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La sostanza del capitale

Prima parte: La qualità storico-sociale negativa dell'astrazione "lavoro"

di Robert Kurz

newton4L'Assoluto [Absolutheit] e la relatività nella Storia. Per la critica della riduzione fenomenologica della teoria sociale

A ben vedere, quasi sempre si può constatare che esistono delle corrispondenze e delle correlazioni fra mutazioni storiche del tutto diverse, in aree del sapere o sfere della vita apparentemente separate fra di loro. Nel sistema produttore di merci della modernità, già nella sua costituzione primitiva, aree come la filosofia, la medicina, l'economia, le scienze naturali, la politica, il linguaggio, ecc., sebbene non si siano sviluppate secondo lo stesso ritmo, si sono pur sviluppate secondo una direzione comune, riferendosi sempre, oggettivamente, le une alle altre. Il motivo di questa concordanza o correlazione, a volte sorprendente, dev'essere evidentemente cercato nello sviluppo della relativa formazione sociale, la quale costituisce il legame comune intrinseco ai vari domini esistenziali, aree di conoscenze e competenze. Con ciò, tuttavia, si dice che non si può avere un sapere assoluto nel modus esistenziale della temporalità: tutto il sapere, anche quello che sembra puramente oggettivo, "rigido", atemporale, è storico e socialmente condizionato, ed è anche in un certo qual modo (non a caso) relativo.

Apparentemente, questa consapevolezza della relatività costituisce un progresso del sapere avvenuto nel XIX e nel XX secolo, che proviene dalla storiografia (a partire dallo storicismo) e passa dall'economia politica (dottrina del valore soggettiva o relativista), dalle scienze naturali (fisica quantistica), dalla linguistica (Saussure) e dalla filosofia (il "pensiero post-metafisico", la "svolta linguistica"), e sfocia nel generalizzato anti-essenzialismo, e relativismo, postmoderno.

Ma tutto questo non è solo apparenza. Proprio perché il sapere e la conoscenza sono sempre determinati da un contesto storico-sociale, condizionati come sono dalle forme sociali feticistiche che implicano dominio e relazioni di coazione (di altri contesti, a tutt'oggi, non siamo a conoscenza), si svolgono anche sempre sotto l'egida del pensiero apologetico. Laddove il sapere è di per sé sapere del dominio, le cose non possono avvenire diversamente. Nel sistema produttore di merci della modernità, questa apologetica assume la forma dell'ideologia. Perciò, non basta semplicemente affrontare il sapere e la conoscenza solo nella loro relatività (come fa in gran parte il pensiero postmoderno); innanzitutto, e per di più, tale condizionamento dev'essere sottoposto ad un'analisi critica dell'ideologia, analisi che deve essere posta in relazione col rispettivo processo storico-sociale reale. In ogni caso, è quello che si rende necessario quando la riflessione pretende di inserirsi nel contesto di una necessità emancipatrice e critica del dominio.

Ma, se si prende in considerazione questo piano di riflessione critica sull'ideologia, la conoscenza della relatività dev'essere esaminata nel suo potenziale ideologico ed apologetico. Il pensiero postmoderno cerca di mettersi fuori dalla portata di un tale punto di vista, insinuando, nei confronti della critica dell'ideologia in sé, il sospetto di "metafisica" e di "essenzialismo". Si assume che il punto di vista, o il calibro, della critica dell'ideologia sia sempre assoluto, totalitario, ontologico o metafisico. Così l'osservazione si volge in una direzione metafisica essa stessa, dal momento che paradossalmente è la relatività, né più né meno, ad essere elevata allo statuto di Assoluto. Quello che in tal modo viene estromesso, una volta che il piano di riferimento della relatività non viene chiarito, è il concetto di critica in senso stretto.

Nella realtà, però, la suddetta relatività può essere riferita soltanto al fatto che il sapere e la conoscenza sono legati ad un determinato luogo storico, non solo nel senso di una relatività immediata, ma nel senso di una formazione sociale globale e determinata; e lo sono, o affermativamente, in maniera positiva (positivista), oppure criticamente, in maniera negativa. La critica, pertanto viene assunta negativamente rispetto al suo luogo storico, poiché fa della formazione sociale che appartiene a tale luogo, e della corrispondente relazione di dominio, l'oggetto della sua negazione (cosa che del resto rimanda alla possibilità della trascendenza, in quanto movimento al di fuori dell'immanenza). Il che significa, tuttavia, che la critica può essere solo una critica determinata, ossia, una critica riferita a tale luogo storico, concepito come formazione sociale storica, che in tale dimensione contiene un momento di negazione assoluta, anche se solo relativamente a questo campo specifico: segnatamente, la sua radicalità si volge contro la costituzione della forma sociale dominante, senza che per questo smetta di essere relativa in riferimento ad un contesto più vasto, dal momento che è in grado di riflettere un tale contesto.

La negazione dev'essere assoluta relativamente al suo contenuto, il quale non è altro che la forma sociale essa stessa negativa e che pertanto dev'essere negata: la forma della riproduzione e del soggetto, forma distruttiva e feticista della quale non può restare niente se non l'esperienza traumatica ad essa associata che rimane impressa nella memoria dell'umanità. Rispetto a questa forma di feticcio oggetto di critica, la negazione dev'essere assoluta, in quanto in caso contrario non sarebbe negazione.

Il problema del pensiero postmoderno, e delle correnti di pensiero che risalgono al XIX secolo, a partire dalle quali esso stesso si compone e si costruisce, consiste proprio nel fatto che non è stato sviluppato un qualsivoglia criterio per distinguere i piani di riferimento della relatività nell'ambito della storia dell'umanità, così come della storia delle "culture" o delle formazioni sociali, da un lato e, dall'altro lato, come determinazione o situazione assoluta in uno spazio storico delimitato, esso stesso negativo, di una determinata formazione. In altre parole: non è stata stabilita una differenza essenziale tra costituzioni storicamente diverse della forma sociale, ed in tal modo non viene neanche costituita una qualsivoglia concezione specifica del moderno sistema produttore di merci e delle categorie della sua forma base. In questo senso stretto, le teorie postmoderne, così come quelle dei predecessori, in fondo non riflettono con precisione il proprio condizionamento storico-sociale, né la corrispondente relatività. Il lavoro (astratto), il valore, la merce, il denaro, il mercato, la concorrenza, lo Stato, la nazione, la politica, ecc. possono passare benissimo per "costrutti culturali", così come tutte le altre manifestazioni sociali "qualsiasi", ma non per questo si rivelano meno ontologici di quanto lo siano nell'ideologia borghese volgare, così come essa è stata ereditata anche dal marxismo del movimento operaio.

Quindi, il relativismo, irriflesso a riguardo, relativizza anche la differenza tra la relatività di un determinato luogo storico, da un lato, e la determinazione - ovvero l'Assoluto - all'interno di tale luogo, dall'altro lato; non si interessa alla differenza tra lo spazio storico totale dell'umanità - nel quale le varie costituzioni storico-sociali, e le rispettive forme di sapere e di conoscenza, si posizionano reciprocamente in maniera relativa - e lo spazio interno di una determinata formazione, in cui predomina un Assoluto interno, o quanto meno domina una pretesa reale che a questo corrisponde, vale a dire la rispettiva forma feticistica, la quale dev'essere spezzata.

Quest'imprecisione ha delle conseguenze per il concetto di critica, il quale in tal modo diventa esso stesso impreciso ed indeterminato. Le categorie di base della costituzione sociale spariscono dietro il movimento interno di questa. La critica viene fenomenologicamente ridotta, e si riferisce soltanto ad una determinata azione od omissione in seno alle categorie rese grigie. E' vero che queste categorie, nel pensiero postmoderno, nella maggior parte dei casi non vengono immediatamente affermate come positive; ma ciò si deve solo al fatto che non arrivano neppure ad essere elevate ad oggetti della riflessione. Laddove tutto viene trattato indistintamente come se fosse un "costrutto", smettono di esserci gradi di rigidità e dimensioni con profondità diverse; viene livellata la differenza fra spiegazioni apparenti di natura ideologica e l'apparenza reale della forma del feticcio. Rimane l'essenza o la sostanzialità categoriale della formazione storica della società su cui riflettere, quindi anche da criticare.

Avviene così un'inversione paradossale del rapporto fra il processo sociale reale e l'ideologia; per meglio dire, tale rapporto, in una certa misura, viene puramente e semplicemente nascosto, ed è proprio a partire da questo che il relativismo converte sé stesso in un'ideologia miserabile. La sostanza reale negativa della relazione di feticcio viene sottratta alla critica radicale, nella misura in cui la "sostanzialità" si presenta da principio come proveniente soltanto da una pretesa totalitaria del pensiero, o dell'immaginazione. In questo modo, la questione si trova ad essere con i piedi per aria: la critica radicale viene accusata di quello che dovrebbe essere imputato alla relazione sociale reale. Al posto della relazione reale soggiacente, è la critica dell'ideologia ad apparire come "totalitaria".

E' questo, quindi, il modo in cui la conoscenza della relatività si converte in ideologia apologetica. Per quanto riguarda il moderno sistema produttore di merci, il suo concetto di capitale si dissolve così in un sistema di "rapporti di forza" relazionali; in tal misura, nonostante tutta la critica postmoderna del soggetto, viene riprodotto il regresso all'illusione borghese della volontà, per quanto ridotta a mutazioni interne dei "costrutti" sociali rappresentati tutti sullo stesso piano. Questa relazionalità di già ideologica viene in seguito "eso-differenziata" e declinata nelle diverse aree di riproduzione e di vita. In questo modo, la critica continua nella particolarità dei fenomeni (dai rapporti di potere nella professione medica alla deportazione nei servizi per gli stranieri, dai "costrutti" del razzismo alla retorica politica dei vincoli oggettivi), senza però mai riuscire a pronunciarsi sul tutto della connessione della forma sociale, dal momento che questa non dispone di un qualsiasi concetto sostanziale.

Questa dissoluzione della "essenza" storico-sociale nella razionalità fenomenologica dei rapporti di potere e della loro rispettiva costruzione, o decostruzione, copre così, che piaccia o meno, la sostanzialità negativa non più denominabile delle categorie reali capitaliste. Gli è che questo può manifestarsi socialmente in un movimento emancipatore di trasformazione soltanto se la reale pretesa di validità assoluta della forma feticista dominante viene rotta proprio nel suo contenuto sostanziale. Per esempio, le diverse aree di esistenza e di attività hanno ciascuna la propria logica, la propria pretesa, il proprio senso, ecc., che non può essere compreso dalla pretesa validità assoluta di un unico principio totalitario; solo arrivando a costituire un tutto nella relatività del rispettivo contesto relazionale, tutto questo non viene ridotto ad una forma unica ed alla sostanza, ugualmente unica, della stessa forma - è questa la conoscenza che bisogna cominciare ad affermare, contro il violento sostanzialismo reale del moderno sistema produttore di merci in generale.

E' per tutto questo che non è nemmeno possibile arrivare ad una critica radicale senza il concetto di una sostanzialità negativa della relazione di valore o del capitale. D'altro canto, la pretesa dell'Assoluto di questa sostanzialità negativa entra anche in conflitto con la stessa costituzione fisica del mondo, manifestandosi sotto forma di un processo distruttivo annichilitore della vita; soprattutto, però, questa pretesa entra ugualmente in conflitto con la contraddittorietà interna della sostanzialità capitalista in quanto tale, e così si manifesta sotto forma di processo di crisi endemico di questa formazione storico-sociale. E' per questo motivo che senza il concetto di sostanzialità negativa non è possibile neanche sviluppare un'adeguata teoria della crisi. Il nascondere o l'ignorare la reale sostanzialità sociale negativa equivale, in gran parte, a nascondere o all'ignorare la crisi, nel suo contenuto significativo del limite interno assoluto del moderno sistema produttore di merci.

Il carattere ideologico ed apologetico di un pensiero relativista che non affronta questa problematica, consiste essenzialmente nel suo presumere l'esistenza della relatività e in una "apertura" in termini storico-sociali dove in realtà si pontifica un Assoluto ed una coesione sistemica dissimulati, postulando quindi un'emancipazione (sempre intesa solo parzialmente) totalmente indipendente da una critica della sostanza reale negativa e delle categorie della sua forma; per esempio, attraverso l'intermediazione del concetto ormai solo risibile di "democratizzazione". La sostanzialità negativa della relazione di capitale diventa grigia, viene nascosta, diventa invisibile e viene dissolta in una pseudo-relatività ideologica. E' proprio per questo che la riduzione e l'accorciamento fenomenologico della critica corrisponde ad un'uguale riduzione ed accorciamento della teoria della crisi. Questo relativismo ideologico, invece di essere emancipatorio non è altro che un camuffamento addizionale della soggettività borghese di tutte le classi, le quali non vogliono ammettere la loro obsolescenza storica.

Non è un caso che il marxismo tradizionale condivida ampiamente con il relativismo postmoderno, il rifiuto della teoria radicale della crisi. Gli è che, come è stato dimostrato da Moishe Postone, un certo modo di riduzione e di accorciamento ideologico e relativista è inerente anche alla teoria del marxismo del movimento operaio in tutte le sue varianti. Quello che nelle teorie postmoderne è un programma esplicito, nel marxismo si manifesta come una riduzione implicita; non c'è modo di distinguere fra un concetto globale storico che è assente nella logica della formazione della relazione del valore e del capitale, e gli stadi di aggregazione e sviluppo corrispondenti alla sua storia interna, cosicché il livello di astrazione dei concetti essenziali (che soltanto sul piano meta-storico sono relativi ai concetti essenziali delle altre formazioni) viene fondamentalmente perso:

"Si è resa storicamente manifesta la totale insufficienza delle teorie del capitalismo moderno che confondono una configurazione storica specifica del capitalismo (il libero mercato o lo Stato disciplinare burocratico) con l'essenza della formazione sociale... Tutte queste critiche sono... incomplete. Come vediamo ora, il capitalismo non rientra in nessuna di queste configurazioni... Un'adeguata teoria critica del nostro tempo dev'essere fondata su una concezione non reificata delle relazioni che costituiscono l'essenza del capitalismo e su una concezione delle differenze tra tale essenza e le varie configurazioni storiche successive del capitalismo" (Moishe Postone, "Tempo, lavoro e dominio sociale").

In questa misura, il concetto di sostanzialità del capitale - assente nella logica della formazione - rappresenta il piano decisivo, cui né le teorie del marxismo tradizionale, né le teorie postmoderne possono accedere a causa del loro rispettivo relativismo falso e ideologico.

 

Il concetto filosofico di sostanza e la metafisica reale capitalista

Per poter determinare il carattere ideologico del pensiero borghese suppostamente metafisico e, in particolare, il suo risultato pseudo-relativistico, bisogna porre il concetto filosofico di sostanza in relazione con la costituzione capitalista della modernità. Infatti, nella storia della filosofia non esiste un significato generalmente accettato del concetto di sostanza. Nella filosofia antica ed in quella medievale, la sostanza è il nucleo essenziale, in opposizione alle mere qualità (accidenti), è quello che perdura e rimane, ossia, l'identità in opposizione agli "stadi" o sviluppi. In Aristotele, il concetto di sostanza sembra significare materia, nel senso di un substrato delle "cose", che è anche forma, nel senso dell'essenziale delle cose materiali.
Tuttavia, i diversi significati, o piani di significato, della maggior parte dei concetti filosofici pre-moderni della sostanza hanno in comune il fatto che non postulano necessariamente una generalità, o un Assoluto sostanziale astratto, per lo meno nel mondo fisico e sociale conosciuto. Esplicitamente o implicitamente, prevale la supposizione che esistano sostanze qualitativamente diverse che possono stabilire relazioni le une con le altre. Di conseguenza, la stessa sostanza sarebbe in un certo qual modo qualcosa di relativo. Sia per quanto riguarda la forma che il contenuto - per la filosofia antica o per le teologie - le stelle, le pietre, gli alberi, i cani, gli esseri umani, ecc. rappresentano sostanze distinte. E l'identico di una determinata sostanza, per esempio di un individuo umano, può essere rappresentato anche come la totalità delle sue relazioni naturali, sociali, culturali, personali, ecc. nell'unicità individuale della sua struttura. Solo Dio figura come istanza assoluta, generale, "suprema"; ma questa sostanza rimane trascendente al mondo.

Tuttavia, già nelle teorie atomistiche si insinua un momento di assoluto, o di generale ed astratto, con riferimento al mondo terreno e, concretamente, attraverso il modus della riduzione. Per Democrito, per esempio, non "esiste" niente se non il vuoto e i corpi composti di atomi - i più piccoli componenti in gran parte qualitativamente uguali - i quali si distinguono solo per la forma e la dimensione. Questo anticipa la concezione di un'unità assoluta e sostanziale del mondo come principio immanente. Non è un caso che questo riduzionismo fisico si ripeta sistematicamente nella scienza naturale moderna, dove celebra il suo vero trionfo. "L'universo-orologio" meccanico di Newton consiste, come egli stesso scrive nella sua 'Ottica', di "particelle magiche, ferme, rigide, impenetrabili e mobili" le quali, per l'intermediazione di "forze" agiscono esternamente le une sulle altre. In questo Universo omogeneo, Dio è ormai soltanto una specie di orologiaio; però, una volta data la corda, il mondo-sistema meccanico si muove da solo, e l'Illuminismo, alla fine, fa a meno di qualsiasi sostanza creatrice trascendente "suprema e prima".

L'unificazione fisica, che riduce il mondo in componenti o unità morte ed uguali inserite in un continuum di spazio-tempo assoluto ed unificato -  nell'antichità soltanto abbozzata - viene, nella modernità, per così dire, radicalizzata e generalizzata come un dogma. In questo caso, il concetto atomista di sostanza si estende oltre che alla natura fisica, a tutte le aree dell'esistenza, per esempio nel concetto di "monadi senza finestre" di Leibniz. A questo corrisponde una concezione della società umana che ormai non parte dalla comunità, quale che sia la sua definizione, ma al contrario parte dalla separazione dei suoi membri, i quali possono soltanto mediarsi gli uni con gli altri, a posteriori ed in maniera esterna-meccanica. Qui, diventa già chiaro che la conoscenza della natura, apparentemente pura, della modernità, ossia, il "costrutto" dell'universo-orologio di Newton, riflette in realtà una determinata relazione sociale, la quale include un paradigma di individui atomistici o astratti - dal momento che tale paradigma contiene, nella sua astrazione apparentemente omogenea della "individualità in generale", una particolarità storicamente ben relativa, segnatamente quella del soggetto maschio bianco occidentale (MBO). Detto ciò, però, non ci troviamo davanti ad una mera idea di attori della conoscenza de "IL" mondo, senza presupposti, ma semmai ci troviamo davanti ad una determinata costituzione storico-sociale, vale a dire, davanti all'incipiente costituzione capitalistica del moderno sistema produttore di merci.

Probabilmente, non si tratta di superare [Überwinden] la metafisica, come sempre si suppone con l'avanzare di questa formazione sociale. Sia la scienza naturale moderna, sia anche la filosofia e la teoria sociale - apologetiche - ad essa legate hanno evidentemente basi metafisiche. Queste basi potevano venire man mano nascoste, per poi essere apparentemente gettate via, dal momento che non rappresentano una metafisica nel senso di una riflessione meramente filosofica o teologica, ma una relazione sociale reale, ossia, una metafisica reale, in una certa maniera incarnata o incorporata nel processo di riproduzione sociale. Nella misura in cui questa metafisica reale si va imponendo storicamente e viene interiorizzata, la sua forma di riflessione filosofica può svanire, una volta che l'apparentemente evidente, assiomatico e quotidiano, non dev'essere più pensato a parte, e non si presenta più come un'essenza distinta.

In un certo senso, forse può essere lecito dire che tutte le costituzioni sociali di feticcio - quindi anche quelle pre-moderne - rappresentano una sorta di metafisica reale, nella misura in cui la rispettiva metafisica non si esaurisce mai in delle mere idee o delle rappresentazioni mentali ma tali costituzioni sociali di feticcio, attraverso questa metafisica, regolano allo stesso tempo la riproduzione sociale reale, le relazioni sociali ed il "processo di metabolismo con la natura" (Marx). Tuttavia, la metafisica reale sociale pre-moderna delle relazioni sociali, delle condizioni di riproduzione e delle strutture di potere, è in un certo qual modo "determinata al di là", è mediata attraverso la proiezione di una sostanza assoluta semplicemente trascendente, di un'essenza divina assoluta ed esterna al mondo, la quale è rappresentata in maniera personalizzata; in particolare, come un sistema di relazioni personali di dipendenza e di obbligo.

Il concetto di "dipendenza personale", tuttavia, nella stragrande maggioranza dei casi, viene profondamente malinteso (anche in Marx, che non se ne occupa a fondo per quanto riguarda le condizioni pre-moderne) quando per "persone" - in questo senso delle costituzioni sociali pre-moderne di feticcio - si intendono "persone naturali", o perfino soggetti-di-interesse secondo l'utilizzo moderno del linguaggio. Sembra così che la struttura "dipendenza personale" configuri una forma di dominio diretta e non mediata, in opposizione a quella moderna, indiretta e mediata. Per la verità, le condizioni pre-moderne sono ugualmente mediate; solo che lo sono in un altro modo, dal momento che in quel caso le stesse persone diventano piani di proiezione e quindi rappresentazioni della trascendenza feticistica. Tali persone trascendentali e tali relazioni di dipendenza personale sono, in questo senso, strettamente separate dalle persone naturali e dalle loro relazioni personali; del resto, questo finisce per creare delle bizzarre contraddizioni fra la personalità trascendentale e la personalità naturale, che non hanno niente da invidiare alle assurdità della moderna socializzazione del valore, come nel caso del concetto dei "due corpi del re" (Ernst H. Kantorowicz, I due corpi del Re, 1957).

Perciò, le persone qui, nel contesto della costituzione feticistica, non si presentano a sé stessi come portatori autonomi di volontà ed azione, ma come rappresentazioni in seno al mondo dell'essenza della sostanza trascendente proiettata. Dal momento che la sostanza rimane trascendente, in quanto non assume una forma terrena immediata (se non nelle rappresentazioni simboliche), essa non può includere totalitariamente il mondo reale. Generalmente, non vi è alcuna generalità sociale astratta, ma esiste semmai una sequenza di più gradi di rappresentazioni personali e di situazioni relazionali a tutti i livelli.

Diverso è il caso della metafisica reale capitalistica della modernità. Qui la trascendenza viene in un certo qual modo superata; la sostanza feticistica proiettata - o l'essenza come Assoluto - diventa immediatamente terrena e sociale, sotto la forma della "valorizzazione del valore" (e, solo in questo senso di una sua immanenza al mondo, "diretta" e non più "determinata da altrove", cioè non più derivata da un principio esterno al mondo). Anche se il momento di trascendenza continua ad esistere, nella misura in cui la figura essenziale del feticismo, il "valore", non costituisce alcuna essenza direttamente fisica o sociale, ma un'astrazione non palpabile, che paradossalmente, per così dire, è incarnata nel "processo di metabolismo con la natura" e nelle relazioni sociali. In questo senso, la relazione sociale così costituita rappresenta un'astrazione reale, e non una proiezione meramente ideologica di idee o (nel senso premoderno) religiosa, mitologica, ecc., né tanto meno rappresenta una mera astrazione nominale.

In un certo senso, la proiezione diventa immediatamente reale, e con questo anche palpabilmente terrena, sebbene continui ad essere mediata, nella misura in cui si manifesta soltanto nelle relazioni sociali e nelle cose reali (merce e denaro), in quanto l'essenza del "valore" come astrazione non può essere immediata, né quindi, tanto meno, palpabile. Il paradosso dell'astrazione reale consiste nel fatto che l'astrazione, in sé non fisica/materiale/corporea - la cosa del pensiero, o per altro, un prodotto socialmente oggettivato del cervello in quanto proiezione feticista - si presenta così come una relazione sociale reale ed ha un'oggettività fisica reale, soprattutto in oggetti che in sé non sono astratti, ma che diventano oggetti realmente astratti in virtù del meccanismo di proiezione sociale.

La "cosa del pensiero", il "prodotto della testa", non devono qui essere malintesi come qualcosa tipo "pensiero proiettato", per esempio nel senso di un "contratto sociale" (primordiale) come quello presente nell'ideologia dell'illuminismo, come problema di volontà, o come ideologia; un meccanismo di proiezione feticistica è al contrario qualcosa di sempre presupposto alla "proiezione", che deve ancora essere decifrato.

In un certo modo si potrebbe quasi parlare di una regressione, dacché il meccanismo di proiezione moderno regredisce ad una sorta di animismo secondario, dove non sono più le persone ad essere trascendentalmente rappresentative, ma sono le cose inanimate a presentarsi come animate, così come lo ha esposto ironicamente Marx nel suo capitolo dedicato al feticcio, tramite l'esempio del tavolo che in quanto merce diventa preda di capricci metafisici. Tuttavia, in questo caso non si tratta più di un'animazione individuale delle cose, bensì di un'animazione riprodotta in maniera identica nella sempre uguale forma del valore e del prezzo, in cui si manifesta la socialità negativa dell'anima della merce, e la relazione sociale come relazione reificata. Quest'animismo secondario non anima soltanto le cose (la natura) ma per così dire cosifica l'anima (la situazione reale umana).

Nella misura in cui la trascendenza della proiezione viene superata - in quanto tale proiezione ora si presenta immediatamente nelle cose stesse e nelle relazioni terrene - essa non può più essere personalizzata, ma deve presentarsi sotto forma cosificata, "oggettivata", regolando in tal modo, sotto tutti gli aspetti, il processo di produzione sociale, la mediazione sociale. Per meglio dire: essa "è" tale mediazione, ed è per questo che non necessita più di un'istanza trascendente esterna al mondo, né di mediatori-persone come rappresentanti di quest'istanza assoluta; alla fine è essa stessa stabilizzata come assoluta. Il valore, la proiezione del feticcio che si presenta come realmente oggettivo nel denaro, si costituisce come Assoluto terreno, sociale, attraverso il movimento di riaccoppiamento del denaro a sé stesso in quanto capitale, in quanto processo di valorizzazione, o "soggetto automatico" (Marx), al quale viene sottomessa tutta la riproduzione sociale e tutta la comprensione del mondo. Qualsiasi coesistenza colorata di situazioni relazionali naturali, culturali e sociali (relazioni) finisce e viene sostituita dalla pretesa di Assoluto del principio essenziale astratto di unico "valore", e dalla sua sostanzialità negativa.

Ideologicamente o "filosoficamente", come forma di riflessione nel processo, o nel senso di un'apologetica al seguito e fiancheggiatrice, il pensiero di questo meccanismo di proiezione dell'astrazione reale ricorre a determinati contenuti significativi del concetto di sostanza religioso e filosofico pre-moderno, che tuttavia si presentano in una configurazione del tutto nuova, corrispondente alla metafisica reale capitalistica. Al posto della divinità trascendente ed assoluta, viene posto il principio essenziale immanente e assoluto del "valore" o del processo di valorizzazione. Tuttavia, dal momento che si tratta della proiezione di un processo di astrazione socialmente oggettivato, questo principio essenziale - sebbene si presenti immediatamente nelle cose e nelle relazioni, essendo quindi immanente - non può avere ancora un'esistenza materiale e sociale di per sé. In quanto tale continua a non essere palpabile, ad essere "intangibile" o "non empirico", nonostante la sua indubitabile immanenza. In questa misura, la riflessione positiva, apologetica, della metafisica reale capitalistica può fare ricorso al filone "idealista" della metafisica religiosa e filosofica primordiale, soprattutto di origine platonica. L'idealismo trascendente delle forme essenziali di Platone e dei suoi seguaci si presenta ora, nella modernità, come idealità immanente del principio essenziale, particolarmente nell'idealismo tedesco.

Tuttavia c'è qui di nuovo una differenza importante nel concetto di questa idealità. In Platone e nei suoi seguaci, si trattava di idealità trascendente delle forme essenziali nella pluralità; di forme ideali delle diverse cose, che nella materia terrena si presentano solo come "ombre". Sotto questo aspetto, l'idealismo formale di Platone rimane pluralista e, quindi, relativista in quanto al concetto tradizionale di sostanza, del quale è parte integrante. "Al di sopra" dell'idealità del mondo plurale delle forme, tuttavia, si erge ancora la sfera del "puro e semplicemente buono", il grado più elevato ed origine di tutto l'Essere, un tutt'uno, che tuttavia è talmente perso nella sua trascendenza, che non si presenta più come tale nell'immanenza.

L'idealità della forma immanente della modernità, al contrario, ormai non conosce più alcun pluralismo di forme, né, di conseguenza, una qualche corrispondente relatività; la forma del valore, o il "soggetto automatico", non tollera nessun altro dio accanto a sé. L'Assoluto trascendente del tutt'uno ideale è disceso in terra come l'Assoluto immanente del principio essenziale "valore". Proprio come in Platone, le cose empiriche terrene non posseggono un'esistenza indipendente, essendo la mera "espressione" dell'idealità della forma; ma si tratta innanzi tutto, e in primo luogo, di un'idealità della forma già non più trascendente, bensì immanente, la quale si manifesta nella socializzazione del valore e, in secondo luogo, di un'idealità della forma ormai non più plurale, bensì monistica, assoluta, totalitaria. Che essa sia la "la forma pura e semplice" kantiana o lo "spirito del mondo" hegeliano", o la "volontà assoluta", ecc., si tratta sempre di un principio di immanenza della forma totale nella sua ultima istanza determinante, rispetto alla quale tutte le cose e tutte le relazioni devono solo essere "forme di apparenza". Il mondo non è costituito dalla razionalità delle diverse entità, ma semmai, monisticamente, da un tutt'uno terreno della valorizzazione del valore.

Si può riconoscere a prima vista che l'universo-orologio fisico di Newton, con i suoi componenti atomistici unitari ed il suo continuum unitario ed assoluto di spazio tempo, corrisponde con sufficiente precisione a questo idealismo della forma, assoluto e totalitario. L'apparente contraddizione fra "idealismo" della forma e "materialismo" del mondo fisico, scompare, non appena entrambi i costrutti vengono decifrati nel loro contesto storico-sociale. Probabilmente, lo stesso vale già per le vecchie forme incipienti di contraddizione tra l'idealismo platonico della forma ed il materialismo atomistico della sostanza, nella misura un cui la filosofia occidentale dell'antichità ormai rappresenta soltanto una riflessione ancora incompiuta nel contesto della relazione non maturata fra la forma merce e la forma pensiero.

Nella modernità si è completata la complementarietà fra questi due costrutti, i quali dal punto di vista storico-sociale corrispondono alla costituzione della formazione sociale "basata sul valore" (Marx) del capitalismo. L'idealismo formale della filosofia moderna (che nelle teorie positiviste esprime soltanto il suo volgare stato di decadenza) può essere decifrato come il principio essenziale del valore, della forma sociale del feticcio paradossalmente secolarizzata; il sostanziale materialismo della fisica meccanicistica, come mondo naturale modellato ed in un certo modo "gestito" da questo dettato della forma, è un mondo fatto di elementi e "forze" meccaniche uguali, che nella sua condizione fisica e biologica si pretende che venga visto degradato ad una mera "forma di apparenza" dell'astrazione reale sociale. L'ambiente culturale ed il mondo della vita odierni della società capitalista, sempre più unificata su scala planetaria, si avvicinano fantasmaticamente al costrutto newtoniano di un Universo meccanico uniforme; per la biosfera planetaria, così come per la cultura umana nel senso più lato, però, questo significa il successivo annichilimento.

Il concetto filosofico classico di sostanza, nella metafisica reale capitalista della modernità, chiaramente si differenzia soltanto in forma (forma ideale immanente-trascendente o "trascendentale", forma del valore) e contenuto (mondo modellato in modo meccanicistico, fisicamente ridotto). Tuttavia, in questa relazione fra la forma ed il contenuto della sostanza reale metafisica manca ancora l'agente sociale di tutta l'organizzazione della metafisica reale, il momento mediatore del movimento. La relazione fra forma del valore e sostanza naturale meccanicisticamente ridotta non può essere statica, ma può essere solamente un processo dinamico, nel quale la natura in sé non ridotta viene realmente ridotta solo dall'astrazione del valore, attraverso la mediazione sociale, per mezzo di una forza sociale specificamente capitalista, nel "processo di metabolismo con la natura".
Questa forza è essa stessa una sostanza materiale, però non naturale, bensì sociale. La sostanza naturale dell'astrazione reale moderna, in quanto astrazione della forma del principio essenziale di "valore", è la materia fisica astratta e meccanicisticamente ridotta; la sostanza sociale di questo principio della forma della metafisica reale è il "lavoro astratto" (Marx). Il "lavoro", come forma di attività e allo stesso tempo come sostanza del capitale, costituisce la forza sociale-materiale ed il processo solo attraverso il quale può affermarsi nel mondo terreno il principio della forma della metafisica reale, con la sua pretesa negativa e distruttiva di Assoluto. Il movimento mediatore del lavoro astratto è l'auto-mediazione della sostanza ed è, di conseguenza, un fine in sé ed una auto-aggregazione nella forma del valore (che si manifesta nella forma del denaro), ed in quanto "alienazione" permanente della materia naturale e delle relazioni sociali, dalla sua costituzione fino alla rispettiva distruzione, trasforma tutto quello che processa in sé stesso in semplici immagini dell'astrazione reale.

Già qui diventa chiaro che il marxismo tradizionale è rimasto completamente ostaggio della metafisica reale della modernità. Il suo "materialismo" - con l'eterna celebrazione della rispettiva corrente nella storia della filosofia occidentale - non rappresenta più altro che la riflessione affermativa di un lato della relazione di valore, o di capitale; soprattutto il materialismo sostanziale della riduzione fisica, in cui il mondo naturale già non appare più modellato dall'astrazione reale capitalista. E' il materialismo dell'annichilimento che sotto la forma della riproduzione feticista sta lacerando e triturando la biosfera terrestre. Di conseguenza, nel pensiero marxista, il materialismo sostanziale fisico positivo di una natura strutturalmente modellata corrisponde al materialismo sostanziale sociale positivo del "lavoro", che è l'agente di tale modellazione. Questo "materialismo" dell'ontologia del lavoro marxista, e della sua concomitante fede meccanicista nella scienza della natura, è ben lungi dal soppiantare l'idealismo formale della tradizione filosofica apparentemente contraria; a somiglianza di quanto accade nel pensiero borghese, e come suo prolungamento modificato, si comporta in maniera meramente complementare rispetto ad esso.

In questo senso, Hegel non è stato rimesso coi piedi per terra e con la testa per aria, ma i piedi continuano a seguire, sotto il comando della testa, il principio essenziale capitalista della forma ideale. Decifrate socialmente, le relazioni di feticcio in quanto "metafisica reale", sono sempre allo stesso tempo "idealismo reale" - portato in auge dall'idealismo reale capitalista del "soggetto automatico", per la prima volta immanente sotto la forma della valorizzazione del valore - del riaccoppiamento cibernetico dell'astrazione reale del valore con sé stessa. Ironicamente, in questo modo, il materialismo reale del lavoro e quello della scienza della natura capitalista non sono altro che la forma dell'apparenza pratica dell'idealismo reale del valore, e non il contrario. L'astrazione reale del valore rappresenta un'aggregazione o una forma di esistenza della pratica dell'astrazione reale del lavoro e viceversa; proprio per questo il lavoro astratto costituisce il modo in cui il principio sociale non-materiale essenziale, come un fantasma, mette le mani sul mondo materiale.

In questo modo, "l'idealismo oggettivo" di Hegel sotto un certo aspetto arriva più vicino alla cosa di quanto faccia il "materialismo oggettivo" del pensiero marxista; ma Hegel pensa l'idealismo reale capitalista in maniera apologetica, come movimento di auto-mediazione positiva dell'essenza dell'astrazione reale, sfuggendo così per principio alla sua qualità negativa, distruttiva ed annichilatrice della vita. Il materialismo marxista, al contrario, compra un biglietto dalla critica (in gran misura ridotta, non andando oltre l'immanenza) di modo che, da parte sua, gli sfugge il carattere di astrazione reale sociale. In quanto astrazione, il valore/lavoro astratto rimane in un certo qual modo una cosa del pensiero, e quindi un'idealità (negativa). Non si tratta, però, di un'idealità soggettiva, soltanto riflessiva, di un'idealità costituita per mezzo di mere astrazioni nominali (linguistiche e mentali), ma di un'idealità oggettivata dai processi storici, "materializzata" attraverso una pratica compulsiva.

Al fine di arrivare ad una piena critica della sostanzialità negativa della relazione di feticcio capitalistica, non è l'idealismo oggettivo di Hegel che va messo sui piedi, ma semmai è la testa dell'astrazione reale che dev'essere ghigliottinata. Solo questa sarebbe una prassi liberatoria e trascendente, per cui si smetterebbe di modellare compulsivamente il mondo sociale e naturale, ma si distruggerebbe il principio essenziale stesso di una tale prassi distruttiva.

 

Il concetto negativo di sostanza del lavoro astratto nella critica dell'economia politica di Marx

E' un fatto osservato da lunga data che il marxismo del movimento operaio ha continuamente soffocato o relativizzato, ridotto e diluito il concetto della critica dell'economia politica di Marx, fino ad arrivare ad una "economia politica" del tutto positiva, sul terreno acriticamente presupposto della forma moderna del feticcio. E' per questo che nei libri di testo del mondo perduto del "socialismo reale" si è sempre parlato con la più grande serietà di una "economia politica del socialismo", invece di capire e sviluppare il socialismo come critica pratica dell'economia politica in quanto tale. Di conseguenza, nella comprensione del marxismo anche il concetto di Marx della sostanza del lavoro astratto ha finito inevitabilmente per essere rappresentato come del tutto positivo, come mera definizione di un fatto ontologico oggettivo, "determinato da leggi naturali" e non da superare.

Questo ragionamento tuttavia non corrisponde in alcun modo alla forma in cui Marx presenta il concetto di lavoro astratto, fin da pagina 4 del primo volume de "Il Capitale": "

Ma, se astraiamo dal valore d'uso delle merci, rimane loro soltanto una qualità, quella di essere prodotti del lavoro. Eppure anche il prodotto del lavoro si trasforma non appena lo abbiamo in mano. Se noi facciamo astrazione dal suo valore d'uso, facciamo astrazione anche dalle parti costitutive e forme corporee che lo rendono valore d'uso. Non è più tavolo, per esempio, né casa, né filo né altra cosa utile. Tutte le sue qualità sensibili sono cancellate. E non è più nemmeno il prodotto del lavoro del falegname o del muratore o di qualsiasi altro lavoro produttivo determinato. Col carattere di utilità dei prodotti del lavoro scompare il carattere di utilità dei lavori rappresentati in essi, e le diverse forme concrete che distinguono le differenti specie di lavori. Resta pertanto solo il carattere comune a tutti questi lavori; sono tutti ridotti allo stesso lavoro umano, lavoro umano astratto. Consideriamo ora il residuo dei prodotti del lavoro. Non è rimasto nulla di questi all'infuori di una medesima fantasmatica oggettività, una mera massa di lavoro umano indistinto, cioè di dispendio di lavoro umano senza riguardo alla forma del suo dispendio. Queste cose manifestano ormai soltanto il fatto che nella loro produzione è stata spesa forza lavorativa umana, che in esse è accumulato lavoro umano. Come cristalli di questa sostanza sociale ad esse comune, esse sono considerate valori - valori di merce". (Karl Marx, Il Capitale. Vol.I)

Non si può non osservare che qui il concetto di lavoro astratto non costituisce un'arida definizione positivista, bensì l'inizio della critica concettuale di una realtà francamente negativa. Lo "astrarre dal valore d'uso", di modo che "tutte le (...) qualità sensibili scompaiano" al fine di ottenere una "oggettività fantasmatica", "un mero dispendio di lavoro umano" già significa una tendenza assolutamente distruttiva del mondo sensibile e sociale. Poiché qui si tratta del lato pratico, attivo, si tratta di un'astrazione reale sociale, e non di un'astrazione meramente linguistica, che esprime le cose esistenti nel pensiero, senza che con ciò attinga nella pratica al mondo fisico e sociale. L'astrazione "lavoro" rappresenta qui innanzitutto un riferimento immediato di azione, soprattutto come un apriori della riproduzione sociale con conseguenze imprevedibili.

Marx qui si avvicina ad una critica che egli stesso non ha mai portato fino in fondo. Egli sviluppa (contrariamente alla maggioranza dei marxisti) una critica radicale dell'astrazione reale contenuta nel concetto di lavoro moderno; ma, simultaneamente, rimane ostaggio dell'ontologia protestante ed illuminista del lavoro - così come ha scritto sulle proprie bandiere il movimento operaio - sorta nel medesimo contesto storico della sua teoria. Marx si è così trovato costretto a tentare di separare il principio suppostamente ontologico di "lavoro", l'astrazione così espressa, dall'astrazione reale specificamente capitalista; progetto questo che ha finito in gran misura per perdersi nei suoi seguaci, i quali si accontentarono di adattarsi al concetto di lavoro interamente nell'ontologizzazione trans-storica - con poche eccezioni, che in tal modo spiccano come in special modo riflessive, seppure non siano mai andate oltre la riproduzione dell'aporia di Marx, con il concetto di lavoro considerato come astrazione reale capitalista e allo stesso tempo come principio ontologico.

Marx formula apertamente la sua aporia nei "Grundrisse", da subito, nella sua introduzione, dove parla della definizione del concetto:

"Il lavoro sembra una categoria del tutto semplice. Anche la rappresentazione del lavoro nella sua generalità come lavoro in generale — è molto antica. E tuttavia, considerato in questa semplicità dal punto di vista economico, «lavoro» è una categoria tanto moderna quanto lo sono i rapporti che producono questa semplice astrazione. (...) Un enorme progresso lo compì Adam Smith,  rigettando ogni carattere determinato dell’attività produttrice di ricchezza e considerandola lavoro senz’altro: non lavoro manifatturiero, né commerciale, né agricolo, ma tanto l’uno quanto l’altro. Con l’astratta generalità dell’attività produttrice di ricchezza, noi abbiamo ora anche la generalità dell’oggetto definito come ricchezza, e cioè il prodotto in generale o, ancora una volta, lavoro in generale, ma come lavoro passato, oggettivato. (...) L’indifferenza verso un genere determinato di lavoro presuppone una totalità molto sviluppata di generi reali di lavoro, nessuno dei quali domini più sull’insieme. Così, le astrazioni più generali sorgono solo dove si dà il più ricco sviluppo concreto, dove una sola caratteristica appare comune ad un gran numero, ad una totalità di elementi. Allora, esso cessa di poter essere pensato soltanto in una forma particolare. D’altra parte, questa astrazione del lavoro in generale non è soltanto il risultato mentale di una totalità di lavori concreti. L’indifferenza verso il lavoro determinato corrisponde ad una forma di società in cui gli individui passano con facilità da un lavoro ad un altro ed in cui il genere determinato del lavoro è per essi fortuito e quindi indifferente. Il lavoro qui è divenuto non solo nella categoria, ma anche nella realtà, il mezzo per creare la ricchezza in generale, e, in quanto determinazione, esso ha cessato di concrescere con gli individui in una dimensione particolare. Un tale stato di cose è sviluppato al massimo nella forma d’esistenza più moderna delle società borghesi, gli Stati Uniti. Qui, dunque, la astrazione della categoria «lavoro», il «lavoro in generale», il lavoro sans phrase, che è il punto di partenza dell’economia moderna, diviene per la prima volta praticamente vera. Così l’astrazione più semplice che l’economia moderna pone al vertice, e che esprime una relazione antichissima ed è valida per tutte le forme di società, in questa astrazione si presenta tuttavia praticamente vera soltanto come categoria della società moderna. (...) L’esempio del lavoro mostra in modo evidente che anche le categorie più astratte, sebbene siano valide — proprio a causa della loro natura astratta — per tutte le epoche, sono tuttavia, in ciò che vi è di determinato in  questa astrazione, il prodotto di condizioni storiche e posseggono la loro piena validità solo per ed entro queste condizioni."(Karl Marx, Grundrisse)

Questa riflessione sul concetto di lavoro come categoria sociale è aporetica sotto vari aspetti. Nel senso che, tanto l'astrazione quanto il suo contenuto sociale appaiono, da un lato, come positivi, come "progresso", come una "attività creatrice di ricchezza" generale, come sviluppo di una diversità; e, dall'altro lato, come negativa, come "indifferenza" relativa al contenuto. Alla stessa maniera, il "lavoro" appare, da un lato, come un'astrazione "razionale", come mera designazione generica di un "ricco sviluppo concreto" di attività; dall'altro lato, Marx non tarda a correggersi, richiamando l'attenzione sul fatto che questa corrispondenza non è "solo il risultato mentale di un'attività concreta", ma corrisponde ad una "forma di società" nella quale tale astrazione diventa reale e in tal modo definisce l'azione. Soprattutto, però, Marx da un lato si mantiene fedele alla concezione per cui l'astrazione "lavoro" è un'idea "antichissima" e "valida per tutte le epoche"; dall'altro lato, però, chiarisce simultaneamente che si tratta di "una categoria tanto moderna" quanto "le condizioni che producono tale semplice astrazione", di modo che questa categoria finisce per essere il "prodotto di determinate condizioni storiche", soprattutto di quelle moderne, e che possiede "piena validità soltanto all'interno di tali condizioni".

Quest'argomentazione aporetica può essere risolta soltanto se la categoria "lavoro" viene definita come astrazione reale, e perciò come categoria storica, moderna, capitalista e, per ciò stesso, l'ontologia del lavoro viene del tutto abbandonata. Se Marx designa disinvoltamente quest'astrazione (probabilmente nel senso di una mera astrazione nominale) come "antichissima", questa designazione ovviamente non si basa su nessuna ricerca storica. In realtà, in molte società della storia, fra le altre anche le cosiddette culture superiori come l'antico Egitto, neppure esisteva una categoria di attività generale ed astratta. Perfino nelle società dove sembrava esistere un simile concetto generico nominale (anche se non c'era nessuna astrazione reale), si trattava di aree di attività molto limitate, e mai di una generalità sociale di "attività in generale". Se qui nell'interpretazione moderna si parla sempre di "lavoro", questo è ingannevole, un anacronismo e fondamentalmente un errore di traduzione (cosa che del resto si applica anche ad altre categorie specificamente moderne ed associate alla relazione di feticcio della valorizzazione del valore, come la politica, o lo Stato, ecc.).

Nella misura in cui l'astrazione "lavoro" è stata adottata come concetto dalla società moderna a partire dall'area linguistica indo-europea, essa dev'essere oggetto di una completa ridefinizione; gli è che in queste lingue il "lavoro" designa sempre l'attività specifica degli schiavi, dei dipendenti, dei minori, ecc.; non si tratta, quindi, di un concetto generico mentale per diverse aree di attività, ma di un'astrazione sociale (ed in questa misura anche di un'astrazione reale, in questo senso specificamente premoderno), però, proprio per questo non si tratta di una generalità sociale, né di una categoria di sintesi sociale, come avviene nella modernità.

L'aporia di Marx rimane uguale a sé stessa anche nell'analisi de "Il Capitale", quando Marx fornisce le definizioni di "lavoro astratto" e di "lavoro concreto". A rigore, la definizione "lavoro astratto" rappresenta un pleonasmo logico (come, per esempio, "cavallo-bianco bianco"), dal momento che l'attributo è di già contenuto nello stesso concetto; gli è che, di fatto, il "lavoro" è già un'astrazione. All'inverso, il concetto "lavoro concreto" rappresenta una contraddizione in termini (come, per esempio, "cavallo-bianco nero"), giacché l'attributo è in contraddizione con il concetto; come astrazione (anche concettualmente, nascendo solo sul terreno di un'astrazione reale sociale) il "lavoro" non può essere di per sé concreto", nel senso di una attività determinata.

Si può dire che queste definizioni di Marx riflettono il paradosso reale della relazione del capitale e della sua socializzazione del valore, giacché quello che è in sé concreto, la diversità del mondo, viene di fatto ("realmente") ridotto ad un'astrazione, ed in questo modo la relazione fra il generale ed il particolare viene messa coi piedi per aria. Il generale non è più una manifestazione del particolare ma, al contrario, il particolare è ormai una manifestazione della generalità totalitaria; anche il concreto, così, non rappresenta già più la diversità strutturata del particolare, ma non "è" altro che la "espressione" della generalità realmente astratta, della "sostanza" universale.

Senza dubbio, Marx non ha piena coscienza di quello che veramente qui è da riflettere, considerato che si attiene ad un momento ontologico e trans-storico dell'astrazione "lavoro". In questo modo tenta di fondare tutto questo nel concetto di valore d'uso: "Come creatore dei valori d'uso, come lavoro utile, il lavoro è... una condizione esistenziale dell'Uomo, indipendente da tutte le forme della società, una necessità naturale eterna per mediare il metabolismo fra l'Uomo e la natura, ossia, la vita umana" (Il Capitale, vol. I). Il concetto di "utilità per determinate necessità", tuttavia, non è in alcun modo una categoria della sintesi sociale, e perciò non può essere semplicemente equiparata a quella del "valore d'uso", come fa sempre Marx. La categoria valore d'uso si riferisce soltanto ad un'utilità astratta (una definizione realmente paradossale) e in questa misura essa stessa è parte integrante dell'astrazione reale moderna; non è un concetto dal punto di vista delle necessità, ma un concetto di rappresentazione della mediazione della forma valore (il valore d'uso di una merce in quanto forma equivalente esprime soltanto il valore di scambio di un'altra merce).

Il valore d'uso come designazione ha senso soltanto nella mediazione con il valore di scambio, in quanto polarità della relazione di valore, e perciò non è affatto "una condizione esistenziale dell'Uomo, indipendente da tutte le forme della società". Nella misura in cui il "lavoro" stabilisce "il valore d'uso", non si tratta di una definizione ontologica-trans-storica per l'astrazione del valore, ma niente più che un modo specifico di come l'astrazione reale prende possesso dell'oggetto, che in sé non ha niente di astratto. Quello che Marx designa paradossalmente come "lavoro concreto" non costituisce per questo una "necessità naturale eterna"; al contrario, non è altro che il modo materiale specifico con cui il "lavoro astratto" si appropria della "materia" naturale o sociale. Una volta che questo è stato chiarito, possiamo continuare ad usare i concetti di Marx, così come sono, tuttavia con una comprensione cambiata.

Devo anticipare a questo punto un'argomentazione che soltanto più tardi verrà sviluppata più dettagliatamente. Riguarda il carattere materiale della sostanza del lavoro astratto, che com'è noto è stata formulata da Marx come "dispendio di nervi, muscoli e cervello", indipendentemente dal modo concreto di un tale dispendio, sia sotto forma di lavoro di falegnameria o di tessitura, ecc.. I rappresentanti di una determinata linea neomarxista di dibattito (oggi spesso di colorazione postmoderna) sono orgogliosi di parlare qui peggiorativamente di un falso "sostanzialismo" ovvero di un "naturalismo" fisiologico dello stesso Marx e dei marxisti tradizionali, dal momento che proprio per via di questa "naturalizzazione", il lavoro astratto viene trasformato in una realtà trans-storica ed ontologica, giacché gli esseri umano devono sempre spendere "nervi, muscoli e cervello". Per inciso, anche Moishe Postone aderisce a tale opinione, infelicemente (Moishe Postone, ivi, pag 224 ss.). Ora, è vero che il marxismo tradizionale ontologizza il lavoro astratto, come pretenderemo di dimostrare più in dettaglio nel prossimo capitolo. Nonostante questo, la critica del "sostanzialismo" che abbiamo finito di abbozzare parte da presupposti totalmente errati. Ossia, per essa si tratta assai meno di chiarire il concetto di sostanza e di lavoro, che del rifiuto di una teoria della crisi sostanziale, che argomenta per mezzo della diminuzione storica della sostanza del lavoro in quanto sostanza del valore del capitale (desustanzializzazione). In questo senso, il lavoro astratto viene visto come una relazione quantitativa, come concetto di sostanza in senso quantitativo. Gli è che, perché qualcosa possa essere aumentata o diminuita, questo qualcosa dev'essere sostanzialmente reale in senso materiale e di contenuti; una mera forma, come sostanza non può rappresentare una relazione quantitativa. Per questo la critica del carattere della sostanza materiale del lavoro astratto serve a rifiutare la teoria della crisi sostanziale, ed anche per nascondere l'esistenza di un limite interno assoluto del processo di valorizzazione; la crisi viene allora ridotta alla superficie del mercato - come "errore di regolazione" del meccanismo del mercato che potrebbe essere regolato attraverso mezzi politici - oppure scompare completamente dal dibattito teorico fondamentale.

Poiché questa argomentazione contro il "sostanzialismo" si inscrive innanzitutto nell'ambito della teoria della quantità e della crisi del lavoro astratto, essa viene trattata esaustivamente soltanto nella seconda parte del presente saggio. Qui bisogna fare un riferimento preliminare al concetto qualitativo negativo del lavoro astratto che in questo ha un ruolo. I neomarxisti anti-sostanzialisti apparentemente riflettono fino a regredire a retroguardia del marxismo tradizionale, una volta che sfugge loro qualcosa di essenziale, Gli è che Marx non parla di dispendio fisiologico di nervi, muscoli e cervello nel senso immediatamente naturalista o trans-storico. Poiché il dispendio fisiologico di energia umana, in termini puramente "naturali", non può essere separato dalla forma concreta di un tale dispendio. Ma, è proprio questo che avviene socialmente nell'astrazione del lavoro. E questo astrarre dalla forma concreta del dispendio non è né razionale né trans-storico. Se, per esempio, dicessimo ad un antico egizio che sta pescando, che non stava semplicemente catturando un pesce, ma che sta spendendo "nervi, muscoli e cervello" in senso astratto, egli avrebbe tutte le ragioni per dubitare della nostra sanità mentale. Una tale affermazione ha senso solo nel contesto dell'astrazione reale moderna.

Tuttavia, la sostanza astratta del lavoro non cessa di contenere un qualche contenuto materiale o "fisico" (poiché un dispendio di nervi, muscoli e cervello senza contenuto, semplicemente non è possibile), sebbene non si tratti di una sostanza naturale immediata, bensì di una sostanza sociale in quanto astrazione. Si tratta di uno dei lati della materializzazione dell'idealità della forma feticistica (l'altro lato sarebbe la stessa materia naturale modellata in maniera riduttiva), nella misura in cui, sotto il dettato di questa idealità di forma negativa, in un determinato riferimento sociale, si astrae, non solo concettualmente, ma anche praticamente, dalla forma concreta del dispendio (che naturalmente non smette di accadere), stabilendo come essenziale solo questo medesimo dispendio in quanto tale, indipendentemente dalla sua determinazione concreta.

Nell'astrazione come astrazione reale, rimane quindi come residuo un contenuto ben materiale, in particolare il dispendio di "energia umana in generale". Per il "soggetto automatico" del processo di valorizzazione non ha nessuna importanza se vengono prodotte pantaloni o bombe a mano; è essenziale solo che nell'atto avvengano processi di combustione fisica umana (dispendio di energia) che possano essere rappresentati come un quantum di valore; un procedimento in sé assolutamente assurdo. Tuttavia, questi processi di combustione avvengono realmente; quello che è assurdo è solo il fatto che vengano trattati e "rappresentati" indipendentemente dalla loro forma concreta, e di conseguenza indipendentemente dal loro obiettivo materiale e di contenuto; il che avviene perché l'obiettivo sociale è proprio questa "rappresentazione" feticista. La riduzione al processo di combustione fisica è un'astrazione sociale, ma non per questo è una mera cosa del pensiero (come, per esempio, un concetto generico nominale), ma si riferisce ad un momento ben reale, ed è anche per questo un'astrazione reale.

La "rappresentazione" è un processo essenziale di quello che Marx ha designato come feticismo della forma merce. Non si tratta solo del fatto che il quantum di energia umana spesa non può essere separato dalla forma concreta di questo dispendio stesso; non appena i prodotti si ritrovano prodotti, essa appartiene ormai al passato e non è più tangibile, e perciò evidentemente non è "contenuta" nei prodotti in senso naturale o fisico. La "rappresentazione" come processo fisico, in questa misura avviene soltanto nelle teste dei soggetti sociali così costituiti, in particolare come percezione e "trattamento" pratico feticizzato della sua stessa socialità. Anche così, tale "rappresentazione" si riferisce a qualcosa che di fatto non avviene solo nelle teste dei soggetti, come forma di percezione e di azione, ma che è una realtà fisica, ossia, processi di combustione passati avvenuti in corpi umani, dispendio di unità energetiche.

Poiché il quantum di energia consumata nel processo del suo dispendio non può essere realmente separato dalla forma, o determinazione concreta, di tale dispendio, e poiché, trattandosi di un dispendio definitivamente passato, che non può essere letteralmente "contenuto" negli oggetti, la forma sociale della rappresentazione è di fatto, sotto questo aspetto, irreale in senso duplice. Anche così, questo quantum di energia dev'essere speso realmente nel passato, di modo che, sotto l'altro aspetto, rappresenti una sostanza fisica reale (sebbene "rappresentata" in maniera paradossale). La forma di rappresentazione di questa sostanza reale, però, in sé no ha niente di fisico, essendo innanzitutto un'astrazione reale, un modo di percezione e di azione socialmente costituito, in cui le sostanze naturali ed i beni prodotti sono realmente trattati come se fossero oggetti fisici di pura rappresentazione dei processi di combustione passati nei corpi umani.

Il lavoro astratto è perciò un determinato stato di aggregazione dell'idealità della forma feticista moderna, che tuttavia non smette di riferirsi ad un quantum energetico di forza lavoro realmente spesa, ossia, ad un contenuto materiale quantificabile (non in relazione alla merce individuale, ma alla media sociale delle merci). Questo contenuto, tuttavia, in quanto astrazione è "fantasmatico", non solo in quanto risultato dell'oggettività del valore, ma già nel processo stesso del dispendio, ossia, in termini pratici, come definizione di una massa di dispendio di nervi, muscoli e cervello separata dalla sua forma materiale. Si procede a determinate trasformazioni di materiali naturali, sulla base di una determinazione essenzialmente aprioristica, nelle quali vengono spese quanta di energia umana astratta indipendentemente dalla forma concreta del suo dispendio - tale determinazione è sostanziale in un senso materiale, che non è un senso naturale, ma sociale, e che non è trans-storico, ma storicamente specifico della costituzione del feticcio moderno.


 

 

Il concetto positivo di lavoro astratto nell'ontologia del lavoro marxista

Marx si è avvicinato ad una critica del concetto di lavoro inteso come concetto di sostanza del capitale, ma non ha potuto portare a termine questa critica, giacché aveva ancora un piede sul terreno dell'ontologia moderna del lavoro. Una volta che il marxismo (tradizionale o del movimento operaio) si è fissato completamente sul momento ontologico della rappresentazione di Marx, volendo criticare il capitalismo dal punto di vista trans-storico del "lavoro", il concetto di lavoro astratto ha dovuto necessariamente restare in ombra, e insieme ad esso, però, in ombra ci è finita anche la sostanza del capitale. Si può trovare una tematizzazione di questo concetto - che vada al di là di una mera definizione positivista - soltanto in pochissimi teorici, come per esempio, negli anni venti, in Issak Rubin, che nei suoi "Studi sulla teoria del valore di Marx", pubblicato nel 1924, doveva constatare: "A fronte del grande rilievo dato da Marx alla teoria del lavoro astratto, c'è da chiedersi per quale motivo la letteratura marxista si sia interessata talmente poco a questa teoria".

Lo stesso Rubin, tuttavia, non va in nessun modo oltre l'aporia di Marx circa il concetto di lavoro. Egli positivizza il lavoro astratto in maniera duplice, ossia, da un lato come progresso storico nella genesi di una generalità sociale:

"solo sulla base di una produzione di merci, caratterizzata da un notevole sviluppo dello scambio, attraverso il re-orientamento di massa degli individui da un'attività ad un'altra, e per mezzo dell'indifferenza degli individui nei confronti della forma concreta del lavoro, è possibile sviluppare il carattere omogeneo di tutte le attività di lavoro come forma del lavoro umano in generale... Non sarebbe affatto esagerato dire che forse il concetto stesso di Uomo, in generale, e di lavoro umano, in generale, hanno assunto importanza a partire proprio dalla produzione di merci. Era proprio questo che Marx aveva in mente, nel sottolineare che il carattere umano generale del lavoro si esprime nel lavoro astratto" (Rubin, ivi).

Rubin mette qui in evidenza il ruolo dell'astrazione reale (che in lui ancora non compare come tale) in uno "sviluppo" connotato positivamente e, seppure di passaggio (alla stessa maniera di Marx), fa ugualmente riferimento alla "indifferenza degli individui riguardo alla forma concreta del lavoro"; tuttavia, non lo fa con il medesimo orientamento, radicalmente critico, di Marx.

Dall'altro lato, stabilisce sempre una differenza, per colmare in qualche modo l'aporia di Marx: il lavoro astratto della produzione di merci, che in Rubin appariva ancora come capitalista, dovrà sparire insieme al capitalismo, dovendo comunque rimanere ancora un momento, in cui tuttavia sarà dotato di un altro carattere:

"Sebbene il lavoro astratto sia una caratteristica specifica della produzione di merci, un lavoro socialmente equiparato lo si trova, per esempio, in una società socialista... Tutto il lavoro astratto è lavoro sociale e socialmente equiparato, me non tutto il lavoro socialmente equiparato deve essere considerato lavoro astratto" (Rubin, ivi).

Rubin postula quindi una continuità trans-storica del lavoro in quanto astrazione all'orizzonte illuminista del progresso, in cui il lavoro astratto capitalista sarà soltanto un caso speciale di astrazione del lavoro, nel senso di un lavoro generale ed astratto in quanto "socialmente equiparato". In realtà, però, tutto questo non è altro che una parafrasi del lavoro astratto nel sistema produttore di merci, come del resto traspare con chiarezza dalla definizione di "lavoro socialista":

"Immaginiamo una comunità socialista qualsiasi, fra i cui partecipanti esista una divisione del lavoro. Un determinato organismo sociale equipara i lavori dei diversi individui, gli uni con gli altri, dal momento che senza una tale equiparazione non si può realizzare un piano sociale più o meno complessivo. In una simile comunità, tuttavia, il processo di equiparazione del lavoro è secondario, in quanto integra il processo di socializzazione e di distrubizione del lavoro. Il lavoro è innanzitutto lavoro socializzato e distribuito. In questo quadro possiamo anche includere - come una caratteristica derivata ed addizionale - la qualità del lavoro in quanto socialmente equiparato. La caratteristica fondamentale del lavoro consiste nell'essere sociale e distribuito; la sua qualità di essere socialmente equiparato è accessoria" (Rubin, ivi).

A suo avviso, l'unica caratteristica che distingue il lavoro "equiparato" socialista dal lavoro astratto capitalista, è il carattere presunto come solo "secondario" ed "accessorio" dell'astrazione, cosa che tuttavia viene immediatamente smentita dal fatto che, secondo Rubin, senza una tale equiparazione non sarebbe possibile alcun "piano sociale". Un piano, tuttavia, si definisce per essere elaborato in anticipo, sennò non sarebbe tale, e quindi, secondo la logica dello stesso Rubin, anche il "processo di equiparazione" non può essere meramente secondario ed accessorio, in quanto costituisce il presupposto di tutto. Per di più, quello che presumibilmente precede il processo di equiparazione, supposto come soltanto accessorio, è ancora una volta il "lavoro", ossia, l'astrazione (reale). Quello che qui è apparentemente così difficile da pensare, è il problema di soppiantare la stessa astrazione reale distruttiva, ossia, l'intuizione per cui la "equiparazione" significa da sempre l'assoggettamento delle varie aree della riproduzione e della vita alle loro proprie logiche - logiche che hanno tempi e perfino esigenze assai diversi - ad una logica di sussunzione unitaria; tuttavia, è proprio in questo che consiste la logica unitaria e totalitaria della sostanza del lavoro astratto.

Non importa nemmeno che un piano, nel senso di una distribuzione delle risorse fra le diverse aeree, possa proprio evitare di basarsi su questa equiparazione, dovuta soltanto all'astrazione del valore e non ad una qualche esigenza oggettiva. Questo emerge in maniera particolarmente grossolana quando Rubin non si astiene dal parlare, in relazione al socialismo, di una "massa omogenea di lavoro sociale". Se il fatto per cui è lo stesso individuo quello che - diciamo - installa un cavo elettrico, pianta un albero, scrive una lettera o si prende cura dei bambini, questo non significa, in alcun modo, che lo stesso individuo tratta queste sue "alienazioni" così tanto diverse come una "massa omogenea" di dispendio sostanziale di energia inserito nella medesima logica temporale di un continuum astratto, per non parlare di tutta una società che deve comportarsi in questo modo trovandosi con la forma merce alle spalle.

Che una società si sia organizzata come il collettivo autocosciente di un'associazione libera di individui significa precisamente che essa non è soggetta ad un principio feticista di "equiparazione", e significa anche che non può soffrire di "mancanza di tempo", cosa che è una caratteristica specifica del fine in sé della valorizzazione del valore. Non avere tempo disponibile in quantità infinite non significa in alcun modo che "scarseggi" per principio, e che per "ottimizzare il carico di lavoro" bisogna che ci sia un processo di equiparazione fra massa "omogenee" di dispendio di energia umana. Questa concezione, di per sé completamente folle, può nascere solamente sotto il dettame del lavoro astratto nell'ambito della socializzazione del lavoro.

Lo stesso Rubin, nel tentativo di descrivere l'inquietante equiparazione, chiarisce che si tratta di altro dalla necessità materiale ed oggettiva o sociale dell'utilizzo delle risorse:

"Supponiamo che gli organismi della comunità socialista equiparino gli uni con gli altri i diversi lavori dei diversi individui. Così per esempio, una semplice giornata di lavoro viene stabilita come un'unità, una giornata di lavoro qualificato, come tre unità; un giorno di lavoro dell'operaio qualificato A viene equiparato a due giorni dl lavoro dell'operaio non qualificato B, ecc.. Sulla base di questi principi generali (!), le istituzioni sociali di contabilità (!) sanno che l'operaio A ha speso venti, e l'operaio B, dieci unità di lavoro (!) nel processo sociale di produzione" (Rubin, ivi).

Il problema pertanto non consiste, in realtà, in una distribuzione pianificata delle risorse nei confronti di aree di riproduzione e di vita qualitativamente diverse, ma nella contabilizzazione delle prestazioni di lavoro al momento della distribuzione di beni, servizi, ecc.. E' il problema del calcolo di una "prestazione di lavoro" [Leistung] astratta, che anche dopo una presunta soppiantazione del lavoro astratto specificamente capitalista dovrà ancora costringere ad una simile "omogeneizzazione". Con questo, tuttavia, viene perpetuato proprio un momento del lavoro astratto nella logica della valorizzazione capitalista, così come del resto avviene similmente anche in Proudhon ed in tutte le utopie della contabilizzazione del "lavoro".

Anche nello stesso Marx si trova ancora un elemento di questa non-logica, quando parla della famigerate "due fasi" del socialismo/comunismo, dove fin da subito deve rimanere in vigore il principio della prestazione astratta di lavoro e, insieme ad esso, un momento della logica della valorizzazione: "Da ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo le sue prestazioni lavorative"; soltanto nel lontano comunismo, quando del resto Marx suppone significativamente che il "lavoro" sia diventato la "prima necessità vitale", sarà allora valido: "Da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni". Tuttavia non vi è alcuna necessità che lo giustifichi. Se neppure lo sviluppo delle forze produttive del XIX secolo, sotto la determinazione della forma capitalista, appare sufficiente a Marx per poter gettare a mare il principio borghese della prestazione di lavoro, questo lo si deve principalmente alla sua fedeltà verso gli elementi dell'ideologia protestante del lavoro e della prestazione di lavoro. E ciò senza badare al fatto che questo concetto astratto della prestazione di lavoro sia specificamente moderno, ossia, per la precisione, non è legato alla situazione premoderna di uno sviluppo relativamente modesto delle forze produttive, ma paradossalmente nasce proprio solo insieme al cieco sviluppo capitalista delle forze produttive in quanto sviluppo di forze distruttive.

L'aporia nel concetto di lavoro di Marx, è stata quindi risolta dal marxismo in forma unilaterale, nell'ontologia positiva del lavoro; ed è stato proprio per questo che il concetto critico di lavoro astratto doveva rimanere spiegato male e banalizzato per mezzo di una definizione positivista. Rubin, sdoppiando questo concetto nella definizione di una categoria puramente capitalista (che in lui rimane ancora identica alla produzione sociale delle merci in generale), da un lato, e nella definizione di una "equiparazione sociale" generale ed astratta, valida per tutte le società, dall'altro lato, preannunciava una linea di argomentazione per la riflessione teorica che si è prolungata fino ad oggi. Cosa che, però, non risolveva per niente l'aporia, ma la portava solamente ad un livello di riflessione più elevato - nello stalinismo, tuttavia, questa riflessione non esisteva più; nel 1931, Rubin. come molti altri intellettuali scomodi, venne condannato all'internamento in un campo di detenzione, e da quel momento venne considerato scomparso.

Il destino di Rubin rimanda al fatto per cui il "socialismo", nel proseguio della rivoluzione dell'Ottobre russo, si vide costretto a reprimere qualsiasi riflessione teorica che si avvicinasse all'aporia di Marx, in quanto c'era bisogno che su questo terreno non vi fosse alcuna differenziazione. Gli è che le definizioni teoriche come quella di Rubin, che erano ancora alle prese col problema di delimitare il concetto di lavoro astratto - che per Marx è chiaramente legato alla relazione del capitale - rispetto ad una "equiparazione dei lavori", in una società post-capitalista, non più pensata sotto l'egida della forma del valore, dovevano apparire pericolose e sovversive, nella misura in cui, nella pratica, in questo "socialismo" si mostrava apertamente il carattere della sintesi sociale basata sul lavoro astratto, sul valore, sulla merce e sulla forma denaro.

Questo si riferisce al carattere di tutta un'epoca che, con la dovuta distanza temporale, può essere decifrata come una storia della "modernizzazione di recupero [nachholender Modernieserung]". I movimenti storici nella periferia del capitalismo non potevano rompere il guscio delle forme moderne del feticcio, ma anzi avevano ancora come fine l'implementazione sociale delle categorie reali del moderno sistema produttore di merci. Questo vale anche, seppure in un altro modo, per il movimento operaio occidentale, il quale si è sforzato principalmente di rivendicare il proprio "riconoscimento" in quanto soggetto giuridico e di cittadinanza, proprio in quelle forme sociali il cui presupposto era il lavoro astratto, sulla base di questo sistema che aveva già preso forma nei paesi industriali europei. Questo contesto storico permette di spiegare perché si sia perso il contenuto critico del concetto di lavoro di Marx e perché tanto il movimento operaio occidentale quanto il socialismo di Stato dell'Est, così come i successivi movimenti di liberazione nazionale del Sud, siano stati ideologicamente del tutto prigionieri dell'ontologia borghese del lavoro.

Nella teoria marxista tradizionale, e non solo in questa, i fatti connotati da Marx in maniera chiaramente negativa, sebbene rappresentati in modo aporetico, sono stati quindi del tutto oscurati, nella misura in cui il concetto di lavoro astratto, o non veniva in alcun modo inteso come un'astrazione reale negativa - ma semmai lo si intendeva come una mera astrazione concettuale - oppure, quando veniva inteso come un'astrazione reale (e comunque solo da parte della corrente più riflessiva del marxismo occidentale), questo non avveniva come un a priori, ma soltanto come astrazione reale a posteriori, ossia, riferita puramente e semplicemente ai prodotti del lavoro in quanto merce sul mercato; e insieme a questo, al modo in cui il lavoro reale, apparentemente sempre concreto e "utile", viene percepito in una forma astratta soltanto a posteriori, nelle merci finite in quanto oggetti del mercato; in un certo qual modo, come se fosse una qualità socialmente costituita del prodotto. In maniera positiva nell'ideologia del socialismo di Stato dell'Est ed in maniera negativa nella corrente del marxismo occidentale: in entrambi i casi, tuttavia, la definizione di lavoro astratto si limitava ugualmente ad un'astrazione che avrebbe avuto luogo soltanto nel processo di scambio sul mercato. E così diceva la letteratura marxista.

In altre parole: il marxismo sottolinea soltanto il suo "fondarsi sulla produzione" nel senso positivo di un "onore del lavoro" ontologico, in quanto la sua critica del capitalismo in realtà dispone solamente di un "fondarsi sulla circolazione", rimanendo proprio per questo limitato. Gli è che, intendere il processo di astrazione reale come qualcosa che viene effettuato solo a posteriori sul prodotto del lavoro, in quanto merce sul mercato, significa soltanto che si circoscrive la critica dell'astrazione reale - e insieme ad essa il sistema produttore di merci -, qualora venisse in qualche modo esercitata, alla sfera della circolazione. Il problema della negatività capitalista viene così ridotto soltanto alla sfera della circolazione ed al modo di distribuzione ad essa legato, dal momento che viene percepita solamente in questa prospettiva miope, come per primo ebbe a constatare Moishe Postone:

"Secondo tale interpretazione, è il modo di distribuzione che si troverebbe al centro della critica di Marx. Una simile affermazione appare paradossale, giacché il marxismo viene generalmente considerato come una teoria della produzione. Passiamo poi ad osservare brevemente il ruolo svolto dalla produzione nell'interpretazione tradizionale. Se le forze produttive (le quali, secondo Marx, entrano in contraddizione con le relazioni di produzione capitalista) vengono identificate col modo di produzione industriale, questo implica che sono intese come se fossero un processo puramente tecnico, cioè, indipendente dal capitalismo. Il capitalismo viene trattato come un insieme di fattori esterni che agiscono sul processo di produzione: per esempio, la proprietà privata ed altre condizioni, che fanno parte dell'economia di mercato ma che sono esterne alla valorizzazione del capitale. In connessione con questo, il dominio sociale nel capitalismo viene inteso essenzialmente come dominio di classe, che rimane altrettanto esterno al processo di produzione" ( Moishe Postone, "Time, Labor, and Social Domination").

Il punto centrale di una simile miopia sta proprio nella riduzione del lavoro astratto alla sfera della circolazione, in quanto solo così la distribuzione mediata dalla circolazione viene fatta diventare l'oggetto centrale della critica, dal momento che, come dimostra Postone, solo la produzione è centrale nella misura in cui costituisce il punto di vista ( e non l'oggetto ) della critica. Da questo risulta - come prospettiva ugualmente miope di una supposta sostituzione [Überwindung] del capitalismo - o il paradigma di un "equo scambio", o il paradigma di una "produzione pianificata di merci" da parte dello Stato (oppure una combinazione delle due cose), in quanto la produzione come tale, nella sua forma di merce, viene positivizzata ontologicamente, in maniera esplicita o implicita.

Mentre il marxismo tradizionale equivoca la propria critica come riferita alla "produzione", perché in realtà essa non si riferisce alla produzione nel senso di un'attività della forma sociale e dell'astrazione reale, ma si riferisce unicamente ad un dominio, malinteso soggettivamente e sociologicamente, "sopra" la produzione, in quanto determinazione giuridica della proprietà; ossia, secondo una determinata terminologia di Marx, solo alla "sovrastruttura giuridica" della produzione, che come tale continua a rispecchiare la sua forma di attività e la sua sostanza sociale; quindi, anche solo nelle condizioni della circolazione, visto che solo in questa i proprietari di merci si confrontano come monadi giuridiche astrattamente libere e come "guardiani delle loro merci" (Marx).

Se qui si vede un momento della critica della forma del feticcio, questo viene però circoscritto alla sola sfera della circolazione. La forma del feticcio del valore, che comprende l'intero processo di riproduzione sociale (includendo sia il "lavoro"/produzione che la forma giuridica, la forma Stato, la forma della politica), viene così ridotta alla forma merce nel senso di mera oggettività della circolazione. Paradossalmente, è proprio per questo che il "lavoro astratto" non appare nemmeno come momento determinante della produzione (questa, al contrario, viene concretisticamente ridotta e proprio così ontologizzata), né in quanto legato alla produzione, ma, del tutto al contrario, come semplice momento della circolazione, come processo di astrazione a posteriori, circoscritto al processo di scambio del mercato. Così, per questo modo di intendere, il "doppio carattere del lavoro rappresentato dalle merci" diagnosticato da Marx viene diviso per due sfere differenti, in vece di determinare il carattere di tutta la riproduzione: nella produzione non si trova altro che non sia il lavoro "concreto" o "utile", mentre il prodotto della forma merce emerge, come rappresentato dal lavoro astratto, solamente nella circolazione.

A questo proposito, è prototipica la teoria di Alfred Sohn-Rethel, la prima ad introdurre il concetto di astrazione reale nel dibattito marxista. Tuttavia, per Sohn-Rethel l'astrazione socialmente oggettivata è reale solo in quanto "astrazione dello scambio". E' solo nel mercato che il lavoro astratto si presenta come sostanza comune delle merci che le rende compatibili: "L'astrazione che si svolge nello scambio deriva dalla relazione stessa di scambio. Non consegue dalla natura materiale delle merci, né dalla sua natura di valore d'uso, e neppure dalla sua natura di prodotto del lavoro".

L'equivoco del materialismo volgare, che consiste nel determinare l'astrazione del valore, ed insieme ad essa la logica del valore astratto, come la qualità materiale quasi-naturale della produzione, viene qui utilizzato come pretesto per nascondere qualsiasi relazione dell'astrazione del valore con il processo del lavoro "concreto", anche nel senso di una definizione sociale anziché naturale, assoggettandolo allo stesso verdetto con il quale la produzione viene sottratta furtivamente dall'ambito dell'astrazione reale. Ma il lavoro non ha proprio niente di naturale, ed è precisamente nella loro qualità di prodotti del lavoro che le cose sono di già merci o prodotti dell'astrazione reale, e non solo in forza dell'atto di scambio sul mercato. Pertanto, sebbene Sohn-Rethel abbia il merito di avere sviluppato, insieme al concetto di astrazione reale, la coscienza teorica del problema - cosa che costituisce una pietra miliare - egli è rimasto del tutto ostaggio dell'ontologia del lavoro e del concetto di astrazione reale limitato alla circolazione, cosa che lo vincola ancor di più alla scissione del concetto di lavoro in una cattiva astrazione, puramente circolatoria a posteriori, da un lato, e una concrezione "buona", produttiva e suppostamente ontologica, dall'altro lato. Egli pertanto afferma "due forme di sintesi sociale - una prodotta dallo scambio ed un'altra dal lavoro ..." (Postone).

La corrente principale del marxismo del movimento operaio finora non è arrivata così lontano, e perciò nella sua riduzione quanto meno si è mantenuta conseguente, nella misura in cui il problema dell'astrazione reale è stato dimenticato del tutto, e la produzione e la circolazione sono state affermate, fianco a fianco, come forme, in quanto la critica si riferisce solamente all'appropriazione di classe (insieme alla concezione sociologicamente ridotta del plusvalore) ed alla "anarchia" della circolazione, nel senso di un "potere di disposizione" giuridico. In tal modo, come sostituzione del capitalismo, veniva presentata, da un lato, la pianificazione puramente esteriore dell'insieme del processo di riproduzione sotto forma di merce, già preparata in seno allo stesso capitalismo per mezzo della concentrazione di capitale, di controllo da parte del capitale finanziario e di regolamentazione statale, e, dall'altro lato, l'occupazione politica dei posti di decisione di questa stessa pianificazione attraverso la rappresentanza politica della classe del proletariato. Come il concetto critico di astrazione reale, anche il concetto di feticismo non ha alcun posto in questa comprensione ridotta.

In maniera quasi commovente per il suo candore, si è andato affermando, nella letteratura sotterranea dell'economia politica accademica del "socialismo reale", un concetto crudamente positivista e del tutto irriflesso del lavoro astratto , molto al di sotto della coscienza della problematica espressa da un Rubin; così, per esempio, e per scegliere un esempio a caso, in un tomo come "Economia politica del socialismo e la sua applicazione nella Germania Democratica" (1969), redatto da un collettivo di autori coordinato da Günter Mittag:

"Il lavoro produttore di merci dei produttori socialisti è, da un lato, il dispendio del lavoro pianificato nella sua forma utile, concreta o creatrice del valore d'uso. Dall'altro lato, vi è allo stesso tempo, dovuto alle condizioni di insieme del modo di produzione socialista, una forma generalizzata, astratta dalle sue specificità concrete, in quanto lavoro astratto, creatore di valore, cioè, sotto forma di valore. Il lavoro produttore di merci ha pertanto un doppio carattere, essendo allo stesso tempo lavoro sia concreto che astratto. Il lavoro concreto speso in forma pianificata nelle imprese al fine della produzione di merci deve sempre realizzarsi come lavoro astratto, creatore di valore, per poter svolgere la funzione di lavoro sociale... Nel socialismo, il doppio carattere del lavoro produttore di merci si distingue in maniera fondamentale da quello esistente nel capitalismo. Mentre il lavoro creatore di valore, nella produzione di merci capitalista, media la relazione di sfruttamento, essendo un anello del sistema di appropriazione capitalistica, il lavoro creatore di valore nel socialismo esprime il processo pianificato di appropriazione sociale dei produttori socialisti liberati dallo sfruttamento... La società socialista stabilisce pertanto il lavoro, speso dalle unità di produzione in regime di divisione del lavoro, come relazione mutua di dispendio di lavoro socialmente uguale. Riducendo così ogni parte della totalità del lavoro a lavoro socialmente necessario o a valore. Il lavoro concreto viene ridotto a lavoro astratto, socialmente determinato, nel realizzare il prodotto del lavoro concreto, il valore d'uso...".

Qui si passa grandiosamente a lato di ogni problematica, sia quella del lavoro astratto che quella della critica di Marx, dal momento che si tratta di una rappresentazione ideologica ormai legata all'apologetica di un processo storico sconsiderato. Il processo di astrattificazione, analizzato da Marx in maniera chiaramente negativa, viene presentato come un mezzo utile soltanto per "misurare", in maniera ottimizzata, in senso puramente tecnocratico, il dispendio sociale di risorse e, in questo modo, come un semplice "aiuto oggettivo" nella "realizzazione del valore d'uso". Questo pensiero ideologico non è neppure infastidito dal fatto di dover prima "realizzare" socialmente l'utilità (solamente astratta, nel suo concetto di valore d'uso) facendo ricorso ad un processo specifico. In fondo, si fa ricorso a niente di meno che al meccanismo della "mano invisibile" di Adam Smith, invocata da quest'argomentazione con l'unica differenza, per cui paradossalmente questa mano invisibile che, come processo di astrazione dei processi di mercato, deve coordinare la "allocazione di risorse", viene postulata come la mano visibile della pianificazione del socialismo di Stato (e proprio per questo doveva portare al suo fallimento).

La strumentalizzazione assolutamente acritica, positivista e tecnocratica del concetto marxiano di lavoro astratto che qui si manifesta - una legittimazione trasparente di  una pratica preesistente già oggettivata ed irriflessa rispetto alla sua costituzione storica - riceveva nella letteratura occidentale proveniente dal marxismo tradizionale, ma esigente in termini teorici, un fondamento ontologico assecondante. Georg Lukács ha compiuto la prodezza di formulare una "Ontologia dell'essere sociale" fondata sul "lavoro", dove al concetto di lavoro viene attribuito la consueta qualità trans-storica, nel senso di una "definizione teleologica" dell'azione in riferimento alla natura ed alla società.

Ora, è un fatto che si possa affermare (esplicitamente, da Aristotele in poi) che l'umanità si è discostata dal regno naturale ed animale per mezzo di una relazione di definizioni teleologiche (definizione degli obiettivi e dei mezzi), così come avviene, per esempio, nella famosa frase di Marx sulla differenza fra il peggior architetto e la migliore ape, secondo cui l'intero procedimento, nel caso dell'architetto, deve prima passare dalla coscienza. Lukács formula la cosa ontologicamente in modo "che uno schema mentale perviene alla realizzazione materiale, dal momento che stabilire degli obiettivi a livello di pensiero altera la realtà materiale, inserendo nella realtà qualcosa di materiale, che di fronte alla natura rappresenta qualcosa di qualitativamente e di materialmente nuovo... Non esiste alcun sviluppo immanente delle sue qualità, delle leggi e delle forze che in lui sono attive, che permetta di "dedurre" una casa dal mero essere-in-sé della pietra o del legno. Per una cosa simile, manca il potere del pensiero e della volontà umana". Tuttavia, non è in alcun modo giocoforza - né spiegato in alcun modo da Lukács, ma solo presupposto assiomaticamente - che la relazione teleologica, in quanto pratica, sia identica all'astrazione "lavoro". In questa maniera è stata ontologizzata la forma della prassi storica specifica della modernità.

E' anche per questo che Lukács estende il concetto di sostanza, in quanto sostanza del lavoro, definita chiaramente da Marx come sostanza del capitale, ad una categoria ontologica-trans-storica, che deve solo essere resa "dinamica":

"Le più recenti conoscenze sull'Essere avrebbero distrutto la concezione statica, immutabile, della sostanza; tuttavia, da questo non deriva in alcun modo la necessità della sua negazione all'interno dell'ontologia, ma piuttosto il riconoscimento del suo carattere essenzialmente dinamico. La sostanza è quello che, nell'eterna mutazione delle cose, mutando sé stessa, si preserva nella sua continuità... L'Essere dell'Essere sociale si preserva come sostanza nel processo di riproduzione..." (Georg Lukács, Ontologie des Gesellschaftlichen Seins).

E' proprio questa sostanza che viene definita come "lavoro": "Il lavoro può essere... considerato un fenomeno primordiale, come modello dell'Essere sociale" (ivi).

La specificità dell'astrazione "lavoro" come astrazione reale viene offuscata nell'ontologizzazione, apparendo oramai solo come una "astrazione razionale nel senso di Marx" (ivi). Qui Lukács non esclude nemmeno l'idea di Engels circa la "umanizzazione della scimmia per mezzo del lavoro", che può risultare involontariamente comica; il lavoro come "fenomeno primordiale" viene ontologicamente subito dopo le "forme di esistenza precedenti inorganiche ed organiche" (ivi), costituisce il linguaggio, ecc., di modo che al "farsi Uomo" corrisponda, oltre al "camminare eretto", anche la "attitudine al lavoro" (ivi). La realizzazione di questa attitudine al lavoro sarà per lui il suo vero punto di partenza "verso la formazione delle sue capacità, fra le quali non va dimenticato il dominio su sé stesso (!)" (ivi). Questo suona molto più protestante del "fenomeno primordiale", e ci ricorda involontariamente la storia - divulgata con candore borghese da Locke e Kant - secondo cui gli oranghi insisterebbero a non voler parlare perché non vogliono lavorare.

E' inevitabile che Lukács (al contrario, per esempio, di Rubin) debba ontologizzare, insieme al lavoro, anche il valore; in fin dei conti, una cosa ha come conseguenza l'altra. Pertanto, la categoria del valore viene estesa e sfuocata come avviene con la categoria del lavoro, nella misura in cui la definizione del concetto di valore, come avviene in Adam Smith ed in altri teorici dell'illuminismo del 18° secolo, si confonde sia con "criteri di valore" etico-morali che con il concetto di "utilità". Così, l'astrazione sociale del valore appare integrata in un processo ontologico della sostanza del lavoro, che rimane tale in ogni cambiamento ed è anch'esso "fenomeno primordiale":

"Soprattutto, nel valore in quanto categoria sociale, non tarda a presentarsi il fondamento elementare dell'Essere sociale, il lavoro. Il suo collegamento alle funzioni sociali del valore rivela, allo stesso tempo, sia i principi fondamentali che strutturano l'Essere sociale, i quali provengono dall'Essere naturale dell'Uomo e simultaneamente dal suo metabolismo con la natura..." (ivi).

Perciò, sarebbe essenziale che si definisse in maniera trans-storica "l'unità finale del valore come fattore reale dell'Essere sociale, fatte salve le sue mutazioni strutturali qualitative altamente significative nel corso dello sviluppo della società..." (ivi).

Anche il "valore economico" in senso stretto riceve una benedizione ontologica, come legge del valore del lavoro:

"La legge più generale, la legge del valore, è stata dimostrata da Marx, per esempio nel capitolo introduttivo della sua opera principale. Tuttavia, essa è immanente al lavoro stesso, dal momento che vi è legata, per mezzo del tempo di lavoro, al lavoro stesso come dispiegamento delle capacità umane, essendo anche perfino contenuta dove l'uomo svolge ancora lavoro utile, dove i suoi prodotti non si convertono in merci, e si mantiene implicitamente ancora in vigore dopo che è terminata la compravendita delle merci" (ivi).

Lukács dimostra qui, con particolare chiarezza, come la trasformazione storica, nella comprensione del marxismo del movimento operaio, si riferisca esclusivamente alla circolazione ed alla distribuzione. "La compravendita" può ancora non aver luogo, o essere in procinto di passare alla storia, ma il "lavoro" astratto ed il valore sono per sempre. Nell'opinione di Lukács, col socialismo

"termina la struttura di scambio delle merci, l'efficacia della legge del valore per l'individuo come consumatore. Tuttavia, va da sé che, nella produzione e nel quadro della crescita delle forze produttive, il tempo di lavoro socialmente necessario, e insieme ad esso la legge del valore come regolatrice della produzione, devono restare in vigore, inalterati" (ivi).

L'ontologizzazione della legge del valore semplicemente come "economia di tempo", però, semplicemente dimentica (dal momento che succede la stessa cosa, a volte, nello stesso Marx) che anche la qualità del tempo in quanto tale è storicamente diversa, e che esso viene distruttivamente "economizzato" solamente in senso moderno nello spazio funzionale capitalista.

Il "socialismo" in tal senso ridotto, limitato alla regolamentazione modificata delle relazioni giuridiche e di distribuzione, non trascendendo l'ontologia capitalistica, deve allora anche confermare, involontariamente la qualità sociale esplicitamente identica: "Quello che ha di speciale il capitalismo è il fatto che produce spontaneamente una produzione sociale nel senso proprio della parola; il socialismo trasforma tale spontaneità in una regolamentazione cosciente" (Lukàcs, ivi). La differenza qualitativa, che non è tale in senso stretto, si limita alla presunta transizione dalla "spontaneità" della regolamentazione ("anarchia del mercato") alla "regolamentazione cosciente", mentre il "che cosa" oggetto di questa spontaneità o regolamentazione, il contenuto sociale basilare, la "produzione sociale", viene ontologicamente elevato a "continuità dello sviluppo umano", come "sostanzialità reale del processo nella sua continuità" (ivi). Precisamente, quello che dovrebbe essere abolito senza alcuna pietà, per farla finita con la falsa ontologia capitalista, viene in questo modo dichiarato "condizione umana"; così come in generale, l'idea di una "condizione umana", di una "autenticità" antropologica che possa essere misurata e determinata nei suoi diritti, è un segno di tutto il pensiero affermativo per principio.

Con il lavoro astratto, in questo modo ontologizzato nella condizione umana, e rappresentando come insormontabile la concomitante costituzione di una "seconda natura", Lukàcs rientra nella metafisica della storia e nell'ideologia del progresso dell'illuminismo, dove lo sviluppo dell'astrazione del valore diventa di pietra e calce come se fosse una continuità meta-storica del calibro di una "necessità hegeliana": "Anche il lavoro socialmente necessario (reso ipso facto astratto) è una realtà, un momento dell'ontologia dell'Essere sociale" (ivi). Lukàcs, allo stesso tempo, rimane ben consapevole del fatto che questa storia, come ontologia "dinamizzata", è una storia di vittime: "Nel 19° secolo, milioni di artigiani indipendenti vissero l'entrata in vigore di quest'astrazione del lavoro socialmente necessario come la loro propria rovina, soffrendone così in pratica le conseguenze concrete, senza avere la minima idea di affrontare un'astrazione tradotta in fatto per mezzo del processo sociale; quest'astrazione aveva la stessa durezza ontologica della realtà fattuale di, per esempio, un'automobile che ci passa sopra" (ivi). Tuttavia, questa consapevolezza non spinge l'ontologo del lavoro alla critica sociale ed alla rottura con la falsa ontologia, ma solamente al "riconoscimento della necessità". A suo avviso, questa "durezza della realtà" comprende in sé il "progresso ontologico..., in quanto si distingue chiaramente che l'essenza dello sviluppo ontologico si trova nel progresso economico (che finisce per incarnare il destino del genere umano) e le contraddizioni sono le sue forme di apparenza ontologicamente necessarie ed oggettive" (ivi). E ora sacrificatevi al "progresso ontologico" dell'economia del lavoro e del valore, con i suoi piccoli rischi ed effetti collaterali!

Moishe Postone non si è occupato della principale opera ontologica, e tardiva, di Lukacs; ma quanto egli dice a proposito di ciò che finisce per essere l'inconsistenza delle sue opere precedenti, che argomentavano soprattutto a proposito della critica della conoscenza a partire dalle sue forme di pensiero, si applica anche alla "Ontologia dell'Essere sociale":

"L'identificazione del proletariato (o della specie) con il soggetto storico finisce per rimanere nella stessa rappresentazione, storicamente non differenziata, del ‘lavoro’, che ne fa il 'marxismo ricardiano'. Il lavoro viene definito come la fonte trans-storica della ricchezza sociale e viene considerato la sostanza del soggetto storico, cioè, quello che costituisce la società" (Postone).

Così, Lukacs si inserisce in questo "marxismo occidentale" (Perry Anderson) che, sebbene qui e là abbia graffiato la vernice del paradigma del marxismo del movimento operaio, non lo ha mai decisamente soppiantato in alcun modo. La pratica storica del "socialismo reale", che finiva per essere una modernizzazione di recupero ancora completamente dentro l'orizzonte dell'ontologia capitalistica della modernità, in questo modo, più che essere decifrata criticamente, veniva appoggiata filosoficamente.

Quanto a Lukàcs, come attenuante, si può sempre addurre che abbia scritto in un periodo nel quale questa pratica storica della modernizzazione di recupero (equivocata come trascendente) non si era ancora tuttavia esaurita, e sembrava fosse ancora incamminata verso la sua auge, attraverso una seconda ondata di movimenti di liberazione nazionale e di regimi progressisti del Sud mondiale, secondo il "modello" russo-sovietico. L'incredibile inerzia dei modelli interpretativi ideologici, al di là del loro fondarsi sulla storia reale, si evidenzia nel fatto per cui le teorizzazioni leggittimatrici di un'ontologizzazione del lavoro astratto continuano anche dopo il crollo del socialismo reale e della modernizzazione di recupero, come le unghie dei piedi dei cadaveri che continuano ancora a crescere per qualche tempo anche se il corpo nel suo complesso è già morto. Allo stesso modo, la continua elaborazione dell'ontologia del lavoro da parte di una obsoleta e demoralizzata sinistra occidentale di provenienza tradizionale, ormai non si sviluppa nella testa cerebralmente morta di una storia defunta, ma soltanto nelle estremità dei modelli alla fine della linea. La notizia della fine del suo mondo ancora non è arrivata alle unghie dei piedi ideologici.

Questa letteratura storica "delle unghie dei piedi" di un marxismo del lavoro già morto e sepolto, in quanto formazione associata ad una determinata epoca che ancora per molto tempo continuerà ad ossessionare il mondo, non di rado si presenta con alte pretese teoriche; dopo tutto, può avvalersi, contro la nuova elaborazione della teoria critica del valore e delle relativa critica dell'ontologia del lavoro, della vecchia esegesi del Marx dell'ontologia del lavoro - con l'unico inconveniente che questa ricchezza del tempo che fu nel frattempo ha assunto l'aspetto di un "bel cadavere". Questo genere di ontologia marxista del lavoro molto documentata, ma non più mediata storicamente e socialmente, è ormai un fenomeno mondiale.

In Germania, fa parte di questo lotto l'opera dell'interprete marxista di Hegel, Dieter Wolf, con cui l'elaborazione della teoria critica del valore ha già avuto, per così dire, diverse collisioni a partire dalla fine degli anni 1980. Non è a caso che il libro di Wolf, pubblicato nel 1985, fondato sull'ontologia del lavoro, "Ware und Geld (Merce e denaro)", è stato ripubblicato col titolo "Der dialektische Widerspruch im Kapital. Ein Beitrag zur marxschen Werttheorie (La contraddizione dialettica nel Capitale. Un contributo alla teoria del valore di Marx) [2002]". Questa riedizione si inserisce nel contesto di un tentativo, forse finale, da parte del marxismo accademico arrivato all'età della pensione, di dare inizio ad una sorta di controffensiva nei confronti della nuova critica del capitalismo, fatta dalla critica del valore.

Già parla da sé la forma in cui Wolf pretende di inquadrare la critica dell'economia politica di Marx nella storia delle teorie:

"Marx con la sua teoria non assume una posizione indipendente nella storia delle teorie, a partire dalla quale invalidare le teorie dei suoi predecessori. Come dimostra uno sguardo alla genesi del socialismo scientifico, si tratta innanzitutto di un movimento storico-sociale nel quale Marx, confrontandosi con le teorie precedenti e con la situazione economico-sociale anteriore, si apre la strada attraverso queste teorie in direzione del lavoro sociale come fondamento che è tanto comune quanto inconscio" (Wolf).

Marx viene inserito in un movimento di fondo della storia delle teorie che rimane all'interno dei limiti dell'ontologia capitalista. E' questo un esempio tipico di un concetto erroneo di "immanenza", per lo più implicito nelle pretese di una supposta "critica immanente". Il movimento centrifugo dall'immanenza alla trascendenza viene sviluppato all'origine; la trascendenza scompare, mentre una posizione essenzialmente immanente si fa passare per trascendente. Quello che si è già manifestato relativamente alla filosofia illuminista nella sua totalità in seno al marxismo del movimento operaio, si ripete in relazione alla teoria economica in senso più stretto: la teoria di Marx appare come la mera continuazione della costruzione di un edificio, di una sorta di pantheon della storia della riflessione moderna, alla cui costruzione avrebbero partecipato anche i suoi "predecessori", e in cui essa ha trovato il suo posto. La critica di Marx non si presenta quindi sotto la prospettiva della rottura con ogni teoria che l'ha preceduta, rottura operata in forma incipiente nel quadro del confronto immanente (e che oggi andrebbe completata), ma sotto la prospettiva della continuità nella quale presumibilmente si inserisce insieme alla teoria precedente. Sotto una tale prospettiva, Marx non "rompe", ma "continua a sviluppare". Ed il "lavoro sociale" viene assiomaticamente dichiarato il concetto essenziale di tale falsa continuità, "il fondamento tanto comune quanto inconscio", non solo alla moderna storia della continuità, ma anche alla socialità trans-storica in generale.

A partire dalla premessa ideologica di questa falsa storia della continuità viene svolta l'argomentazione leggittimatrice dell'ontologia del lavoro. In questo caso, Wolf è più esigente della superficiale letteratura tecnocratica e positivista del defunto universo scientifico del "socialismo reale", nella misura in cui tenta, come prima di lui Rubin (del resto senza che neppure venga menzionato), di procedere da un'eso-differenziazione storica del concetto di astrazione "lavoro", o del "lavoro astratto", con lo scopo di salvarlo in quanto trans-storico. Egli distingue tre livelli di astrazione. L'astrazione del lavoro nella forma della merce, come al solito dedotta nella circolazione della mera "astrazione dello scambio", viene in primo luogo distinta dall'astrazione meramente concettuale (nominale) del "lavoro", tenuta come "razionale":

"Per rendere chiaro questo, osserviamo una quantità di sedie differenti fra di loro: possiamo tenere a mente la qualità dell'essere sedia, così come la qualità generale che è comune a tutte le sedie. Qui viene preso in considerazione il fatto reale che ogni sedia, sia essa da cucina, da sala o da giardino ecc., attiene alla qualità di essere semplicemente una sedia, indipendentemente dalla sua forma concreta a fronte di un determinato tipo di utilizzo. Ciascuna sedia in particolare, così come qualsiasi lavoro in particolare, può, da un lato, essere contemplata sotto l'aspetto della particolarità in termini di contenuto e, dall'altro lato, sotto l'aspetto di una qualità generale che astrae da questa particolarità" (Dieter Wolf, ivi).

C'è qualcosa di insolito nell'equiparare l'astrazione del lavoro a quella della sedia. Ma è proprio questo a richiamare l'attenzione, a causa del suo controsenso. Gli è che nel caso delle sedie, la qualità comune cui si riferisce l'astrazione, e che la rende "razionale", è più che ovvia. Ma non è questo il caso del lavoro. Le qualità del tutto disparate delle aree di riproduzione e di vita umane, o delle possibilità umane di una "alienazione" dell'attività, non possono essere riunite sul medesimo piano, come avviene nel caso delle sedie, sotto un concetto generico qualitativo comune "razionale"; ma proprio al contrario, questa generalizzazione in sé è tutto tranne che razionale.

Wolf, inoltre, non salva l'assunto limitandolo alla trasformazione delle materie naturali: "... si tratta solo di vedere nel lavoro utile concreto, un processo di trasformazione della natura, che si materializza in un pezzo di materia cui è stata data una determinata forma" (ivi). La qualità comune dei diversi "lavori utili concreti", tuttavia, è qui definita in maniera molto generica, senza tener conto del metabolismo degli uomini con sé stessi, la loro attività nella relazione sociale che non si "materializza in un pezzo di materia cui è stata data una determinata forma" (ossia, quello che nel capitalismo appare per esempio sotto la denominazione di "prestazione di servizi personali"). Ma se includiamo le aree di attività socialmente interattive, non resta niente dell'astrazione "lavoro" tranne il fatto che si tratta di un modo di alienazione umana in generale. Tuttavia, questa qualità è talmente generica da non rappresentare un enunciato che abbia qualche senso. Soprattutto, a questo livello esagerato di astrazione, già non possono più essere distinti dall'alienazione umana, modalità come il gioco, il sogno, la contemplazione, la sessualità, il passeggiare, il piacere, ecc.. Proprio per questo, il concetto astratto di lavoro, dopo tutto, non nasce come concetto generico "razionale" di questo tipo, ma primariamente come un'astrazione sociale negativa (quello che viene fatto da uno schiavo, indipendentemente dal contenuto specifico).

Ma, proprio perché non è stato possibile stabilire alcuna generalità sociale del concetto di lavoro, di questa modalità di astrazione sociale (se non in senso meramente metaforico di negatività, di sofferenza), questo, come concetto astratto di "lavoro", appartiene unicamente al moderno sistema produttore di merci. Per la "qualità generale" delle alienazioni di energia umana, essere denominata come "lavoro" non è dovuto ad alcuna "astrazione razionale", ma ha senso solamente se questa "generalità" consiste nella capacità di dare valore; solo attraverso questa comunità sociale (negativa), le diverse attività possono essere sottomesse al concetto di lavoro, come i diversi tipi di sedia sotto il concetto di sedia. Pertanto, l'astrazione nominale è solo una conseguenza dell'astrazione reale e non è in alcun modo "razionale" in sé.

Niente affatto migliore è la situazione del secondo livello di astrazione del concetto di lavoro, che Wolf cerca per ontologizzare il lavoro astratto. Questo non conterrebbe soltanto un presunto concetto generico "razionale", secondo l'esempio della sedia, ma rappresenterebbe un concetto di pratica sociale. Wolf ricorre in questo caso alla linea di argomentazione ontologizzante di Marx stesso, che in ultima analisi serve da salvagente per Lukács e per tutta l'ontologia marxista del lavoro. Qui già non si tratta più di un mero concetto generico, di "lavoro umano astratto come qualità generale dei lavori utili concreti" (Wolf, ivi), ma della relazione sociale pratica delle diverse aree di attività con le "alienazioni" individuali e particolari.
In questo senso di regolazione sociale e di mutuo "riconoscimento", viene ora introdotto un secondo concetto di "lavoro umano astratto" in senso sociale:

"Esiste, nel contesto sociale in cui gli esseri umani spendono i loro lavori utili concreti, un processo nel quale gli stessi, astraendo dal loro carattere concreto ed utile, si riferiscono gli uni agli altri anche come umani, cioè, generali e astratti? Questo processo esiste. E consiste nella già citata distribuzione di lavoro sociale in determinate proporzioni, così come è comune a tutte le formazioni sociali. Se, a partire da questa distribuzione, è possibile determinare perché i lavori utili concreti possono anche essere riferiti gli uni agli altri come astratti e umani, allora in questo caso si tratta di una situazione astorica, comune a tutte le comunità" (ivi).

Questo, tuttavia, è un problema che non esiste nemmeno nelle società pre-moderne. Wolf confonde qui due cose completamente differenti. L'unica cosa che va da sé è che qualsiasi società implica una relazione con la natura e relazioni sociali, in quanto gli esseri umani devono assicurare la loro riproduzione attraverso delle interazioni per mangiare, bere, vestirsi, abitare, trattare gli uni con gli altri, giocare, formare un'immagine del mondo, ecc.. Da tutto questo, però, non deriva alcuna astrazione di un "dispendio di energia umana" nel senso di una regolazione di insieme. Per esempio, il fatto di sapere che bisogna seminare per poter raccogliere non implica un "sistema di contabilizzazione" sociale generale del dispendio di energia, cosa che sarebbe implicita in una generalità astratta corrispondente. Se e nella misura in cui una regolazione contabilistica del genere avviene nelle società agrarie, si riferisce invariabilmente soltanto all'astrazione sociale di una determinata attività, segnatamente ad un'attività socialmente dipendente, e in nessun modo ad una "generalità sociale"; e, in determinate società, non si riferisce, o non si riferisce principalmente, alla riproduzione della vita, bensì a finalità trascendenti (come per esempio la costruzione di piramidi nell'antico Egitto).

La questione potrebbe anche essere formulata nella seguente maniera: tutte le società pre-moderne partono implicitamente dal principio per cui, in qualche modo, c'è sempre tempo eccedente a disposizione, per cui si "ha tempo", che in nessun modo occorre collocare addizionalmente in una "relazione di scarsità" con le diverse attività o alienazioni umane in generale. Una simile idea verrebbe considerata puramente e semplicemente assurda. Qui emerge chiaramente un determinato aspetto delle differenti qualità storiche del tempo. Marx ha ripetutamente richiamato l'attenzione sull'assurdità per cui nel capitalismo è proprio l'applicazione di mezzi "per risparmiare tempo" che resta legata ad un'eterna mancanza di tempo, e simultaneamente alla trasformazione del tempo di vita in "tempo di lavoro". Il motivo è che l'economia in quanto tecnica del tempo (che, anche sul piano tecnico, spesso dev'essere apparsa ridicola e grottesca alla coscienza pre-capitalistica) viene definita da una relazione sociale che si basa sullo "eccesso" - [Masslosigkeit] (Marx) - del capitale, segnatamente nell'incorporazione eccessiva del dispendio di energia umana misurata in unità astratte di tempo.

Così, quando Wolf afferma la "relazione (sociale) mutua dei lavori utili concreti come umani astratti" (ivi), pescando inoltre direttamente in Rubin e nel suo concetto di "equiparazione sociale" (come già detto, senza nominare l'origine), nella misura in cui essa è "inclusa nella distribuzione proporzionale della totalità del lavoro a disposizione di una comunità" (ivi), Wolf sta commettendo un anacronismo. Il sistema di tributi, esazioni, ecc. vigente nelle antiche società agrarie, come espressione del dominio sociale in determinate costituzioni di feticcio, non si basava esattamente su una "contabilizzazione" così assoluta e totalitaria. Elementi di pratiche simili si incontrano solamente nei periodici lavori forzati, come per esempio nella costruzioni delle piramidi, della muraglia cinese, ecc.. In questi casi, però, invariabilmente si trattava di eventi di espressione limitata, che non coinvolgevano in nessun modo la totalità della riproduzione sociale.

La semplice idea di fare incetta della "totalità del lavoro a disposizione di una comunità" contiene già in sé senza saperlo l'eccesso capitalista ed il totalitarismo della forma del valore, così come venne storicamente idealizzato per la prima volta dal protestantesimo. Il fatto per cui le società che scommisero sulla modernizzazione di recupero, con la sua logica di pianificazione statale, abbiano sempre proceduto proprio a questa "acquisizione" [Erfassung], definendo con un tale atto, per prima cosa, la "popolazione" come "forza di lavoro collettiva" astratta, non è stato altro che la ripetizione della storia della costituzione capitalistica della "sovranità", che aveva seguito lo stesso percorso indossando un'altra maschera ideologica.

Anche se Wolf, contrariamente agli ideologhi del socialismo di Stato, si smarca facilmente dalla trasformazione del "valore in una categoria astoricamente valida" (ivi), si vede costretto, in completa sintonia con i tratti dell'ontologia del lavoro di Marx o con l'ontologia del lavoro di Lukacs, a tentare di salvare la definizione del valore come trans-storica in un determinato senso, facendo ricorso al concetto di "distribuzione proporzionale dei diversi lavori":

"Se il valore delle merci non è una categoria con validità astorica, e se non è neppure esistita in tutte le formazioni sociali, questo non esclude anche che si tratti sempre di qualcosa che è comune a tutte le formazioni sociali... Questo 'qualcosa' è... la distribuzione della totalità del tempo di lavoro che sta a disposizione di una società per i vari lavori utili concreti. Questa distribuzione viene sempre effettuata in un contesto storicamente determinato, che allo stesso tempo decide il riconoscimento sociale dei diversi lavori, ossia, decide la sua forma storicamente specifica" (ivi).

Per Wolf, quindi, il "lavoro" è storicamente differente soltanto nel senso delle differenti "forme di riconoscimento", e la forma moderna, capitalista, è determinata proprio dal mercato, cioè, dallo scambio di prodotti del lavoro in quanto merci. Il concetto di una "forma di riconoscimento" porta già in sé la possibilità del non riconoscimento, che viene ugualmente ontologizzato. Una relazione di riconoscimento e di non riconoscimento, nel venire regolata a parte per mezzo di istanze di mediazione sociale, è tuttavia un elemento basilare delle relazioni di dominio, e conseguentemente di feticcio.

Wolf ontologizza la relazione di riproduzione e di sottomissione fondamentale del lavoro astratto, ma vuole separare da essa la corrispondente relazione di mediazione del mercato, per dichiarare solo quest'ultima come caratteristica specifica del modo di produzione capitalistica:

"Così, mentre in una comunità non capitalista i lavori utili concreti sono anche reciprocamente relazionati come astratti ed umani nell'ambito della distribuzione proporzionale della totalità del lavoro, il loro carattere generale però non consiste di lavoro umano astratto, ma, in un modo che si spiega per la natura del contesto sociale, consiste di lavoro utile concreto. Così come nelle comunità non capitaliste, anche in una comunità capitalista i lavori utili concreti sono reciprocamente relazionati, nella distribuzione proporzionale della totalità del lavoro, come astratti ed umani... Qui, però, si tratta di un ruolo sociale straordinario che viene interpretato dal lavoro umano astratto soltanto in un'unica situazione sociale" (ivi).

Quello che vediamo qui non è altro che rabulistica (N.d.T.: rabulistica, attribuire cose e motivazioni mai dette) concettuale. Se in una comunità non capitalistica, il carattere socialmente generale dei lavori consiste già nel lavoro utile concreto, e non sul concetto di lavoro umano astratto, e in questo caso il concetto di lavoro come tale, che in sé rappresenta un'astrazione, non può essere applicato in senso moderno oppure, nei casi in cui non esiste in alcun modo un concetto astratto per "l'attività in generale", questo si riferisce a tutto meno che alla generalità sociale (attività degli schiavi, ecc.). Il fatto per cui tutte le forme di alienazione nella società sono alienazioni umane o sociali non abbisogna di una concettualità extra, dal momento che questo è già di per sé evidente. Se, quindi, Wolf opera con due statuti differenti di "lavoro umano astratto", dal momento che quello che viene supposto essere ontologico e trans-storico deve giocare soltanto nel capitalismo un "ruolo straordinario", in quanto l'autore non riesce ad indicare alcun "ruolo" che abbia un senso in situazioni non capitalistiche, questo dimostra solo che egli tenta a tutti i costi di introdurre di contrabbando, nella storia e nel futuro, l'astrazione specificamente moderna del lavoro.

Il suo suddividere il lavoro astratto in pretesi dati ontologici, da un lato, e fatti specificamente capitalistici, dall'altro, in uno sforzo analogo a quello di Lukacs, sono solo dei bizantinismi. Coloro che possono permettersi questo genere di rabulistica , come veri e propri giocolieri concettuali, sono i marxisti del lavoro occidentale, dal momento che non devono rispondere di un processo di riproduzione sociale reale sulla base del lavoro astratto e della forma valore, come devono fare i pensatori del socialismo reale nel sistema di riferimento della "produzione pianificata delle merci" e sotto la pressione delle contraddizioni intrinseche a questa, i quali hanno dovuto affermare abbastanza brutalmente ed apertamente la categoria nuda e cruda del lavoro astratto.

Gli ideologhi del socialismo reale non sono mai stati stupidi, ma in una certa maniera, con il loro modo di pensare affermativo, sono stati più intelligenti di quei marxisti occidentali come Wolf, che ricadono nell'ontologizzazione del lavoro astratto e conseguentemente nell'ontologizzazione della forma valore e della mediazione del mercato ("pianificato"). Gli è che entrambe le cose sono associate anche nella realtà; il mercato non è altro che la "sfera della realizzazione" del processo complessivo della valorizzazione, e in quanto tale imprescindibile. Quando Wolf dichiara solamente la mediazione del mercato nel "ruolo" specificamente capitalista di "lavoro umano astratto", ontologizzando, inversamente, la situazione basilare dell'astrazione lavoro, getta una luce meridiana su quello che egli intende per una società post-capitalistica, suppostamente emancipata.

Un sistema di lavoro astratto senza la corrispondente mediazione del mercato potrebbe essere soltanto una dittatura estremamente repressiva del processo di riconoscimento/non riconoscimento, di contabilizzazione e distribuzione, di raccolta e gestione delle persone, alla moda stalinista o magari di Pol Pot; ossia, proprio quello che i marxisti tradizionali hanno ripetutamente vaticinato come presunta conseguenza della critica del valore, per denunciarla e ripudiarla. Tuttavia, quello che è emancipatorio, è solamente il superamento del sistema del lavoro astratto nel suo insieme, ivi inclusa la mediazione del mercato; e non la mediazione cieca del mercato da sé solo (che non potrebbe essere un vero superamento, ma solo un'ingerenza esterna, statale, che rimane vincolata alla forma categoriale del valore e, insieme ad esso, del mercato).

Quindi,  è proprio la teoria che si suppone essere la più riflessa, occidentale, di una critica del lavoro astratto e del feticismo, il cui intervento tuttavia rimane assolutamente limitato alla sfera della circolazione, che ha qualcosa a che fare con l'accusa e con l'implicazione in un sistema stile Pol Pot; e non la critica del valore, che come critica radicale del lavoro si distingue proprio per il suo mettere a nudo la soggiacente relazione di riproduzione nella sua totalità e alla radice. Solo quando la si farà finita con il concetto di "lavoro umano astratto", da cui Wolf non è ossessionato, si acquisirà una prospettiva di emancipazione che indichi un cammino che vada oltre il modo di produzione capitalista, e soprattutto oltre il paradigma della "modernizzazione di recupero", che pesa come un incubo sul cervello della sinistra.


 

 

Per la critica del concetto di lavoro in Moishe Postone

E' certamente merito di Moishe Postone essere stato il primo a rompere con l'ontologia borghese del lavoro, con il concetto trans-storico del lavoro e con la positivizzazione del lavoro astratto fatta dal marxismo tradizionale, e di aver dato inizio al suo superamento; e questo è avvenuto, in parte, molto prima della critica del lavoro, così come essa è stata sviluppata a partire dalla fine degli anni 1980 dagli inizi della critica del valore di lingua tedesca. L'elaborazione teorica di Postone, con un'argomentazione simile, che risale agli anni 1970, è stata oggetto di un'ulteriore elaborazione negli anni 80, e dall'inizio degli anni 90 è stata presentata sotto una forma più avanzata (solo nel 2003, nella traduzione tedesca della sua opera principale). In Germania, la critica del valore e del lavoro è nata in gran parte indipendentemente da qualsiasi ricezione di Postone; il che costituisce un indicatore del fatto che un ulteriore sviluppo e superamento della teoria di Marx riguardo alla critica radicale del lavoro in un certo qual modo fosse nell'aria - come risposta al dibattito borghese, privo di concetti categoriali, intorno alla "crisi della società del lavoro",  dibattito che era già stato teoricamente inaugurato alla fine degli anni 1950 da Hannah Arendt, e che aveva avuto un'attualità ed un'esplosività insperata con il dispiegarsi della crisi mondiale della terza rivoluzione industriale (crescente disoccupazione strutturale di massa).

Secondo Postone,

"il lavoro dev'essere inteso come storicamente specifico e non come trans-storico. La concezione di Marx secondo la quale il lavoro costituisce il mondo sociale ed è la fonte di tutta la ricchezza, non si riferisce perciò, nella sua critica tardiva, alla società in generale, ma unicamente alla società capitalista o moderna" (Moishe Postone, Tempo, lavoro e dominio sociale).

Sotto questo aspetto, Postone rompe decisamente con il positivismo del lavoro di tutti i marxismi finora esistenti, distinguendo

"fra due processi di analisi critica fondamentalmente distinti...: una critica del capitalismo dal punto di vista del lavoro, da un lato, e una critica del lavoro nel capitalismo, dall'altro.

Il primo processo, che si basa su una comprensione trans-storica del lavoro, presuppone che fra le determinazioni che caratterizzano la vita sociale del capitalismo (per esempio, il mercato e la proprietà privata) e la sfera sociale costituita dal lavoro esista una tensione strutturale. Qui, il lavoro costituisce un fondamento della critica del capitalismo, e rappresenta un punto di vista a partire dal quale viene sviluppata la critica.

Per il secondo processo di analisi, però, il lavoro nel capitalismo è storicamente specifico, e costituisce le strutture essenziali di questa società. Pertanto, da questa prospettiva è il lavoro a dover diventare oggetto della critica della società capitalista" (Postone, ivi, p.25).

Il lavoro come punto di vista della critica o il lavoro come oggetto della critica, è questo che riassume l'opposizione, così come già accennato in precedenza. Si tratta qui proprio del lavoro come categoria o come determinazione della sostanza, e non di una critica del lavoro solo accidentale ma categorialmente affermativa, come nel caso dell'operaismo (per esempio, diretta al carattere di dipendenza esterna del lavoro salariato, alle carenti condizioni di lavoro, ecc.). E' quindi a partire da questa nuova, e negativa, determinazione della sostanza del lavoro che Postone riesce a svelare come la critica marxista preesistente del lavoro si riduca alla critica della circolazione e della distribuzione, ed a sviluppare la critica (già citata) delle corrispondenti teorie di Lukács, Sohn-Rethel, ecc.. Questo aspetto di Postone va tenuto in una considerazione tanto maggiore se consideriamo come Postone sia stato condannato per più di un decennio ad un totale isolamento; le pubblicazioni nelle quali ha ulteriormente sviluppato i suoi principi sono rimaste in gran misura senza risonanza alcuna, e perfino nelle diverse collettanee venivano considerate dei corpi estranei - senza mediazione alcuna - cui la comunità accademica (soprattutto i rappresentanti tedeschi della teoria critica) negava un dibattito adeguato, dal momento che andavano al di là del quadro della comprensione abituale. Ancora più notevole appare la perseveranza con cui Postone ha proseguito il cammino teorico ed ha continuato a sviluppare il suo principio.

Forse è a causa di questo isolamento discorsivo, durato così tanto tempo, che Postone non ha ancora pensato conseguentemente fino alla fine la critica del lavoro, vale a dire, dell'astrazione "lavoro". Se, come nella precedente citazione, parla di "lavoro nel capitalismo", allora quest'espressione implica anche un "lavoro" fuori dal capitalismo; il problema dell'astrazione - relativamente ad un concetto di "attività in generale" come alienazione umana, e dell'astrazione reale, come esecuzione inconscia della propria attività - non viene quindi chiarita a sufficienza, rimanendo così la critica, incompleta.

Nell'analisi di Postone troviamo ad ogni passo questo dilemma. Egli vuole delimitare il "lavoro nel capitalismo", presupposto come evidente e non più tematizzato, postulando che solo nel capitalismo "le categorie di base della vita sociale... sono categorie del lavoro. Questo è tutto tranne che indiscutibile, non potendo essere basato su un rimando generale all'evidente rilevanza del lavoro nella vita sociale dell'uomo" (Postone, ivi, p.50). Postone accetta, pertanto, senza alcun esame addizionale, il riferimento ad una "rilevanza del lavoro" supposta come "evidente" per la vita sociale in generale, ma non intende ritenersi soddisfatto con questo stato di cose, evidenziando il ruolo specifico del lavoro come unico principio di sintesi sociale esistente nel capitalismo. Né intende cominciare a chiedersi se abbia ancora senso un concetto generale ed astratto di lavoro al di fuori di questa moderna costituzione, e se sia mai esistito storicamente.

In questa misura anche in Postone si trova ancora un concetto doppio di astrazione lavoro, visto che tutto quello che è apparentemente non problematico rimane, come prima, una categoria trans-storica. Così Postone afferma che "la forma del lavoro e la struttura reale delle relazioni sociali sono differenti in formazioni sociali diverse" (ivi. p.55). Pertanto il capitalismo non si distingue dalle altre formazioni per il fatto che solo esso abbia prodotto la "forma lavoro" (cui si deve la corrispondente "forma soggetto", anch'essa valida soltanto per la costituzione moderna), ma  si distingue unicamente per la "forma del lavoro". Quindi, si suppone che si tratti nuovamente di una mera differenza di forma, rispetto ad uno stato di cose che nonostante tutto è ancora una volta trans-storico, ed insieme ontologico, tale e quale come lo si trova nell'argomentazione aporetica di Marx. La specificità del capitalismo consisterebbe, pertanto, secondo Postone, nella funzione di sintesi sociale del lavoro, dal momento che solo in quanto tale verrebbe inteso il "dispendio immediato di lavoro umano" (ivi, p.60) nel processo di produzione: "Questa qualità sociale - storicamente unica - distingue il lavoro nel capitalismo dal lavoro in altre società" (ivi, p.88).

Questo, chiaramente, causa una certa confusione per quanto riguarda la validità trans-storica o specificamente storica (che appartiene solo alla modernità) del concetto di lavoro astratto. Postone stesso lo intuisce, nel formulare occasionalmente il concetto di lavoro ontologico e trans-storico apparentemente non problematico, di modo che nonostante tutto, senza volere, lo problematizza: "In tutte le società esistono differenti espressioni di quello che noi abitualmente designiamo come lavoro" (ivi, p.233). Questa formulazione implica già che "noi" (gli uomini moderni socializzati nella categoria del lavoro) "abitualmente", anche, "designiamo come lavoro" in altre società qualcosa che nella realtà non corrisponde a tale astrazione. Questo diventa ancora più chiaro quando Postone parla di "attività sotto forma di lavoro" (ivi, p.233) in società non capitaliste. Questa strana espressione rende evidente lo scrupolo implicito di Postone riguardo la categoria del lavoro che egli ancora, in un certo modo, si porta dietro, secondariamente, come trans-storica; scrupolo che non ancora non è diventato esplicito.

In questo contesto, Postone torna a riferirsi ancora una volta alla relazione fra astrazione ed astrazione reale, relativamente al concetto di lavoro, rapportandosi al doppio carattere del lavoro formulato in Marx come concreto ed astratto:

"Questa definizione di partenza del doppio carattere del lavoro nel capitalismo, non dovrebbe essere slegata dal suo contesto, presupponendo per esempio che le diverse forme di lavoro concreto sono tutte soltanto forme di lavoro in generale. Una simile constatazione non ha alcun valore analitico, dal momento che può essere fatta per le attività in forma di lavoro di tutte le società, ossia, anche relativamente a quelle dove la produzione di merci è di un'importanza assolutamente marginale. Alla fine tutte le forme di lavoro hanno in comune proprio questo, il loro essere lavoro... Ciò che nel capitalismo rende generale il lavoro non è la banalità del fatto che esso costituisca il denominatore comune di tutti i diversi tipi specifici di lavoro. E' la funzione sociale del lavoro a renderlo generale. Come attività mediata socialmente, il lavoro astrae dalla specificità del suo prodotto, e quindi dalla specificità della sua forma concreta. Nell'analisi di Marx, la categoria di lavoro astratto dà espressione a questo processo di astrazione sociale. Essa non si basa su un processo di astrazione meramente concettuale" (ivi, p.235).

Sebbene qui Postone evidenzi il carattere specifico della generalità del lavoro nel capitalismo, la sola cosa che dia senso ad un simile concetto di generalità - ammette però, nonostante tutto - è l'astrazione concettuale "lavoro", nel senso di un concetto generico apparentemente semplice (il primo livello di astrazione affermativa in Wolf, vedi sopra) e razionale in sé stesso, tuttavia intendendo questo (quindi ancora, al contrario di Wolf) come "senza valore analitico" e come "banalità", per poi metterlo in opposizione con l'incompatibile astrazione capitalistica del lavoro come sintesi sociale. Postone non vede, tuttavia, che il mero concetto generico di "lavoro" è "destituito di valore analitico" proprio perché rappresenta anche un'altra cosa che non è una "banalità". Esso può sorgere come tale solo in condizioni capitalistiche, in quanto l'astrazione nella mera accezione concettuale non è altro che un riflesso mentale dell'astrazione reale, che appartiene soltanto alla modernità, e come tale non ha alcun parallelo storico.

L'ultima mancanza di chiarezza riguardo al concetto di lavoro astratto si fa sentire in Postone per quel che dice relativamente alle affermazioni di Marx a proposito di una "economia del tempo", pretesa come trans-storica, la quale conterrebbe in sé un momento della determinazione del valore che andrebbe al di là del capitalismo, e che è stato invocato con enfasi da Rubin, Lukàcs, Wolf, ecc.. Anche Postone cattura questo argomento, ma gli conferisce chiaramente un peso diverso e meno affermativo:

"L'enunciato di Marx, secondo cui i riflessi sul tempo di lavoro continuerebbero ad avere importanza in una società post-capitalista, non... significa che la forma di ricchezza avrebbe una forma temporale, anziché materiale... Di fatto, un'economia del tempo conserverebbe una certa importanza, ma probabilmente assumerebbe un carattere descrittivo... di conseguenza, la relazione fra i riflessi sul dispendio di tempo ed i riflessi sulla produzione di ricchezza potrebbe essere probabilmente assai differente da quella in cui il valore è la forma sociale della ricchezza... Le concezioni di Marx, per quanto riguarda una possibile economia del tempo post-capitalista e la sua analisi del capitalismo visto come una forma temporale di ricchezza, non sono quindi identiche, e devono essere distinte" (ivi, p.570 ss.).

Ora, quello che avviene è che lo stesso Marx insiste proprio sul non stabilire tale differenza, definendo espressamente il mantenimento di una "economia del tempo" come il mantenimento di una forma di valore, che per di più avrebbe un carattere ontologico-trans-storico. In altre parole: Marx non vede la differenza di cui sopra fra i concetti e le forme storiche del tempo; per lui si applica semplicemente il tempo continuo astratto di Newton, di Kant e dell'economia imprenditoriale moderna. La differenza che, a ragione, stabilisce Postone, in fondo vieta che si continui a dire che la "economia del tempo" manterrebbe la sua "importanza". Ma questo Postone lo sa, in quanto parla di "una" invece de "la" economia del tempo, una sorta di definizione del tempo qualitativamente differente che non sarebbe astrattamente "economica", come se il "risparmio di tempo" potesse essere un valore in sé, indipendentemente del contenuto. La comprensione di Postone entra in conflitto con la sua (poco convinta) difesa alla lettera del concetto, sia relativamente al concetto di tempo astratto che al concetto di lavoro astratto.

Questo dilemma si ripete quando tiene conto della cosiddetta "necessità", nel senso di "lavoro necessario". Marx, com'è noto, introduce tale definizione in maniera duplice, da un lato come lavoro socialmente necessario mediamente riferito al dispendio di energia umana nel capitalismo, sulla base di un determinato standard di produttività (ossia, puramente immanente al capitalismo), e dall'altro lato come la necessità trans-storica del lavoro in generale, visto come "regno della necessità", di cui rimarrebbe un residuo perfino dopo la fine del capitalismo, al di là del quale potrebbe poi nascere il "regno della libertà".

Postone non critica quest'ultima definizione, anche se in base alle sue stesse argomentazioni in fondo dovrebbe farlo, ma duplica il concetto di "necessità" del "lavoro", similmente a quello di economia del tempo, postulando che

"anche nell'osservare la relazione fra lavoro e necessità sociale bisogna distinguere fra necessità sociale trans-storica e necessità sociale storicamente determinata. Un esempio del pimo  genere di necessità è, per Marx, il fatto che una qualche forma di lavoro concreto - ossia determinata da ciò che è - è necessaria per mediare il metabolismo fra l'Uomo e la natura, e di conseguenza il mantenimento di una vita sociale umana. Una simile attività è, secondo Marx, una condizione necessaria dell'esistenza umana in tutte le forme di società... Come conseguenza del suo carattere duplice, il lavoro nella forma di merce per Marx è legato a due forme differenti di necessità, di cui una è trans-storica e l'altra è specifica del capitalismo" (ivi, p.572 s.).

Con il concetto di "necessità" relativamente al valore d'uso (il cui vincolo logico alla socializzazione del valore non viene affrontato da Postone) vediamo rientrare dalla porta di servizio un concetto di lavoro esplicitamente ontologico, che si introduce subdolamente nella discussione, con esso assolutamente incompatibile. Questo forse è dovuto al tentativo di Postone di presentare la critica del lavoro e del valore come una nuova interpretazione di un Marx coerente - per così dire, senza contraddizioni ed "intero"; un'attitudine che può portare solo all'incoerenza. E' molto più adeguato distinguere in Marx una contraddizione fra l'ontologia del lavoro, da una parte, e la critica del lavoro e del valore, dall'altra, cosa che corrisponde alla sua situazione storica.

La ricaduta nell'ontologia del lavoro diventa perfettamente chiara una volta che Postone arriva a parlare delle prospettive di una società post-capitalista. Questo, per lui, implica "anche la possibilità di un altro processo di produzione - un processo che si basi su una nuova ed emancipatrice struttura di lavoro sociale" (ivi, p.57). Qui si tratterebbe di un "lavoro non alienato, libero dalle relazioni di dominio sociali immediate ed astratte" (ivi, p.67). In questo modo, Postone a tal riguardo ricade nel gergo del vecchio movimento operaio, seppure con un'espressione paradossale: "L'emancipazione del lavoro richiede l'emancipazione dal lavoro (alienato)" (ivi, p.66). Significativamente, l'aggettivo che dovrebbe risolvere il paradosso si trova fra parentesi, non contribuendo per niente al chiarimento. Se lo omettiamo, rimane il paradosso in forma pura, che riunisce solo esteriormente due paradigmi opposti: l'emancipazione del lavoro non può equivalere all'emancipazione dal lavoro. Quello da cui gli esseri umani devono emanciparsi è già contenuto nell'astrazione "lavoro" in quanto tale, come concetto essenziale di una socializzazione negativa. Qui non si tratta, quindi, di un paradosso reale riprodotto in concetti, ma di una contraddizione concettuale nello stesso Postone (analogamente a quel che avveniva nell'aporia di Marx rispetto al concetto di lavoro).

Questa contraddizione nell'argomentazione di Postone si estende anche a quel che dice riguardo la totalità della socialità capitalistica. Da un lato, enfatizza quello che è il lavoro astratto il quale istituisce tale totalità, e che deve perciò essere "abolito" insieme ad essa. Allo stesso tempo, però, prolunga alcuni momenti di questa totalità anche al di là del capitalismo, nel cattivo senso hegeliano di un "superamento [Aufhebung]" affermativo (dove si conserva proprio l'essenza); ciò è particolarmente evidente per quanto attiene alla sfera politica, che egli a quanto pare non intende come storicamente specifica, ma ancora una volta ontologica. Invece di formulare la critica del lavoro, con coerenza logica, anche come critica della democrazia, Postone intende in questo modo procedere ad "una rinnovata critica democratica del capitalismo" (ivi, p.40) ed evoca una "democrazia post-capitalista" (ivi, p.78); una contraddizione in termini, perfettamente in linea col concetto affermativo di democrazia del marxismo tradizionale, che poi corrisponde proprio a quella limitazione del concetto di capitale alla circolazione ed alla distribuzione, che d'altra parte Postone giustamente critica.

Queste critiche non devono, né possono, tuttavia ridurre il merito di Postone, per essere stato il primo ad aprire la porta alla soppiantazione della moderna ontologia del lavoro, che anche nel marxismo tradizionale passava ancora come indiscutibile. Non è possibile sopravvalutare il valore di questo fatto che ha aperto delle nuove strade. Nonostante i momenti di ontologizzazione che ancora trascina, la differenza decisiva rispetto al marxismo del movimento operaio consiste nel fatto che Postone nega qualsiasi carattere trans-storico al lavoro nel capitalismo, perfino al lavoro concreto nel processo di produzione materiale. Dice chiaro e tondo, senza margini di dubbio, "che il lavoro che costituisce il valore non deve essere identificato con il lavoro in senso trans-storico. Al contrario, esso rappresenta una forma storicamente specifica che con la fine del capitalismo viene abolita, e non realizzata" (ivi, p.61).

Il concetto di lavoro ontologico e trans-storico che ancora rimane in Postone non è già più altro che il prodotto di una vana perplessità, lo spettro di una comprensione in linea di massima già superato; e, detto per inciso, è anche inconsistente, poiché se il "lavoro" esistesse realmente in senso trans-storico, dovrebbe esistere anche nel capitalismo - il quale in fin dei conti non esiste fuori dalla storia. O esiste un'ontologia del lavoro, o non esiste; ma non è possibile che esista prima e dopo il capitalismo, senza esistere durante il capitalismo. Questa sarebbe ancor di più una specificità storica. Se il "lavoro nel capitalismo" rappresenta una condizione puramente storica e negativa, non può esistere un "altro" lavoro trans-storico, ma quest'astrazione fa parte, come relazione sociale generale, solo della modernità produttrice di merci, e della storia della sua formazione. Anche l'astrazione puramente concettuale di "lavoro", come concetto di generalità sociale, è legata a questa relazione; il concetto in quanto concetto è un prodotto dell'astrazione reale e non dev'essere inteso come separato da essa in quanto trans-storico.

 

Il lavoro astratto ed il valore come a priori sociale

Quello che comincia a manifestarsi nel dibattito critico del valore circa l'astrazione lavoro, che viene tematizzato anche da Postone, è il problema dell'a priori reale nella costituzione sociale. Per meglio dire: il lavoro astratto è un concetto della produzione o solamente della circolazione, è il punto di partenza o solo un punto di passaggio? Qui bisogna tornare in maniera più dettagliata su questo problema - già precedentemente affrontato - della riduzione alla circolazione del concetto di lavoro astratto nel marxismo tradizionale, al fine di analizzarne le implicazioni. In fondo è strano che questo problema non si sia presentato nel marxismo del movimento operaio classico, cosa che può essere attribuita essenzialmente alla sua funzione di ideologia della modernizzazione. Il lavoro astratto si converte così, da un lato, in una definizione positivista ed irriflessa (nel socialismo reale, positivizzata ad "uso domestico", come ha fatto Günter Mittag). Dall'altro lato, viene trattato implicitamente come concetto della circolazione, il che, come sottolineato, diventa esplicito nei teorici occidentali che come Sohn-Rethel riflettono sul concetto di lavoro astratto in quanto "astrazione dello scambio" solo al di là della sfera di produzione. Lo stesso evidentemente avviene anche in Dieter Wolf: "Soltanto nello scambio i vari lavori sono relazionati gli uni con gli altri come lavoro umano astratto, di modo che questo diventi lavoro nella forma storicamente specifica" (Dieter Wolf, La contraddizione dialettica nel capitale, p.79).

Ovviamente, ciò corrisponde completamente alla suddivisione del processo di riproduzione capitalista. Da un lato, in una sfera ontologica-trans-storica del lavoro concreto e del processo di produzione materiale e, dall'altro lato, in una sfera specificamente di scambio capitalistico, o di mercato, di regolamentazione "anarchica" del mercato, dove peraltro si pretende di "liberare" la sfera ontologizzata della produzione dalla sfera specificamente capitalista della circolazione ("liberazione del lavoro"). Paradossalmente, "il lavoro" come "lavoro nella sua forma storicamente specifica", "si converte" così nel lavoro stesso, e perciò anche in tutto quello che non è dispendio effettivo di forza lavoro nel processo di produzione reale, ma che è solamente sociale, in quanto processo di scambio o atto di mercato al di fuori dal lavoro; quando addirittura non si tratta nemmeno di lavoro attivo, ma soltanto del suo riflesso feticista nei prodotti in quanto merce.

Postone ha rotto questo modello sottraendo esplicitamente il lavoro astratto alla sua mera determinazione nella circolazione, ed ha in tal modo de-ontologizzato la riproduzione capitalista nel suo complesso. Come si può facilmente capire, un simile principio non avrebbe potuto nascere soltanto dal contesto di uno sforzo di analisi critica della storia della teoria marxista, ma doveva avere come campo di riferimento il contesto del dibattito socio-ecologico degli anni 80. A quel tempo, la distruzione dei presupposti naturali della vita da parte della "esternalizzazione dei costi" dell'economia imprenditoriale si trovava in primo piano nel dibattito, ed erano in voga parole d'ordine quali "Lavorare in un altro modo, vivere in un altro modo". Questo dibattito rimaneva ancora totalmente irriflesso rispetto alla determinazione della forma sociale da parte del lavoro astratto e della logica del valore; Postone è stato il primo a voler far valere questa discussione dentro un ulteriore sviluppo della teoria di Marx, trasformata dalla critica del lavoro e del valore. Questa formulazione del problema è oggi più attuale ed urgente che mai.

Se il marxismo tradizionale ha sempre fatto derivare in maniera ridotta la dimensione sociale del processo reale di produzione capitalista - il carattere di sottomissione sociale alla sfera funzionale dell'economia imprenditoriale - dalla determinazione giuridica della proprietà, intesa soltanto in maniera superficiale e conforme alla volontà soggettiva (i mezzi di produzione non "appartengono" ai produttori), e non dall'essenza della logica stessa della produzione concreto-astratta in quanto processo di valorizzazione - cosa che corrisponde alla sua positivizzazione ed ontologizzazione della sfera di produzione che si pretende sia solo "concreta"; allora il marxismo tradizionale deve, come conseguenza, o nascondere completamente il carattere ecologicamente distruttivo del processo di produzione capitalista (come è avvenuto con alcuni ideologhi del socialismo reale e con la loro apologia dell'economia d'impresa "socialista", ugualmente distruttiva per i presupposti naturali della vita), oppure deve ridurre questo problema alla questione giuridica della proprietà intesa nella sua accezione tradizionale.

L'idea, in fondo ovvia, di sfruttare il concetto marxiano di lavoro astratto, nel senso di una critica socio-ecologica del processo di produzione capitalista anche per quel che attiene alla sua "logica di produzione materiale", è stata in questo modo bloccata. Il marxismo, con la sua tradizionale impostazione nella circolazione (anarchia del mercato), nella distribuzione (lotta per la distribuzione sotto forma di denaro) e, insieme, nella dimensione politico-giuridica intesa in modo superficiale (relazioni di proprietà, interventi dello Stato), doveva perciò trascurare la problematica socio-ecologica che aveva guadagnato attualità in seno alla società, laddove il movimento socio-ecologico, da parte sua, restava senza concetti e concretista, ossia, incapace di una critica della "sostanza del capitale"; cosa che poteva soltanto aggravarsi anziché essere superata dal fatto che i marxisti avevano fallito in materia.

Il punto decisivo consiste nel sapere se l'astrazione lavoro o l'astrazione reale possa essere conseguentemente pensata come logica di produzione, oppure se rimane ridotta alla circolazione. A questo corrisponde la questione della priorità del lavoro astratto. Essa costituisce l'apriori della riproduzione capitalista nel suo insieme, dal momento che così la sua validità viene ormai stabilita nel processo stesso di produzione "concreta"; oppure si tratta solamente di una secondaria "astrazione dello scambio"? Nella maggior parte dei casi, il marxismo tradizionale ammette implicitamente che si tratta della seconda possibilità, dal momento che è stato capace di pensare la forma capitalista di produzione industriale solo in maniera molto superficiale, e la logica di astrazione come forza distruttiva totalitaria non era ancora giunta storicamente a maturazione; e laddove la formulazione è stata esplicitata, come in Sohn-Rethel, non è arrivata ad una posizione definitiva.

Il lavoro astratto come apriori sociale o soltanto come "astrazione dello scambio", e quindi prodotto secondario della circolazione, dal momento che questa alternativa è identica a quella che si interroga sul fatto se il valore delle merci venga "prodotto" nel corso del processo della loro produzione, oppure se "sorga" solamente nella sfera della circolazione. Gli è che il lavoro astratto in quanto sostanza del capitale alla fine non è altra cosa che la "sostanza formatrice del valore", ossia, quello che costituisce il valore. A prima vista, il problema sembra essere sconcertante. Perché è evidente che il valore è prodotto dal lavoro, o no? Non è forse questo il credo solenne del marxismo del movimento operaio, il suo "punto di vista sul lavoro", la sua glorificazione del proletariato "creatore di valore"? L'ironia di tutta la questione sta nel fatto che il marxismo tradizionale si capovolge, mettendosi a testa in giù e con i piedi per aria, rispetto al suo "punto di vista", quando - sebbene affermi come produttiva la "classe creatrice di valore" - riduce allo stesso tempo l'astrazione valore alla sfera della circolazione.

Da un lato si pretende che la produzione sia determinata soltanto dal "lavoro concreto", e quindi dalla produzione di "valore d'uso", mentre si suppone che il processo di astrazione dovrebbe essere svolto secondariamente solo nella sfera della circolazione; dall'altro lato, si parla di un modo assolutamente positivo di "produzione" di valore per mezzo del "lavoro". Pertanto, da un lato abbiamo l'orgoglio dei produttori nel senso di una creazione del valore d'uso supposto come superiore all'irrisorio valore di scambio e che si sarebbe sovrapposto solo esteriormente alla logica del valore capitalista (nel senso della definizione giuridica di proprietà, intesa in maniera riduttiva); dall'altro lato, abbiamo il medesimo orgoglio dei produttori, nel senso della stessa "creazione di valore", dove è la generalità astratta capitalista ad apparire immediatamente come "dignità" del lavoro. E' significativo che il marxismo non abbia svolto una lettura di questa contraddizione flagrante. Muovendosi dentro una tale contraddizione, se così si può dire, questo pensiero riflette la totalità, o unità negativa, del lavoro astratto e concreto, ma lo fa in maniera incosciente e senza una concezione critica di questa totalità.

Tuttavia, il problema è maturato, sia in termini oggettivi, nello sviluppo storico delle forze distruttive del capitalismo, che in termini discorsivi, attraverso la formulazione del principio della critica del valore, che ormai dev'essere formulato esplicitamente anche dalla auto-apologetica del marxismo tradizionale. Così, ad esempio, il politologo berlinese Michael Heinrich, che preconizza una sorta di mistura della teoria del valore fatta da posizioni mezzo marxiste tradizionali e mezzo postmoderne, intitola espressamente il capitolo dedicato alla "oggettività fantasmatica" della forma merce, nella sua recente pubblicazione di introduzione alla critica dell'economia politica, con la domanda: "Teoria della produzione o teoria della circolazione del valore?" (Michael Heinrich, Kritik der politischen Ökonomie. Eine Einführung, Stoccarda 2004, p.51). Ed evidentemente sceglie la teoria della circolazione:

"E' quindi solo lo scambio che realizza l'astrazione che si trova alla base del lavoro astratto... Le merci non posseggono oggettività di valore in quanto oggettivizzazione del lavoro concreto, ma in quanto oggettivizzazione del lavoro astratto. Ma se, come abbiamo appena finito di abbozzare, il lavoro astratto è una relazione di validità sociale esistente soltanto nello scambio (lavoro speso a titolo privato viene considerato lavoro astratto, creatore del valore), allora anche l'oggettività del valore delle merci esiste soltanto nello scambio" (Heinrich, ivi, p.48).

Pertanto, per Heinrich, in sintonia assoluta col marxismo tradizionale, il lavoro astratto non è una relazione di produzione, ma è solo una relazione secondaria della circolazione, o "relazione di validità" in questo senso che implica che nel capitalismo l'attività produttiva reale e propriamente detta è "solo concreta", e che la "relazione di produzione" in quanto capitalista è determinata unicamente dalla questione della proprietà giuridica stabilita in forma puramente esteriore. A fronte della situazione avanzata del problema, Heinrich, nella sua delimitazione del principio della critica del valore, è orgoglioso di rappresentare un Marx pretesamente "autentico" ed "intero", opposto alla storicizzazione del "doppio Marx" della critica del valore; ma proprio a questo punto è lo stesso Marx autentico a smentire Heinrich.

Per un'argomentazione come quella svolta da Heinrich, il valore o l'oggettività del valore è identico al valore di scambio, cioè, il relazionamento reciproco delle merci dentro la relazione fra "forma relativa del valore" e "forma equivalente", dove quest'ultima "rappresenta" il valore di scambio della prima nella sua forma naturale, fino alla costituzione del denaro come la "forma equivalente generale" (la "merce a parte" che assume tale forma di rappresentazione di tutte le altre merci). Ma se il valore, l'oggettività del valore o la "forma valore", è identico al valore di scambio, in tal caso il valore si costituisce realmente soltanto nella circolazione, come "forma del valore" nel senso della relazione mutua delle merci. In questo caso il valore non "è" altro che questa relazione, e non può esistere una merce unica solitaria - i prodotti al termine del processo di produzione, per esempio quelli nel magazzino della fabbrica, non sarebbero ancora merci nel senso della forma valore, ma sarebbero i primi semplici beni d'uso, che solo attraverso la vendita sul mercato possono alla fine assumere la forma di valore, e insieme ad essa la forma di merce. Heinrich lo dice in maniera esplicita: "L'oggettività del valore non è nemmeno una qualità che una cosa possa possedere isolatamente, di per sé. La sostanza del valore che sta alla base di questa oggettività non arriva ad essere merce a titolo individuale, ma solo in comune e nello scambio" (Heinrich, ivi, p.51).

Ora, questa non è nemmeno per sogno l'argomentazione di Marx. Non è neppure un punto di visto puramente logico o "metodico", visto che in questo caso la determinazione della sostanza "valore" sarebbe identica alla forma di apparenza "valore di scambio", ossia, la sostanza e l'apparenza sarebbero immediatamente coincidenti (cosa che, del resto, è tipica del pensiero postmoderno, che proprio per questo passa sistematicamente miglia lontano dalla problematica della costituzione socio-storica). Marx, al contrario, stabilisce la differenza fra sostanza ed apparenza, nella quale differenza egli vede fondata, innanzi tutto, la necessità della riflessione teorica: "... tutta la scienza sarebbe superflua se la forma di apparenza e la sostanza delle cose fossero immediatamente coincidenti" (Karl Marx. Il Capitale, vol. III). Perciò, Marx torna sempre a far riferimento alla differenza decisiva "fra tutte le forme di apparenza ed il loro sfondo occulto. Le prime si riproducono in maniera immediatamente spontanea, come forme usuali di pensiero, l'altro dev'essere scoperto dalla scienza" (Il Capitale, vol.I).

Com'è perfettamente ovvio, Heinrich, nel far coincidere immediatamente l'essenza e l'apparenza, il valore o l'oggettività del valore al valore di scambio, si accontenta di quello che si "riproduce spontaneamente", delle "forme usuali di pensiero". Resta incollato alla forma di apparenza e perde di vista il suo "sfondo occulto", e così ad un certo punto si rivela pubblicamente come un economista marxista volgare. Marx, al contrario, riflette in maniera perfettamente chiara, per quel che riguarda il lavoro astratto ed il valore, sulla differenza riguardo la forma di apparenza del valore di scambio. Partendo innanzi tutto da quest'ultima, dimostra proprio l'impossibilità di spiegare la forma di apparenza di per sé: "Il valore di scambio appare, perciò, come qualcosa di fortuito e di puramente relativo, un valore di scambio interno, immanente alla merce... ossia, una contraddizione in termini" (Karl Marx, Il Capitale).

Nell'equiparazione delle diverse merci esistenti sul mercato, però, è implicita la loro sostanza comune, cioè, qualcosa di comune che è inerente a tutte e quindi a ciascuna di per sé, e che deve già esistere prima ancora che vengano messe in relazione le une con le altre:

"Qual è il significato di quest'equazione? Che cosa esiste, di comune e della stessa dimensione, in due cose differenti... Di modo che, entrambe siano uguali ad una terza, la quale in sé e per sé non è né l'una né l'altra. Ciascuna delle due, nella misura in cui possiede valore di scambio, deve poter essere ridotta a questa terza". Perciò, le merci come oggettività del valore "sono", già prima dello scambio, "gelatine" del "dispendio della forza lavoro umana senza cura per la forma di tale dispendio. Queste cose rappresentano solo il fatto che nella loro produzione è stata spesa forza di lavoro umana, è stato accumulato lavoro umano. In quanto cristalli di questa sostanza sociale che è loro comune, sono valori - valori di merce". Sono pertanto valori, non soltanto in quanto valori di scambio, ma come oggetti e come risultato della produzione, non solo della circolazione. Perciò, il valore ed il valore di scambio non sono immediatamente identici; il valore è determinato dalla sostanza, il valore di scambio dalla sua forma di apparenza: "L'elemento comune che si presenta nella relazione di scambio o nel valore di scambio della merce è quindi il suo valore. La continuazione dell'inchiesta ci porterà di nuovo al valore di scambio, come espressione o forma di apparenza necessaria del valore, il quale però innanzi tutto dev'essere esaminato indipendentemente da questa forma" (Karl Marx, Il Capitale).

Proprio questo, ossia, esaminare per prima cosa la "forma valore" indipendentemente dalla sua "forma di apparenza valore di scambio", è così impossibile per Michael Heinrich, come lo è per tutto il marxismo tradizionale e per tutta l'economia volgare borghese. Tutti loro considerano il valore solo in quanto valore di scambio, soltanto come un fenomeno che si verifica nella mutua relazione delle diverse merci. Marx, al contrario, dice espressamente che una simile considerazione è ridotta e sbagliata:

"Se, nell'introduzione al presente capitalo, si è detto in maniera usuale: la merce è valore d'uso e valore di scambio, questo è stato, a rigore, sbagliato. La merce è valore d'uso, o oggetto d'uso e ‘valore’. Essa si presenta come il duplicato che è, quasi che il suo valore possegga una forma di apparenza propria differente dalla forma naturale, la forma del valore di scambio, ed essa non ha mai posseduto questa forma quando viene osservata isolatamente, ma sempre soltanto in relazione al valore rispetto a, o di scambio con, una seconda merce differente. Ma, una volta che si sa questo, il relativo modo di parlare non si porta dietro alcun pregiudizio, ma serve come scorciatoia" (Karl Marx, Il Capitale).

La merce in sé, anche a titolo individuale, "è", pertanto, oggettività d'uso ed oggettività di valore; quest'ultima, però, "appare" ("si presenta") soltanto nella relazione di scambio. Ma, affinché qualcosa possa apparire o possa presentarsi, deve esistere in sé. Perciò, Marx spara di nuovo, rafforzando: "La contraddizione interna sviluppata nella merce, fra valore d'uso e valore, è pertanto rappresentata da una contraddizione esterna, cioè, dalla relazione fra due merci". Ciascuna merce individuale contiene già in sé la contraddizione interna fra valore d'uso e valore, ma questa può essere solo "rappresentata" per mezzo della contraddizione esterna della relazione fra la forma del valore relativa e la forma equivalente, nella relazione di scambio. In Heinrich, al contrario, la contraddizione interna neppure esiste, e rimane solo quella esterna; egli confonde la "rappresentazione" della cosa con la cosa stessa, l'essenza con la forma di apparenza. In questo modo, non sa o non vuole sapere quello che Marx presuppone circa la consapevolezza per cui il "modo di parlare" del valore di scambio "non trascina nessun pregiudizio"; ed è per questo che in Heinrich continua a portare pregiudizio, vale a dire la banalizzazione dell'analisi concettuale di Marx.

Il valore è l'oggettività sociale della merce, anche della merce individuale, della merce prima della - ed indipendentemente dalla - relazione di scambio secondaria, nella quale, sotto le condizioni capitalistiche, il fenomeno del valore di scambio nella forma equivalente generale del denaro è identico alla realizzazione del plusvalore, cioè, al regresso del capitale alla sua forma di denaro quantitativamente accresciuta. Il valore ed il plusvalore, però, sono già determinazioni dell'essenza della merce in quanto oggettività del valore prima di questa "realizzazione" (nella misura in cui la merce è da sempre determinata come forma specifica della ricchezza delle società capitalistiche), realtà che non cambia in niente quando tale realizzazione non avviene - il carattere del valore della merce, in tal caso, si manifesta nel fatto che viene trattata esclusivamente come un rifiuto anziché essere consumata, il che è possibile proprio solamente per il fatto che la sua essenza sociale consiste a priori nell'oggettività del valore, e non nell'oggettività della necessità.

La merce individuale è oggettività del valore, non nel senso quantitativo, contabilizzabile isolatamente, che - come si è preteso di dimostrare prima - è determinato nel medium sociale, ma in senso qualitativo, come cosa individuale sociale, come cosa del valore. Questa non è una determinazione giuridica, politica o relativa a qualche altro dominio esterno (la relazione giuridica, erroneamente interpretata come relazione di volontà soltanto soggettiva, nella comprensione del marxismo tradizionale, può apparire soltanto in maniera ridotta, come esterna), ma la determinazione dell'essenza interna della merce stessa, che arrivi o no ad essere scambiata. Proprio per questo, l'oggettività della merce è il fantasmatico, l'occulto, quel che non è immediatamente visibile nel corpo della merce, come Marx rende subito chiaro all'inizio della sua analisi della forma valore:

"L'oggettività del valore delle merci si distingue dalla signora Quickly per il fatto che non si sa dove trovarla. In diretta contrapposizione all'oggettività rozzamente sensibile dei corpi delle merci, nemmeno un atomo di materiale naturale passa nell'oggettività del valore delle merci stesse. Quindi potremo voltare e rivoltare una singola merce quanto vorremo, ma come cosa di valore rimarrà inafferrabile. Tuttavia, ricordiamoci che le merci posseggono oggettività di valore soltanto in quanto esse sono espressioni di una identica unità sociale, di lavoro umano, e che dunque la loro oggettività di valore è puramente sociale, e allora sarà ovvio che quest'ultima può presentarsi soltanto nel rapporto sociale fra merce e merce.”(Karl Marx, Il Capitale).

La merce individuale, nella sua essenza, è qualitativamente una cosa di valore, ma in quanto tale "non è palpabile" in termini sensibili. Riducendo il problema dell'oggettività del valore, a mo' di economia volgare, come "palpabilità" apparente nella "relazione sociale di una merce con un'altra", Heinrich gira intorno al carattere fantasmatico dell'oggettività della merce, rifugiandosi nella plausibilità apparente della sfera della circolazione. E' un fatto che egli avverta che così si apre una breccia nella sua argomentazione, in particolare per quel che riguarda la produzione, e sotto questo aspetto egli tenti di sfuggire all'assunto come fa un paralitico, dopo aver fatto un breve riferimento al fatto che secondo Marx il carattere del valore delle cose "è già rilevante nella loro produzione". Heinrich interpreta questo fatto nel modo seguente: "Il fatto del valore di 'essere rilevante', il fatto che il valore futuro sia desunto dai produttori, tuttavia, è diverso dal dire che il valore già esista". Con questo, però, il valore, l'oggettività del valore, viene stabilito come qualcosa di completamente esterno alla produzione, come il pensiero, meramente soggettivo, di qualcosa di "futuro" che si suppone avvenga soltanto nella sfera della circolazione.

Il Marx "autentico", da parte sua, dice proprio il contrario. Egli divide la sua analisi del processo di produzione in due sotto-capitoli, ossia, il processo di produzione come processo di lavoro e come processo di valorizzazione. Sul passaggio a quest'ultimo, dice:

"Infatti, dal momento che qui si tratta di produzione di merci, finora, evidentemente, abbiamo osservato soltanto un lato del processo. Dal momento che la stessa merce è un'unità fra valore d'uso e valore, il suo processo di produzione deve essere l'unità fra i processi di lavoro e la costituzione di valore". Lungi dal situare l'oggettività del valore solo al di là del processo di produzione, nella sua forma di apparenza della sfera della circolazione, Marx intende il processo stesso della produzione come un processo di costituzione del valore. Cosa che è oggetto di riferimento esplicito anche in un altro passaggio: "Tutto questo percorso, la trasformazione del suo (del capitalista) denaro in capitale, avviene e non avviene nella sfera della circolazione. Attraverso la mediazione della circolazione, in quanto dipende dall'acquisto di forza lavoro sul mercato delle merci. Non nella circolazione, dal momento che questa è soltanto un mero preludio al processo di valorizzazione, che si svolge nella sfera della produzione" (Karl Marx, Il Capitale).

Nella circolazione, la costituzione del valore procede soltanto nella misura in cui la circolazione svolge un ruolo "mediatore", attraverso l'acquisto di merce forza lavoro sul mercato del lavoro. La relazione tra produzione e circolazione, in ultima analisi ne è attraversata; qualsiasi produzione è preceduta da atti di circolazione e qualsiasi circolazione è preceduta da atti di produzione. La costituzione del valore come tale, però, chiaramente non avviene nella circolazione, bensì nella sfera della produzione. Il processo di produzione è un processo di costituzione di valore, e nel caso del capitalismo lo è in maniera essenziale. Il fatto che la sua "validità" quantitativa si realizzi soltanto nell'ambito di tutto il processo sociale di produzione e di circolazione (realizzazione), non cambia in niente questo fatto.

Con questa definizione di merce individuale già come oggettività del valore, e del processo di produzione come processo di costituzione di valore, non ci troviamo tuttavia davanti ad una cosiddetta "teoria premonetaria del valore" (un concetto coniato da Hans-Georg Backhaus nel dibattito sul contenuto concettuale dell'analisi della forma di valore di Marx), ossia, davanti alla presunzione di una relazione di valore precedente alla relazione del denaro ed indipendente da questa in senso storico. Com'è noto, Marx comincia esplicitamente con il concetto di merce come la forma di ricchezza nelle società capitalistiche moderne - le sue deduzioni sono essenzialmente logiche, e non storiche. Perciò il denaro è sempre già presupposto, non solo come equivalente generale, ma come forma di capitale, come fine in sé processante e come forma di realizzazione del plusvalore. Si tratta di spiegare questo, già presupposto, con dei passaggi deduttivi logici; non di dedurre la genesi storica del denaro a partire da una relazione di valore premonetaria.

E' precisamente questo il presupposto del capitale, ossia, della forma del denaro riaccoppiata a sé stessa in quanto processo di valorizzazione, che fa del processo di produzione già un processo di costituzione di valore; questo non avviene in alcun modo fuori dalla forma di riproduzione capitalista, e quindi dalla forma di denaro già pienamente sviluppata. La merce individuale è già a priori oggettività del valore, solo perché la produzione è innanzitutto un processo di valorizzazione, finalizzato unicamente alla realizzazione del plusvalore incorporato. Così come l'Uomo socializzato nel capitalismo è già sempre a priori un soggetto del denaro; indipendentemente dal fatto che venga pagata con una banconota o con un assegno, la merce prodotta in maniera capitalista è sempre già oggettività del valore. Indipendentemente dal fatto che ad un dato momento sia venduta sul mercato.

Heinrich, pertanto, non può invocare Marx in nessun modo. Però, quello che qui è in gioco non è la lettera di un'ortodossia, ma proprio la cosa in sé. E qui bisogna dar ragione a Marx, a detrimento di Heinrich: il valore viene prodotto, è una relazione di produzione, e non una mera "relazione di validità" nella circolazione (vedremo nella seconda parte di questo studio che quest'aspetto gioca un ruolo decisivo nella determinazione del lavoro astratto come relazione quantitativa, e quindi nella teoria della crisi).

Ma se il valore viene regolarmente prodotto, allora la merce già prima del suo ingresso nel mercato, vale a dire, nella circolazione, è una "oggettività del valore", ossia, una "oggettività fantasmatica", in quanto non "palpabile" come tale nella sua forma sensibile. Tuttavia, per poter comprendere il valore in generale, dobbiamo determinarlo precisamente sotto questa forma fantasmatica, che non è immediatamente palpabile, e non solo nella forma di apparenza del valore di scambio.

Avevo già tematizzato questo problema in un saggio del 1987 (Lavoro astratto e socialismo), su Marxistische Kritik 4, come "I due livelli del concetto della forma del valore", descrivendo il valore di scambio, che appare nella relazione fra due merci, ossia nella relazione fra la forma del valore relativa e la forma equivalente, come "forma di una forma": la forma sociale in sé è la forma del valore nel senso dell'oggettività del valore della merce individuale, il cui valore  è stato "prodotto" nella sfera della produzione. Questa forma essenziale, che non è "palpabile" nella merce individuale, la "forma valore", "appare" sotto la forma secondaria del valore di scambio, ed in questa misura come (apparente) "forma della forma" (della forma essenziale "valore"). Ossia, esattamente in maniera conforme alla presentazione che ne fa Marx, sebbene in Marx il problema non venga esplicitato, nel senso del confronto con in neomarxisti con un tocco postmoderno come Heinrich; forse Marx non era in grado di poter immaginare qualcosa come un economista marxista volgare.

Ora, questa definizione di "forma di una forma" appare oggi del tutto incomprensibile anche ad un marxista tradizionale anticritico del valore come Alexander Gallas: "... 'forma di una forma'?... Queste sciocchezze non sono il prodotto di una svista, ma il sintomo di un problema di peculiarità critica" (Alexander Gallas, Marx als Monist?, 2003). Una simile mancanza di concetti, che per giunta si inalbera ad anticritica, si riferisce al fatto che, tanto per i marxisti tradizionali quanto per i neomarxisti (soprattutto per quelli con un simile arricchimento postmoderno), molto diversamente da Marx, non esiste differenza tra forma di sostanza e forma di apparenza, fra valore e valore di scambio; essi rimangono attaccati alla superficie del concetto circolatorio del valore di scambio, dal momento che non vogliono intendere il concetto di lavoro astratto come apriori del processo di riproduzione, ma soltanto come una secondaria "astrazione dello scambio".

Il lavoro astratto è precisamente un prius, non solo nel senso di essere precedente all'astrazione dello scambio che appare nella circolazione, come momento dello stesso processo di produzione nel senso di un processo reale di costituzione del valore, ossia, non solo come priorità di una determinata sfera particolare, quella della produzione, a fronte di un altra sfera particolare, della circolazione. Al contrario, la determinazione come apriori sociale del lavoro astratto è una determinazione della totalità (qui, totalità designa la riproduzione determinata dalla forma capitalista come un tutto in senso più ristretto, che non è tuttavia identico alla riproduzione totale reale, la quale include anche sempre altri momenti dissociati). Questo significa che il lavoro astratto si estende a tutto il processo di riproduzione capitalista, come forza motrice dell'astrazione del valore. Quello che "appare" nel valore di scambio della sfera della circolazione, è l'oggettività pre-processata del valore delle merci, in cui si manifesta il lavoro astratto, che definisce il processo di produzione stesso. Lavoro astratto ed oggettività del valore non sono altro che diversi stadi di aggregazione dell'unica e stessa astrazione reale, in cui si muovono il processo di riproduzione determinato dalla forma capitalista e la sua storia; di cui il valore di scambio è la forma di apparenza quotidiana, apparentemente senza storia.


 

 

Che cosa è astratto e cosa è reale nel lavoro astratto?

 Evidentemente, i marxisti tradizionali, nella discussione con la critica del valore, hanno percepito che tuttavia in questa c'è qualcosa, ed hanno capito che con la sua concettualità potrebbe essere facilmente dimostrato un limite della critica del capitalismo alla sfera della circolazione, quando invece avevano sempre ritenuto di avere una concezione chiara del capitalismo in quanto "relazione di produzione". Nella loro afflizione, hanno tentato ancora una volta di nascondersi dietro il "Marx marxista del movimento operaio", ossia, il Marx ontologico del lavoro, imbarazzato all'interno di un'aporia. Gallas, ad esempio, cerca di evitare la critica dell'ontologia del lavoro procedendo ad una parafrasi, secondo la quale dichiara che seppure esiste la dimensione trans-storica, "antropologica" del lavoro, tale dimensione non renderebbe affatto ontologicamente positivo il processo di produzione capitalista, diversamente da come avverrebbe invece con la sfera della circolazione. Una tale ipotesi si rivelerebbe

"ingiustificata a fronte dell'esistenza di un Marx che nel 'Capitale' pensa - per quanto riguarda il concetto di lavoro - secondo dimensioni che sono insieme sia trans-storiche che storicamente specifiche. Questo Marx distingue fra la 'forma sociale' ed il 'contenuto materiale' - cioè, antropologico - dei fenomeni della convivenza umana. Così egli osserva che 'il lavoro... è una condizione esistenziale dell'Uomo, indipendentemente da tutte le forme di società' per poi metterne in evidenza la sua specificità nel capitalismo: 'L'operaio lavora sotto il controllo del capitalista, al quale il suo lavoro appartiene'. Con questo, Marx dimostra l'integrazione funzionale fra realtà naturali e relazioni dovute ai contesti storici: la produzione nel capitalismo ha anche una funzione antropologica..." (Gallas, ivi).

Secondo Gallas, la critica del valore qui mescolerebbe mele e arance, assumendo che la posizione tradizionale, quella che attribuisce uno statuto antropologico al lavoro, ha

"una comprensione dualistica dell'oggetto. Questo, tuttavia, non è compatibile con il succitato concetto del lavoro di Marx. La forma capitalista ed il contenuto antropologico del lavoro, secondo loro, non esistono indipendentemente l'uno dall'altro. In questo caso, però, viene escluso che il lavoro ed il capitale siano percepiti come principi strutturali sociali mutuamente contraddittori" (Gallas, ivi).

Ragion per cui sarebbe scorretta l'opinione dei critici del valore, opinione "secondo la quale negli attacchi ad una comprensione dualistica dell'oggetto verrebbero coinvolte tutte quelle forme di critica dell'economia politica il cui concetto di lavoro non corrisponda a quello preconizzato dalla critica del valore" (ivi); in questo avremmo costruito "uno spaventapasseri chiamato 'marxismo tradizionale'..." (ivi).

Pertanto, secondo Gallas, possiamo avere un concetto ontologico e trans-storico, o "antropologico", del lavoro, eppure intendere ancora, insieme a Marx, il "lavoro nel capitalismo" come "storicamente specifico"; gli elementi "antropologico" e storicamente specifico, devono semplicemente essere "pensati insieme" incrociandoli. Eppure questo tuttavia non sarebbe in alcun modo una "comprensione dualistica dell'oggetto", nel senso di un'ontologia della produzione o del lavoro concreto, da un lato, e di una specificità storica della circolazione o del lavoro astratto, dall'altro.

Ora avviene che, in primo luogo, è già stato dimostrato che non solo c'è un marxismo del movimento operaio di provenienza molto grossolana, ad esempio quello socialdemocratico o leninista, che si riferisce ad una tale comprensione "dualistica", ma proprio lo stesso avviene anche con l'esigente marxismo occidentale, e perfino con accademici marxisti attuali come Heinrich, con la sua esplicita teoria della circolazione del lavoro astratto e del valore. In secondo luogo, anche l'argomentazione dello stesso Gallas, con cui tenta di giustificare una comprensione non dualistica dell'ontologia del lavoro, e della specificità storica, rappresenta in gran parte la prova del contrario. Gli è che, se Gallas dice che Marx distingue fra "forma sociale" e "contenuto" "materiale" - cioè, antropologico - dei "fenomeni di convivenza umana", alla fine ci troviamo proprio davanti a questo dualismo, in quanto se il contenuto materiale della produzione e della riproduzione è "antropologico", allora il momento storicamente specifico della "forma sociale" può riferirsi solamente al modo di distribuzione e alla sfera della circolazione.

L'unica cosa che Gallas in riferimento a Marx, di fatto indica come caratteristica storicamente specifica della produzione stessa, è il riferimento al fatto per cui l'operaio deve "lavorare sotto il controllo del capitalista", al quale "il suo lavoro appartiene". Ma proprio con questo egli non indica una qualche logica interna della produzione materiale stessa, ma soltanto una relazione di dominio retta dalla volontà soggettiva e dall'appropriazione giuridica intesa in maniera meramente esteriore. Vale a dire, tutto come al solito; il supposto attraversamento non dualistico dei momenti "antropologici" da parte di altri momenti specificamente storici, nel processo di produzione stesso, si dissolve nell'aria, e quel che rimane è proprio questa comprensione "dualistica" di un dominio di classe capitalista, mediato solo esteriormente e soggettivamente - in questo senso ridotto giuridico e circolatorio, alla "eterna" e valutata positivamente produzione materiale - dal "contenuto materiale". Si tratta quindi di pubblicità ingannevole quando, con una comprensione assai ridotta, si fa conto che tutto questo implichi una critica del lavoro nel senso di una relazione storicamente specifica.

In questo senso, del resto è anche tipico dell'operaismo, che slega del tutto le caratteristiche specificamente capitaliste del lavoro dalla determinazione della forma astratta e dalla feticizzazione, per legarle, in maniera estremamente ridotta, alla pura e semplice relazione di volontà di una pretesa di controllo meramente esteriore da parte della "classe dei capitalisti"; e quest'attitudine arriva fino alla revoca totale della critica dell'economia politica, a beneficio di una relazione di dominio, che si pretende essere solo "politica", sulla produzione (cosa che è soprattutto evidente in Antonio Negri).

Naturalmente, ora si pone la questione circa quale modo di lavoro astratto si manifesti nella pratica come apriori sociale del processo di produzione. Nel processo di scambio è l'astrazione del carattere sensibile e materiale delle merci, il loro trattamento pratico come cose di valore nella compravendita, non come astrazione meramente concettuale, ma come azione sociale pratica che perfeziona l'astrazione reale. Ora, come si presenta questa astrazione reale nel processo di produzione? Alla fine, qui non sembra esistere altro che il lavoro concreto, la trasformazione programmata di sostanze naturali; tuttavia, come già dimostrato, il concetto è paradossale ed è una contraddizione in sé.

In questo contesto materiale e sensibile, Marx parla della "forma" del lavoro come lavoro del falegname o del tessitore. Ma questa forma riferita alla materia, è un'altra cosa rispetto alla forma sociale. Il lavoro concreto come "forma", ad esempio, del lavoro di un falegname, si riferisce alla fabbricazione di  mobili in legno. Ma la forma sociale del lavoro è, in tale contesto, forma astratta, cioè, il lavoro speso nella forma concreta e riferito alla materia, in quanto lavoro del falegname, è socialmente valido soltanto in quanto si tratta di una determinata massa di lavoro astratto, di energia umana in generale (di "nervo, muscolo e cervello"). Questa "validità", però, non si trova solamente nella circolazione, essendo decisiva anche come determinazione globale del processo produttivo stesso; e non si tratta nemmeno di una mera "validità" nel senso di una percezione formale (come avviene nella circolazione), ma di un marchio pratico.

Il fantasmatico dell'oggettività del valore, lo si trova già nel processo della sua produzione, come fantasmagoria dello stesso processo di produzione. Così come nella merce finita, la sua oggettività di valore non è ancora "palpabile" in maniera immediata e sensibile, in quanto è una determinazione della forma sociale ed astratta, anche nel processo di produzione come tale la sua funzione di processo di costituzione di valore non è "palpabile" in maniera immediata e sensibile, per lo meno non lo è a prima vista, tanto meno da un individuo socializzato all'interno di questa forma sociale. "Ha" apparentemente solo il lavoro concreto, la trasformazione della materia, determinata in termini materiali e sensibili. Ma questo non è ciò che appare essere, dal momento che è soltanto espressione, o forma di apparenza, di qualcosa di differente. Si tratta qui essenzialmente non di fabbricazione di mobili con la finalità di arredamento, ma di costituzione di valore con la finalità di valorizzazione.

In tal misura, nel processo di produzione, il lavoro non "è valido" come quello che appare essere - nella fattispecie un processo concreto di fabbricazione di mobili - ma come un dispendio di forza lavoro astratto puro e semplice, un processo di dispendio di nervo, muscolo e cervello (per un'ottimizzazione economico-imprenditoriale). Questo è un punto di vista ben pratico, che interessa tutto il modo di organizzazione della produzione e che finisce per dominarla. Ed è anche per questo che i criteri operazionali ed il regolamento economico imprenditoriale sono astratti ed universali, completamente indipendenti dal contenuto concreto della produzione. In nome della determinazione della forma sociale astratta (valore) si astrae anche nella pratica della forma concreta del processo di produzione, nel senso del contenuto materiale (contenuto della produzione di mobili = "lavoro" sotto forma di falegnameria, ecc.). La cosa concreta, la falegnameria, nella pratica vale in quanto "lavoro", in quanto mera espressione del dispendio puro e semplice di energia umana. E quest'astrazione reale tinge sia la trasformazione della materia in termini concreti, sia il suo risultato, e lo fa in maniera distruttiva.

Nel capitale, come già mostrato sopra, la relazione fra l'astratto ed il concreto si ritrova capovolta, con i piedi per aria; il concreto, il mondo reale sensibile, variato, viene ad essere solo una forma di apparenza dell'astratto, nella fattispecie, della determinazione dell'essenza totalitaria ed unica del valore. Di qualunque cosa si tratti, è sempre valore - o è destinato a rivelarsi tale. Agli occhi del soggetto della valorizzazione, l'Uomo e la natura appaiono soltanto come oggetti della valorizzazione, ed è questo che determina l'azione pratica. Il lavoro concreto ed il lavoro astratto sono precisamente il medesimo lavoro, riuniti nell'astrazione "lavoro" in quanto astrazione reale: "Tutto il lavoro è, da una parte, dispendio di forza lavoro umana nel senso fisiologico, e questa qualità del lavoro umano uguale al lavoro umano astratto costituisce il valore della merce. Tutto il lavoro è, d'altra parte, dispendio di forza lavoro umana nella forma specifica della finalità definita, e questa qualità del lavoro utile concreto produce valore d'uso." (Marx). Tuttavia, in primo luogo, "tutto il lavoro" qui si riferisce soltanto al lavoro moderno, che si svolge nei modi del capitalismo, e non a "tutto il lavoro" in senso trans-storico (come risulta chiaramente dal contesto in Marx). E, in secondo luogo, il "da un lato - dall'altro lato" non sono per niente equilibrati. Il lato concreto non solo non può essere separato dal lato astratto, ma gli è subordinato. Detto in altre parole: il valore d'uso è soltanto una forma di rappresentazione, o forma di apparenza, del valore; il lavoro concreto è solamente una forma di rappresentazione, o forma di apparenza, del lavoro astratto. Ciò che è comprensivo è l'astrazione "lavoro" in quanto astrazione reale (e, per sottolinearlo ancora una volta, è soltanto nel contesto di tale relazione reale che l'astrazione nominale concettuale "lavoro" assume in qualche modo senso, in quanto concetto di una generalità sociale).

Il lavoro concreto, per la sua essenza sociale in fondo "è" lavoro astratto, sebbene non sia immediatamente "palpabile" in quanto tale, così come la forma sensibile della merce è autenticamente l'oggettività del valore, anche se, ugualmente, nell'immediato non è "palpabile" in quanto tale. Questo concetto di "non palpabilità", tuttavia, non designa niente più che l'apparenza in quanto apparenza; così alla fine si tratta ancora, e attraverso la sua mediazione, di "registrare" per mezzo dello sforzo dell'analisi, decifrandolo, quello che rimane occulto nel fondo delle cose. Tuttavia, ciò è valido non solo nel senso di una ricostruzione teorica, ma, allo stesso tempo, come denominazione di un fatto realmente vissuto, realizzato in termini pratici, il cui carattere però non si manifesta nell'immediato. La critica come conseguenza dell'analisi non è altro che la determinazione cosciente di chi ha vissuto molto nella realtà ed ha esperito in termini pratici, e che ora attraverso la riflessione si è immerso in una luce rivelatrice, nella quale diventano visibili le sue mediazioni.

Ora, in che cosa consistono le mediazioni pratiche, nelle quali il lavoro concreto può essere decifrato come mera forma di apparenza del lavoro astratto? Si tratta dello spazio in cui si svolge il processo di produzione. Così come nella produzione ci troviamo apparentemente davanti a dei processi perfettamente innocenti di trasformazione della materia, anche nel caso di questo spazio, ad esempio un capannone di una fabbrica, apparentemente ci confrontiamo con un edificio funzionale perfettamente innocente. Ma lo spazio di produzione non è solo materiale nel senso dell'edificio funzionale, ma è uno spazio sociale, il cui carattere è altrettanto poco "palpabile" che l'oggettività del valore.

Lo spazio sociale della produzione capitalista è lo spazio funzionale dell'economia imprenditoriale, un luogo sociale specifico, che non è determinato essenzialmente dalla sua forma materiale, bensì dalla sua funzione sociale, in quanto spazio di valorizzazione del valore (da questo deriva la sua forma materiale, e non il contrario). La determinazione funzionale di questo spazio "astrae" da tutte le altre realizzazioni della vita, e da tutte le altre necessità esteriori, la determinazione economica di essere un locale destinato alla realizzazione del processo di costituzione del valore; ed in questa misura un tale spazio costituisce una parte integrante dell'astrazione reale. Si tratta di uno spazio totalmente "svincolato" [heräusgelost] da ogni processo di vita, più o meno nel senso in cui Karl Polanyi parla, con un termine ben scelto, di una "economia svincolata" (anche se questo viene fatto in parte con un'altra connotazione, e non riferito al problema del lavoro astratto).

Questo "svincolamento" è stato anche un processo storico, strettamente legato alla rivoluzione militare dei primordi della modernizzazione, all'innovazione delle armi da fuoco ed al conseguente "svincolamento" della macchina militare rispetto alla società (eserciti permanenti, assolutismo, Stato burocratico unificato, ecc.), che a sua volta ha portato con sé la fame insaziabile di denaro dei primi regimi dispotici militari basati sulle armi da fuoco, la monetizzazione delle tasse feudali, ed infine, dopo essere passati per vari gradi intermedi (manifatture statali, industrie agrarie basate su manodopera schiava, ecc.), la trasformazione della popolazione in una massa omogenea di materiale della valorizzazione del lavoro astratto (tale "totalità della forza lavoro nazionale" è stata anch'essa ontologizzata e positivizzata dai marxisti, nel contesto della modernizzazione di recupero). La storia del disciplinamento inerente a tutto questo, attraverso le case di lavoro, case di correzione e manicomi, o attraverso dei "campi" - descritto ad esempio da Marx nel capitolo dedicato alla "accumulazione primitiva", oppure negli scritti di Foucault ed Agamben - si inquadra nella costituzione dello spazio funzionale svincolato dall'economia d'impresa.

Quello che dice Marx rispetto al denaro si applica anche alla costituzione di questo spazio svincolato: "Il movimento mediatore sparisce nel suo stesso risultato e non lascia traccia". L'Uomo moderno incontra lo spazio retto dall'economia di impresa come una forma finita, il cui carattere svincolato avverte, ma non sa denominare. E' lo spazio in cui, come dice il giovane Marx, "non è in sé, ma è fuori di sé"; e non nel senso esteriore e giuridico del concetto di proprietà, ma per la funzionalità specifica di questo spazio ai fini del processo di costituzione del valore. La separazione della produzione da tutte le altre aree della vita (per esempio la residenza, la vita coniugale, l'educazione dei figli, il gioco, la cultura, ecc.) non è in alcun modo dovuta al fatto che si tratta di una produzione non destinata al proprio consumo, bensì a quello degli altri, ossia alla produzione sociale. La dissoluzione del contesto di vita inclusa nella produzione non è dovuta alla produzione sociale in quanto tale, ma al passaggio alla valorizzazione del valore. Soltanto l'usurpazione dello spazio sociale, compiuta dall'astrazione del valore e dal valore astratto, ha creato lo spazio funzionale svincolato dell'economia d'impresa come uno spazio sociale fantasmatico, al di là di ogni e qualsiasi socialità.

Nel suo essere costituito come spazio funzionale astratto, svincolato, il lavoro astratto presenta anche una connotazione sessuale. La dissociazione [Abspaltung] di tutte le altre aree della vita, e di ogni momento di relazionamento (affetto personale, sentimenti, ecc.), dalla produzione in quanto processo di costituzione del valore e della valorizzazione, connota come "femminile" ogni momento dissociato della natura che dev'essere plasmata [Zurichtung] dall'economia di impresa, cosa che ha portato a definire le attribuzioni e le "competenze" corrispondenti delle donne. L'astrazione reale del lavoro astratto nel processo di produzione si trova pertanto legata alla dissociazione dal femminile, in maniera essenziale, e non accidentale. Ciò corrisponde anche alle radici storiche del lavoro astratto, nella fattispecie all'incrociarsi della "economia svincolata" con la "svincolata" macchina militare basata sulle armi da fuoco, nel processo primordiale di costituzione della modernità.

Il lavoro astratto viene definito come di per sé strutturalmente maschile, anche se fin dall'inizio è esistita un'innegabile partecipazione delle donne al processo di produzione. Il fatto per cui le donne hanno sistematicamente ricevuto salari peggiori, raggiungendo posizioni di comando soltanto in casi estremamente rari, dove viene loro richiesto, per essere riconosciute, di dare molto più "rendimento" di quanto ne diano gli uomini, ecc., tutti questi fatti, che in media si verificano ancora oggi, non possono essere messi sul piano delle manifestazioni storiche ed empiriche, né magari dichiarati mere sopravvivenze delle relazioni premoderne, oppure come un loro ritorno soggettivo e regressivo, ma sono espressione della relazione di dissociazione, come marchio essenziale dello stesso lavoro astratto e del suo spazio funzionale di economia di impresa.

L'opinione contraria, che interpreta erroneamente la relazione fra dissociazione ed asimmetria sessuale nella modernità come mero momento storico ed empirico con tendenza a sparire, in fondo è associata all'interpretazione erronea che vede l'astrazione reale come mera "astrazione di scambio", che tanto per cambiare si presenta immediatamente come una relazione positiva e progressista. Gli è che, in effetti, nella circolazione osservata di per sé non esiste la dissociazione come momento dell'astrazione reale; qui conta soltanto la solvibilità, senza alcun riguardo al sesso, all'età, al colore della pelle, ecc.. La circolazione è perciò, e com'è noto, l'eldorado dell'ideologia borghese del progresso e della libertà, sebbene implichi la concorrenza e la disumanizzazione dei non solvibili. Ma anche la concorrenza di sterminio e la disumanizzazione dei perdenti vengono eseguite secondo la specificità della sfera della circolazione sotto la forma di un universalismo astratto: senza chiasso, senza riguardo per la persona e con un "riconoscimento" educato, nel senso dell'uguaglianza di diritti fra i proprietari di merci. Le persone incapaci di concorrere, o di pagare, per la logica della circolazione nemmeno esistono! E anche qui si misura l'apparente scomparsa della determinazione sessuale.

Ma è evidente che la sfera della circolazione e del diritto non può essere osservata di per sé, ed in tal senso la libertà astratta che qui è in vigore è mera apparenza in senso duplice: in primo luogo, essa ha come base le determinazioni repressive dell'attività riproduttiva, nel metabolismo della società con la natura e con sé stessa; e, in secondo luogo, in tal modo, anche nell'ambito circolatorio, è "libertà" solo in senso orwelliano, espressamente come relazione auto-repressiva, come auto-soggezione formale alla logica del lavoro astratto. Vista in connessione con il lavoro astratto della sfera produttiva, con le sue rispettive determinazioni in materia di sesso e di soggezione, e dal punto di vista della totalità del processo, la sfera della circolazione, con la sua "astrazione dello scambio", è essa stessa qualcosa di completamente diverso di quel che appare quando viene osservata in sé - in modo superficiale ed isolato - in quanto in termini oggettivi è espressamente la sfera della realizzazione del plusvalore e, in termini soggettivi, è la sfera di esecuzione delle relazioni di coazione sul piano formale delle condizioni di relazionamento borghese.

Sotto quest'aspetto si assiste ad un'altra contraddizione palese del marxismo tradizionale: da un lato, tale marxismo riduce la relazione storicamente specifica del capitale alla relazione nella sfera della circolazione (mediazione del mercato), riduce il lavoro astratto ad una mera "astrazione di scambio", la relazione di dominio ad una relazione di distribuzione delle merci e la "relazione di produzione" ad un concetto giuridico esterno della proprietà. Di modo che, pertanto, basterebbe abolire la sfera della circolazione o la "astrazione di scambio" come forma di mediazione specificamente capitalista. Dall'altro lato, invoca, evocando espressamente la "eredità dell'illuminismo", l'idealismo della sfera della circolazione, dal quale nasce il postulato dell'uguaglianza, che dovrà essere in qualche modo (forse per mezzo della "democratizzazione") essere esteso alla produzione. Quest'aporia si trova del resto, in maniera assai marcata, in Adorno, che su questo punto rimane del tutto prigioniero del modo di pensare del marxismo tradizionale.

Ciò che qui fondamentalmente sfugge è il nesso interno all'astrazione reale, in quanto relazione di mediazione del lavoro astratto nel processo di produzione, e la sua realizzazione, o "rappresentazione", come forma del valore, o "astrazione di scambio", nel processo di circolazione, includendo le determinazioni giuridiche concomitanti di una "individualità astratta" apparentemente asessuata. Una cosa condiziona l'altra. Per cui, né può essere abolita la circolazione senza che si abolisca il lavoro astratto come logica di produzione, né, inversamente, l'ideale uguaglianza formale dei soggetti astratti può essere estesa dalla circolazione alla produzione e alla riproduzione, in quanto qui lo stesso processo di astrazione reale si presenta necessariamente in un altro modo, cioè espressamente e con connotazioni sessuali, come comando sulla forza lavoro; e la stessa cosa si applica - estendendosi dalla sfera funzionale dell'economia imprenditoriale "svincolata" a tutte le istituzioni sociali dell'insieme della struttura della socializzazione del valore - fino all'interno del mondo della vita quotidiana.

Tutto è perfettamente simile al caso del soldato come persona civile (il che corrisponde anche alla radice storica della "economia svincolata"): quest'ultima figura è un soggetto del diritto e della circolazione, libero come tutti gli altri; per prima cosa, però, è oggetto del comando, è parte di una macchina, soggetto assassino e, se deve esserlo, carne da cannone. Ed il carattere strutturalmente maschile di tutta l'organizzazione qui è solamente più marcato, con molte meno donne rispetto al processo di produzione, per non parlare delle posizioni di comando (solamente funzionali), ecc. L'esempio, che rimanda alla storia della costituzione, dimostra, allo stesso tempo, il poco senso che avrebbe il rivendicare, ad esempio anche sotto l'aspetto sessuale, l'uguaglianza astratta della sfera della circolazione anche per le altre sfere della riproduzione capitalista (perfino per le forze armate). Una tale intenzione non può avere in sé niente di emancipatorio; prima si deve trattare del superamento della totalità della relazione composta da lavoro astratto, dissociazione sessuale e circolazione.

Il carattere fantasmatico dello spazio svincolato dell'economia imprenditoriale, in quanto sfera funzionale realmente astratta situata al di là del contesto della vita rimanente, è stato spesso avvertito e deplorato; e ripetutamente sono stati intrapresi tentativi, tanto nella storia dei sindacati quanto in quella del movimento sociale-ecologico più recente, di rinnovare il contesto della vita perduta, attraverso la propagazione di un'unità fra "vita e lavoro" o (in senso più stretto) fra "abitazione e produzione", ecc.. Ma tali idee sono rimaste senza concetto riguardo al contesto della forma soggiacente del lavoro astratto e del valore. L'integrazione nel mondo della vita deve avvenire sulla base delle categorie non discusse della socializzazione del valore, ivi inclusa la circolazione; uno sforzo condannato in partenza al fallimento.

Lo stesso vale per i tentativi fatti "dall'alto", attraverso iniziative di politiche aziendali o della burocrazia statale, nel senso di introdurli di soppiatto, per motivi ideologici o disciplinari, oppure accoppiando altri momenti del mondo della vita allo spazio funzionale dell'economia di impresa. Nella storia delle grandi imprese, è nota l'istituzionalizzazione delle "comunità d'impresa", attraverso le quali si tentava, per mezzo di alloggi sociali, giardini d'infanzia, circoli ricreativi interni, ecc., di vincolare in termini di mondo della vita, ed in termini identitari, un corpo privilegiato di operai, in quanto quadri d'impresa, al rispettivo marchio e contribuire così alla loro motivazione. Se lasciamo da parte il carattere funzionalista di questo tipo di misure, nel senso di un orientamento ancora più intenso verso il processo di produzione realmente astratto e verso la corrispondente estorsione  di rendimento, vediamo che tali misure si sono sempre rivelate come marginali e transitorie; istituzioni del genere, in tempo di crisi, hanno sempre sofferto di una decadenza drammatica, ed oggi, nell'ambito della razionalizzazione delle risorse e nell'ambito della globalizzazione, sono destinate alla scomparsa anche in termini strutturali (un caso esemplare a questo proposito è il conglomerato Siemens in Germania).

La stessa cosa si applica alle comunità d'impresa del "socialismo reale" che hanno proliferato sotto il manto protettore della burocrazia di Stato, e nelle quali l'integrazione di momenti del mondo della vita è stata essenzialmente più forte e più profondamente radicata; e questo è avvenuto anche guadagnando qualità della vita ed autodeterminazione nei confronti dell'Occidente, sebbene messe in ombra dall'arroganza burocratica. Ma sono stati proprio questi momenti di emancipazione, di breccia nello spazio funzionale astratto dell'economia d'impresa, ad entrare in conflitto con la base reale del lavoro astratto, finendo per portare al fallimento indotto dalla manutenzione della valorizzazione del valore. In fin dei conti, questi momenti di integrazione non erano consapevolmente concepiti come contro-mediazioni per il superamento del lavoro astratto, ma erano al contrario subordinati alla sua affermazione; si trattava, pertanto, di mere forme di nicchia, sotto le condizioni di un sistema volto alla modernizzazione recuperatrice, dove la regolamentazione dei processi di mercato per mezzo della burocrazia statale (che finirà per non essere più praticabile) aprirà involontariamente, in parte, lo spazio funzionale dell'economia di impresa, e gli conferirà in parte la carica ideologica di un territorio del mondo della vita.

Dal fallimento di tutto questo sono derivate conseguenze, non nel senso di chiedere conto della responsabilità del lavoro astratto per trovare una prospettiva che porti al suo superamento, ma al contrario nel senso di rendere compatibile lo spazio funzionale dell'economia di impresa con la sua definizione logica, anche in termini pratici, e di "depurarlo" di tutti i momenti del mondo della vita in tal senso disfunzionali.

Mentre il lavoro astratto costituisce l'apriori della mediazione e della riproduzione sociale, esso può solo stabilire di per sé, sempre di nuovo e con sempre maggior veemenza, lo spazio funzionale dell'economia imprenditoriale come uno spazio "svincolato", separato da tutti gli altri momenti della vita, e realmente astratto. In fondo è questo il problema cui si riferisce Marx alla fine del capitolo IV del I volume del Capitale, quando definisce la relazione tra la sfera della circolazione e la sfera della produzione del capitale in relazione alla merce "forza lavoro":

"La sfera della circolazione, o dello scambio di merci, fra i cui obiettivi c'è il processo di compravendita della forza lavoro, è stata di fatto un vero e proprio Eden dei diritti umani innati. Quello che qui prevale è solo la libertà, l'uguaglianza, la proprietà e Bentham. Libertà! Sta nel fatto che il compratore ed il venditore di una merce, per esempio la forza lavoro, sono mossi unicamente dalla loro libera volontà. Contrattano come persone libere, uguali davanti ad essa. Il contratto è il risultato finale in cui le loro volontà si dotano di un'espressione giuridica comune. Uguaglianza! Sta nel fatto che entrambi si riferiscono l'uno all'altro soltanto come proprietari di merci, scambiando equivalente per equivalente. Proprietà! Sta nel fatto che ciascuno dispone soltanto di quel che è suo. Bentham! Sta nel fatto che ciascuno dei due è preoccupato solamente di sé stesso. L'unico potere che li riunisce e li fa entrare in una relazione è quello della loro proprietà, del loro privilegio, dei loro interessi particolari. E' proprio perché così ciascuno si muove per sé, e nessuno per l'altro, tutti insieme contribuiscono, in funzione di un'armonia prestabilita delle cose, o sotto gli auspici di una provvidenza sommamente previdente, solo alla costruzione del loro vantaggio reciproco, dell'utilità comune, dell'interesse generale".

Lo stesso si può dire della sfera della circolazione, con il suo idealismo del soggetto del diritto libero ed uguale. Nella continuazione della totalità del processo di riproduzione, però, bisogna congedarsi dalla circolazione. Per questo, Marx prosegue: "Nel prendere congedo da questa sfera della circolazione semplice, o dello scambio delle merci, dove il libero mercante prende a prestito opinioni, concetti e criteri volgari per il suo giudizio sulla società del capitale e del lavoro salariato, le fisionomie delle nostre dramatis personae sembrano trasformarsi in alcuni aspetti. Il vecchio proprietario del denaro viene avanti come capitalista, il possessore di forza lavoro lo segue come suo operaio; uno sorride misteriosamente ed è pieno di zelo imprenditoriale, l'altro, timido, riluttante, come uno che abbia portato al mercato la propria pelle, e che ora non può aspettarsi altro se non - la conciatura."

Dopo quanto detto finora, è possibile che sia diventato chiaro come il marxismo tradizionale deve leggere quest'esposizione, ossia, non proprio come la relazione fra il lavoro astratto in quanto "astrazione di scambio", da un lato, e la logica realmente astratta della produzione, dall'altro lato, ma soltanto come una relazione esteriore e giuridica fra il capitalista (proprietario dei mezzi di produzione) e l'operaio salariato (proprietario della forza lavoro), che non arriva nemmeno al concetto di lavoro astratto in quanto astrazione reale. Questa lettura delle parole di Marx può pure avere una qualche plausibilità, ma anche così viene qui circoscritta alla relazione giuridica nella sfera della circolazione. Quel che ora avviene sotto la forma di "conceria", non è propriamente il mero sfruttamento soggettivo di una persona portatrice di una  volontà giuridica da parte dell'altra, che va intesa come esterna e limitata alla distribuzione, ma è l'ingresso nella sfera funzionale realmente astratta, "svincolata", dello spazio fantasmatico dell'economia imprenditoriale. In un certo senso si applica anche al capitalista stesso, o ai funzionari del comando della valorizzazione (gestione, ecc.).

Una volta che la comprensione tradizionale del "carattere di sfruttamento" del modo di produzione capitalista rimane limitata alla grossolana definizione di appropriazione dei soggetti di volontà giuridica, ad essa sfugge sistematicamente il carattere di spazio funzionale dell'economia imprenditoriale. In questo modo, tuttavia, le sfugge anche la divisione del moderno sistema produttore di merce in sfere di riproduzione e sfere funzionali separate. Gli è che questa divisione viene stabilita solo dal fatto che è stato costituito lo spazio funzionale svincolato dell'economia imprenditoriale della valorizzazione del valore che, in quanto tale, implica il carattere separato in sfere specializzate di tutte le altre aree della vita, ma che allo stesso tempo si converte in centro che domina tutte queste altre "sfere" conferendo ad esse l'apparenza di sfere "derivate". D'altra parte, tutto quello che non rientra nella logica dello spazio funzionale centrale svincolato e delle sue "derivazioni" (soprattutto determinate attività di riproduzione) viene lasciato alla relazione di dissociazione sessuale, e in tal modo socialmente connotato come il "femminile".

Questa connessione si presenta anche come sviluppo storico: "La dissociazione del valore... non è una struttura rigida, come la troviamo ad esempio in alcuni modelli strutturali sociologici, ma è un processo. Per questo non può essere intesa come statica ed invariabilmente uguale a sé stessa" (Roswitha Scholz, Il sesso del capitalismo, p.118). Questo processo sembra culminare nella crisi della terza rivoluzione industriale. Da una parte, nella penuria di crisi dell'accumulazione e nella crisi finanziaria, la logica dello spazio funzionale dell'economia imprenditoriale svincolata si va imponendo a tutte le sfere della riproduzione sociale da essa derivate: la politica, la cultura, la salute, l'educazione, ecc., perdono la loro propria logica e vengono trattate secondo i criteri della funzionalità proprie dell'economia imprenditoriale, ossia, vengono sottomesse direttamente alla logica del lavoro astratto, cosa che fino ad oggi avveniva solo indirettamente e sotto forme derivate.

Dall'altro lato, questa espansione della logica funzionale dell'economia imprenditoriale, al di là del suo spazio proprio e specifico non può sostenere la crisi, e ancor meno può sostituire le attività riproduttive dissociate come "femminili": "Avviene invece un inselvatichimento del patriarcato produttore di merci, in cui questo si sbarazza dei suoi vincoli istituzionali" (Roswitha Scholz, ivi, p.133). La dissoluzione della famiglia tradizionale e lo smantellamento delle strutture dello stato sociale non mettono fine alla dissociazione della connotazione sessuale senza oggetto, ma piuttosto l'aggravano. Nella stessa misura in cui lo spazio realmente astratto, svincolato, del processo di valorizzazione vuole totalizzarsi - ed in questo è necessariamente votato al fallimento - i momenti dissociati connotati con il "femminile" sono soggetti ad una pressione sempre più insopportabile. Il fatto per cui, come risultato, la riproduzione sociale si sgretola completamente è proprio la prova pratica che la logica funzionale dello spazio dell'economia imprenditoriale è del tutto nemica della vita ed è misantropica, ossia, che questo spazio è tutto tranne che un luogo neutro, innocente, trans-storico-ontologico della produzione "concreta" e materiale di beni "utili", solamente deviati da un destino cinico e baro per mezzo di un potere di disposizione giuridica esterno dei soggetti sfruttatori.

Lo spazio funzionale "svincolato" dell'economia imprenditoriale, realmente astrattificato (separato dalle necessità della vita e del mondo della vita), corrisponde ad un tempo ugualmente "svincolato" e astrattificato, per così dire, al tempo funzionale specifico del lavoro astratto. Si tratta qui di una forma di tempo - o definizione storicamente specifica di tempo - che ha luogo solamente nel moderno sistema produttore di merci. Questa forma di tempo o definizione di tempo, è il tempo continuo [Fliesszeit] astronomico astratto dell'universo meccanico di Newton, in analogia con gli identici componenti atomici fisicamente riduzionisti di tale universo.

In termini sociali, è la forma del tempo della sconsideratezza, cioè, un tempo illimitato, indefinito, legato a niente (la dimensione astronomica serve solo come misura esterna ed arbitraria); un tempo continuo infinito, che serve soltanto alla pretesa smisurata del "soggetto automatico", di un'incorporazione infinita di energia umana astratta, spesa nella misura di unità di tempo altrettanto astratte (secondi, minuti, ore di "lavoro" svincolate da qualsiasi contenuto), vale a dire, la trasformazione di tutto il tempo di vita in tempo di lavoro. Così, il tempo astronomico continuo è la misura paradossale della sconsideratezza, un tempo insaziabile, non più legato ad una qualche necessità (sempre finita, condizionata); la misura del tempo di un fine in sé irrazionale, che non prende più in considerazione un movimento limitato nel tempo volto ad un determinato fine o processo, ma che funziona come un forma di tempo del movimento infinito della valorizzazione del valore riferito a sé stesso. Il "lavoro concreto" del processo di produzione capitalista non avviene soltanto nello spazio funzionale "svincolato" dell'economia d'impresa; avviene anche in termini reali secondo la misura smisurata del tempo continuo astratto "svincolato", e non secondo la misura di una trasformazione della materia definita temporalmente (e per sua essenza limitata).

 Moishe Postone si è interessato meno al carattere specifico dello spazio "svincolato", e più al carattere specifico della forma del tempo capitalista, ed anche in quest'ambito è arrivato ad avere una conoscenza pionieristica. In tutta la storia della modernizzazione, il lugubre carattere del "tempo astratto" è stato ripetutamente tematizzato, esplicitamente ed implicitamente, ma non è mai stato riferito al lavoro astratto ed alle forme di mediazione categoriali della socializzazione del valore. Postone, appoggiandosi a storici sociali come Thompson, Gurjevich, Needham, ecc., è stato il primo a distinguere il "tempo concreto", che è stato determinante in termini di qualità del tempo nelle società premoderne (e che dovrà essere, in un'altra maniera, determinante per una società postcapitalista), dal "tempo astratto" della moderna produzione di merci:

"Come 'concreti' designerei i diversi tipi di tempo che dipendono dagli accadimenti: questi si riferiscono ai cicli naturali e alle periodicità della storia umana, così come ai compiti o ai processi specifici (ad esempio, il tempo necessario a cuocere il riso o a dire un padrenostro) e vengono intesi di per sé... Prima dell'avvento e dello sviluppo della società capitalista moderna in Europa occidentale, ci sono state varie forme di tempo concreto a segnare le concezioni prevalenti di tempo. Il tempo non era una categoria autonoma, indipendente dagli accadimenti, e perciò gli venivano date delle definizioni qualitative, come buono o cattivo, come sacro o profano... Il tempo concreto è una categoria più ampia del tempo ciclico, dal momento che esistono concezioni lineari del tempo, che nella loro essenza sono concrete... Il tempo concreto è meno caratterizzato dalla sua direzione, piuttosto che dalla circostanza di essere una variabile dipendente" (Postone).

La concezione usuale del tempo premoderno, come meramente ciclico (legato alle stagioni, ritmi di vita, ecc.), apparentemente limitato alla forma di riproduzione agraria e alle relative forme di feticcio, in gran parte dà solo un contributo in senso reazionario alla critica della modernità produttrice di merci; al contrario, la concezione più ampia che ha Postone del tempo concreto, è del tutto differente, come

"concezione del tempo orientato a dei compiti", dipendente dagli accadimenti, non separato da quelli che sono i processi finiti nel tempo (sia ciclico che lineare). A questa, si oppone l'altra qualità del tempo, negativa, della modernità, cioè, lo spazio funzionale svincolato dell'economia d'impresa: "..., il 'tempo astratto', però, che io intendo come un tempo uniforme, continuo, omogeneo, 'vuoto', è indipendente dagli avvenimenti. La concezione di tempo astratto, che si andata progressivamente imponendo in Europa occidentale, fra il 14° ed il 17° secolo, ha trovato la sua espressione più pregnante nella formulazione di Newton, di 'tempo assoluto, vero e matematico (che) scorre in maniera perfettamente uniforme senza alcuna relazione con qualcosa di esterno' (Isaac Newton). Il tempo astratto è una variabile indipendente. Esso costituisce un inquadramento indipendente, nel quale avvengono movimenti, accadimenti e azioni. Questo tempo può essere suddiviso in unità uguali, costanti e non qualitative" (Postone).

"L'inquadramento indipendente" di questo tempo, di cui parla Postone, può tuttavia essere inteso anche come uno "spazio indipendente", o più precisamente come lo spazio funzionale "svincolato" dell'economia imprenditoriale. Il tempo continuo astronomico ed astratto del processo di valorizzazione costituisce questo spazio fantasmatico, così come, inversamente, è costituito a sua volta da questo spazio come tempo fantasmatico. Postone richiama l'attenzione sul fatto che "questa forma di alienazione temporale significa una trasformazione del carattere del tempo stesso. Non solo il tempo del lavoro socialmente necessario è costituito come norma temporale "oggettiva", la quale esercita una coazione esterna sui produttori, ma anche il tempo stesso viene costituito come tempo assoluto ed astratto. Il quantum del tempo che determina la dimensione del valore di una merce individuale è una variabile dipendente. Il tempo stesso, però, si rende indipendente dall'attività - sia che questa venga determinata individualmente, che socialmente, o dalla natura.  Diventa una variabile indipendente - misurata in unità costanti, continue, comparabili e permutabili, stabilite per convenzioni (ore, minuti, secondi) - che serve da riferimento assoluto del movimento e del lavoro in quanto dispendio. Gli accadimenti e le azioni in generale, così come il lavoro e la produzione in particolare, ora avvengono in seno al tempo e sono da esso determinati - un tempo che è diventato astratto, assoluto ed omogeneo.

Tuttavia, il tempo ha cominciato a diventare astratto, indipendente ed assoluto soltanto in un determinato spazio sociale, che è appunto lo spazio funzionale svincolato dell'economia imprenditoriale, dove quello che è in questione non è il tempo "di qualcosa", ma il tempo semplicemente nel senso del "lavoro", o semplicemente della combustione di energia umana. Lo spazio svincolato ed il tempo che nel suo seno diventa assoluto, costituiscono insieme uno spazio-tempo [Raumzeit] specificamente sociale, un continuum di spazio-tempo al di là di tutte le necessità umane e di tutto il mondo della vita sociale. Nel processo della storia dell'imposizione del capitalismo, questa determinazione spazio-temporale colora le sfere derivate, e perfino il mondo stesso della vita quotidiana; è l'intervento usurpatore spazio-temporale del "dio straniero" (Marx), del "soggetto automatico" (Marx), pertanto di quella pretesa totalitaria della valorizzazione, che è provenuta dalla forma denaro dell'economia delle armi da fuoco e della rivoluzione militare dei primordi della modernità, e che è evoluta in una macchina sociale.

L'origine ed il centro, tuttavia, è e continua ad essere lo spazio-tempo specifico del processo di valorizzazione dell'economia imprenditoriale, del lavoro astratto, che può essere esteso a tutto il processo di vita soltanto al prezzo della completa autodistruzione della società; il processo di crisi contemporaneo della terza rivoluzione industriale si avvicina a questo stato di dissoluzione in maniera sempre più chiara.

Una volta evidenziato il carattere di spazio-tempo sociale astratto dell'economia d'impresa, diventa chiaro quanto sia grossolana la concezione per cui tutta questa relazione potrebbe essere ridotta dal potere di disposizione giuridica di meri soggetti della volontà di sfruttamento. Perciò, quello che avviene non è che "la proprietà privata dei mezzi di produzione" costituisce il sistema di lavoro astratto e la costituzione spazio-temporale dello stesso, ma esattamente il contrario: è il modo di produzione del lavoro astratto, il fine in sé del "soggetto automatico", che costituisce la forma giuridica della proprietà privata dei mezzi di produzione (così come costituisce il movimento di auto-mediazione del lavoro astratto/valore per mezzo della sfera della circolazione). Quindi, la mera collocazione della "questione della proprietà" (giuridica) è tutt'altro che radicale, e mette piuttosto il carro davanti ai buoi: non intacca il carattere spazio-temporale del processo di riproduzione sociale, né la forma soggetto dei suoi portatori. Quando, per esempio, i soggetti del lavoro astratto, ossia, i soggetti dello spazio-tempo dell'economia imprenditoriale (e quindi della concorrenza nella mediazione svolta attraverso la sfera della circolazione) "votano democraticamente" sulle questioni della riproduzione, essi possono soltanto riprodurre, esprimere e vivere le contraddizioni del loro modo astratto di esistenza, ossia, della relazione di feticcio che questo modo continua ad avere come base.

L'intervento emancipatore deve andare più a fondo, per rompere e distruggere lo spazio-tempo del lavoro astratto stesso, in quanto l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione sarebbe solo una conseguenza logica di questa rivoluzione, ma non la rivoluzione vera e propria. L'opinione contraria del marxismo tradizionale può solo e sempre condurre a che la forma giuridica della proprietà privata, che non è legata in alcun modo agli individui o alle famiglie, si riproduca sotto una qualche forma istituzionale (burocrazia statale, dittatura di partito, istanze di democrazia imprenditoriale, istituzioni cooperative, ecc.). La proprietà privata dei mezzi di produzione (così come quella della forza lavoro in quanto merce) non è un "potere di disporre" soggettivo o addirittura arbitrario, nel senso di un mero "arricchimento", ma è solo la forma giuridica del sistema di lavoro astratto e del suo specifico spazio-tempo astratto. Per meglio dire: è la forma giuridica necessaria dei soggetti funzionali di questo spazio-tempo, e non il fondamento sociale di tutta l'organizzazione.

Nello spazio-tempo astratto dell'economia imprenditoriale avviene, in maniera paradossale, un processo di astrazione triplo, reale e pratico. Sebbene siano essi stessi quelli che "lavorano", i soggetti funzionali devono cominciare ad astrarre da sé stessi, in un certo qual modo devono essere appagati come essere umani, per obbedire agli imperativi del lavoro astratto. Questo non deriva soltanto dal carattere in fondo oggettivo - ad esempio - della produzione (sociale) per gli altri anziché per il proprio consumo, ma da quella cosa fondamentalmente "estranea" che è il fine-in-sé capitalista, la valorizzazione del valore. Non si tratta di produrre oggetti d'uso per sé o per altri, ma si tratta essenzialmente di produrre valore e plusvalore, ossia, di bruciare all'interno dello spazio funzionale dello spazio-tempo dell'economia imprenditoriale il massimo della propria energia umana astratta, si tratta di trasformarsi, in quanto essere umano, in una macchina a combustione sociale.

Pertanto, i soggetti del lavoro astratto in quanto funzionari del "soggetto automatico" (inclusa la gestione) non hanno alcuna influenza sul contenuto concreto della produzione (che è dettato dal fine-in-sé della valorizzazione), il cui significato o mancanza di senso non deriva dalla sua competenza, né essi possono organizzare l'evoluzione del processo di produzione, o il suo ambiente, secondo i propri desideri e necessità. Lo spazio-tempo astratto dell'economia imprenditoriale non permette che una persona metta "la volontà" nell'attività; non si tratta del suo proprio tempo di vita nè del suo proprio spazio vitale, in cui una persona si installa, ma di uno spazio-tempo straniero - "straniero" non nel senso di proprietà privata estranea, di un altro soggetto di volontà (del capitalista), ma "estraneo" nel senso della logica funzionale del lavoro astratto in quanto tale. Il tempo continuo astratto dev'essere interrotto il meno possibile, proprio perché quello che è in questione è il dispendio massimo di energia umana per unità di tempo, e non gli oggetti necessari, né le necessità dei produttori e delle produttrici; i regolamenti che disciplinano gli intervalli, ad esempio, non obbediscono al criterio dei produttori e tendono a minimizzarlo (fino alla questione se sia ancora lecito far pipì).

Analogamente, i mezzi di produzione, gli utensili, ecc., non devono essere utilizzati in parallelo dai produttori per fini personali, ma un regolamento rigido li mantiene riservati al fine della valorizzazione. Anche qui il riferimento alla proprietà privata giuridica è lungi dal costituire una spiegazione soddisfacente, una volta che la mancanza di potere di disposizione da parte dei produttori, anche sotto quest'aspetto, non deriva da una relazione di volontà esterna, fra persone, ma dalla logica interna dello spazio-tempo stesso dell'economia imprenditoriale. Laddove questa logica viene infranta, per esempio dal carattere lacunoso e per il "lassismo" del regime dell'economia imprenditoriale come appare nelle burocrazie socialiste di Stato, tale comportamento viene invariabilmente punito dalla perdita di funzionalità sistemica. Mentre la logica stessa del lavoro astratto e del suo spazio-tempo specifico non viene abolita consapevolmente, l'affermazione dei produttori nell'ambito del proprio processo di produzione come esseri con necessità può portare soltanto a difetti e a guasti funzionali.

In secondo luogo, i soggetti funzionali del lavoro astratto devono anche astrarsi gli uni dagli altri nella pratica, sebbene allo stesso tempo tentino di cooperare gli uni con gli altri nel processo concreto di produzione. Tuttavia, come lo ha descritto Marx molte volte, questa cooperazione non appartiene loro, non è personale, e ancora una volta non obbedisce meramente al comando esterno del proprietario privato/capitalista come soggetto di volontà, ma è strutturata dallo spazio-tempo astratto del processo di valorizzazione. Quel che i produttori non possono, in quanto individui, non lo possono neppure nella loro cooperazione, in particolare non possono determinare il contenuto e l'evoluzione del processo di produzione. Anche nel cooperare, essi rimangono unità reciprocamente isolate di dispendio di energia umana astratta, dal momento che - anche se la cooperazione obbedisce di fatto alle necessità di trasformazione concreta e materiale delle materie naturali - questa trasformazione è soltanto la "espressione" di qualcosa di diverso, vale a dire del processo di valorizzazione, cui il "lavoro concreto" rimane subordinato. Il lato cooperativo sul piano del lavoro concreto, pertanto non è essenziale; quel che è essenziale è il lato non cooperativo di un dispendio quasi autistico di energia umana astratta sul piano del lavoro astratto.

In questo senso, i produttori sono determinati come concorrenti monadici perfino nello stesso processo di produzione, e non solo nella circolazione nel mercato del lavoro in quanto venditori concorrenti della merce forza lavoro. Lo spazio-tempo astratto dell'economia imprenditoriale riduce il momento cooperativo allo stretto carattere strumentale dei processi tecnici, mentre qualsiasi cooperazione sociale si presenta come sistemicamente disfunzionale e "pericolosa". La logica fondamentale del lavoro astratto tende all'eliminazione di qualsiasi momento di cooperazione non funzionale; anche i mini-intervalli informali per il caffè e la conversazione si presentano sempre più come "fastidi" e vengono estirpati. In questo consiste anche il tallone di Achille di quegli slogan tanto invocati relativi al "lavoro di squadra" ed alla "competenza sociale", che nella loro riduzione funzionalista possono ridursi solamente all'assurdo. E' lo stesso spazio-tempo dell'economia imprenditoriale, in cui i produttori rimangono separati gli uni dagli altri, come da pareti di vetro che paralizzino qualsiasi comunicazione orizzontale, e che automaticamente torna a riprodurre sempre strutture di comando verticali. Anche qui il riferimento alla "autorità" personale dei proprietari privati giuridici è lungi dal costituire una spiegazione soddisfacente e rimane fondamentalmente a lato del carattere del problema.

La stessa cosa si applica alla struttura architettonica degli edifici funzionali del lavoro astratto, le divisioni spaziali e la loro organizzazione. L'astrazione degli individui che "lavoravano" e della loro cooperazione, qui diventa ancora più palpabile. Il funzionalismo de-estetizzato, ed offensivo per la vista e per la sensibilità spaziale degli edifici funzionali, delle zone industriali e commerciali (che da tempo ha marchiato anche il mondo della vita e le costruzioni abitative e culturali), deriva talmente poco da una necessità oggettiva del "lavoro concreto" - così come tutti gli altri momenti dello spazio-tempo dell'economia imprenditoriale - da risultare unicamente dal carattere del processo di produzione in quanto processo di valorizzazione. I produttori devono astrarre da sé stessi come esseri umani, di modo che lo spazio funzionale dell'economia imprenditoriale non sia il loro loro spazio vitale e che il tempo funzionale dell'economia d'impresa non sia il loro tempo di vita. Tutto questo si riflette anche sull'ambiente della loro attività, che obbedisce altrettanto poco alla loro auto-determinazione per quel che attiene il senso, l'obiettivo e l'evoluzione della loro produzione.

In terzo luogo, infine, i produttori, sotto l'egida dello spazio-tempo dell'economia imprenditoriale, in un certo qual modo devono astrarre anche dagli oggetti concreti, dai materiali della loro attività, anche se sono questi ad essere modellati, in senso tecnico, dal lavoro concreto. Tuttavia, nello stesso processo di produzione, la loro attività concreta appare ai produttori solo come una combustione astratta, ed indifferente alla loro energia.

Conseguentemente, la "materia" da lavorare, così come la sua trasformazione concreta, rimane loro essenzialmente indifferente ed estranea, e non possono identificarsi con essa nello spazio-tempo dell'economia d'impresa, alla maniera in cui l'artigiano premoderno poteva ancora identificarsi con il suo oggetto. L'identificazione con l'attività può solo dipendere da punti di vista secondari, nella maggior parte dei casi socialmente concorrenti, slegati dall'oggetto; ad esempio, dalla posizione nella gerarchia "militare d'impresa", dal comando sugli altri, o dal successo delle vendite, dall'orgoglio per il rendimento astratto in unità di tempo/quantità di pezzi, dalla qualifica nel Know-how puramente funzionalista, estranea alla materia, e dal rispettivo riconoscimento, dalla "aura" del nome dell'impresa, ecc.. Solo in aree recondite, come ad esempio l'arte, che non sono dominate profondamente dallo spazio-tempo dell'economia imprenditoriale, si incontrano ancora, nonostante la mediazione del denaro e dell'astrazione reale circolatoria, elementi di identificazione con la materia e con la sua trasformazione qualitativa; ma anche in quest'area avanza sempre più l'indifferenza del lavoro astratto nel processo di commercializzazione.


 

La "astrazione reale produttiva" negli oggetti del lavoro apparentemente solo concreto, non è dovuta in alcun modo alla considerevole indifferenza soggettiva dei produttori, in termini individuali, rispetto alla materia della loro attività, che nello spazio-tempo dell'economia imprenditoriale si presenta loro essenzialmente come un processo astratto di combustione della loro energia. E' assai più il processo stesso di produzione, nella sua logica intrinseca in quanto lavoro realmente astratto, che stabilisce tale indifferenza come un apriori. Quindi è l'oggettività sociale ad imporre al contenuto il carattere dei soggetti indifferenti, in quanto portatori di processi astratti di combustione di energia umana, e non il contrario (ed ancor meno una qualche "avidità di lucro" dei proprietari).

Questa oggettività sociale dell'indifferenza nei confronti della materia e del contenuto deriva dal carattere essenziale del processo di produzione come processo di valorizzazione. Ha luogo qui un'inversione peculiare nella relazione fra l'astrazione del valore ed il cosiddetto valore d'uso; per meglio dire, il famigerato valore d'uso si rivela essere, come già accennato, una mera determinazione della forma della stessa oggettività del valore e della sua realizzazione come valore di scambio.

L'inversione, in cui il valore d'uso si presenta immediatamente come funzione della costituzione del valore, e del valore di scambio, è da subito determinata dal carattere specifico della merce forza lavoro. E' soltanto il carattere di merce della forza lavoro che rende del tutto possibile la generalizzazione della produzione di merci nella forma della riproduzione sociale del capitalismo. Nel caso di questa merce, tanto costitutiva quanto specifica, però, le determinazioni della forma di merce finiscono per trovarsi, per così dire, con i piedi per aria. Per quel che riguarda tutte le altre merci, il cosiddetto valore d'uso consiste, almeno a prima vista, nella sua utilità materiale. Non è questo che avviene con la merce forza lavoro. Il suo valore d'uso per il processo di produzione capitalista non consiste affatto nella sua capacità di produrre determinati beni destinati a soddisfare necessità materiali o immateriali. Piuttosto il contrario:

"Per estrarre valore dal consumo d'una merce, il nostro possessore di denaro dovrebbe esser tanto fortunato da scoprire, all'interno della sfera della circolazione, cioè sul mercato, una merce il cui valore d'uso stesso possedesse la peculiare qualità d'esser fonte di valore; tale dunque che il suo consumo reale fosse, esso stesso, oggettivazione di lavoro, e quindi creazione di valore. E il possessore di denaro trova sul mercato tale merce specifica: è la capacità di lavoro, ossia la forza-lavoro..." (Marx). Pertanto, quel che è decisivo, è "il valore d'uso specifico di questa merce, che consiste nell'essere fonte di valore, e di un valore maggiore di quello che essa stessa possiede" (Marx).

Nella produzione e nel suo risultato, non si tratta di valore d'uso (materiale) apparente dei prodotti, ma di questo valore d'uso specifico della merce forza lavoro, che consiste unicamente nell'imposizione di valore e di plusvalore. Il valore d'uso della merce forza lavoro, però, costituisce puramente e semplicemente il concetto di valore d'uso nel contesto della forma del modo capitalista di produzione generalizzata delle merci. Ciò detto, lo stesso Marx smentisce la sua definizione ontologica ed antropologica di una trans-storica "produzione di valore d'uso", in cui anche l'astrazione "lavoro" deve continuare a perpetuarsi. Così come il valore d'uso della merce forza lavoro consiste socialmente nel produrre valore che oltrepassa i costi della riproduzione, anche il valore d'uso sociale dei prodotti consiste nel "rappresentare" questo plusvalore in quanto fine-in-sé processante, per poi "realizzarlo" nella vendita. Entrambi gli aspetti sono indissociabili. Quindi il valore d'uso sociale in questo senso si dissocia dall'utilità concreta, materiale o immateriale.

Il fatto che quest'utilità, nel senso concreto palpabile di un'oggettività della necessità, costituisca anche, per la produzione capitalista, per così dire un male necessario ed una sorta di condizione residuale, non le conferisce ancora, così, un carattere in sé trans-storico-ontologico, neppure in questa dissociazione del valore d'uso sociale. Al contrario, la determinazione qualitativa astratta, distruttiva e negativa del valore d'uso come fine-in-sé sociale della valorizzazione del valore incide anche sull'oggettività della necessità dissociata e sulla sua stessa produzione.

Quanto detto riguarda innanzitutto il "che cosa" della produzione, il contenuto oggettivo. Com'è noto, per motivi che hanno a che fare con le relazioni di concorrenza e con la costrizione alla redditività, sia i proprietari di capitale, sia la gestione e perfino  gli operai salariati devono essere indifferenti a quello che producono, che si tratti di mele o di componenti per ordigni nucleari; quello che interessa è che si produca e si realizzi il valore d'uso sociale negativo della ricchezza astratta, del plusvalore come fine-in-sé. Non esiste una qualche istanza sociale che possa determinare coscientemente il contenuto oggettivo della produzione secondo criteri di sensibilità per le necessità. Il riferimento al preteso "potere dei consumatori" è pura ideologia. Nella realtà, l'apriori del lavoro astratto e del valore determina anche le strutture delle necessità sociali e sottomette alla coazione della sua specifica logica di valore d'uso astratto di produzione di plusvalore.

Sotto il dettato di questa produzione e realizzazione di ricchezza astratta, ogni giorno cessano, per mancanza di redditività e solvibilità, produzioni destinate anche alle necessità elementari, in quanto la produzione di merci distruttive per necessità distruttive (non solo per mezzo dell'industria degli armamenti) viene ulteriormente rafforzata. Ma non è solo in tal senso che l'astrazione del contenuto delle necessità si afferma massicciamente nel processo di produzione. Anche i contenuti della produzione in sé apparentemente non distruttivi, sono modellati distruttivamente, nel senso del lavoro astratto. Se vengono creati pomodori senza cura per il sapore ed in funzione di norme di confezionamento per le reti di distribuzione su scala continentale, se le mele vengono trattate con la radioattività per prolungare la loro durata, o se gli alimenti in generale vengono snaturati nell'esclusivo interesse dell'obiettivo della valorizzazione, e tutta la ricchezza storicamente accumulata di una molteplicità di piante e di animali si perde a favore di una "povertà di varietà", ridotta nel nome della semplificazione economico-imprenditoriale, se nella costruzione delle case, fatta sotto il dettato della riduzione dei costi imposto dall'economia imprenditoriale, vengono utilizzati materiali nocivi per la salute, o appare una divisione disfunzionale dello spazio che è un insulto all'estetica: è il contenuto materiale che viene guidato dalla determinazione della valorizzazione, e non il contrario; e con il crescente sviluppo capitalista, questo avviene in misura storicamente crescente.

Il "soggetto automatico" della valorizzazione del valore crea, per così dire, a sua immagine un materiale umano per il lavoro astratto, anche nel senso di una modellazione delle necessità. La logica della produzione e la logica del consumo si intrecciano sotto il dettato dell'apriori sociale del lavoro astratto. Mentre da un lato necessità elementari (perfino quelle che in un certo qual modo potrebbero essere definite come trans-storiche, quali ad esempio la necessità di acqua potabile pulita, di una spazio abitativo sufficiente, ecc.) vengono brutalmente trascurate, l'astrazione reale risveglia, perfino nel quotidiano, necessità distruttive, puramente compensatorie, aggressive, oppure semplicemente assurde ed infantili. Il sistema del lavoro astratto inverte in tal modo la relazione fra le necessità e la produzione: non sono le necessità a generare una produzione in quanto fine, ma il fine-in-sé di una produzione svincolata genera, come suo semplice mezzo, sempre più necessità negative. Anche nei paesi capitalisti più ricchi, sempre più gente si vede condannata a patire la fame, mentre allo stesso tempo si pretende di creare la "necessità" - difficile da concepire - di guardare un film su uno schermo dalle dimensioni di un francobollo.

L'apriori sociale del lavoro astratto come logica della stessa produzione implica, pertanto, il disprezzo delle necessità elementari, la produzione di beni puramente distruttivi e la riduzione qualitativa di tutti i beni (mancanza di diversità, "rifiuti industriali", produzione di usa e getta, normalizzazione estetica e de-estetizzazione, ecc.), e alla fine la modellazione generale delle necessità in funzione degli imperativi del processo di valorizzazione porta alla riduzione o addirittura alla distruzione della capacità di fruizione.

Modellare la produzione in funzione della logica del lavoro astratto, tuttavia, non ci parla soltanto del "che cosa" - della determinazione dei beni in termini di contenuto, il cui carattere materiale è subordinato ed adeguato alla oggettività fantasmatica del valore - ma anche del "come" - del processo stesso del lavoro, della forma di intervento dell'attività trasformatrice della materia naturale o sui nostri simili (servizi).

Lo spazio-tempo astratto dell'economia imprenditoriale richiede un adeguamento del "lavoro concreto" allo spazio astratto ed al tempo astratto di una produzione continua infinita, nel senso di un'ottimizzazione della logica di valorizzazione: "Il tempo è denaro". Ciò significa che nel processo del lavoro concreto, in quanto processo continuo dello spazio-tempo dell'economia imprenditoriale, dev'essere negato ed eliminato tutto ciò che in qualche modo ostruisce questo flusso continuo di una combustione ottimizzata di energia umana, causando perdite per attrito. Tuttavia, il processo di flusso continuo scorre meglio con gli oggetti di materia fisica morta (il che è simbolizzato, ad esempio, nella "classica" catena di montaggio dell'industria automobilistica). In questo modo, lo spazio-tempo dell'economia imprenditoriale implica un riduzionismo specifico, che corrisponde ad un fenomeno assai simile nelle moderne scienze naturali.

Si può parlare di un riduzionismo fisico delle moderne scienze naturali, il quale prevede una spiegazione monistica del mondo a partire dai componenti atomici elementari dell'universo meccanicistico di Newton. Ciò significa necessariamente una fase doppia di riduzione. In una prima fase, il mondo sociale, culturale e storico dell'Uomo dev'essere ridotto a meccanismi funzionali biologici; un topos dell'ideologia borghese a partire dal 17° secolo, L'arco di questo riduzionismo biologico si estende a partire dalla pseudo-naturalezza delle condizioni di produzione e di relazionamento capitaliste, in economia politica a partire da Adam Smith (ampliata nella più recente pseudo-scientificità e "matematizzazione" dell'economia politica), passando per la biologizzazione del sociale (darwinismo sociale), fino alla presunta programmazione e determinazione genetica della "natura umana".

In una seconda fase, il mondo biologico deve poi essere ridotto a meccanismi funzionali chimici e fisici, la materia viva dev'essere ridotta a materia morta. La stravaganza della ricerca di una "formula del mondo" totale, dalla quale si possa far "derivare" monisticamente tutto ciò che esiste, ancora oggi si basa su questo modo riduzionista di pensare, e sull'immagine meccanicistica del mondo, anche se la fisica quantistica sembra di fatto contraddirla.

Tuttavia. il riduzionismo fisico delle moderne scienze naturali, in teoria si presenta nello spazio-tempo dell'economia imprenditoriale come pratica universale astratta, come trattamento reale del mondo degli oggetti in funzione di tale riduzionismo. E' solo questo modo di procedere che permette tutta una logica di intervento universale ed astratta, indipendente dall'oggetto del processo del lavoro, in quanto processo di valorizzazione. La negazione della logica e del tempo propri di aree oggettive e di vita qualitativamente diverse, può avvenire soltanto per mezzo della riduzione fisica. Gli esseri umani sono trattati come animali e piante, mentre animali e piante sono trattati come pietre e metalli. In questo modo si opera nella pratica dell'economia imprenditoriale una riduzione complessiva della materia sociale e della materia viva in generale, ed un'oggettività fisica morta. L'oggettività fantasmatica del valore della merce si presenta nel processo della sua produzione come la riduzione fisica della sua materialità. Il processo di produzione come processo di valorizzazione è essenzialmente il processo dell'uccisione dei suoi oggetti.

Le estreme conseguenze di questa logica di riduzione sono da tempo diventate visibili, ad esempio nelle agro-industrie monistiche, negli orrendi trasporti su scala continentale di animali da macello, così come nelle pratiche di commercio di servizi sociale e cure personali, ad esempio quando anziani e malati vengono trattati secondo il modello degli autolavaggi, o quando il "lavoro affettivo" con i moribondi è soggetto alla gestione del tempo della razionalizzazione economica-imprenditoriale. In tali pratiche delle fabbriche agrarie, degli ospedali e gulag delle "cure personali" che in tutto il mondo stanno diventando sempre più note, sono tuttavia solo la punta dell'iceberg di una logica di riduzione fisica che domina profondamente tutto lo spazio-tempo dell'economia imprenditoriale fin nei pori del processo di riproduzione sociale.

A tale riduzionismo appartiene anche la distruzione secondaria della biosfera del pianeta per mezzo degli "escrementi (fisici) della produzione" (Marx), del tutto simili alla distruzione secondaria delle condizioni di relazionamento sociale per mezzo degli "escrementi della produzione" per così dire psichici. L'indifferenza riguardo al contenuto qualitativo immediato del "lavoro", implica un'uguale indifferenza riguardo allo "ambiente" del processo di valorizzazione, sia in termini biologici che in termini sociali. Lo spazio-tempo "svincolato" dell'economia imprenditoriale conosce ed ammette soltanto la sua propria logica interna; è insensibile a tutto ciò che è all'esterno del suo campo d'azione è soggetto ad un'altra qualità di spazio o di tempo. E' per questo che falliscono non solo tutti i protocolli sul clima e gli altri sforzi di un ecologismo impotente, nel loro reintrodurre i "costi esternalizzati" nei conti dell'economia imprenditoriale secondo le regole della sua stessa logica, senza rompere tale logica in quanto tale. Ugualmente impotenti rimangono anche tutti gli appelli alla compassione, alla responsabilità sociale, alla "società civile", ecc., che pretendono di rivendicare un comportamento non riduzionista in rapporto alle condizioni sociali, senza mettere fondamentalmente in discussione lo spazio-tempo dell'economia imprenditoriale in quanto centro del riduzionismo.

Così come i popoli totalmente inselvatichiti nelle guerre di sterminio non sono più capaci di integrarsi in una vita "civile", ancor meno gli individui condizionati nello spazio-tempo dell'economia imprenditoriale ai modi di comportamento riduzionisti possono comportarsi all'esterno in maniera "socio-ecologica"; senza contare che questo "esterno" viene deglutito ed aspirato per mezzo dello spazio-tempo dell'economia imprenditoriale ad una velocità crescente - senza che questo riesca realmente a totalizzare ed incorporare i momenti dissociati; questi, al contrario, "finiscono nell'abbandono". E' soltanto assurdo, quando le istanze ufficiali del capitalismo di crisi globale invocano, da un lato, la "morale" socio-ecologica ed allo stesso tempo propagano, dall'altro lato, l'estensione dello spazio-tempo dell'economia imprenditoriale e della sua logica riduzionista a tutte le aree della vita. I sermoni domenicali collocano senza compromessi la razionalità, vista come rispetto delle logiche proprie alla biosfera ed al relazionamento sociale, nella sfera della responsabilità personale degli individui isolati e, per così dire, nel loro "comportamento del tempo libero", mentre allo stesso tempo la razionalità sociale negativa dello spazio-tempo astratto dell'economia imprenditoriale determina il processo reale della riproduzione sociale in tutta la sua ampiezza e profondità, il che perfino rafforza l'intervento riduzionista ad essa associato.

Il risultato è facile da divinare, e consiste nella trasformazione del mondo terreno della biosfera e della cultura sociale umana in un deserto fisico. La letteratura popolare di fantascienza ha da tempo anticipato questo risultato nel topos del mondo dei robot, in cui una "intelligenza" meccanica ed auto-riproduttiva di macchine morte governa un mondo chimicamente e fisicamente ridotto. Forse l'amore per la riduzione fisica teorica e pratica spiega anche perché l'anti-cultura capitalista sia tanto affascinata dal pianeta Marte, che torna ad essere l'obiettivo prediletto delle spedizioni spaziali fatte con motori a combustione e veicoli robotizzati. Marte è precisamente il deserto fisico nel quale il lavoro astratto ed il suo spazio-tempo devono convertire la Terra. Il fatto di andare con dei robot a percorrere quel deserto in cerca della più piccola vita batterica, simbolizza involontariamente la disperata logica autodistruttiva di un'umanità dominata dall'apriori sociale del lavoro astratto.

 

Il tempo storico concreto del capitalismo

La distruzione reale del mondo, da parte del lavoro astratto in quanto processo di produzione, è evidente. Quando il marxismo tradizionale, come ideologia immanente della modernizzazione, pretende di restringere i concetti di lavoro astratto e di astrazione reale alla sfera della circolazione, dimostra non solo la sua contaminazione da parte dell'etica protestante, dal produttivismo capitalista e da una falsa ontologia trans-storica del lavoro, ma anche la sua completa limitazione allo spazio interno al moderno sistema produttore di merci ed al suo spazio-tempo astratto. Ovvio che in tal modo gli sfugga anche il concetto di storicità capitalista. Poiché di fatto il capitalismo è, da un lato, il ritorno del sempre uguale, il tempo astratto senza storia del continuum economico-imprenditoriale svincolato; dall'altro lato, però, è un processo storico concreto cieco, una storia irreversibile della costituzione, dell'imposizione e della crisi, che si manifesta in stadi di sviluppo qualitativamente differenti.

E' a partire da questo che Moishe Postone distingue, conseguentemente, due specie in qualche modo opposte di definizione del tempo nel processo di riproduzione capitalista; il che, secondo Postone, significa "che la dialettica dello sviluppo capitalista è, su un piano logico, una dialettica delle due forme di tempo costituite nella società capitalista e quindi non può essere adeguatamente compresa nel senso di sostituzione di tutte le forme di tempo concreto da parte del tempo astratto" (Postone, cit.) . La prima, è la sostituzione del tempo concreto primitivo del giorno per giorno - tempo sempre condizionato, limitato "da qualcosa" o "per qualcosa", in quanto espressione di tempo orientato da compiti -  da parte dello spazio-tempo svincolato, astratto, dell'economia imprenditoriale. Ma attraverso questa trasformazione viene simultaneamente creato, su un diverso secondo piano di tempo, un nuovo tipo storico concreto di tempo, una cieca dinamica storica di "sviluppo" e crisi.

Oltre allo spazio-tempo astratto, omogeneo e senza storia, dell'economia imprenditoriale e da questa derivato, il capitalismo in quanto socializzazione del valore stabilisce tuttavia anche un tempo storico concreto del tutto diverso. Postone deduce in termini assolutamente elementari la relazione di queste due forme di tempo delle due dimensioni della merce, come materialità e come oggettività del valore: "L'interazione fra le due dimensioni della forma merce può essere analizzata anche rispetto al tempo, dal punto di vista dell'opposizione fra tempo astratto ed una forma di tempo concreto propria del capitalismo" (Postone, cit.). Si può anche dire perciò: il tempo senza storia, astratto, della socializzazione del valore è la logica temporale del processo di valorizzazione; il tempo storico concreto della socializzazione del valore, al contrario, è la logica temporale della materialità mobilitata da questo processo di valorizzazione, tanto nel senso di materia naturale trasformata, quanto anche nel senso di sviluppo sociale ad esso legato.

Il problema che qui appare, è ancora una volta la "dimensione del valore d'uso" (Postone) del lavoro astratto, ora osservato dal punto di vista della forma del tempo. La determinazione del valore d'uso della merce forza lavoro, in quanto produzione di plusvalore, stabilisce una determinazione sociale del valore d'uso della merce come semplice materializzazione del valore/plusvalore e della sua rispettiva realizzazione, mentre la concretezza materiale - ed insieme ad essa anche la qualità materiale - viene dissociata e rimane secondaria, una semplice appendice (indifferente) della valorizzazione del valore. Tuttavia, il capitalismo non può sbarazzarsi di questa materialità concreta, ed il valore d'uso sociale della produzione di plusvalore e della sua realizzazione, a fronte dei crescenti livelli di produttività forzati dalla concorrenza universale, deve "incarnarsi" sempre più, e sempre sotto nuove forme concrete ed ultra-sviluppate di trasformazione della natura e della socialità.

E' proprio su questa tensione fra indifferenza per i contenuti ed astrazione del "lavoro" e del valore, da un lato, e "sviluppo" dei contenuti materiali promosso dallo stesso processo di valorizzazione, dall'altro, che si fonda la dialettica delle due forme di tempo. Lo spazio-tempo astratto dell'economia imprenditoriale non conosce "sviluppo". Qui, un'ora è sempre un'ora di tempo indipendente, senza contenuto, senza qualità, omogenea. Questo tempo corrisponde alla dimensione del valore della riproduzione, al tempo astratto ed insieme ad esso all'oggettività del valore della materia, pertanto corrisponde al valore d'uso del feticcio sociale della produzione e della realizzazione del plusvalore. Il contenuto materialmente indifferente, trasportato insieme ad esso, però si trasforma, viene sempre nuovamente determinato, ed in realtà non in semplice cambiamento casuale ma, attraverso la crescente scientifizzazione e produttività, in processo storico concreto. In questo riferimento al contenuto, indifferente al fine in sé della valorizzazione del valore, ma che si valorizza nella pratica, un'ora non è sempre la medesima ora, ma viene riempita progressivamente di novità, si trasforma in tempo di qualcosa di differente, in tempo di "sviluppo".

Postone segnala, sul piano logico, l'opposizione e l'intreccio di queste due forme di tempo:

"La costante temporale astratta, è allo stesso tempo costante e non costante. Vista come tempo astratto, l'ora di lavoro sociale rimane costante, in quanto misura di ogni valore prodotto. Concretamente espressa, però varia in rapporto alla variazione della produttività. Tuttavia, una volta che l'unità di tempo astratto continua ad essere la misura del valore, essa non si esprime, nella sua nuova determinazione concreta, in unità di tempo in quanto tale... Che il quadro temporale astratto rimanga costante, ma determinato sostanzialmente come nuovo, è un paradosso... Questo paradosso non può essere risolto sulla base del tempo astratto newtoniano. Al contrario, rimanda ad un altro tipo di tempo di livello superiore. Questo movimento risultante dalla nuova determinazione sostanziale del tempo astratto, non può essere espresso in concetti di tempo astratto; reclama un altro quadro di riferimento. Possiamo immaginarlo come una specie di tempo concreto... Così, questo movimento di tempo è una funzione della dimensione del valore d'uso del lavoro, e della sua interazione con la dimensione del valore, e può essere inteso come una sorta di tempo concreto" (Postone, cit.).

La dimensione del valore d'uso significa qui la materialità concreta dissociata, la quale del resto non deve essere "utile" se non in senso enfatico, ma che include, anche e soprattutto, lo sviluppo delle forze produttive in quanto forze distruttive. Da un lato, quindi, siamo davanti ad un "quadro di tempo omogeneo, astratto, che è immutabile e serve da misura del movimento" (Postone, cit.). Dall'altro lato, proprio da questo spazio-tempo dell'economia imprenditoriale viene promosso, sul piano materiale concreto dello sviluppo delle forze produttive/forze distruttive, il tempo storico concreto di un processo sociale di sviluppo dinamico ed irreversibile:

"Ciò implica continui cambiamenti nella natura del lavoro, della produzione e della tecnologia, così come l'accumulazione di forme di sapere a tutto questo connessi. Visto in generale, il movimento storico della totalità sociale ha come conseguenza delle trasformazioni massive, continue, del modo di vita sociale della maggioranza della popolazione - modelli sociali di lavoro e di vita, struttura e distribuzione delle classi, natura dello Stato e della politica, forma della famiglia, forma del sistema culturale ed educativo, forme di circolazione e di comunicazione, ecc.. Il tempo storico nel capitalismo può pertanto essere visto come una forma di tempo concreto, il quale è socialmente costituito e dà espressione ad una trasformazione continua della vita sociale in generale, così come delle forme di coscienza, di valore e di necessità, da parte del lavoro e della produzione. Al contrario del "flusso" di tempo astratto, questo movimento non è uniforme, ma varia e può anche accelerare" (Postone, cit. ).

Il tempo astratto, omogeneo ed autonomizzato, in quanto misura della combustione - che si pretende infinita - dell'energia umana, corrisponde e confligge con il tempo storico concreto delle sviluppo ciecamente dinamizzato ed ugualmente indipendente, in un'altra maniera però, nel cui decorso non è solo il volto del mondo ad essere trasformato, ma anche le categorie reali della socializzazione del valore mutano qualitativamente la loro forma. E' lo sviluppo, non solo dalla diligenza postale, passando per la ferrovia, fino ad arrivare alla "automobilizzazione" della società, ma anche a partire dalla struttura familiare stabile della produzione, passando per la concentrazione di "eserciti del lavoro", fino ad arrivare all'individualizzazione astratta, simultaneamente con lo sviluppo delle relazioni di dissociazione sessuale a questa collegate; è il processo che va dalla sussunzione formale delle strutture di produzione precedenti alla sussunzione reale del processo di produzione e di vita sotto il capitale, sulla base dei fondamenti propri di questo; la storia della scienza moderna si intreccia con la dinamica capitalista, la relazione fra l'accumulazione imprenditoriale e la crescente necessità di condizioni di inquadramento nell'insieme della società (infrastrutture), ecc..

Osservando le due forme di tempo dal punto di vista della coscienza dei soggetti, degli individui e delle istituzioni, potremmo definire lo spazio-tempo astratto dell'economia imprenditoriale come la forma del tempo soggettivamente stabilita, ed il tempo storico concreto dello sviluppo capitalista come la forma del tempo che si manifesta oggettivamente. In quanto l'azione sociale propria dei soggetti si realizza sempre solo nel quadro del tempo astratto, omogeneo, dell'economia imprenditoriale svincolata, e sotto la pressione dei suoi imperativi (per esempio da parte dello Stato e della politica) o in relazione a questo quadro presupposto di tempo; tale tempo è indipendente, ma fissa il quadro immediato dell'azione dei soggetti. Il tempo storico concreto, al contrario, è la risultante cieca, la dinamica oggettivata di una storia del "soggetto automatico", e solo indirettamente fatta dagli esseri umani, e a maggior ragione senza il loro controllo sociale. E' una relazione paradossale di tempo: il tempo soggettivo, cosciente, è vuoto ed astratto, tempo di combustione dell'energia umana indifferente a qualsiasi contenuto; il tempo storico concreto dello sviluppo reale del contenuto materiale, al contrario, è tempo oggettivo, incosciente, e perciò fatalità storica.

Da qui, di conseguenza, l'emancipazione sociale può consistere soltanto nel conseguire il controllo sociale sul tempo storico concreto, di modo che lo spazio-tempo svincolato dell'economia imprenditoriale venga coscientemente distrutto, soppresso ed insieme a questo venga superata la logica della valorizzazione del valore. Soltanto l'inclusione della riproduzione nel mondo della vita, la dissoluzione del lavoro astratto, ed insieme ad esso della dissociazione sessuale, può porre fine anche alla dissociazione ed alla sempre maggiore indifferenza per i contenuti materiali del processo di produzione. Sarebbe la fine della separazione fra la vita e la produzione, fra il contenuto e la forma, fra produzione e circolazione, fra economia e politica. Solo in questo modo, quando si conseguirà un'integrazione sociale, in cui per la prima volta nella storia i membri della società organizzeranno coscientemente l'uso delle loro risorse comuni (ad esempio, una organizzazione di consigli pianificata e globale), e così per la prima volta anche il tempo storico concreto; solo così il processo capitalista di distruzione del mondo potrà essere fermato, e lo sviluppo sociale smetterà di essere un processo cieco di fatalità.

Il marxismo tradizionale non è nemmeno in grado di pensarlo, un simile compito, ed ancor meno capace di lottare per realizzarlo. Se, in passato, per i teorici del marxismo del movimento operaio, il tempo storico concreto del capitalismo veniva fuori, sebbene non come concetto, ma almeno indirettamente, nelle discussioni più o meno positiviste sugli "stadi di sviluppo" del capitalismo, oggi quel che rimane dei rappresentanti di questo pensiero ha completamente bandito dalla propria riflessione il problema del tempo storico concreto, e insieme ad esso quello della storicità del capitalismo. Il che vuol dire che la storia interna del capitalismo, la storia del suo sviluppo e della sua crisi, oggi è andata a sbattere contro i suoi propri limiti. Ne consegue anche che non è più possibile stabilire il tempo storico concreto come risultante dallo spazio-tempo astratto dell'economia imprenditoriale, in maniera categorialmente immanente, nel senso di un'interpretazione "critica" della prossima fase di sviluppo. Il tempo storico concreto ora può ancora essere pensato criticamente soltanto nel senso di una critica categoriale dello spazio-tempo svincolato del lavoro astratto.
Quel che è rimasto del marxismo tradizionale, del tutto incapace di fare qualcosa del genere, si è perciò rifugiato, per quanto riguarda il concetto di capitale, nella concezione di un "eterno ritorno dello stesso"; convertendosi in una sorta di "marxismo buddista". Questa caratterizzazione non è affatto polemicamente esagerata. C'è scritto - per citare solo un esempio significativo - in un trattato per il resto particolarmente pretenzioso su quest'assunto, anche se non riesce a nascondere le orecchie d'asino del vecchio pensiero marxista diventato obsoleto:

"E' evidente... come sia difficile trovare qualcosa di sostanzialmente nuovo, di originale, nella realtà capitalista, che lo stesso Marx non abbia già da molto tempo anticipato... Questo non vuole essere un omaggio a Marx: si tratta né più né meno della constatazione per cui... essenzialmente il capitale rappresenta l'eterno ritorno dello stesso" (Initiative Sozialistisches Forum, Der Theoretiker ist der Wert, Friburgo 2000, pág. 79 ).

Esplicitamente o implicitamente, si può constatare questo rifiuto del pensiero di uno sviluppo storico nella relazione di valore, quasi senza eccezione, fra i naufraghi sopravvissuti di un'epoca giunta al termini della critica categoriale immanente del capitalismo.

In altre parole: questo pensiero ora si limita interamente al quadro temporale del tempo continuo astratto ed omogeneo dell'economia imprenditoriale. In questo quadro temporale si verificano diversi eventi, ma non c'è né sviluppo né storia. Gli corrisponde la riduzione strutturale del concetto di capitale sul piano del capitale isolato e la sua pretesa eterna capacità di riproduzione. La dimensione sociale totale della socializzazione del valore scompare dal campo visivo, insieme al tempo storico concreto. Così si fonde il marxismo tradizionale arrivato al suo stadio finale con la prospettiva economica e storica borghese (fine della storia, punto di vista "micro-economico"). Se non si può più pensare nessun nuovo stadio di sviluppo del capitalismo "di sinistra", visto che non ce n'è nessuno, si smette di pensare del tutto il tempo storico concreto. Così, il marxismo tradizionale dimostra solo la sua immanenza categoriale nella socializzazione del valore, che esso si sforza di descrivere come ontologizzazione del lavoro astratto. Per cui va inevitabilmente a sbattere contro un limite storico, insieme con il suo oggetto.

Questo rimanda al problema della crisi categoriale. Il tempo storico concreto del capitalismo - così come esso viene rilasciato sul piano sociale materiale concreto, come processo cieco, per effetto dello spazio-tempo astratto dell'economia imprenditoriale - costituisce di fatto una storia non solo dello sviluppo, ma anche della crisi. L'irreversibilità di questo processo sfocia in uno "stadio di sviluppo" che tale non è più, ma in cui si manifesta un limite storico assoluto. Critica categoriale e crisi categoriale si condizionano reciprocamente. Perché si possa fondare questo nesso sul piano del tempo storico concreto, è necessaria un'analisi del lavoro astratto dal punto di vista delle sue relazioni quantitative. La storica desustanzializzazione del valore, o la svalorizzazione del valore, si presenta come problema quantitativo del lavoro astratto, il che costituisce il nucleo della teoria della crisi di Marx. Questa relazione quantitativa del lavoro astratto, nel senso di un limite interno di spazio-tempo economico-imprenditoriale svincolato, verrà discussa nella seconda parte del presente studio.

Continua...

Pubblicato sulla rivista Exit!, 1/2004. Fonte: EXIT!

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