondo dominato dal capitalismo, e per far emergere le cause del suo fallimento finale.

Dà maggiore importanza a tale compito il fatto che analoghi problemi si pongono in tutte le società socialiste, che sono sorte dopo la 2° guerra mondiale in regioni arretrate del mondo (Cina, Nord-Corea, Viet-nam, Cuba).

 

4Tesi: Si può caratterizzare la fase attuale del capitalismo con la crescita della produttività e la conseguente diminuzione di forza-lavoro umana, ché viene da quella sostituita. La crescente efficienza degli strumenti tecnici, in conseguenza della cosiddetta RTS, consente un aumento del plusvalore insieme con la diminuzione del costo del lavoro. Oggi, il capitale è solo in minima parte orientato allo sfruttamento del lavoro astratto, per cui va considerata obsoleta la tendenza all’espansione imperialistica.

Con questa tesi - dalla valutazione del socialismo quale si è avuto finora, delle sue cause e del suo fondamento teorico, passiamo al giudizio sulla situazione attuale. E’ certa la sensatezza del modo in cui Kurz caratterizza il capitalismo attuale -che, per altro, corrisponde all’analisi di Marx, che abbiamo precedentemente visto. Quando Kurz scrive che il capitalismo “non ha solo la tendenza a nutrire con tutta la forza-lavoro del mondo la sua astratta e redditizia macchina economica, ma anche quella opposta a sostituire, pressato dalla concorrenza in produttività, la forza-lavoro umana con strumenti prodotti dalla scienza”, questo non è altro che il modo attuale di funzionare della legge, “per la quale la sovrappopolazione relativa -o esercito industriale di riserva- equilibria ampiamente l’accumulazione.” [66]

Tanto meno il plusvalore reinvestito deve coinvolgere l’<esercito industriale di riserva>, tanto più cresce la miseria di quanti vivono del loro salario.

“L’accumulazione della ricchezza da un lato equivale, dunque, ad accumulazione di miseria, ad angoscia per il lavoro, incertezza, abbrutimento e degradazione morale dall’altro.” [67]

Oggi noi ci troviamo nel bel mezzo di questo passaggio ad una nuova fase del capitalismo, che è resa possibile dalla RTS; la distruzione di forza-lavoro vivente che ciò comporta si dispiega in momenti come: la riduzione razionale di posti di lavoro, la disoccupazione strutturale nei Paesi industrialmente avanzati e l’immiserimento di massa, in quegli altri Paesi, che sembravano essere in via di sviluppo.

“... tutti i mezzi per lo sviluppo della produzione si capovolgono in mezzi di dominio e di sfruttamento del produttore, mutilano l’operaio facendone un uomo parziale, lo avviliscono a insignificante appendice della macchina, distruggono con il tormento del suo lavoro il contenuto del lavoro stesso, gli estraniano le potenze intellettuali del processo lavorativo nella stessa misura in cui in quest’ultimo la scienza viene incorporata come potenza autonoma...” [68]

Il lavoratore vien derubato delle sue proprie forze, che poi son proprio quelle senza di cui il capitalismo non potrebbe esistere, senza le quali non potrebbe realizzare la propria valorizzazione.

Con ragione, a proposito di questo sistema Kurz parla di “autocontraddizione logica”, così come Marx parlava di “carattere antagonistico dell’accumulazione capitalistica”: [69] infatti, sempre più lavoratori vengono eliminati dal processo produttivo, e così diminuisce la capacità d’acquisto dei consumatori, di cui pur abbisogna la produzione mercantile per la realizzazione del plusvalore e per un’ulteriore accumulazione di capitale.

Le crisi periodiche di sovrapproduzione, caratteristiche del capitalismo, in tal modo si trasformano in una continua crisi strutturale, che solo momentaneamente può essere occultata, sostituendo l’espansione mercantile con quella
del capitale. E’ ben pensabile che per un lungo periodo l’equilibrio tra accumulazione di capitale e la riproduzione della massa di lavoratori espropriati della loro forza-lavoro venga assicurato da misure quasi-socialiste, all’interno di un sistema di potere fascistico nell’interesse dei grandi capitalisti. Con ciò ovviamente la contraddizione radicale dell’accumulazione capitalistica non viene fatta scomparire ma solo ritardata.

In ogni caso, l’accumulazione capitalistica è orientata allo sfruttamento delle risorse naturali (materie prime, fonti di energia, ecc.). Con ciò non comprendo, però, il motivo per cui il capitalismo dovrebbe “disamorarsi dell’imperialismo”: il capitalismo cercherà sempre di tener saldamente nelle sue mani tutto ciò, che possa servire come risorsa; da ciò la necessità di mantener soggette le popolazioni locali.

Tuttavia anche un crescente impoverimento delle masse non riuscirà ad assicurare la tranquillità necessaria alle condizioni capitalistiche di produzione, per via dei fenomeni migratori e dei turbamenti sociali: lo stesso dominio imperialistico dovrà estendere il proprio dominio su scala e problemi finora sconosciuti. Con tutto ciò possono di nuovo formarsi masse di sfruttati, oppressi o di privati d’ogni diritto, che si muovano contro il sistema imperialistico.

La globalizzazione delle contraddizioni proprie del capitalismo e della corrispondente forma di riproduzione del capitale e della forza-lavoro produrrà, anche, nuove condizioni per un’internazionalizzazione della lotta di classe -come già, di fatto, possiamo cominciare a vedere. [70]

 

5Tesi: L’accumulazione del capitale avviene mediante operazioni, per cui una quota-parte del valore prodotto viene consumato in quanto <costo di produzione>. Tale quota-parte, in seguito alla modernizzazione del capitalismo, verrà sempre di più spostata a) dal denaro alla natura, b) dal presente al futuro, c) dai profitti -del capitalista- alle spese -degli sfruttati; e così il sistema stesso si taglierà l’erba sotto i piedi.

Ci soffermeremo brevemente su questa tesi. Giusta è la descrizione della condizione di fatto; questa, però, non è tale da indicare una qualche modifica essenziale e strutturale del capitalismo, sì piuttosto un suo estremizzarsi.

La produzione capitalistica è sempre orientata ad elevare la parte della produzione, che non costa nulla; ed esattamente a questo fine “essa può solo assicurare uno sviluppo di tecniche e combinazioni del processo sociale di propduzione che, contemporaneamente, distruggono la fonte stessa della ricchezza.” [71]

Così come questo valeva agli inizi del capitalismo per l’accaparramento, in qualunque modo ed al prezzo migliore, delle materie prime necessarie alla produzione o allo sfruttamento massimo della terra, il problema si è oggi in varie forme inasprito, in seguito alle ricadute distruttive sull’ambiente naturale della produzione industriale e dell’utilizzo stesso di prodotti dell’industria, nonché per l’accumulo di scorie dannose. La crisi ecologica è un momento della crisi generale del capitalismo. [72]

Non bisogna tuttavia pensare che l’instaurazione dei rapporti socialisti di produzione comporti automaticamente il superamento della crisi ecologica, poiché, anche nel quadro di tali nuovi rapporti, potrebbe esser ricercato un aumento della ricchezza sociale in tempi rapidi, proprio attraverso l’intenso sfruttamento della natura; comunque, resta vero che solo nel quadro di una coordinamento socialmente pianificato di bisogni e scopi, dunque in una società socialista, possono essere armonizzate, facendo del tutto astrazione da interessi particolari, le esigenze della produzione e quelle della sopravvivenza stessa della natura. La critica dell’economia politica del capitalismo, come anche la sistematica della economia politica del socialismo, richiedono una teoria dialettica della natura e del rapporto uomo-natura. Ciò che può esser detto a proposito dei costi di produzione sulla natura, vale anche come anticipo sul futuro.

Possiamo parlare di danneggiamento delle future condizioni naturali (per es., mutamenti climatici come conseguenza del disboscamento massiccio, buco dell’azono); di esaurimeno delle risorse naturali (patrimonio fondiario, riserve d’acqua) o, infine, di aggravamento delle condizioni finanziarie delle future generazioni (indebitamento statale).

L’eccessivo sviluppo di questo processo e la mancanza di un piano generale, capace anche di vincoli e restrizioni, fa sì che il ‘normale’ comportamento dei capitalisti divenga progressiva auto-distruzione del sistema.

Insomma, lo stesso principio (lo scarico dei costi di produzione sugli sfruttati) opera come interna negazione delle condizioni di riproduzione del capitale; d’altronde, abbiamo già avuto occasione di parlare dell’eliminazione della forza-lavoro umana dal processo di produzione: di qui, l’evidenza del carattere autocontraddittorio del capitalismo, già da Marx, in quanto critico dell’economia politica, messo in piena luce anche nelle forme del suo svolgimento storico.

Concludendo, ritengo che la descrizione dei fenomeni fatta da Kurz possa esser compresa fino in fondo solo mediante la teoria marxista e, così, possa tradursi in alternativa politica al capitalismo. Veniamo ora all’ultima tesi di Kurz, qualla per così dire programmatica.

 

6Tesi: La crisi del capitalismo è indice di un rifiuto del sistema mercantile. E’, di fatto, giunto storicamente ad esaurimento il principio dell’economia monetaria, cioè, dello scambio dei beni attraverso un equivalente generale, il quale parifica -in quanto valori semplicemnete- beni, che son destinati a soddisfare necessità differenti e fa di un valore astratto, per sè sussistente -il denaro- il medio, che ne consente lo scambio nel processo di distribuzione. Al posto del mercato deve nascere una organizzazione sociale della distibuzione dei beni, corrispondenti alle necessità sensibili.

Qui vediamo dove si va a parare, quando la critica di Marx all’economia poliica non viene intesa come teoria dello svolgimento storico della società umana a partire dai primordi fino al capitalismo (ed oltre, in prospettiva), ma sì -da un lato-, in senso riduttivamente economico, come una critica della forma-valore, e -dall’altro- come una teoria sociologica della modernizzazione, del tutto distinta dalla critica economica.

La crisi del capitalismo, in realtà, segna un momento di gravissimo pericolo per l’esistenza stessa del genere umano. Il mercato è il medio, in cui si compie il processo di accumulazione del capitale secondo la formula D - M - D’ [73]. Se da questa formula togliessimo il medio, cioè il mercato, il denaro perderebbe ogni sua funzione -poiché tale funzione consiste, appunto, nel permettere l’ingresso nel circuito dello scambio di beni, considerarti astrattamente dal loro valore d’uso e proprio così trasformandoli in merci.  [74]

Senza denaro, dunque, non vi sarebbero merci; senza merci non vi sarebbe mercato e senza mercato non vi sarebbe accumulazione di capitale. Ma è vero  che le cose stanno semplicemente così? No, non è vero.

La “divisione delle risorse secondo bisogni sensibili” è il principio di un’economia di semplice sussistenza: essa può funzionare in un accettato sistema di bisogni relativamente semplice, che ogni membro della società puà avere facilmente di fronte agli occhi anche nelle sue specificazioni più minute. Già società antiche di più ampia dimensione e dotate di una sviluppata divisione del lavoro abbisognavano di un ben diverso meccanismo di scambio..

“Giuseppe il nutritore”, che nei sette anni grassi riempì i depositi del Faraone e che, quindi, potè distribuire a tutti secondo le loro necessità nei sette anni di carestia, è una figura utopistica; Talete, invece, che si serviva della speculazione per ricavare un profitto dalla raccolta delle olive, è la realtà.

Certamente, meno che mai la moderna società di massa rende possibile la semplice allocuzione delle risorse. Come che possa essere pensata e organizzata la società, che succederà lla distruzione del capitalismo (ed a patto che, nel frattempo, l’umanità non sia scomparsa), essa, comunque, non potrà evitare di ricorrere al mercato come meccanismo regolatore la distribuzione dei beni, servendosi di un astratto strumento che misura l’utilità sociale, sia esso chiamato denaro o altrimenti.Gli sviluppi storici sono irreversibili, ma è anche vero che la storia non si arresta nel suo corso.

Non il valore né il plusvalore rappresentano il male del modo capitalistico di produzione, ma piuttosto l’appropriazione privata di quest’ultimo ed il fatto che la produzione e la distribuzione non abbiamo altro scopo che l’autoconservazione.

“La circolazione del capitale è scopo a sé, dato che la valorizzazione del valore esiste solo all’interno di questo movimento, che si rinnova in continuazione. Dunque, il movimento del capitale è privo di misura.” [75]

La “negazione determinata” del capitalismo auto-contraddittorio non sta nell’abbattimento della complessità e diversificazione del sistema dei bisogni, con la produzione e la distribuzione che ad esso corispondono. Piuttosto la si trova, quelle ‘negazione’, nello spezzare la continua riproduzione dell’accumulazione di capitale e nell’orientare la produzione sociale secondo responsabilità sociali, secondo finalità umane e naturali a corto e lungo raggio.

Si tratta di un compito certo economico e politico, ma anche morale. Il quale, per giunta, non può esser perseguito a dir così dietro le spalle dell’individuo, ma sì partecipando egli pienamente ad un impegno politico collettivo organizzato, il cui scopo sia quello di costruire una volontà ed una cultura comuni.

Non è dubbio che costruire tale comune volontà e cultura implicita una forma di democrazia ben diversa rispetto a quella tradizionale, basata su Parlamento e pluralità di partiti. Come si possa rappresentare una tale nuova democrazia diverrà, tuttavia, una questione concreta, solo allorché all’ordine del giorno vi sarà l’abbattimento dei rapporti capitalistici di produzione.

 

 

7° capitolo: Riflessioni sul concetto di situazione politica.

Un’importante tappa nella storia culturale dell’umanità si ebbe quando, con l’elaboraione dei fondamenti del materialismo storico -dunque, con la teoria di Marx, Engels e Lenin-, per la prima volta si rese possibile una concezione scientifica, capace di abbracciare la totalità dell’epoca presente (della società borghese, cioè) ma, anche, dello sviluppo storico in generale. Il vantaggio del marxismo consiste, appunto, nel potersi basate su una tale concezione.

Questo è qualcosa di cui dobbiamo prendere appieno coscienza, quando ci confrontiamo con l’esperienza, in particolare dopo la caduta delle società socialiste e la perdita conseguente di tutta una serie di coordinate teoriche pur necessarie ad orientarci. [76]

Il senso di ciò è che non possiamo volgerci a considerare cosa vogliamo perseguire e conseguire nel futuro, se non prendiamo le mosse da una serie di considerazioni, sia pure destinate ad esser riesaminate, che abbiamo a loro oggetto non solo il nostro futuro, ma sì anche il nostro passato.

Va da sé che la nostra autocoscienza non può prescindere dall’analisi di ciò, che profondamente ha determinato lo scacco del primo tentativo di realizzare società socialiste -quali che siano i limiti di superficialità e inaccuratezza con cui, oggi, spesso si discute di queste cose. [77] E’ altrettanto  chiaro che parte di tale riflessione è, anche, se il marxismo -vale a dire, ciò da cui prendiamo le mosse, in quanto socialisti scientifici- riesca o no a superare quella prova cruciale che è data, appunto, dalla crisi delle società socialiste.

Nostro problema centrale -in quanto organizzazione, ma anche in quanto individui- è quello dell’identità del comunista (identità, di cui inevitabilmente fa parte l’intera nostra storia di Partito, comprendendo in essa anche tutti gli errori fatti). Non possiamo, infatti, cavarcela, pretendendo di appartener sempre alla tradizione del movimento comunista ma, contempraneamente, scrollandoci di dosso i nostri errori; tutto al contrario, dobbiamo vederci in continuità col movimento comunista, con le sue grandi luci e le sue drammatiche ombre. 

E’ una comprensibile conseguenza psicologica della nostra sconfitta che oggi la ricerca degli errori stia per noi al primo posto e che assuma anche l’aspetto dell’ autoaccusa. E’ vero, però, che troppo facilmente questa ricerca degli errori si risolve in una autocondanna, con qualche masochismo, di insufficienze individuali ed in una valutazione strutturalmente negativa dell’organizzazione di Partito (fino a poco prima accettata senza discussdione alcuna). Il tutto termina, poi, con il render responsabile una sola -demonizzata- persona o un sistema di arbitrarie deformazioni: la parola-chiave di questo modo di fare i conti con la nostra storia à stalinismo.

Tutto ciò mi appare falso, sul piano teorico, e indegno, sul piano umano.

Teoreticamente falso, perché in tal modo si salta a piè pari un’analisi storico-materialistica dei motivi profondi che, nel processo di costruzione dell’Unione Sovietica, hanno condotto ai crimini politici e morali dell’epoca staliniana; contemporaneamente si rimuovono, anche, dal quadro di questa fase rivoluzionaria i gigantischi risultati, in qualche modo legati al Terrore, che hanno consentito di gettare le basi per una generalizzata sicurezza materiale e sviluppo culturale delle larghe masse.

Indegno dal punto di vista umano, perché noi, membri del Partito e coattori -più o meno attivi e consapevoli- del processo, è come se volessimo nasconderci dietro le spalle di qualcuno.

Noi ci siamo voluti portatori di una rivoluzione; dunque, noi dobbiamo farci carico e prendere piena coscienza di tutte le manifestazioni di questa rivoluzione nella totalità delle sue manifestazioni: nelle sue speranze e nei suoi limiti, nei suoi successi e nelle sue sconfitte.

Solo se saremo capaci di analizzare con piena chiarezza teorica, senza alcuna forma di ignavia morale e di fiacchezza piccolo-borghese il nostro passato, saremo anche in condizione di evitare nel futuro la ripetizione degli errori.

 

§. 1 - Essenza e manifestazione; connessione e contraddizione.

Riflessioni, che abbiano lo scopo di definire la situazione attuale o, per dirla filosoficamente, che vogliano elaborare il concetto delle situazione in cui ci troviamo, ci appaiono particolarmente necessarie perché, in tutti i colloqui, discussioni ed anche confronti teorici in cui ci impegnamo, è come se esperienze ed impressioni -spesso aneddotiche e soggettive- venissero da noi considerare sufficienti a cogliere effettivamente la storia e il concetto della situazione del nostro movimento. Insomma, succede che al posto di un’esatta valutazione ed elaborazione concettuale abbiamo, invece, sentimenti, impressioni ed aneddoti.

Conquistarsi il concetto di una situazione implicita distinguere tra essenza della situazione stessa e suoi modi di manifestarsi. Quei fenomeni che appartengono alla superificie o quelli, che possono aver costantemente accompagnato l’esperienza personale nelle diverse fasi di sviluppo delle società socialiste, dobbiamo imparare a distinguerli rigorosamente dai grandi processi sociali e dalle loro contraddizioni, dei quali i detti fenomeni non sono che modi di manifestazione. Insomma, dobbiamo riuscire a determinare le contraddizioni, non a partire dai fenomeni, ma sì dai processi strutturali.

L’obiettivo di determinare il concetto d’una situazione comporta anche, pare a me, non limitarsi all’analisi di questo o quel singolo momento, sì piuttosto cercare di cogliere la connessione dei momenti.

Questo cogliere la connessione dei momenti -in effetti, di un’enorme quantità di momenti, dato l’inevitabile orizzonte mondiale della ricerca- non è certo operazione che un singolo possa condurre a termine; al contrario c’è bisogno che vengano  intrecciate prospettive diverse: quella dell’ economia politica, della  teoria della cultura, della filosofia, delle scienze storiche e sociali.

In terzo luogo, se intendiamo elaborare dialetticamente il concetto d’una situazione, dobbiamo prender le mosse dalle contraddizioni obiettive, che caratterizzano la situazione in questione.

Una situazione storica mondiale non è, in effetti, qualcosa di compatto ed omogeneo; piuttosto va intesa come il luogo di contraddizioni, che si scontrano l’un con l’altra; ciò che specifica un’epoca sono, esattamente, le contraddizioni che essa conosce ed il modo in cui si rapportano l’una all’altra -modo che è descrivibile mediante la logica dialettica.

Ora, che ci riesca -anche sulla base delle osservazioni precedenti- di garantirci un concetto dell’attuale situazione -nel senso della differenza tra essenza e manifestazione sua e della conoscenza delle connessioni come anche delle contraddizioni obiettive-, è una condizione perché sia possibile elaborare una strategia politica per gli ulteriori sviluppi storici, nei quali per altro, in quanto soggetti politici, siamo già implicati.

Per strategia politica si ha da intendere non la costruzione di finalità che crescano pragmaticamente l’un sull’altra, ma sì l’elaborazione di uno scopo a lungo termine, dal quale possano ricavarsi anche le mosse tattiche, che situazioni determinate pretendano. Un’ultima annotazione.

E’ sostanzialmente un’ovvietà dire che possiamo darci una tattica -se si vuole, una pragmatica dell’agire quotidiano- solo a patto di possedere una strategia di lungo periodo, teoreticamente fondata.

Quest’ovvietà -che, appunto, si comprende da sé-, nel passato, è stata più volte misconosciuta e, addirittura, è successo spesso che prospettive strategiche teoreticamente giustificate siano state elaborate post festum, al solo scopo di legittimare decisioni tattico-pragmatiche già prese. Ma, appunto, questo va ben fissato: ecco una pratica che non dovrebbe più trovar cittadinanza nel nostro movimento. Ed è chiaro che nel dir ciò mi rivolgo non tanto a coloro i quali si limitano a riflettere su queste cose in ambito seminariale, quanto a coloro che si impegnano attivamamente nel fare politico.

 

§. 2 - Coscienza della crisi.

Quali sono, dunque, i fondamentali momenti determinanti, dai quali prender le mosse o, se si vuole, in quale epoca viviamo della storia del mondo? [78]

La definizione dell’epoca, come quella del passaggio dal capitalismo ad una formazione sociale liberata dal capitalismo stesso, è del tutto indipendente dal fatto che si dia o meno un sistema di società socialiste, che costituisca un campo operante al livello politico mondiale.

Nessuna formazione sociale, inoltre, permane immutata ed inerte nelle sue strutture sociali e ideologiche. Lo stesso capitalismo attuale non è più quello dei suoi inizi; dal tempo in cui Marx compose Das Kapital ad oggi, il capitalismo ha conosciuto non solo modifiche al livello delle sue manifestazioni, ma sì anche cambiamenti, che riguardano aspetti di fondo del processo di produzione. Ciò è vero, tuttavia, senza che si sia modificato ciò che rende il  capitalismo appunto tale.

In altri termini, il sistema che realizza l’essenza del capitalismo, conosce sì una svolta storica -in una con lo sviluppo delle forze produttive-, senza, però, che risulti superata la contraddizione fondamentale tra capitale e lavoro. Pur restando il capitalismo quello che è, tuttavia è possibile un suo ulteriore sviluppo.

Se ci muoviamo dal punto di vista dialettico, quindi, se riconosciamo  che le interne contraddizioni del sistema sono anche le forze, che ne sollecitano lo sviluppo, allora diviene pronosticabile con sicurezza che queste contraddizioni raggiungeranno quel certo punto temporale e causeranno quelle tali trasformazioni strutturali, che comportano la dissoluzione del sistema ed il passaggio ad un’altra formazione sociale.

Non per caso mi son finora espresso in termini così generici senza parlare esattamente di socialismo come alternativa; ed ho così fatto allo scopo di chiarire che per determinare le tendenze alla modificazione della formazione sociale in cui viviamo, non è sufficiente il mèro fatto della modificazione.

Modificazione è termine insufficiente, dacché non dice in che senso o direzione la modificazione avvenga -anche l’annichilimento, ad es., è una forma pensabile di essa.

Ciò che noi, oggi, con particolare insistenza, chiamiamo i <problemi globali> (la questione ecologica, il problema dell’esplosione demografica, dell’immiserimento massivo del Terzo mondo e dell’inaridimento di intere regioni del mondo), implicitano la catastrofica possibilità della scomparsa dell’umanità o, almeno, della civiltà umana.

Da ciò si ricava che non è auto-evidente che da quella formazione sociale, così foriera di pericoli disastrosi, che è il capitalismo, si possa pervenire ad un’altra formazione sociale, che abbia superato le contraddizioni radicali della prima; è possibile, infatti, che quelle contraddizioni condocano, invece, l’intero genere umano alla catastrofe.

A mio parere, questa consapevolezza della (possibile) catastrofe è un momento fondamentale della coscienza attuale e credo che ciò valga, anche per quanti non ne hanno una chiara immagine teorica.

Il generale disagio, che caratterizza il nostro momento storico e che, dunque, non è proprio solo di noi socialisti ma che ha assunto, addirittura, i contorni di un dato della psicologia sociale nei Paesi capitalisticamente evoluti, mostra con chiarezza che la minaccia di una catastrofe, che coinvolga l’umanità intera, è -più o meno confusamente, con forza maggiore o minore- avvertita generalmente ed è percepita come un riflesso della condizione storica.

Per lungo tempo questa consapevolezza d’una minaccia, di una catastrofe, ha assunto la forma del pericolo di una guerra nuclerare fra i due campi politici contrapposti e, dunque, di un disastro capace di coinvolgere l’umanità tutta.

Nella stessa misura in cui, dopo la dissoluzione del campo socialista, non vi è più una grande potenza politica alternativa al sistema capitalistico nel suo insieme, mi pare che la questione di una possibile guerra mondiale nuclerare non occupi più il davanti della scena.

Ciò non toglie che quello di garantire la pace resti un problema che si pone in modo acuto, anche se in termini nuovi: contraddizioni e problemi, che generano conflitti regionali -e periferici, se consideriamo le cose dal punto di vista delle metropoli-, i quali, però, non rapresentano più un’immediata minaccia per il genere umano.

Ciò su cui voglio soffermarmi è la misura, in cui i guasti ecologici siano conseguenza di tali conflitti e quale minaccia generale per il genere umano rappresentino.

Sembra a me, infatti, che, al momento, la consapevolezza della catastrofe, che caratterizza il nostro tempo, sia alimentata in assai grande misura da problemi come quello ecologico, dell’esplosione demografica e, sia pure ancora in misura minore, dalla possibilità che precipiti una crisi della produzione mercantile.

Il modo in cui -per dirla con Hegel- si sviluppa nel nostro tempo “il sistema dei bisogni”, particolarmente nelle metropoli capitalistiche, contiene in sé la tendenza ad un crollo catastrofico. E ciò perché, allo scopo di soddisfare bisogni che vanno sempre più crescendo, si sviluppa continuamente una produzione di beni, che perde progressivamente di senso e che ha in sé la conseguenza di rompere l’equilibrio uomo-natura.

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