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Article Index

 

 

§. 3 - Negazione determinata.

Dunque, molteplici punti critici nel nostro presente; e si tratta, in questo caso, di un presente che non ha la corta durata di un decennio, dacché quei punti critici hanno le loro radici nelle tendenze fondamentali della dinamica sociale contemporanea.

E’ per ciò che mi pare tutt’altro che falso affermare che ci troviamo in una fase storica di passaggio: quella in cui il capitalismo va sempre di più scontrandosi con i proprio confini essenziali in quanto “fattore di civilizzazione”, e si caccia invece sempre più in un rapporto insuperabile di contraddizione con il processo di sviluppo storico umano.

Se è vero che ci troviamo di fronte al bivio - da un lato il passaggio ad una nuova situazione catastrofica per l’umanità; dal’altro la possibilità di sviluppare una soluzione alternativa- e se ci atteniamo ad un punto di vista dialettico, comprendiamo bene come la possibile alternativa non debba avere caratteri arbitrari. Le alternative storicamente possibili, infatti, non costituisco una sorta di spazio neutro in cui si possa ad arbitrio scegliere l’una o l’altra di esse: al contrario, le alternative ad una situazione storicamente determinata hanno la forma di ciò che, con Hegel, si chiama “negazione determinata”. Ciò significa che una situazione data non è semplicemente negata, ma sì lo è in un modo determinato.

Nel caso delle leggi dinamiche e strutturali del capitalismo, la negazione determinata è stata elaborata dal materialismo storico.

Se sono i rapporti di produzione e, ancora più esplicitamente, i rapporti di proprietà a definire una formazione sociale, allora l’alternativa al rapporto di capitale ha il tratto determinato del superamento della proprietà privata degli strumenti di produzione, sostituita dalla proprietà sociale: questa è  la negazione determinata della formazione sociale capitalistica.

Da ciò ricavo che il socialismo, comunque venga pensato (perché, certamente, la forma che ha assunto nel corso del suo primo tentativo di realizzazione non ha il valore d’un paradigma ed altre forme son pensabili), è comunque -sulla base di principi rigorosi sia logicamente che metodologicamente- l’unica alternativa e negazione determinata, appunto, della società capitalistica.

Da quanto sopra si ricava che la nostra epoca è quella del passaggio dal capitalismo al socialismo, per quanto quest’ultimo appaia al momento sconfitto. Solo il passaggio al socialismo ha la forma della negazione determinata ed in questo si differenzia da tutte le altre possibili negazioni -in particolare da quella generale negazione, che coincide col disastro dell’umanità intera. Queste son considerazioni di natura logica, dacché hanno a che fare con la forma generale della storia; certamente non sono tali da contenere analisi particolari della formazione sociale, ma ciò perché hanno lo scopo, appunto, di chiarirne l’andamento essenziale.

 

§. 4 - Crisi generale del capitalismo e Rivoluzione d’Ottobre.

Insomma, sembra a me che possiamo effettivamente definire la nostra epoca come quella del passaggio dal capitalismo al socialismo, in quanto sua negazione determinata. Ma, certo, esiste anche l’altra alternativa.

Ovviamente, se definiamo in tal modo la nostra epoca, siamo per ciò stesso autorizzati a parlare di crisi del capitalismo. Ed in effetti il capitalismo vive una crisi fondamentale rispetto ai temi, che ho ricordato.

D’altro lato è vero che, finora, abbiamo commesso l’errore di non spiegare adeguatamente la crisi generale del capitalismo, sostenendo che prima o poi sarebbe crollato. Le cose, però, non sono così semplici.

Infatti, noi sappiamo, grazie a Marx, che la <crisi> è la forma stessa del movimento del capitale, cosicché, di primo acchito, la crisi generale del capitalismo è il terreno stesso della sua esistenza e della sua continuazione.

In altre parole, la sua crisi generale non conduce necessariamente né automaticamente al crollo dello stesso capitalismo, come forse si attendevano gli stessi Stati socialisti.

Ben al contrario, almeno nelle metropoli -che hanno un ruolo decisivo per valutare lo stato di salute del sistema-, il capitalismo appare essere immediatamente una formazione sociale in piena fioritura.

E tale appare, poiché esso crea una grande massa di ricchezza sociale; ha saputo dare un enorme contributo al processo della RTS ed in nessun modo è entrato nella fase della decadenza finale.

Notoriamente, abbiamo finora dedicato ben poco lavoro teorico alla differenza tra concetto di crisi generale e forme di vita all’interno di questa crisi generale e di qui son derivati alcuni errori di valutazione circa la forza del sistema capitalistico. Per l’esattezza storica va aggiunto che il DKP non ha sostenuto la tesi dell’imminente crollo del capitalismo.

Se, dunque, il capitalismo, nonostante la sua crisi generale, si dimostra vitale ed anche tenendo conto della sconfitta degli Stati socialisti, ribadisco in forza di principi fondamentali che viviamo nell’epoca del passaggio dal capitalismo alla sua negazione determinata, vale a dire il socialismo, e che il sistema capitalistico, a partire dalla prima guerra mondiale, è entrato nell’epoca della sua crisi.

In connessione con questo modo di definire l’epoca storica va adeguatamente valorizzata l’apparizione delle prime società socialiste, vale a dire l’evento della Rivoluzione d’Ottobre. Certamente, il socialismo come forma statale -costruitosi, prima, nell’Unione Sovietica e, poi, in tutto il campo socialista- è crollato; rispetto a tutta una serie di conquiste del socialismo, in particolare riguardo ai rapporti di proprietà, nei Paesi ex-socialisti si è ampiamente tornati indietro. I rapporti capitalistici di proprietà sono stati restaurati non solo là dove -come è il caso per i cinque nuovi Länder della Repubblica federale di Germania- è avvenuta un’ annessione, ma anche negli altri Stati che, in quanto indipendenti, avrebbero potuto prendere una o l’altra strada particolare di sviluppo sociale.

Tuttavia -questo è il mio parere-, l’esito negativo dello Stato sovietico, la decomposizione dell’Urss e poi del campo socialista, con il processo di restaurazione che ne è derivato, nulla hanno tolto al peso storico della Rivoluzione d’Ottobre e all’importanza sua per il giudizio da dare della nostra epoca.

La Rivoluzione d’Ottobre in quanto tale -ma, pure, i mutamenti che essa ha determinato nella coscienza delle masse, come anche nelle strutture socio-politiche del capitalismo stesso-, è all’origine di un immenso impulso verso lo sviluppo politico e sociale del nostro secolo.

Sotto la pressione della concorrenza tra i sistemi, il capitalismo è stato costretto a tutta una serie di progressi sociali, di cui pure conteneva la possibilità. L’esistenza per ottant’anni di un forte campo socialista, depositario di aspettative -bene o male realizzate che fossero-, significava, per il capitalismo e per le sue contraddizioni, un enorme, oggettivo sostegno alle forze riformistiche, che operavano per modifiche migliorative -sociali e strutturali- interne al sistema.

I grandi risultati che, dal 1917 ad oggi, hanno ottenuto i sindacati nelle metropoli capitalistiche nell’interesse dei lavoratori, avevano a monte e confermavano la possibilità di un’alternativa di sistema, da cui il capitalismo doveva guardarsi e da cui ha saputo guardarsi: per poter vincere nella concorrenza tra i sistemi, il capitalismo dovette ammantarsi di tutta una serie di attrattive sociali.

Per dir la cosa con la terminologia filosofica di Lenin e di Gramsci, [79] in tanto la borghesia potette mantenere la propria egemonia -far sì, questo significa, che i suoi valori conservassero la capacità di imporsi-, in quanto, date le condizioni della concorrenza tra i due sistemi, seppe fare una serie di concessioni, opportune a quello scopo.

Tutto ciò appartiene alla dialettica reale del processo storico; ed anche per questo ritengo che la Rivoluzione d’Ottobre fu, nel nostro secolo, un evento epocale, della cui importanza né dovremmo dubitare, né consentire che si dubiti. E ciò del tutto indipendentemente da come sono state costruite le società socialiste, nel quadro di grandi contraddizioni e debolezze.

Il significato, però, della Rivoluzione d’Ottobre non ha, solo, questa dimensione materiale; ma sì, anche, uno spessore culturale.

Quella Rivoluzione fu un evento tale, da determinare grosse ripercussioni dal punto di vista delle concezioni generali, al livello del mondo intero -come si comprende bene, se si studiano ad es. gli sviluppi culturali degli anni Venti in diretta connessione con la Rivoluzione d’Ottobre. E’ innegabile, comunque, che quelle ripercussioni si estesero per tutta la cultura dei decenni successivi.

Insomma, anche indipendentemente dai suoi effetti storico-materiali, la Rivoluzione d’Ottobre fu un evento centrale, in quanto componente strutturale della coscienza del nostro secolo e fonte ispiratrice di valori sociali e storici.

 

§. 5 - Mutamenti nel movimento mondiale.

Cosa significa per il movimento comunista internazionale questo modello della Rivoluzione d’Ottobre in relazione al crollo delle società socialiste? Già, perché esiste un movimento comunista internazionale, non limitato affatto alle sole metropoli capitalistiche.

Dopo la Rivoluzione d’Ottobre, il movimento comunista internazionale -e ciò va considerato tra i suoi grandi risultati storici- si trovò di fronte all’inderogabile compito di appoggiare la prima società socialista in costruzione, la giovane Unione Sovietica, e di impegnarsi per la sua sopravvivenza e stabilità sia interna che esterna. Con la vittoria del fascismo, in molti Paesi europei il sostegno all’Unione Sovietica divenne l’impegno principale. Per il movimento dei lavoratori la lotta contro il fascismo si identificò con quella per la sopravvivenza dell’umanità dalla barbarie ed in tale lotta i comunisti seppero immolarsi nelle prime file. La lotta contro il fascismo faceva tutt’uno con quella per il sostegno e rafforzamento dell’Unione Sovietica.

In tale contesto mondiale, vi fu un momento perfino, in cui per certi versi il movimento comunista dovette subordinarsi alla strategia di sopravvivenza del primo Stato socialista.

Si può certo dire che da tale situazione derivarono deformazioni nel movimento internazionale ed, anche, nella lotta di classe si reintrodussero interessi nazionali, che favorivano la politica estera e la stabilità interna dell’Unione Sovietica. Insomma, si possono indicare le contraddizioni che nascevano da quella situazione.

Ciò che non si può dire, invece, è che tale orientamento del movimento internazionale vada attributito a colpa di diktat sovietici, di Stalin o di chi altri si voglia, il cui scopo era di piegare gli interessi internazionali a quelli della potenza sovietica.

Dal momento della Rivoluzione d’Ottobre e della fondazione dell’Unione Sovietica, era logicamente necessario che assicurare le condizioni di sopravvivenza di questo Stato divenisse l’impegno centrale del movimento comunista internazionale; in tutto il periodo del confronto tra i due sistemi sociali antagonisti, questa situazione è continuata ed è stata fonte per noi di difficoltà, poiché naturalmente il campo socialista, che si andava costruendo pur fra contraddizioni ad esso proprie, assunse forme diverse e si dette differenti caratteristiche istituzionali, che certo non erano previste nel programma ideale socialista e che non dovevano trovare necessaria applicazione nello sviluppo pur socialista di altri Paesi. Tuttavia, il campo socialista esisteva e noi eravano, ovviamente, con esso solidali, né è dubbio che ciò fosse corretto ed inevitabile, sia politicamente che logicamente. Ora la situazione è cambiata alla radice e ciò rappresenta una nuova determinazione della nostra epoca.

Il movimento comunista internazionale è ricaduto, per così dire, in una situazione analoga a quella, che precedeva la Rivoluzione d’Ottobre e quali sviluppi ciò comporti lo abbiamo visto, ad es., con le decisioni dell’ONU in occasione della Guerra del Golfo: gli interessi immediati del capitale sono spacciati per interessi della comunità mondiale e quali espressione degli stessi diritti umani.

Sia detto di passata, non è certo mia intenzione dare un’immagine trasfigurata del ruolo giocato dal presidente irakeno Saddam Hussein: egli non è certo un campione della libertà del Terzo mondo; ben al contrario.

Il fatto, però, che l’ONU - secondo la sua Carta costitutiva, un’organizzazione per la pace- abbia, all’unanimità e con il sorprendente sostegno dell’Unione Sovietica, consentito, non solo, una cosa come questa guerra contro l’Irak, ma anche che fossero gli Usa a condurla in porto, ebbene ciò sta a dire chiaramente quanta capacità gli interessi particolari del capitalismo hanno, oggi, di imporsi.

Il movimento comunista internazionale ha, oggi, a che fare con un sistema di metropoli capitalistiche, che dominano il mondo: gli Usa, la Comunità europea in via di formazione, il Giappone, anche se in tali metropoli le stretegie molto differenziate dei grandi gruppi economici, solo in parte, sono coordinate, poiché, in parte, sono invece fortemente in contrasto l’un con l’altra.

Il mondo intero è sottoposto al dominio comune di queste metropoli capitalistiche che, però, si scontra con la resistenza delle proprie vittime.

L’alternativa di cui ho parlato, la negazione determinata del capitalismo, è qualcosa per cui bisogna riprendere a lottare e per la quale abbisognano movimenti organizzati, che coinvolgano direttamente le masse popolari dei diversi Länder, a partire dai loro particolari interessi.

Un altro problema è che, al momento, nel nostro Land non riusciamo a mettere im movimento masse popolari: resta che la situazione internazionale è, oggi, tale che, di nuovo, il movimento comunista deve entrare in scena muuovendosi, prima, sul terreno della lotta di classe nazionale e regionale, per poi far crescere il movimento di massa nel senso dello scontro di classe internazionale.

 

§. 6 - I problemi umani come problemi di classe.

Al tema della lotta di classe è dedicata la mia ulteriore osservazione. Dopo l’ineffabile libro di Gorbaciov dedicato alla Perestroijka, si è spesso affermato che i problemi umani non hanno contorni di classe, sono neutri dal punto di vista di classe.

I grandi problemi umani - quello della pace nel mondo; del mantenimento delle condizioni naturali necessarie alla vita umana ed all’equilibrio ecologico; quello dello sviluppo del Terzo mondo; della sconfitta della fame e del rispetto dei diritti umani, ecc.-, che restano insoluti a causa delle contraddizioni interne del capitalismo e che caratterizzano l’epoca politica che viviamo, nella loro essenza, derivano dalla struttura di classe della società capitalistica.

In tutte le formazioni sociali, i problemi fondamentali che le caratterizzano, ovviamente, riguardano l’umanità intera ed, in questo senso, sono promeni umani generali; ciò non toglie che, per la loro struttura e per la loro forma, siano sempre specifici dal punto di vista di classe.

Ciò significa che quando oggi abiamo di fronte problemi generalmente umani che debbono essere risolti, quando la continuazione della specie ha bisogno d’esser garantita, quei problemi non possono essere avviati a soluzione da un programma d’intervento, neutro dal punto di vista di classe e, solo, genericamente razionale.

L’appello al mèro valore morale, politicamente, conta ben poco ed ha assai scarsi effetti: solo nel quadro della lota di classe, i problemi umani possono esser avviati a soluzione.

E’ a questo punto che possiamo precisare il ruolo essenziale, che i comunisti hanno da giocare in questa battaglia.

Quando parlo di problemi e di lotta di classe, prendo le mosse dal concetto generale di classe, quale lo abbiamo ereditato dalla tradizione marxista: “Con il termine <classe> si indicano gruppi umani, che si distinguono per il posto che occupano nel sistema storicamente determinato della produzione sociale, per il rapporto con i mezzi di produzione (per lo più fissato dalle leggi), per il ruolo giocato nell’organizzazione sociale del lavoro e, di conseguenza, per il modo e la quantità di partecipazione alla ricchezza sociale. Le classi sono gruppi di uomini, alcuni dei quali possono appropriarsi del lavoro altrui per il posto determinato, che occupano nel sistema dell’economia sociale.” [80]

Nel loro Dizionario filosofico, Klaus e Buhr aggiungono: “ciò che essenzialmente differenzia le classi è il posto che occupano nel sistema storicamente determinato della produzione sociale e, quindi, per il loro rapporto con gli strumenti di produzione.” [81]

Le classi si definiscono per l’appropriazione del plusvalore: capitalisti son coloro i quali si appropriano del plusvalore sotto forma di profitto privato; alla classe lavoratriceappartengono, invece, coloro i quali producono il plusvalore mediante l’erogazione del loro lavoro.

Questa generalissimo definizione delle classi si colloca sul piano astrattamente teorico; ma la condizione di classe vive nelle determinate forme di esistenza, con cui gli uomini partecipano di fatto al processo di lavoro e di valorizzazione del capitale: in questo senso, qualcosa è effettivamente cambiato nella realtà.

Le condizioni esterne in cui gli appartenenti alla classe dei lavoratori -vale a dire la grande massa degli uomini- producono il plusvalore non sono più le stesse di un secolo fa -come d’altronde non lo sono le forme dello sfruttamento.

Lo stesso concetto di classe, d’altronde, non ha più dalla parte sua l’evidenza che aveva all’inizio del movimento dei lavoratori ed all’epoca delle grandi lotte sindacali della fine del secolo scorso.

Almeno nelle metropoli capitalistiche, i rapporti di sfruttamento sono velati e, dunque, non riescono ad imporsi con piena evidenza alla coscienza. In conseguenza di ciò, la coscienza di classe -che a suo tempo apparteneva alla gran parte dei lavoratori- attualmente non è più posseduta dall’insieme di quegli stessi lavoratori.

Insomma, per quanto la gran massa degli uomini appartenga alla classe lavoratrice, tuttavia non ha coscienza di questa sua condizione. Come riplasmare la coscienza -questo è un obiettivo, a cui dovrà volgersi la nostra ricerca teorica ed attività d’agitazione; ma anche è questione che si lega agli obiettivi processi di sviluppo negli stessi luoghi di lavoro. Ciò che fin d’ora possiamo dire è che il concetto di classe deve riempirsi di contenuti di coscienza e di esperienza vissuta, nuovi rispetto a quelli che potevano esser propri dei lavoratori negli anni Venti. Questi son compiti, che abbiamo di fronte a noi.

Tuttavia, non ritengo che il concetto di classe sia divenuto superfluo: ciò che è mutato è l’insieme delle forme in cui si manifesta e specifica; forme, che spetta a noi studiare.

 

§. 7 - Problemi del potere.

Indubbiamente è vero che il sistema di potere capitalistico, oggi, si presenta alla coscienza in modi assai meno trasparenti che nel passato. I meccanismi di dominazione a cui siamo sottoposti si son fatti anonimi e astratti. Il lavoratore non vede più un oppressivo padrone in fabbrica, al quale possa contrapporsi; lo stesso poliziotto per la strada non è più per noi uno sbirro o un ‘celerino’, se proprio non ci scontriamo con lui in una manifestazione. Tutt’altra era la situazione al tempo della legislazione anti-socialista; i meccanismi di potere son divenuti non immediatamente visibili.

A rigore, anche il manager di un’impresa, che persegue e realizza gli interessi del capitale, è solo un momento dell’anonimo processo della valorizzazione del capitale: non è più l’immediato proprietario del capitale, che intasca direttamente il profitto. Ciò significa che l’alto grado di astrazione degli odierni processi sociali richiede una capacità di penetrazione teorica, ben maggiore che in periodi precedenti; ma ciò significa, anche, che il movimento comunista può sottrarsi, ancor meno che nel passato, alla necessità di legare intimamente la propria politica alla comprensione scientifica e all’ulteriore elaborazione del socialismo scientifico: gli attuali anonimi rapporti di sfruttamento e di potere possono esser chiariti, solo a condizione che ci si sappia muovere ad un alto livello di astrazione.

E si badi che quando dico <astrazione> non intendo, solo, ricerca scientifica, ma proprio il livello del pensiero astratto, che può essere garantito, solo, da una formazione teorica, che sia parte organica dell’impegno formativo dell’organizzazione politica.

Non è dubbio che ci troviamo, oggi, in condizioni più difficili di quelle conosciute dalle generazioni precedenti; nel XIX secolo e nella prima metà del XX, le strutture formative di Partito avevano a che fare con masse, che desideravano -in vista della loro liberazione- di impossessarsi degli strumenti teorici e che avvertivano con forza il bisogno di cultura.

Al contrario, oggi, le masse sono uno spazio pressocché tutto coperto dell’influenza della classe dirigente, attraverso l’azione dei mass-media. La paradossale accoppiata di disinformazione e di sovrabbondante offerta delle più disparate <notizie>, prive di significato e falsificate/falsificanti, riesce a costituire un sottofondo di ‘distrazione’ e incultura, contro il quale dobbiamo lottare con scarsi e inadeguati mezzi -in un ambito, inoltre, in cui non è più possibile muoversi contro ben definiti e riconoscibili nemici: già nel 1968, lo slogan <espropiare Springer!> non era più adeguato alla situazione reale; i portatori del processo di uniformizzazione della coscienza di massa non son più singoli individui, singoli rappresentanti del capitale: piuttosto, bisogna parlare di anonimi processi gestiti dai mass-media, i quali conducono ad ottenebrare e distrarre la coscienza degli sfruttati.

Tale perfetta strategia manipolatoria non si esplica, solo, mediante la politica dei media, ma sì anche attraverso quella ‘costruzione’ dei dati, che l’attuale tecnologia consente e che costituisce una forma di dominio, capace di sfuggire completamente all’osservazione.

 

§. 8 - Disintegrazione culturale.

Ho gà detto qualcosa dei problemi, in cui -a seguito delle sue proprie contraddizioni sociali- si invischia il capitalismo. Ho parlato dell’immiserimento di intere regioni del mondo, che costituisce una contraddizione radicale per il capitalismo, in quanto tale sistema dovrebbe, invece, impegnarsi nella produzione di ricchezza sociale, in una sempre crescente disponibilità da parte dei consumatori di merci, proprio allo scopo di garantire l’accumulazione di capitale. E’ chiaro, dunque, che si tratta di una sua contraddizione radicale.

Una contraddizione, invece, di cui non abbiamo ancora parlato -ma che vale la pena se non altro di accennare, giusta l’importanza che ha per la nostra scientifica visione del mondo-, è questa: la tarda società borghese non è più in condizione di fornire una cultura, nel senso di una visione del mondo integrante: si danno, certo, piccoli domini culturali ‘regionali’ che giacciono l’uno accanto all’altro; si dà un assai variegato pluralismo, che a tutta prima fornisce l’immagine di una ricchezza culturale ma che, in realtà, vanifica la funzione stessa della cultura -che è quella di consentire all’uomo di orientarsi nel mondo. Nessun oriantamento, infatti, è possibile di fronte ad una varietà di alternative offerte, tutte poste sullo stesso piano e parificate in quanto a valore.

Il senso di tutto ciò è che, alle contraddizioni di cui ho già parlato, se ne aggiunge un’altra: quella della decomposizione dell’attività culturale nel capitalismo che, sotto l’apparenza di una grande dovizia culturale, in realtà non ha altro effetto se non quello di disorientare e di disgregare ogni visione del mondo: la consapevole politica di un irrazionalismo frantumante vale come un autentico segno del nostro tempo. [82]

Al contrario, i marxisti possono offrire una visione del mondo ben definita, che è il presupposto di una mobilitazione della volontà politica.

Ciò va sottolineato anche pensando a quei politici riformisti, i quali ritengono di poter costruire un partito delle riforme sociali, pur in mancanza di una visione del mondo, che funga da bussola d’ orientamento!

Al contrario, è del tutto evidente che un partito, che voglia essere strumento politico del cambiamento sociale, richiede anche una visione del mondo unificante e che non può, certo, risolversi in un club per confronti pluralistici.

Nessuna società può esistere, se non si basa su un certo accordo rispetto alla visione del mondo, senza condividere valori, scopi e senza comuni speranze. In assenza di tutto ciò, la società si riduce a pura anarchia.

In ogni epoca della storia sociale, la classe dominante fa sì che anche i dominati condividano i suoi valori, le sue norme ed i suoi criteri di senso, insomma, che riconoscano come propria la sua visione de mondo: ottenere un tale consenso fa parte delle condizioni stesse del potere ed è ciò che noi chiamiamo egemonia.

I contenuti ideali non possono essere imposti mediante violenza: essi riescono a diffondersi solo mediante accettazione; insomma, hanno da esser condivisi, per quantoillusori siano obiettivamente e per quanto risultino, dunque, da processi di manipolazione.

Se la contraddizione fra professioni di senso e valore, da un lato, ed effettività della vita sociale, dall’altro, apparisse con chiarezza, l’intero edificio dell’egemonia ideologica crollerebbe come un castello di carta.

Abbiamo detto precedentemente che la società borghese, a causa delle sue reali e trasparenti contraddizioni, non è più in grado di fornire un’unificante visione del mondo; piuttosto, tale società si affida all’anarchia culturale, che va soto il nome di ‘pluralismo’, per offrire un succedaneo della visione del mondo. Qui -in questo sbriciolarsi della coscienza comune, che è un presupposto strutturale dell’egemonia- va individuato un punto assai vulnerabile del sistema di potere.

Noi marxisti, invece, possiamo offrire una visione del mondo, capace di raccogliere, nella prospettiva di un fondamentale modello comune, processi naturali, sociali e sistemi di valori e finalità umane. Questo è un decisivo nostro punto di forza.

E tanto maggiore è la nostra forza, quanto meno ci lasciamo invischiare in concessioni e compromessi ideologici con le deboli produzioni filosofiche del pensiero tardo-borghese -anche se ciò significa confinarci per un certo tempo nel ruolo di minoranza ed assumere posizioni, che restano isolate nell’ambiente culturale dato.

Appunto perché gli uomini cercano chiari punti di orientamento nel mondo, la coerenza della visione del mondo marxista è un punto di forza, anche politica, ed il lavoro teorico è un fattore decisivo per il nostro successo futuro.

 

§. 9 - Il problema organizzativo.

Con ciò siamo giunti all’ultimo punto, che resta brevemente da trattare, ovvero, quello delle conseguenze organizzative delle nostre considerazioni; infatti, non ci siamo qui riuniti per avere una discussione seminariale sulla situazione storica mondiale allo scopo di poter dire, alla fine con soddisfazione, “ecco come stanno le cose!”: il nostro scopo, invece, è trarre conclusioni operative da quanto diciamo. Le nostre, insomma, sono riflessioni teoriche, a cui siamo non comtemplativamente, ma politicamente interessati: noi ci manteniamo fermi al postulato dell’unità teoria-prassi.

Posta la situazione che abbiamo delineato, quali ne sono le conseguenze organizzative per un movimento socialista, comunista?

Secondo Hans Luft due sono i binari lungo i quali bisogna muoversi; il primo corre entro i confini dell’esistente società capitalistica: è il binario lungo il quale si muove un partito come il PDS, che ha una presenza parlamentare ed opera, attenendosi a margini di manovra interni alla società capitalistica -per cui possiamo lasciar cadere la domanda di  quanto effettivo spazio di manovra le forze dominanti possano lasciargli.

Naturalmente, un partito deve lottare, con la migliore efficacia possibile, all’interno dell’ordine sociale esistente, confrontandosi con i processi sociali che in esso si svolgono, nell’interesse degli quanti il partito rappresenta e vuole indirizzare. Insomma, il partito deve sapersi muovere su un terreno, che noi diciamo ‘sindacale’ oppure riformistico. Questo è del tutto chiaro.

In una situazione non rivoluzionaria, il binario delle riforme interne al capitalismo è l’unica linea poliica possibile ai comunisti -il che significa un oscuro, quotidiano ed instancabile lavoro politico, il quale però certamente non conduce là dove è lo scopo ultimo della nostra azione. Questo si capisce da sé.

Ciò che, invece, non si capisce da sé è l’attenersi contemporaneo al secondo binario, quello della nostra volontà rivoluzionaria.

Al fondo di ogni attività riformatrice, interna a questa società; sottesa ad ogni tentativo di limitare il dominio della classe dirigente e le pratiche disumane del capitale, deve comunque restar desta la consapevolezza che non si tratta di migliorare questo o quell’aspetto della società attuale per ottenere finalmente che tutto sia in ordine; piuttosto, l’obiettivo è rovesciare questa società.

L’apparente successo del capitalismo non deve farci dimenticare che viviamo nell’epoca della sua disintegrazione e superamento. Il che significa: al di sotto dell’interno processo dei piccoli, continui cambiamenti -che riconosciamo nella società ed a cui contribuiamo-, deve mantenersi la consapevolezza che questa società in quanto tale -così come essa è- né può essere mantenuta in piedi attraverso le riforme, né varrebbe la pena di mantenerla in piedi ma che, piuttosto, il compito è ‘togliere’ questa società mediante un’altra, la socialista, che dell’attuale è la negazione determinata.

Fin quando si vive in una fase di piccoli cambiamenti e di riforme e finché la necessità politica impone di contenere in questi limiti la lotta, è un problema di formazione teorica quello di mantener desta negli aderenti ad un partito rivoluzionario (che, però, non ha da dirigere alcuna rivoluzione) la coscienza di quale sia l’effettivo scopo ultimo, insomma, di quale sia il radicale mutamento sociale che si persegue; è suo compito far avvertire costantemente lo scarto fra la pratica politica quotidiana e l’obiettivo di lungo periodo -ma non solo lo scarto, sì anche la sua intollerabilità.

Liberiamoci da ogni illusione: in una fase storica di riforme, la prospettiva politica, che realisticamente si offre alle masse, è solo quella <socialdemocratica>. Riuscire a mantenr viva la tensione interna, che può condurre la politica riformistica dei piccoli passi all’accoglimento di più radicali finalità rivoluzionarie - e riuscire a far ciò, senza lasciarsi invischiare nelle maglie del riformismo- è un compito dell’avanguardia, la quale, facendosi forte della propria chiarezza teorica, può riuscire a divenire quel punto di coagulo, in cui sempre più possano raccogliersi uomini, sulla base del crescente approfondirsi delle contraddizioni interne alla società presente.

Mantenersi avanguardia non sporcata da compromessi, anche al prezzo di restare per lungo tempo minoranza numericamente insignificante, è compito storico di un PC.

Una linea teorica combattiva è momento ineliminabile della politica dei comunisti. Il superamento del capitalismo mediante una società alternativa dev’essere, in ogni caso, l’obiettivo strategico, che funga da presupposto per quanti, vivendo e soffrendo in questa società, si impegnano -tatticamente- nella ricerca di mutamenti e correzioni da apportare pur all’interno di questa stessa società.

Si tratta di una lotta, che si dispone su vari piani. L’esperienza fatta delle strutture burocratiche ed anti-democratiche, presenti nei Paesi una volta socialisti, ha condotto spesso ad una raffigurazione idealistica della democrazia parlamentare borghese ed a considerare le sue istituzioni come l’unico scenario della lotta politica.

Al contrario, noi dobbiamo vedere nella democrazia parlamentare borghese, per come essa è nata e per come si è trasformata, la forma di organizzazione statuale, che corrisponde agli interessi dei gruppi di potere; dobbiamo renderci conto che, nell’ambito di tale democrazia, l’universale partecipazione dei cittadini alla vita dello Stato non costituisce affatto il momento decisivo.

I grandi Stati -nei quali ogni cinque anni i cittadini si recano alle urne a scegliere i loro rappresentanti (in realtà, già designati nelle liste di partito)- rappresenta solo un minimo livello di coinvolgimento e partecipazione dei cittadini alla formazione della volontà poliica. In Paesi coma la Svizzera e l’Olanda la situazione muta di poco, solo di poco.

In Svizzera, perché esiste anche la diretta democrazia referendaria che, ora, -sotto la pressione della Comunità europea, che potrebbe avocare a sé molte funzioni- corre il pericolo di essere revocata (e si sta lavorando in questo senso).

All’interno di questa forma di ordinamento, vi è stata finora la possibilità di promuovere iniziative dal basso; come anche una democrazia comunale eccezionalmente ben funzionante, dato che -a confronto dei grandi Stati centralistici-, in Svizzera, i comuni hanno una gamma di competenze ben più ampie. Non è questa, però, la regola della democrazia borghese; lo è, invece, quella degli Stati fortemente centralizzati, dato che -ovviamente- non sono situazioni eccezionale che possono fornire i criteri di valutazione di tale democrazia.

Piuttosto, bisogna osservare come tale democrazia funzioni in grandi Stati, quali la Germania, l’Inghilterra, la Francia, l’Italia, gli Usa, dove i processi decisionali si volgono anonimamente ed il potere dei grandi gruppi sfugge ad ogni controllo.

Da quanto detto ricaviamo che quella parlamentare e borghese non offre certo un modello di democrazia partecipativa.

Oltre a ciò, va detto che la democrazia parlamentare è sottoposta costantemente al potere della burocrazia ministeriale.

I parlamentari ed i ministri non sanno pressocché nulla di tutte le complessità in materia di amministrazione e di attività legislativa: chi effettivamente ha in mano la produzione di leggi e, dunque, è in condizione di influenzare i processi sociali è la burocrazia ministeriale, che nel migliore dei casi è supportata da esperti, il cui punto di vista politico non ha alcuna importanza. Come si vede, tutto ciò non ha nulla a che spartire con la partecipazione democratica.

Credo che la democrazia parlamentare venga valorizzata come medio per la costruzione di una volontà generale e, dunque, come lo scenario della lotta politica degli oppressi, quando la si concepisce come la forma di movimento della libertà politica.

La battaglia -che noi, da comunisti, dobbiamo condurre- ha da cominciare con lo sviluppare poco a poco una coscienza di classe, a partire da quei punti, in cui si riannodano con chiarezza i conflitti di questa società; ciò non significa solo lottare per la soluzione di questo o quel conflitto, ma anche -e più ancora- legare a ciò un ampliamento della consapevolezza che ogni conflitto determinato non è altro che un aspetto particolare, in cui si esprime una più ampia connessione sociale e che solo dal modo in cui si inserisce in questa più ampia connessione il problema particolare riceve il suo senso. Non si tratta solo di combattere, ad es., questa o quella progettata istallazione atomica, ma sì un’intera prospettiva politica. Naturalmente la singola lotta è pur giusta, ma più ancora lo è legarla alla lotta contro l’insieme dei rapporti sociali a cui rimanda.

Per poter fare ciò, abbiamo bisogno di una valutazione teorica della situazione storica, in cui ci troviamo; in altre parole, abbiamo bisogno di un Partito consapevole sul piano teorico e di lottare in modo organizzato.

La linea politica ed i suoi obiettivi non possono essere il frutto dell’opinione personale di questo o di quello; naturalmente, gli obiettivi della lotta debbono essere discussi, ma perché la volontà politica possa acquistare forza è necessario che si traduca in organizzazione politica.

Per evitare equivoci: non sto parlando di una forma organizzativa con tutte le deformazioni, apportate da un apparato burocratico e che noi, purtroppo, ben conosciamo; sto parlando, piuttosto, di un autentico PC, capace di condurre la lotta di classe, il cui apparato sia sottoposto al controllo dei militanti.

Insomma, un Partito democratico che, però, non si diluisca in un pluralistico club di discussori, ma che sia piuttosto dotato di una sicura capacità orgnizzativa e di lotta, sulla base appunto della sua interna democrazia.

Pur in quanto piccola minoranza -come in questa società siamo-, non possiamo sottrarci al compito di dare una precisa forma organizzata al nostro fare politico, se vogliamo riuscire ad essere il punto di coagulo di più larghi movimenti sociali ed il riferimento di un più ampio numero di persone.

In breve, abbiamo bisogno di un Partito marxista e leninista.

(domenica 12 aprile 1998).

 


Note.
[1]  - D’ora in avanti, DKP -secondo la sigla tedesca.
[2]  - D’ora in avanti, SPD - secondo la sigla tedesca.
[3]  - Unione dei perseguitati dal regime nazista.
[4]  - D’ora in avanti, SDS -secondo la sigla tedesca.
[5]  - “Sono proibite tutte le associazioni, le cui finalità e la cui pratica siano contrarie alle leggi dello Stato o che si orientino contro l’ordinamento costituzionale o contro la comune convivenza.” (Art. 9); “I partiti cooperano alla costruzione della volontà politica del popolo. La loro fondazione è libera. Il loro ordinamento interno deve essere coerente con i principi democratici. I partiti debbono render pubblico conto della provenienza dei loro mezzi. Sono incompatibili con la Costituzione quei partiti che, per i loro scopi o per il comportamento dei loro aderenti, finisco coll’arrecare pregiudizio  od a sospendere il libero ordinamento democratico o a minacciare l’esistenza stessa della Repubblica federale di Germania.” (Art. 21).
[6] - Cerco di rendere così in italiano il ‘gioco’ consentito dal tedesco: “was bekannt ist, ist noch nicht erkannt”, anche se, letteralmente, sarebbe più opportuno tradurre: non conosciamo (erkennen) ciò a cui siamo abituati, con con cui abbiamo famigliarità (bekennen).
[7]  - Lenin, Opere, vol. 2: 346.
[8] - Lenin, Opere, vol. 1: 333.
[9] - Lenin, Che fare?, Torino Einaudi 1971: 28.
[10] - Lenin, Opere, vol. 23: 344.
[11] - MEW. 13: 632s.
[12] - Lenin, Opere, vol. 5: 322.
[13] - Lenin, Opere, vol. 4: 206).
[14]  - K. Marx - F. Engels, Manifesto del PC, Napoli Laboratorio politico 1994: 37.
[15]  - K. Marx - F. Engels, Il Manifesto..., op. cit.: 50s.
[16]  - K. Marx - F. Engels, op. cit.: 43s.
[17] -  K. Marx - F. Engels, op. cit.: 44s.
[18] -  K. Marx - F. Engels, op. cit.: 45
[19] -  K. Marx - F. Engels, op. cit.: 37.
[20] - K. Marx - F. Engels,Manifesto... , op. cit. : 47s.
[21]  - v. il volume 5 dei Lenins Werke  (d’ora in avanti, LW).
[22]  - v. LW. 5: 362.
[23] - LW. 5: 58s.
[24] - LW. 5: 338.
[25] - LW. 5: 361s.
[26]  - v. LW. 5: 364.
[27]  - ivi: 375.
[28]  - ivi: 379s
[29] - MEW. 3: 5s.
[30] - LW. 5: 385.
[31] - LW. 5: 394.
[32] - LW. 5: 396.
[33] - ivi: 385s.
[34] - L.W. 5: 396.
[35]  - LW. 5: 395, 395n.
[36]  - ivi: 395.
[37] - LW. 5: 394.
[38] - MEW. 25: 892.
[39] - ivi: 614.
[40] - MEW. 23: 407.
[41] - Das Kapital. III, in MEW. 25: 404s.
[42]  - LW. 24: 471s.
[43]  - LW. 27: 118.
[44]  - LW. 35: 426s.
[45]  - Stalin, Werke, Band 7: 81, 229. (d’ora in avanti, SW.)
[46]  - SW. 13: 254.
[47]  - SW. 13: 266.
[48]  - LW. 31: 215.
[49] - A. Gramsci, Quaderni dal carcere. III, Torino 1975: 1756.
[50] - A. Gramsci, l.c.
[51] - LW. 31: 216.
[52] - Il Partico Democratico per il Socialismo, costituitosi dopo lo sfaldamento del campo socialista europeo.
[53] - In proposito rimando ai miei precedenti lavori: Tendenze e correnti nel neomarxismo, Monaco 1972; L’avventurosa ribellione. Movimenti protestatari borghesi in filosofia, Dartmandt e Neuwied 1976; “Pensiero metafisico” in La nuova sinistra dopo Adorno, a cura di W. Schoeller, Monaco 1969; “La dissoluzione del concetto” in Marxismo e movimento dei lavoratori, a cura di F. Deppe, W. Gerns, H. Jung, Francoforte sul Meno 1980.
[54] - K. Marx, Das Kapital. II, in MEW. 24: 84.
[55] - K. Marx, Das Kapital. I, in MEW. 23: 674s.
[56] - Confronto che, se fatto correttamente, dimostrerebbe che il livello di vita nella DDR non era essenzialmente inferiore rispetto a quello della Repubblica federale, ovviamente se nel conto vengono messe tutte le prestazioni sociali dello Stato socialista. Ma quello stesso confronto diviene una cosa astratta, quando si paragonano sistemi di bisogni, che erano strutturalmente differenti. Cf. H. Jung ed altri, Repubblica federale tedesca e Germania democratica: confronto di due sistemi sociali, Colonia 1971.
[57] - H. H. Holz, Sconfitta e futuro del socialismo, Milano Vangelista 1994: 113ss.
[58] - E’ ciò che Hegel chiamava übergreifendes Allgemeine, cioè un universale che ha con se stesso e con il proprio opposto un rapporto, analogo a quello di una <classe>, che comprende  in sè (senza risultarne con ciò esaurita) una <sotto-classe propria>.
[59] - Importante, qui, considerare la nozione di contraddizione, elaborata da Mao Tzedong, all’interno di una tradizione dialettica cinese.  Cf., il mio Contraddizione in Cina, Monaco 1970ristampa di “La contraddizione oggi”, compreso in Streitbarer Materialismus, Quaderno 17, maggio 1993: 127ss.
[60] - MEW. 4: 468.
[61] - Per la critica alla prospettiva del “gran rifiuto”, cf. il mio L’avventurosa ribellione, op. cit.
[62]  - MEW. 23: 674s.
[63] - Qui Marx mette in forma concreta quanto già Hegel diceva nella sua Filosofia del diritto §. 182ss; ad es., in §. 195, così si legge: “La tendenza della condizione sociale all’indeterminata moltiplicazione e specificazione dei bisogni, dei mezzi e dei godimenti, la quale, come altresì la differenza tra bisogni naturali e di civiltà, non ha limiti - il lusso- è un aumento, appunto, infinito della dipendenza e della necessità...”; in §. 185: “La società civile, in queste antitesi e nel loro intreccio, offre, appunto, lo spettacolo della dissolutezza, della miseria e della corruzione fisica e etica, comune ad entrambe.”
[64] - Cf. il mio, già cit., Sconfitta e futuro...
[65] - Cf. W. Hofmann, Stalinismo ed anticomunismo, Berlino 1956.
[66] - MEW. 23: 675.
[67] - ivi.
[68] - MEW. 23: 674.
[69] - ivi: 675.
[70] - Cf. GF. Pala,”Marcato, internazionalizzaione del lavoro e  internazionalismo  proletario”, in Topos 1-1933.
[71] - MEW. 23: 530. Sugli aspetti economico-politici del rapporto con la natura, cf. il mio articolo in Marxistische Studien 1-1982: 155ss.
[72] - Cf. H.H. Holz, “Crisi generale del capitalismo ?!”, in Marxistische Blätter 4-1993: 50 ss, “Materialismo storico e crisi ecologica” in Dialektik 9, “Uomo, natura e ambiente nell’Opera di F. Engels”, in Marx - Engels- Stiftung, Quaderno 5 -1986.
[73] - D - M - D’ sta per denaro - merce - denaro con un surplus.
[74] - La merce (M) si scambia con denaro (D), il quale a sua volta compra nuova merce: di qui la formula  M - D - M.
[75] - MEW. 23: 167.
[76] - Per tutto ciò rinvio al mio “Riflessioni sul concetto di situazione politica”, in Marx - Engels -Stiftung, Teorie  politiche  marxiste  nel mutare degli sviluppi storici, Bonn 1991: 7ss.
[77] - Cf. il mio già cit. Sconfitta e futuro...
[78] - Cf. Wolf-Dieter Gudopp-von Behm, “Note sui problemi dell’epoca”, in Marxistische Blätter 4-1991: 76ss. ed, inoltre, “La  misura dell’epoca” in   Scritti dell’ Associazione Scienza e socialismo, Frankfurt/Main 1991.
[79] - cf. Antonio Gramsci. Prospettive attuali della sua filosofia, a cura di G. Prestipino ed H.H. Holz, Pahl-Rugenstein-Verlag, Bonn 1991.
[80] - LW. 29: 410.
[81] - G. Klaus - M. Buhr, Vocabolario filosofico, vol. 1, Leipzig 1974: 618.
[82] - Cf. il mio “Segni dell’anti-Illuminismo”, in Enciclopedia della filosofia borghese del 19 e 20 secolo, a cura di M. Buhr, Leipzig 1988: 44ss; ed anche il mio “Contro il nuovo irrazionalismo” in Scritti per un umanismo scientifico, a cura di J. Schleifstein e E. Wimmer, Frankfurt/Main 1981: 19ss. 

 

 

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