Print
Hits: 7099
Print Friendly, PDF & Email

dialetticaefilosofia

Orientarsi nel labirinto della lotta di classe

A proposito di un libro di Domenico Losurdo

Elena Maria Fabrizio

Non è stato l’Occidente a essere colpito dal mondo; è stato il mondo che è rimasto colpito - e duramente colpito - dall’Occidente
A. Toynbee, Il mondo e l’Occidente

Domenico Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 387

scioperanti del settore edile Parigi Bois de Vincenne 1936L’assenza cronica di visioni globali della storia è il più grave colpo inflitto dall’umore postmoderno alla contemporaneità. Di questa assenza soffre anche certa cultura marxista, spesso retrocessa a visioni che hanno rimosso dall’orizzonte storico la portata universalistica del conflitto di classe, qualche volta ridotto a semplice stagione del più ampio processo moderno di emancipazione, qualche altra a progetto fallimentare di cui solo la tradizione liberal-riformista avrebbe saputo tesaurizzare gli aspetti propulsivi.

In questa situazione culturale e politica analizzare i processi storici attraverso la categoria della lotta di classe è un’operazione coraggiosa perché tocca questioni ideologiche e etico-politiche che dal crollo del comunismo sovietico è politicamente scorretto, se non scandaloso, evocare. La critica dell’ideologia però resiste, in uno studioso che ne è tra i più illustri e forse ortodossi rappresentanti e di cui ci sono noti i meticolosi controcanti all’edificante apologia di quella storia che l’Occidente proclama come progressiva e propria. Con questo libro, Losurdo riprende il filo di una ben nota narrazione che si vuole far passare per fallita o passé, ma che forse non si conosce ancora abbastanza. Ne scandaglia l’interna complessità e senza riduzionismi di sorta ci restituisce una visione globale della storia nella quale la lotta di classe riceve il ruolo di spinta che le spetta nel processo di emancipazione e costruzione di unità del genere umano.

Sul piano del metodo si tratta di un’operazione complessa che richiede una serie di passi: capire cosa intesero Marx e Engels per lotta di classe, attraverso un approccio filologico dell’opera omnia che tra apporti, limiti, scarti, incongruenze, possa gettare luce sul complessivo processo di maturazione che condusse alla sua definizione; mettere in relazione tale teoria con la concreta partecipazione dei due militanti rivoluzionari alle lotte politiche del loro tempo; verificare in che misura essa si riveli efficace nella comprensione della situazione storico-politica contemporanea. Ne risulta una lettura originalissima della lotta di classe, «una macrostoria essoterica», che spiazza molte vulgate, innanzi tutto quella sostenuta da noti intellettuali (tanto liberali quanto marxisti), che tende a delimitarla al solo conflitto tra borghesia capitalista e proletariato in un singolo paese, e quindi a ritenerla risolta, pacificata o morta, almeno in Occidente a partire dal secondo dopoguerra, grazie alla realizzazione dello Stato sociale, alla diffusione dell’istruzione o allo sviluppo della scienza-tecnologia (Habermas, Dahrendorf, Ferguson, Arendt). Da questa errata comprensione della lotta di classe, come vedremo, dipendono molte altre.

Il sospetto che questa visione semplificata sia non solo estranea a Marx e Engels, ma mistifichi una realtà più contraddittoria e articolata, è confermato, secondo Losurdo, da almeno tre fattori che caratterizzano la storia della seconda metà del Novecento. Il primo riguarda gli Usa dove lo Stato sociale non esiste o è minimal, e dove nonostante il boom economico degli anni ’50 si sono acutizzate le differenze economiche e sociali, si è esasperata la segregazione razziale, la borghesia ha continuato a esercitare la white supremacy, si assiste al dilagante fenomeno dei woorking poor. Il secondo riguarda le rivoluzioni anticoloniali che, contemporaneamente alla presunta pacificazione di classe, si sono verificate su scala mondiale. Il terzo chiama in causa la storia regressiva che interessa l’Europa e che vede minacciata l’acquisizione dei diritti sociali ed economici, proprio nella regione che grazie alle spinte del movimento operaio e sindacale ne ha maggiormente sostenuto la realizzazione.

Ora tutta questa storia smentisce anche le letture apologetiche e spesso ingannevoli che legano autori liberali come Toqueville, Mill, Arendt in quella visione progressista che avrebbe condotto la rivoluzione borghese alla diffusione e distribuzione della ricchezza, al livellamento universale delle differenze sociali, alla promozione dell’egualitarismo civile e politico. E le smentisce perché se la storia è un processo di apprendimento, la coscienza storica impone il riconoscimento di tutti gli antagonismi che lo alimentano. Di conseguenza liberare la lotta di classe dalla semplificazione oppositiva capitalisti-proletari aiuta a comprendere le condizioni storiche e concrete che l’hanno condotta di volta in volta a modificarsi e a maturare i diversi antagonismi; ma può aiutare a comprendere anche le contraddizioni del nostro tempo e le spinte che essa può ancora imprimere alla progressualità storica.

 

Molte forme di lotta di classe

A partire dal Manifesto del partito comunista, e via via scorrendo altre opere edite o postume, compreso il carteggio tra i due militanti amici o le testimonianze delle persone che gravitarono nella loro sfera pubblica e privata, si evince che Marx e Engels seguirono e promossero «con la stessa passione» le molteplici lotte di emancipazione del loro tempo, cercando di analizzarle alla luce di una complessa teoria, che non è esposta in modo organico e sistematico. Da questa ricca mole di fonti e di riscontri, si desume che anche le lotte di liberazione nazionale dei popoli oppressi e di liberazione delle donne, sono parte integrante delle lotte generali per l’emancipazione dellaclasse operaia. È la stessa divisione del lavoro nazionale, internazionale e familiare a imporre una tale interdipendenza. Lo sfruttamento capitalistico del lavoro che assoggetta l’operaio è infatti l’altra faccia sia dello sfruttamento di un popolo su un altro con la relativa riduzione in schiavitù, sia dell’asservimento domestico delle donne. La lotta contro la schiavitù moderna, mascherata dal salario, non può che implicare la lotta contro quella ben più grave schiavitù imposta nelle colonie; e in genere contro tutte le forme di schiavitù generate dal capitale.

La lotta di classe allora è solo il genus, la categoria generale del conflitto sociale che proviene dai rapporti capitalistici di produzione e dalla conseguente divisione del lavoro; essa investe ogni società e tutta la società nel senso, esplicitato dal Manifesto, che tutte le lotte della storia sono lotte tra classi sociali. La pluralità invocata non rinvia però alla mera successione storica, nella quale si ripeterebbe lo stesso schema polarizzante e meccanico tra classi dominanti e classi oppresse con il conseguente auspicato rovesciamento, ma significa che le lotte assumono species, cioè forme diverse e spesso contraddittorie (lotte del proletariato nelle metropoli, lotte anticoloniali o di liberazione nazionale, lotte contro la schiavitù domestica), impegnando nello scontro i soggetti sociali che auspicano l’emancipazione e quelli che al contrario intendono bloccarla. Ciò che le unisce nel genus è il tentativo di scardinare la divisione del lavoro vigente tra le nazioni, nella nazione, nella famiglia e i relativi rapporti di coercizione servili imposti dai borghesi ai proletari, da un popolo a un altro popolo, dall’uomo alla donna.

Si comprende così perché Marx e Engels rivendichino insieme alla liberazione economica del proletariato, la liberazione economica delle popolazioni oppresse e dunque perché la questione sociale in Irlanda o in Polonia, diventi ai loro occhi una questione nazionale, da rivendicare rispettivamente contro l’Inghilterra e la Russia zarista. Quando un popolo nel suo complesso è espropriato della propria ricchezza e capacità produttiva, ridotto in schiavitù e quindi assoggettato da un altro popolo che espropria e riduce in schiavitù, è lo stesso genus che si ripete nella species.

Si comprende altresì l’attenzione tutta speciale che, soprattutto Marx, dedica alla guerra di secessione americana. Ben consapevole delle contraddizioni e dell’ipocrisia ideologica che la connotava ̶ l’obiettivo dell’abolizionismo dalla schiavitù marciando insieme alla lotta tra la borghesia industriale del Nord e l’aristocrazia fondiaria del Sud, secondo uno schema che alla schiavitù classica andava e andrà sostituendo quella salariata, Marx non esitava a collocarla tra le più importanti lotte di classe del suo tempo. Perché scioglieva l’identità di lavoro produttivo e schiavitù, perché poneva le condizioni favorevoli per la liberazione di tutti i lavoratori, perché sconfiggeva la «crociata della proprietà contro il lavoro», perché liberando una razza oppressa avrebbe potuto condurre al riconoscimento americano delle nuove repubbliche.

Anche la lotta per l’emancipazione delle donne fa parte della lotta di classe ed è un’altra forma in cui essa si manifesta. A differenza di altri intellettuali che militarono per la liberazione della donna (Condorcet, Mill), Marx e Engels, ma com’è noto soprattutto quest’ultimo, individuano la genesi di tale soggezione nell’ordinamento sociale capitalistico dove all’oppressione del borghese sull’operaio coincide quella del maschio padrone sulla donna ridotta in condizione di servitù materiale, psicologica e politica. Una spiegazione molto vicina a quella della famosa Wollstonecraft e più concreta di quella che rinvia al pregiudizio sociale, all’abitudine, agli stereotipi più o meno diffusi.

 

Non solo un paradigma economicistico

È ben nota la portata universalistica di cui, secondo Marx e Engels, si nutrono le lotte di classe, per la tendenza a trascendere gli interessi degli sfruttati che la promuovono e a porsi obiettivi che possono essere universalmente condivisi: la liberazione dall’alienazione interessa anche il capitalista, l’eliminazione della povertà interessa tutto l’ordine sociale, mentre la fine delle guerre coloniali, liberando i popoli oppressi, libera anche gli oppressori dallo stato d’assedio a cui sono sempre sottoposti tanto da quei popoli, quanto dai nemici interni che essi creano attraverso vessazioni e sfruttamento. Questa tensione al trascendimento rende rozza e volgare ogni riduzione della lotta di classe al solo paradigma economicistico e redistributivo, una vulgata diffusa dalla tradizione liberale, che si rinnova nella seconda metà del ‘900 (Fraser), ma è figlia della precedente che riduce la lotta di classe al solo conflitto tra borghesia e proletariato.

Le lotte di classe sono invece lotte per la libertà che si iscrivono nel più ampio processo storico di emancipazione messo in moto dalla Rivoluzione francese; sono quindi lotte per il riconoscimento della piena dignità e umanità dovuta alla persona di cui invece operai, schiavi, popoli oppressi, donne rappresentano la negazione. Essa, secondo Losurdo, già nell’ottica di Marx e Engels va pensata come declinazione kantiana del famoso paradigma hegeliano. Nel senso che essa implica l’affermazione dell’imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti in cui l’uomo è oppresso e degradato e di affermare l’umanesimo reale, storicamente compiuto. Che non è l’umanesimo edificante o moralisticheggiante imputato a Marx per esempio da Althusser, che lo relega nella presunta fase retorico-teorica delle opere precedenti al più maturo conseguimento della teoria scientifica e materialistica della storia. Piuttosto Losurdo dimostra, con un’ampia citazione di testi della fase già materialistica (dal 1845 al Capitale), che la critica ai processi di deumanizzazione perpetrati dalla dinamica capitalistica è una costante morale e politica della militanza intellettuale di Marx. Non a caso solo l’intreccio di analisi scientifica e condanna morale possono spiegare l’appello alla rivoluzione e stimolare la prassi verso un rovesciamento dei rapporti iniqui. Il comune denominatore delle tre lotte di classe è quindi sia economico-politico: modificare la divisione del lavoro sul piano internazionale tra i popoli, su quello nazionale nella fabbrica, su quello familiare tra i generi; sia politico-morale: superare la deumanizzazione e conseguire il riconoscimento.

Sotto quest’aspetto, né il paradigma liberale del contratto, che presuppone una libertà solo formale e teorica che finisce per sancire forme legali di subordinazione, né quello giusnaturalistico che non si mostrava all’altezza di includere quali titolari di diritti lo schiavo, l’operaio e la donna, possono essere giudicati da Marx adeguati a comprendere le ingiustizie della società capitalistica.

Più adatto si rivela invece il paradigma del riconoscimento che proviene dalla lezione di Hegel (dalla Fenomenologia ai Lineamenti, passando per la Logica), già chiara a Marx e Engels, sebbene essi vi abbiano impresso due mutamenti dialettici. Come ci fa notare Losurdo, in Hegel il modello del riconoscimento è sviluppato secondo due linguaggi. Il linguaggio della dialettica signoria-servitù, dove la dialettica del riconoscersi implica che ciascuno è libero solo quando riconosce e rispetta l’altro quale individuo libero. Il linguaggio della logica, dove si osserva che «il giudizio negativo infinito» è una specie singolare di negazione in cui ad essere negato non è un particolare o un diritto particolare, come nel caso di un torto subito (giudizio negativo semplice), ma è una categoria generale, un diritto universale («il diritto come diritto»), il diritto a essere uomo come nel caso del delitto. Il giudizio negativo infinito può essere pronunciato tanto sullo schiavo, nella misura in cui il negativo, la sua non umanità diventa infinita, piena, perpetua, misconoscimento assoluto; quanto sul povero, che rischiando la morte per inedia non è riconosciuto come titolare di diritti e cioè come uomo.

Anche in Marx e Engels operano questi due linguaggi, quello che celebra il concetto universale di uomo e quindi l’unità del genere umano sulla base dell’eguaglianza; quello della lotta per il riconoscimento e il superamento della degradazione cui conduce l’uomo come mezzo. E tuttavia, come si diceva, con una fondamentale doppia variante dialettica. La prima riguarda il riconoscimento reciproco da parte degli schiavi e degli operai come membri di una classe sfruttata, quale precondizione della lotta per il riconoscimento; la seconda riguarda l’estensione del paradigma al rapporto tra i popoli: perché se l’individuo è libero solo quando riconosce l’altro come libero (Hegel), allora nessun popolo è libero se non riconosce l’altro popolo come libero.

 

Diversi soggetti e diverse interdipendenze

Quando l’analisi delle diverse forme di lotta e dei diversi conflitti in gioco si estende a quella delle diverse interdipendenze e quindi dei diversi soggetti implicati, la lettura storicamente determinata della lotta di classe assume la forma di un labirinto, nel quale per districarsi occorre l’impegnativa rinuncia alla semplificazione. In particolare alla lettura binaria del conflitto sociale che «spiega tutto a partire da un’unica contraddizione», quella degli oppressi contro gli oppressori (poveri contro i ricchi, proletari contro borghesi, donne contro uomini).

La lotta per l’emancipazione dei popoli per esempio coinvolge soggetti tra loro socialmente eterogenei. Da una parte le nazioni oppresse devono condurre la loro lotta con la massima unità, insieme al popolo partecipano anche i nobili; dall’altra, nella nazione che opprime (l’Inghilterra nel caso dell’Irlanda) gli operai sono chiamati ad una lotta contro la politica capitalistica della classe dominante inglese che, promuovendo la loro emancipazione, contribuisca all’emancipazione delle nazioni oppresse. Nel contempo gli operai possono partecipare alla liberazione delle donne, e gli aristocratici a quella stessa indipendenza della nazione per la quale lottano gli operai e le donne. La borghesia può assumere un ruolo riformatore in Inghilterra o addirittura rivoluzionario nella guerra civile americana. La stessa lotta può generare passaggi di campo. Quando gruppi della classe dominante, soprattutto gli intellettuali, si staccano da essa per unirsi a quella rivoluzionaria nella quale intravedono la guida del futuro; il che si ripete, spostando lo scenario più avanti, quando i nobili sostengono i bolscevichi, o i capitalisti cinesi il partito rivoluzionario di Mao, in entrambi i casi per sostenere la causa di liberazione della nazione. Sono esempi che dimostrano come la lotta di classe non si manifesti mai allo «stato puro» e come Marx e Engels ne furono ben consapevoli.

Non che il percorso verso il superamento della logica binaria sia stato lineare e compiuto. In alcuni scritti essi enfatizzano l’opposizione di classe e la crescita del movimento operaio senza sottoporre tale dato alle differenze tra paese e paese, con la conseguente semplificazione della contrapposizione tra la «contro organizzazione internazionale del lavoro» e la «cospirazione cosmopolita del capitale» rappresentati rispettivamente da un proletariato e una borghesia uniti a livello mondiale, sotto la quale vengono letti eventi di breve durata (Comune di Parigi) e viene ignorata la conflittualità tra le diverse borghesie e i diversi proletariati. Oppure quando l’imminenza di una rivoluzione planetaria viene sostenuta sull’auspicio che la lotta di liberazione dei neri in Usa avrebbe condizionato quella dei servi della gleba in Russia e degli operai in Inghilterra. Oppure ancora quando la conquista proletaria del potere in un paese avrebbe aperto la strada all’internazionalizzazione del conflitto per la liberazione dei popoli oppressi, senza cogliere il conflitto delle libertà che un tale scenario potrebbe far sorgere.

Nonostante le oscillazioni, secondo Losurdo, la consapevolezza che i conflitti di classe presenti nelle rivoluzioni moderne non coincidessero con la semplice lotta tra oppressi e oppressori fu però abbastanza chiara in Marx e Engels. La borghesia, per esempio, come classe oppressa dall’aristocrazia è detentrice di un potere economico e di un prestigio sociale che in nessun modo possono collocarla dalla parte degli sfruttati, né questa classe si esime in determinate circostanze dal lottare dalla stessa parte dell’aristocrazia. Coloro che lottano per la liberazione delle donne possono essere anche borghesi e quindi estranei alla categoria degli oppressi. Le stesse donne che soffrono della schiavitù domestica appartengono tanto alla borghesia quanto alle classi subalterne. Di conseguenza sul piano della lotta, i lazzaroni possono sostenere la monarchia contro la borghesia, determinando il fallimento della rivoluzione napoletana, ma possono sostenere la borghesia contro gli operai determinandone la sconfitta nel ’48 francese; l’operaio sfruttato può non percepire il nesso tra il proprio sfruttamento e quello dei popoli colonizzati e quindi sostenerne l’oppressione. La donna soggetta al marito, se è operaia può essere soggetta al borghese, se è irlandese può appartenere ad una nazione oppressa, ma può a sua volta alimentare il sistema patriarcale rendendosi partecipe dello sfruttamento dei figli. E infine le stesse borghesie possono entrare in lotta tra loro per l’accaparramento del mercato mondiale.

Come si vede, solo quando Marx e Engels superano l’uso della logica binaria del conflitto sociale si acutizza e si affina in loro la capacità di una più lucida comprensione della dinamica storica, dei diversi conflitti in atto, dell’eterogeneità dei protagonisti sociali e del loro calarsi in situazioni storiche concrete. E quindi si riesce per esempio a declinare l’internazionalismo operaio nel rispetto delle diverse forme di lotta, come sostegno al movimento di liberazione nazionale anche si vi partecipa la borghesia polacca o a quello della liberazione dei neri americani anche se guidato da un governo borghese. Si invita il proletariato ad appoggiare gli irlandesi o i polacchi, ma non gli slavi meridionali, la cui lotta era funzionale allo zarismo russo, a dimostrazione che non tutte le lotte nazionali sono legate alla questione sociale. Ma se si appoggiano gli irlandesi quando si tratta della loro liberazione nazionale, si critica poi aspramente gli irlandesi immigrati quando si ribellano alla coscrizione obbligatoria voluta da Lincoln a sostegno delle forze dell’Unione, a dimostrazione in questo caso, che sul piano del metodo è sempre la questione sociale a guidare il discernimento tra un movimento e l’altro, e tra una fase e l’altra dello stesso movimento.

E, infine, si riesce a registrare con amara constatazione come negli anni ’80 dell’Ottocento il proletariato tenda a imborghesirsi e a sostenere il colonialismo, secondo l’ideologia del «socialismo imperiale» promossa dalle classi dominanti dei governi che, in cambio di cessione dei diritti politici e di timide riforme sociali, ottengono dal proletariato e dai partiti socialisti appoggio e lealtà nazionale all’espansionismo coloniale.

 

La svolta epistemologica e la migrazione a Est della rivoluzione

Con l’ideologia del socialismo imperiale, che frammenta la lotta di classe cooptando il proletariato inglese nello sfruttamento coloniale e nell’appoggio ad una prassi presentata come proficua persino dai partiti socialisti (Bernstein o i laburisti inglesi), viene a cadere uno dei presupposti della teoria marxiano-engelsiana, la connessione tra rivoluzione proletaria e emancipazione dell’umanità oppressa. Anche la rottura dell’internazionalismo socialista, lungi dal consumarsi sull’alternativa tra riformismo e rivoluzione, va collegata a questa crisi, come del resto attesterà l’appoggio delle sinistre europee alla concorrenza e competitività spietata tra le nazioni che sfocerà nella Prima guerra mondiale. Siamo ad uno snodo fondamentale della storia della lotta di classe, che deve ora confrontarsi con una situazione urgente e concreta. Per cogliere questo punto di crisi occorreva deporre definitivamente le lenti della logica binaria, ereditare con più consapevole maturità il nesso individuato da Marx e Engels tra questione sociale e questione nazionale, tra quest’ultima e internazionalismo; e con altrettanta lucidità storico-politica imprimere alla lotta di classe una vera e propria «svolta epistemologica».

Solo Lenin fu all’altezza di tale compito, la sua intelligente e profetica analisi politica dell’imperialismo, testimonia che egli comprese il salto da compiere: la coscienza della classe operaia per diventare politica doveva andare oltre la consapevolezza della propria condizione di sfruttamento e concentrarsi su tutti i conflitti della totalità sociale, sull’oppressione delle minoranze nazionali, dei popoli colonizzati, degli schiavi, delle donne. La stessa dinamica della rivoluzione bolscevica dimostra che l’obiettivo di realizzare un nuovo ordine sociale non poteva essere disgiunto da quello di conseguire l’indipendenza nazionale nei confronti di ogni tipo di colonizzazione in potenza o in atto. Di qui il motivo per il quale la rivoluzione invocata dal Manifesto scoppiò in Oriente, dove quindi non fu dirimente la debolezza del capitalismo o l’assenza di una tradizione liberale, ma la piena coscienza che la rottura prodottasi in Occidente richiedesse declinare la lotta di classe in una situazione storica concreta e di collegarla all’impegno di volta in volta determinato contro una particolare forma di oppressione, contro l’espansione coloniale, l’oppressione nazionale (degli ebrei in Russia), la guerra. A partire da questa consapevolezza Lenin seppe tradurre nella concreta realtà storica il doppio mutamento dialettico operato da Marx e Engels, orientandolo in due precise dinamiche di riconoscimento.

Nel riconoscimento della dignità dei contadini, e quindi nel riscatto dalla loro condizione di miseria materiale e morale, di sfruttamento disumano ad opera di una ristretta élite aristocratica, riconoscimento che si estende anche agli operai (lotta per l’emancipazione delle classi oppresse).

Nel riconoscimento della dignità di un popolo e quindi nel suo riscatto dal giogo coloniale, cui le potenze occidentali tentarono di sottoporre nel corso della Prima guerra mondiale. È una rivendicazione che accomuna tutto il movimento anticolonialista successivo, rivolto a quelle nazioni che si arrogano il diritto di sottomettere altri popoli disconoscendo la loro civiltà, la loro autonomia politica e la loro nazionalità (lotta nazionale, anticoloniale e internazionale).

Da questa svolta segnata dall’Ottobre rivoluzionario, la lotta di classe procede, con successi e fallimenti, con una certa continuità storica che arriva sino ai nostri giorni. Troviamo infatti il nesso tra questione sociale e questione nazionale, sia la duplice lotta per il riconoscimento, anche nella Cina di Mao, quando con l’espandersi dell’invasione giapponese, cambia anche la piattaforma teorica e la strategia rivoluzionaria. La lotta rivoluzionaria contro la schiavitù dei contadini e degli operai si trasforma in lotta di liberazione nazionale contro l’impero giapponese e l’insulto che esso arreca alla dignità di un popolo; mentre il partito rivoluzionario si trasforma in partito della nazione perché ne rappresenta gli interessi, sicché anche in questo caso la lotta di liberazione nazionale viene percepita come applicazione al caso concreto della Cina, quale contributo che essa apporta alla lotta internazionale.

La duplice lotta nazionale e anticoloniale caratterizza poi l’Urss di Stalin contro il progetto colonizzatore del Terzo Reich. Se si legge questo progetto per quello che voleva essere, appunto un progetto colonialista e classista: il tentativo di fondare un impero coloniale tendente a disinnescare il conflitto sociale nella madrepatria trasformando i proletari in proprietari terrieri mediante l’occupazione a est di nuovi territori e la riduzione in schiavitù dei popoli inferiori da parte della superiore razza ariana.

Anche negli anni del dopoguerra la rivoluzione algerina, quale lotta contro la fame ma anche contro la soggezione antropologica imposta dal colonizzatore, e la rivoluzione vietnamita seguono questo doppio registro emancipativo. Si tratta ancora una volta di lotte per il riconoscimento nel senso ampio del termine che proviene da Marx e Engels, e che smentiscono ancora una volta la riduttiva lettura economicistica e redistributiva del paradigma della lotta di classe. Sono lotte che hanno avuto risonanze planetarie perché hanno innescato quel circolo virtuoso tra anticolonialismo, riscatto dei popoli e abolizione della soggezione razziale o economica all’interno dello stesso Occidente.

 

Le nuove forme impresse da Lenin alla lotta di classe

La svolta impressa da Lenin consente anche di collocare nella corretta dimensione storica le «nuove forme» con le quali il leader bolscevico intese cambiare la lotta di classe, cercando di coniugare la duplice lotta contro la diseguaglianza di classe e la diseguaglianza tra le nazioni entro un registro tanto unitario quando dialettico. Promuovere lo sviluppo delle forze produttive, «conquistare la tecnica» incorporando all’interno del comunismo il sistema produttivo capitalistico, significava lavorare per l’eliminazione della diseguaglianza internazionale, portando l’Urss ai livelli produttivi delle altre nazioni capitalistiche; e di conseguenza lavorare anche per l’eliminazione della miseria socializzata e per il raggiungimento della reale emancipazione.

Per attuare questo programma, con il quale Losurdo cerca di chiarire lo storico passaggio dal comunismo di guerra alla nuova politica economica (Nep), la lotta di classe postrivoluzionaria doveva far seguire all’espropriazione del potere borghese, e quindi all’autonomia politica, l’espropriazione economica. Se la prima era stata realizzata, anche la seconda doveva configurarsi come un’espropriazione appropriante, nel senso che invece di distruggere il capitalismo, occorreva apprendere dalla classe politicamente espropriata i mezzi e le tecniche economiche utili allo sviluppo del paese. Consapevole della sproporzione tra potere politico e potere economico che la Russia stava vivendo nella fase postrivoluzionaria, Lenin comprese che la dialettica di classe, quella che aveva visto la borghesia avvalersi della collaborazione della classe aristocratico-feudale espropriata del potere ma pur sempre funzionale all’amministrazione e consolidamento dello Stato, doveva ripetersi ora nel rapporto tra proletariato e borghesia, nel senso che solo da questa classe il proletariato poteva sperare di apprendere la gestione amministrativa e lo sviluppo economico. Quest’obiettivo di riscatto, crescita e indipendenza economica richiedeva come sappiamo il sacrificio seppur transitorio degli interessi della classe operaia. Richiedeva cioè la creazione di un margine di diseguaglianza retributiva all’interno della nazione, tra i tecnici qualificati chiamati a dare una spinta alla produzione (nepman) e il resto dei lavoratori, che accentuava il divario tra regioni avanzate e arretrate. Se poi l’apertura al mercato e ai capitali stranieri aiutava a potenziare le risorse del paese, era pur sempre sottoposta alla cruda logica del profitto. Ciononostante, agli occhi realistici della teoria della lotta di classe storicamente determinata, anche questa prassi rappresenta una nuova forma politica per proseguire la lotta di classe, e l’unica chance che la nuova classe ha di consolidare il potere proletario. La difficile fase che la rivoluzione attraversa con il passaggio alla Nep, più che attestare il fallimento del progetto rivoluzionario, come lamentarono gli oppositori interni e i critici europei (Kautscky) di Lenin, dimostra invece che il sacrificio transitorio dell’eguaglianza economica serve piuttosto a realizzarlo. Sotto questo aspetto Losurdo fa notare come il comunismo sovietico abbia sempre rimarcato, sulla scia di Marx, la propria distanza dalla populistica esaltazione della povertà, dal collettivismo della miseria come condizione di pienezza spirituale. Mentre invece la politica economica di stampo capitalistico intendeva sostituire al rozzo egualitarismo pauperista e populista, la reale emancipazione di tutti i russi. Ciò che l’opposizione non coglieva era la svolta verso un capitalismo controllato dallo Stato proletario, che tuttavia in questa nuova forma non godeva di alcun potere, come avviene nelle società capitalistiche occidentali, perché finalizzato alla socializzazione della ricchezza e alla crescita della nazione.

Quel che occorre considerare, se si vuole seguire Losurdo nel suo ragionamento, è che le politiche di incentivi materiali e di incoraggiamento dello sviluppo tecnologico-industriale, che siano quelle di Lenin o di Deng Xiaoping alla fine degli anni ‘70, confermano il nesso storico che la lotta di classe intrattiene con la diseguaglianza tra le nazioni che bisogna superare. Obiettivo che le stesse condizioni storico-oggettive impongono come primario, rispetto a quello delle inevitabili diseguaglianze economiche che la sua realizzazione comporta.

 

Rivoluzione dall’alto, cesarismo progressivo, catarsi

Le trasformazioni subite dalla lotta di classe dopo la rivoluzione d’Ottobre come è noto rappresentano per molti marxisti il fallimento o il tradimento della rivoluzione, che invece di realizzare il socialismo sostituì al capitalismo borghese il capitalismo dei proletari, alla classe sfruttatrice borghese la classe sfruttatrice proletaria, alla rivoluzione dal basso la rivoluzione dall’alto. Questa lettura, per certi versi comprensibile, tende però a ignorare che le rivoluzioni operano in circostanze storiche concrete con cui devono confrontarsi, generando sempre uno scarto tra progettualità e obiettivi conseguiti, oppure tra accelerazioni e fasi di restaurazione. D’altra parte la direzione intrapresa dalla rivoluzione imbarazza lo studioso marxista, il quale tuttavia se vuole comprenderla, secondo Losurdo, deve «liberarsi dell’interpretazione meccanicistica della teoria marxiana del rapporto tra economia e politica, tra classi sociali e apparato governativo e statale», teoria che neanche Marx e Engels avrebbero sostenuto fino in fondo. A supporto di tale tesi, valgono le riflessioni che li condussero a evidenziare la frattura che si verifica in alcune situazioni storiche tra classe sociale dominante e politica del governo, e quindi l’autonomizzazione dei ceti ideologici, politici e militari dalla base sociale che comunque sarebbero chiamati a rappresentare. Si tratta di mediare questa frattura con la lettura gramsciana del cesarismo (con la conseguente distinzione tra cesarismo progressivo e regressivo), che è per Losurdo uno dei modi in cui essa si realizza. Nella monarchia assoluta in Francia, per esempio, il potere non si identifica né con l’aristocrazia feudale in conflitto con la borghesia in ascesa, né con quest’ultima in conflitto con l’assolutismo monarchico, ma è piuttosto l’esito di un equilibrio instabile controllato dalla monarchia. Anche il periodo rivoluzionario giacobino lungi dal rappresentare la classe borghese, è l’espressione di un ceto ideologico che da una parte deve reagire alla guerra civile e a quella controrivoluzionaria, dall’altra deve andare incontro alle istanze popolari o radical-egualitarie. Il potere di Napoleone, se da una parte è sostenuto dalla borghesia che da esso riceve un ulteriore rafforzamento, dall’altra esercita su questa classe sociale un dominio a causa del quale perderà il suo sostegno. Dinamica che si ripete con Napoleone III, quando nel ’48 il rinforzo dell’apparato militare della borghesia in funzione antioperaia finisce con il ritorcersi contro la stessa borghesia.

Tutto il periodo rivoluzionario che va dal ‘48 alla Comune del ’71 evidenzia la tendenza all’autonomizzazione dei ceti dominanti dalla loro base sociale, nel senso che i ceti politici mentre rafforzano la base sociale che li sostiene, ne ostacolano il potere, pur rimanendo tra i fronti un legame che può spezzarsi in determinate situazioni topiche. Anche nel periodo rivoluzionario russo, che vive in un perpetuo stato di emergenza e di eccezione, si assiste secondo Losurdo a questa tendenza: il potere comunista si autonomizza dal proletariato «e cioè, parafrasando Marx, “la dittatura del proletariato mediante la spada” si trasforma nella “dittatura della spada sulla società civile” e sullo stesso proletariato», pur rimanendo tra i leader comunisti al potere e il proletariato, «esile e contorto», un «filo» che continua a connetterli.

In verità tale autonomizzazione avrebbe avuto luogo nella Russia sovietica attraverso una variante, più o meno la stessa da Gramsci evidenziata nel Reich di Bismarck, dove la classe aristocratica continuava a esercitare il potere dello Stato, ma in funzione delegata dalla borghesia economico-industriale, e quindi subalterna a quest’ultima. Nella lettura di Losurdo, è con questa variante che si realizza il cesarismo sovietico, e si ripete in forma diversa la situazione in cui la classe sociale proletaria (cioè i suoi leader) che controlla il potere politico e l’apparato statale, ricorre a ceti ideologici ad essa estranei (la borghesia economica) cui delegare importanti funzioni (lo sviluppo economico della nazione).

Se ora però pensiamo all’espropriazione del potere operaio che nei comitati di fabbrica era giunto a forme di eccezionale democrazia diretta e che aveva dato un decisivo impulso al successo della rivoluzione, anche la lotta di classe sovietica non sembra sottrarsi, già con Lenin, a quella dialettica dell’alienazione che si ripete ogni volta che un ceto sociale promotore del nuovo ordine, giunto al potere, tende ad escludere la compagine sociale che lo ha sostenuto e a frenare le sue spinte propulsive. Al contrario, nella lettura di Losurdo (una lettura che trova sostegno in Gramsci, Joseph Roth e Benjamin) non di alienazione si tratterebbe, ma di una delle trasformazioni che la teoria della lotta di classe deve inevitabilmente subire se vuole conservare se stessa e il suo primario obiettivo che è quello della lotta nazionale e quindi internazionale. Stando poi alla distinzione gramsciana, si potrebbe parlare almeno in questa fase di cesarismo progressivo, perché nonostante gli evidenti compromessi, esso aiuta la forza progressiva a prevalere.

Eppure in questo punto molto delicato nella direzione che la necessità storica ha impresso alla lotta di classe, sembra insinuarsi una sorta di cattivo infinito o di blocco dialettico. La questione sociale rinvia a quella nazionale, la quale è a sua volta legata a quella internazionale, e qui sembra contenuta dal momento che tale slittamento deve inevitabilmente rinviare la stessa soluzione della questione sociale ai tempi a venire. Ma ancora una volta non è così nella lettura realistica proposta da Losurdo perché se il capitalismo di Stato, invocato per lottare contro la diseguaglianza internazionale, finisce per sacrificare la lotta contro la diseguaglianza di classe, che si insinua tra proletariato che detiene il potere e la borghesia che continua a detenere il benessere, ciò conferma come avevano già indicato Marx e Engels, che potere politico e ricchezza economica non sempre coincidono, sicché tale chance si rivela l’unica che la lotta di classe può sfruttare per continuare la sua rivoluzione. Significa ancora una volta che né la lotta di classe, né il potere proletario esistono «allo stato puro». La lotta di classe nel mutare le sue forme, come aveva mostrato Gramsci, incorpora persino un momento catartico che diventa coessenziale alla formazione di una matura coscienza di classe. Il compromesso con il capitalismo borghese implica il sostegno e la condivisione da parte del proletariato, il quale, chiamato a tollerare la diseguaglianza economica che lo separa dal nepman, dimostra di aver maturato una coscienza di classe talmente coesa ed elevata da superare il risentimento nei confronti dei privilegiati e di aver compreso quel privilegio come momento di un cammino di consolidamento di un potere senza il quale non si può edificare la società socialista. Tale scenario smentisce la riduttiva e reazionaria identificazione tra risentimento invidioso e rivoluzione che troviamo soprattutto nelle fantasiose e reazionarie ricostruzioni genealogiche di Nietzsche.

Se quindi la Nep, ma poi anche le successive politiche di rilancio dell’agricoltura e dell’industria, vengono ancora lette come espressioni di restaurazione borghese, di tradimento del socialismo e della rivoluzione da parte di una nuova classe sfruttatrice, la causa va ricercata da qualche altra parte. Per esempio nell’«idealismo della prassi» o nelle visioni populistiche del futuro comunista, che qualche volta Marx e Engels, ma più spesso gli stessi leader rivoluzionari (Lenin, Trotskij, Stalin) hanno incoraggiato. E cioè quelle speranze solo teoriche e ideali che si richiamavano alla scomparsa delle classi, al dileguare del mercato, all’estinzione dello Stato, della religione, della nazione e persino alla pacificazione del conflitto tra le nazioni del campo socialista.

Nonostante tali aspettative siano smentite dalle scelte politiche e le forze in campo siano consapevoli della distanza che le separa dalla prassi socialista, esse continuano ad essere proclamate. Perché alla prova dei fatti, sostiene Losurdo, è la prassi e non la teoria a mostrare maggiore maturità e pregnanza storica, proprio laddove al contrario si tratta di salvare lo Stato sovietico, di rinforzare lo spirito nazionale, tutt’altro che superato in un’eventuale federazione mondiale dei soviet, ma edificato e rinvigorito soprattutto con Stalin. Sebbene sul piano teorico la teoria dell’estinzione dello Stato non sia messa in discussione, ma sia spesso rinviata ad un futuro a venire, la prassi ci mostra una classe rivoluzionaria rappresentata da un’«aristocrazia di statisti» che smentisce la teoria e accentua la componente nazionalista, patriottica e statalista, senza la quale la Russia rivoluzionaria non si sarebbe salvata dalla capitolazione. Non sorprende allora che sia stata proprio la questione nazionale a determinare la conflittualità e poi la dissoluzione del campo socialista (si veda la rottura dell’Urss prima con la Jugoslavia, poi con la Cina).

Della idealità di questi principi (estinzione dello Stato, dileguare del denaro e del mercato, fine dei conflitti tra gli Stati socialisti) si è reso pienamente conto solo Deng Xiaoping, e forse per questo il modello cinese resiste. Ma a tale consapevolezza non è giunta l’Urss, dove secondo Losurdo ha preso il sopravvento l’idealismo della prassi, l’idea cioè che la lotta di classe potesse rimodellare l’intera società portando al limite della sopportazione lo spirito di rinunzia e sacrificio, e che essa potesse in situazioni critiche stimolare attese di trasformazione sociale. Dove inoltre si assiste al declino di una classe dirigente che non ha saputo consolidare il processo rivoluzionario esprimendo la «forma politica duratura del suo dominio», come ha fatto la borghesia nell’800; non ha saputo coniugare pianificazione statale e incentivi economici, né uscire dallo stato d’eccezione e dell’emergenza. Insomma, parafrasando lo Hegel interprete della Rivoluzione francese, non ha saputo far seguire al Terrore che aveva conservato lo Stato, il Termidoro quale necessario passaggio alla sovranità della legge. Anche rispetto alla scoperta del mercato, a cui l’Urss è giunta troppo tardi, solo nella Cina di Xiaoping si restringe lo iato tra una teoria che ne rifiuta la logica e una prassi che ne ha bisogno per stimolare lo sviluppo. La stagione del «socialismo di mercato» rappresenta la presa d’atto che per promuovere quello sviluppo, mercato e competizione sono necessari.

 

Il crollo del comunismo e la svolta del 1989-90

Il crollo del comunismo sovietico è stato giustamente acclamato come un evento epocale, che pone fine ad un esperimento economico incapace di uscire dalla cronica precarietà e che ha bloccato il processo di emancipazione su conquiste certamente rilevanti, come un certo grado di ascesa economica e culturale del proletariato in termini di alfabetizzazione, scolarizzazione, servizi sociali, ma pur sempre in un contesto di misconoscimento di diritti civili e politici, di repressione e violenza. Questa prospettiva non può però essere l’unica dalla quale osservare un fenomeno che sul piano globale ha scatenato altri e drammatici effetti. Anche in questo caso si tratta di un processo contraddittorio che va analizzato con maggiore lucidità, senza che ciò comporti né la legittimazione dei regimi comunisti, né di converso l’acritica accettazione delle conseguenze che dalla loro frantumazione sono scaturite.

Conseguenze nelle quali emancipazione e de-emancipazione sono intrecciate. La fine della polarizzazione ha generato l’ideologico entusiasmo di un mondo pacificato dai valori universali dell’Occidente, in particolare dal successo del modello liberale e dell’economia capitalistica; ha inaugurato l’unilateralismo americano nella politica internazionale e dato nuova linfa ai progetti coloniali. La successione di alcuni eventi possono aiutare a capire: l’invasione di Panama, la prima guerra del Golfo e il successivo embargo contro l’Iraq, l’intervento Nato in Jugoslavia, la seconda guerra del Golfo. Che tra la prima e al seconda guerra del Golfo si collochi l’attacco terroristico dell’11 settembre, non smentisce la tesi che si tratti di interventi strategici finalizzati a consolidare il ruolo egemonico degli Usa nella politica mondiale attraverso il controllo delle risorse energetiche. Tale incalzante successione introduce nel diritto internazionale la crisi dell’istituzione Onu e l’affermazione della dottrina imperialista del diritto umanitario e della «sovranità dilatata» che i paesi occidentali, Usa in primis, si attribuiscono violando il principio di autodeterminazione dei popoli. Una sorta di estensione a livello planetario del famoso emendamento Platt, col quale nel 1901 gli Stati Uniti sancivano la limitazione della sovranità cubana. Si tratta di azioni che hanno duramente colpito le popolazioni locali procurando morti, fame, miseria. Solo l’embargo contro l’Iraq ha procurato un così elevato numero di morti che Losurdo non esita ad appoggiare la tesi che si tratti di «un’arma di distruzione di massa», più violenta degli effetti provocati dalla bomba atomica in Giappone.


Anche la svolta democratica che ha investito i rapporti internazionali risulta più problematica di come sembra. I cosiddetti paesi satellite, dopo aver riconquistato la sovranità violata e quindi essersi liberati dall’egemonia sovietica, sono stati inseriti nella «nuova Monroe» statunitense e occidentale su scala planetaria, con la quale l’Occidente ha proclamato nuovamente il suo primato. La svolta del 1989 sotto questo aspetto ha prodotto uno scenario reazionario, e quindi drammatici processi di de-emancipazione; sebbene il ritorno al progetto occidentale colonialistaimperialista incontri importanti limiti in alcune sacche geopolitiche di resistenza, nello sviluppo economico della Cina o nella ripersa degli ultimi anni della Russia e cioè nei suoi tentativi di ristabilire il controllo sul proprio patrimonio energetico e sulle proprie risorse.

E tuttavia proprio in Russia, a voler fare un bilancio tra effetti positivi e negativi seguenti al crollo, risulta purtroppo confermato il giudizio di Hobsbawm che riteneva sicuramente maggiori i secondi. Perché al di là dell’innegabile progresso che la svolta ha comportato in termini di conquista dei diritti civili e politici, drammatica è stata invece l’appropriazione privatistica e repentina delle risorse dello Stato da parte di una borghesia selvaggia che ha provocato una tragica polarizzazione sociale, altissima mortalità, abbandono dei bambini, prostituzione minorile e più in generale privazione dei diritti economici e sociali precedentemente goduti.

Anche in Occidente si assiste negli stessi anni della svolta, oltre al mutamento del quadro internazionale, a preoccupanti fenomeni di de-emancipazione che si ripercuotono anche nei paesi usciti dal comunismo e che fanno riemergere le condizioni della lotta di classe, proprio nel momento in cui la si vuole dare per morta. Le democrazie fondate sul suffragio universale si affermano sempre di più come plutocrazie e quindi sulla discriminazione fondata sulla ricchezza, a danno della competizione elettorale e di conseguenza di quelle ampie fasce della popolazione che non riescono ad esercitare alcun controllo sulle politiche sociali. Lo Stato sociale riceve un duro attacco dal neoliberalismo e trova sostegno teorico in economisti che hanno fatto scuola (Hayek, Friedman). La condizione dei lavoratori legati al mercato e delle donne peggiora, mentre la sfera pubblica democratica è minacciata dalla manipolazione politico-economica dei mass media. Se a ciò si aggiunge il ruolo attivo che nella crisi economica hanno svolto le politiche della deregolamentazione dell’economia, della circolazione dei capitali e dell’attività speculativa delle banche, insieme a quel fenomeno di interscambio tra politica, economia e organizzazioni internazionali noto come revolving doors, ne scaturiscono scenari che in verità mettono a dura prova le capacità di resistenza di un’intera civiltà (Gallino, Finanzcapitalismo).

 

Fine della grande divergenza e il caso Cina

Rispetto al ruolo propulsivo che la lotta di classe svolge nella progressione della storia, due grandi sfide ne determinano ancora l’attualità: l’eliminazione della diseguaglianza tra le nazioni, diseguaglianza conseguente all’espansionismo colonialista e militarista occidentale, e che Pomeranz definisce «grande divergenza»; l’eliminazione della diseguaglianza tra le classi, quella che anche Noah, alla luce delle conseguenze scatenate dalla nuova crisi, definisce «grande divergenza». Volendo comparare lo status di queste lotte e le loro problematiche interdipendenze, occorre riconoscere alla Cina, protagonista di una lotta dal duplice carattere nazionale e internazionale, un ruolo di grande propulsore globale.

Con la sua ascesa economica, grazie alle riforme economiche di Deng Xiaoping, essa ha contribuito alla fine della prima grande divergenza (diseguaglianza tra le nazioni), e quindi al predominio mondiale dell’Occidente o, per usare un’espressione più nota, alla fine dell’«epoca colombiana» (Mackinder). La politica di apertura al mercato, l’appropriazione delle tecnologie avanzate, la formazione all’estero dei futuri dirigenti e tecnici hanno consentito alla Cina di mettersi al passo con la ricchezza delle grandi nazioni occidentali.

Più controverso è lo scenario della seconda grande divergenza (diseguaglianze sociali), che contro tutte le aspettative in Occidente si accentua dopo la crisi del 2008 e in Cina permane. Mentre infatti l’Occidente capitalistico vede accentuarsi la divaricazione tra ricchi e poveri ed un’ineguale distribuzione della ricchezza, anche la Cina, protagonista della fine della prima grande divergenza, continua a distribuire la ricchezza in maniera diseguale. Ma agli occhi della teoria della lotta di classe le due diseguaglianze (occidentale e cinese) non sono uguali. Mentre la prima è una diseguaglianza regressiva che ci parla di un ritorno alla povertà che sembrava superato per sempre, con la conseguente erosione dei diritti sociali ed economici acquisiti. la diseguaglianza cinese è ancora il prodotto del programma ideologico e economico che impegna il socialismo a portare avanti il progetto di liberazione dal giogo coloniale e dalla miseria a cui la Cina era stata sottoposta a partire dalle guerre dell’oppio, e quindi a risolvere la questione sociale che da tale progetto dipende. È un processo sostenuto da un impegno ideologico e politico molto simile a quello che Lenin sostenne per giustificare la Nep. Esso parte dalla consapevolezza del fallimento economico del Grande balzo in avanti dell’epoca di Mao, ed è finalizzato a restituire al popolo cinese dignità e condizioni di benessere, riconoscimento di diritti economici e sociali attraverso lo sviluppo delle forze produttive, la parziale liberalizzazione del mercato, l’intreccio di industria pubblica e privata, il controllo statale e pubblico dell’economia. Un processo che, nonostante tutte le interne contraddizioni, ha gradualmente ridotto le differenze regionali: le metropoli più interne, lontane dalle più sviluppate aree costiere, cominciano a conoscere un’importante crescita economica e anche laddove le diseguaglianze nell’accesso alla ricchezza sono ancora gravi, sono introdotti innalzamento dei salari e protezione sociale. Sotto questo aspetto Losurdo afferma senza riserve che la Cina può essere annoverata tra le regioni del mondo che cerca di realizzare quella «libertà dal bisogno» che Roosevelt considerava una delle condizioni per la costruzione di un ordine mondiale fondato sulla pace tra i popoli, mentre l’Occidente, propagandando le sue ideologie antisociali proprio in concomitanza con la crescita delle diseguaglianze e della povertà, e con lo smantellamento dello Stato sociale, dimostra al contrario spregio per la libertà dal bisogno.

Alla luce dell’interconnessione tra le due grandi divergenze anche la situazione della lotta di classe in Cina appare problematica e dagli esiti incerti. Rispetto alla prima grande divergenza essa soffre di una duplice aggressione. Dell’aggressione economica degli Usa, che attraverso il ricatto dell’embargo tecnologico premono per l’apertura al mercato dei settori dell’industria controllati dallo Stato, con il rischio di compromettere le politiche di intervento statale in quelle regioni ancora deboli del paese. Dell’aggressione ideologica con la quale, a partire dal proprio universo normativo, l’Occidente demonizza la rivoluzione cinese e i suoi leader, misconoscendo lo sforzo straordinario che con Mao la Cina ha fatto per uscire dalla miseria generalizzata e disperata causata dall’attacco colonialista, gettando le basi economiche e culturali dello sviluppo successivo.

Per quanto riguarda invece la lotta di classe interna e quindi la sua connessione con la seconda grande divergenza, sebbene non se ne possano prevedere gli esiti, alcuni aspetti secondo Losurdo possono essere chiariti. In Cina è presente un dinamico movimento operaio che sembra aver maturato una coscienza di classe consapevole che i principali suoi antagonisti sono tanto i capitalisti occidentali, quanto il ceto politico dirigente. Quest’ultimo se ha tratto dalle riforme di mercato di Deng l’occasione per arricchirsi e aumentare il proprio potere attraverso la privatizzazione di risorse pubbliche, continua tuttavia a godere di un certo prestigio per il fatto di sostenere con coerenza la causa cinese dell’emancipazione. Di conseguenza la dialettica sociale che si esprime nelle lotte contro le diseguaglianze, per l’aumento dei salari e per migliori condizioni di lavoro non sono finalizzate al rovesciamento del regime, ma a politiche di compromesso che incentivino lo sviluppo dell’economia nazionale piegandolo ai bisogni locali. In una situazione politica che continua a condizionare fortemente il potere economico della borghesia locale, sia stimolandola a reinvestire una parte considerevole dei profitti nelle imprese o in interventi di carattere sociale, sia attraverso il controllo statale del credito e della ricchezza. Per queste sue caratteristiche, con la sua crescita economica la Cina rimane per Losurdo l’unica forza in grado sia di contrastare l’essenza dell’economia capitalistica che si esprime nella concentrazione e centralizzazione del capitale, nell’esclusione della maggior parte della popolazione mondiale all’accesso alla ricchezza, sia di favorire un cambiamento epocale nella divisione internazionale del lavoro, nel processo di ridistribuzione della ricchezza e di emancipazione planetaria.

La tesi sostenuta è molto forte, ma non c’è dubbio che sulle questioni sollevate sarebbe necessario aprire un serio e non pregiudizievole dibattito pubblico, dal momento che esse possono mettere in comunicazione anche universi teorici, sociologici ed economici diversi tra loro. Le ricerche di Giovanni Arrighi sull’economia cinese (Adam Smith a Pechino), tra l’altro molto presenti nel discorso di Losurdo, possono aiutare a capire da una prospettiva teorica diversa e sicuramente non marxista, il ruolo che la Cina può svolgere nelle dinamiche globali. Com’è noto, in questo discorso si sostiene che la realtà economica cinese rispecchierebbe più le teorie economiche e sociologiche di Adam Smith che non quelle di Marx. Non dello Smith frainteso quale teorico del capitalismo, dell’autoregolamentazione del mercato e dell’espansionismo illimitato del capitalismo, della divisione del lavoro e dello Stato minimo, ma al contrario il teorico della via naturale all’economia di mercato, dello Stato forte che deve fare del mercato uno strumento di governo capace di imporre ad esso regole finalizzate a proteggere l’ordine sociale e politico. Da qui i principi che i cambiamenti economici, per esempio la liberalizzazione del commercio, devono essere sempre introdotti gradualmente, devono incontrare il consenso della popolazione senza turbare la stabilità sociale; che il governo deve limitare il potere dei capitalisti, metterli in competizione subordinando i loro interessi a quelli della nazione, in modo da rendere i profitti tollerabili.

Un aspetto interessante della complessa ricostruzione geopolitica proposta da Arrighi è quello di comprendere la crescita cinese entro la propria esperienza storica ed entro il sistema di relazioni interstatali dell’Oriente asiatico, che non possono in alcun modo essere assimilate a quello dell’Occidente europeo e Nordamericano. Quest’ultimo è caratterizzato da uno sviluppo economico estroverso che ha inizio nel commercio globale (e non nell’accumulazione agricola), per poi estendersi all’industria e all’agricoltura; quindi da una continua competizione militare, da varie ondate di espansione geografica e guerre di conquista, dall’industrializzazione delle attività belliche; dal forte rapporto che tiene uniti borghesia capitalistica e potere dello Stato ad essa subordinato perché strumentale ai suoi interessi di classe. Se è questa combinazione di capitalismo, industrialismo, militarismo e espansione territoriale a caratterizzare la forza propulsiva della globalizzazione del sistema europeo e occidentale, niente di tutto questo si trova nel sistema delle relazioni interstatali dell’Oriente asiatico, privo di conflittualità belliche, tanto al suo interno, fatta eccezione per le guerre di frontiera tra il XVII e il XVIII secolo, quanto al suo esterno dove non troviamo la costruzione di imperi in concorrenza tra loro, né di conseguenza una corsa agli armamenti simile a quella occidentale. Prima della grande divergenza che con le guerre coloniali dell’oppio ha condotto la Cina a retrocedere tra i paesi più poveri del mondo, la politica economica cinese, se ci limitiamo ai secoli XVII e XVIII (dinastia Qing), si caratterizza quindi per quella via naturale alla ricchezza teorizzata da Smith che punta sul miglioramento dell’agricoltura, sulla bonifica e distribuzione della terra, sul rafforzamento e ampliamento del mercato interno. È finalizzata a migliorare le diseguaglianze geografiche dello sviluppo, in un contesto di consolidamento delle relazioni pacifiche e di fiducia con gli stati confinanti. Con l’interruzione di questa crescita seguita alle Guerre dell’oppio, l’incorporazione nel sistema capitalistico europeo e la conseguente ibridazione con esso, l’egemonia americana sul continente asiatico e l’ascesa giapponese, la Cina diventa per circa un secolo da centro del sistema interstatale dell’Oriente asiatico membro subordinato e periferico del sistema capitalistico globale, per poi ritornare con le politiche economiche di Deng ad essere il centro dell’economia asiatica.

Le caratteristiche di questa rinascita economica sono assai peculiari. Innanzi tutto, secondo Arrighi essa è molto lontana da quel Washington Consensus intorno al quale ruotano le teorie neoliberiste di espansione e deregolamentazione del mercato e di contenimento dell’intervento statale, a cui secondo un’errata propaganda la Cina si sarebbe adeguata. Al contrario si inserisce in un processo di sviluppo fondato sulla combinazione di tradizioni locali, tradizione rivoluzionaria socialista, alleanza con i capitalisti cinesi della diaspora, in cui il ruolo dei capitali straneri è marginale e comunque successivo. È avvenuta quindi in piena autonomia dalle logiche del neoliberalismo dominante dell’ultimo trentennio, secondo principi attinti dal proprio patrimonio storico, quali stabilità sociale, crescita di posti di lavoro, riutilizzo delle risorse, investimenti esteri funzionali all'interesse del paese, protezione del consumo interno, altissimo livello di istruzione, incentivi per i cinesi che studiano all'estero a ritornare in patria, decollo di nuovi settori industriali, costruzione di infrastrutture. A ciò vanno aggiunte una divisione del lavoro per aree di specializzazione e unità produttive, e non all’interno di esse; e uno sviluppo dell’economia di mercato che più che sulle privatizzazioni fa leva sulla competizione tra imprese pubbliche, imprese di proprietà delle comunità e imprese private, ma è in ogni caso finalizzato alla formazione del mercato interno e al miglioramento dell’economia agricola e delle condizioni di vita dei lavoratori. Un ruolo fondamentale in questo progetto hanno avuto le imprese rurali di municipalità e villaggio, favorite sia dal decentramento fiscale che dal sistema di valutazione dei quadri locali di partito, incentivati quindi a sostenere al meglio la crescita economica locale. Diventate poi proprietà collettive degli abitanti del municipio o del villaggio, tali imprese si sono affermate in un combinato di distribuzione delle terre, forme di lavoro industriale, investimenti finalizzati a migliorare le condizioni dei lavoratori e della vita nelle campagne e hanno quindi favorito alcuni importanti fenomeni: l’assorbimento di manodopera nell’agricoltura che ha evitato la migrazione di massa nelle aree urbane; l’aumento della concorrenza che ha spinto le imprese urbane a migliorarsi; la riduzione della pressione fiscale sui contadini che ha consolidato la stabilità sociale. L’obbligo del reinvestimento nelle imprese di parte dei loro profitti ha inoltre contribuito non solo a migliorare le condizioni dei lavoratori ma anche quelle della produzione, della specializzazione e della creazione di posti di lavoro. In questo senso la Cina presenta uno scenario di crescita economica in cui l’accumulazione industriale avviene senza l’espropriazione della terra e la separazione dei contadini dai mezzi di produzione, e in genere secondo caratteristiche estranee al capitalismo studiato da Marx.

Va inoltre rimarcato che i successi economici cinesi, nonostante provengano dalle riforme con le quali si intendeva chiudere l’epoca fallimentare del Grande Balzo e della Rivoluzione culturale, non sarebbero comunque stati possibili senza le conquiste sociali dell’epoca di Mao (riforme sulla proprietà della terra, creazione di infrastrutture per l’agricoltura e l’istruzione, assistenza medica). Essi rimangono fortemente dipendenti dall’ideologia rivoluzionaria del partito avanguardia che nel corso della sua storia ha privilegiato i contadini come propria base sociale, ne ha quindi assorbito valori e aspirazioni, e che per governare bene deve curare gli interessi del popolo. Questi fattori spiegano il ruolo che la tutela degli interessi dei contadini riveste nel percorso di crescita dell’economia cinese che caratterizza anche le riforme successive di Hu Jintao e Wen Jiabao, perché la modernizzazione cinese abbia puntato non alla distruzione ma al miglioramento economico, culturale e sociale dei contadini. Ma se la Rivoluzione culturale ha rafforzato le radici contadine della rivoluzione cinese e reso possibile gli sviluppi successivi, è però vero che la crescita economica della Cina matura anche attraverso il ripudio della Rivoluzione culturale, sia perché essa minacciava di distruggere le conquiste rivoluzionarie, sia perché aveva messo in discussione il potere e i privilegi della classe dirigente e combattuto contro l’imborghesimento dei quadri di partito e dei funzionari di Stato. Ne consegue una dialettica tra spinte alla modernizzazione e tradizione rivoluzionaria dagli esiti incerti, ma che a fronte delle diseguaglianze o dell’insuccesso di alcune riforme ci mostra un movimento operaio cinese spontaneo e dinamico, che porta avanti lotte nelle aree urbane e rurali contro la diseguaglianza, la corruzione dei funzionari di partito, la pressione fiscale, il degrado ambientale che hanno prodotto riforme per uno sviluppo più equilibrato tra zone rurali e urbane, maggiori diritti dei lavoratori, garanzie sociali. Questa forte combattività proviene dalla tradizione rivoluzionaria che a partire da Mao ha dotato gli strati subalterni di una forte coscienza di sé.

Le caratteristiche dell’economia cinese, nonostante tutte le contraddizioni, secondo Arrighi permettono di interpretare il suo decollo come sintomo della possibile costruzione di una società del mercato globale preconizzata da Adam Smith, caratterizzata da maggiore equità e rispetto tra i popoli. La crescente influenza esercitata nei paesi dell’Estremo Oriente attesta la crisi del dominio americano, seguita alla guerra fallimentare contro il terrorismo, e la nascita di un Beijing Consensus che potrebbe far convergere le nazioni del Sud del mondo verso un modello di sviluppo sensibile ai bisogni e alle specificità locali, caratterizzato da indipendenza e autonomia politica, cooperazione interstatale, rispetto delle differenze politiche.

Il futuro di questo progetto dipenderà certo sia dalla capacità che gli Stati interessati avranno di allearsi in una nuova Bandung finalizzata a contrastare e superare la subordinazione economica e politica; sia dal successo delle politiche americane che, per contenere o marginalizzare il ribaltamento in atto della gerarchia globale della ricchezza, dovranno ricorrere a strategie di cooptazione di alcuni stati del Sud.

Alla luce di questo discorso, diventa chiaro che la posta in gioco da parte dei paesi asiatici non è la sfida per il dominio o la lotta tra capitalismi. Ma è quella di conseguire il riscatto economico attraverso un modello di sviluppo che potrebbe dare origine a rapporti tra Nord e Sud del mondo più equilibrati, pacifici e sostenibili. Perché se il capitalismo occidentale, industriale, estroverso, espansionista-militarista deve il suo successo all’esclusione della maggior parte della popolazione mondiale dalla ricchezza, chiamata piuttosto a pagarne soprattutto i costi, la sfida della Cina (e dell’India) deve partire dalla consapevolezza che il modello americano di produzione e consumo, ad alta intensità di consumi energetici, non può essere adottato a livello planetario, né tanto meno dalla sola popolazione cinese. Di conseguenza, se di converso i benefici della crescita vogliono essere estesi alla maggioranza della popolazione mondiale occorre allora che il percorso di sviluppo occidentale converga su quello asiatico e non viceversa. Occorre insomma, conclude Arrighi, che la Cina si mostri strategicamente capace di non appiattirsi eccessivamente sul modello occidentale di sviluppo e quindi di saper consolidare il proprio.

Come si vede il dinamismo cinese, a prescindere dalla lente con la quale lo si voglia comprendere, ha indubbiamente avviato una nuova fase della storia globale e un nuovo processo di possibili interrelazioni geopolitiche. Che poi esso possa essere iscritto nella dialettica della lotta di classe, come propone Losurdo, è una tesi che ha il duplice vantaggio di essere coerente con la ricostruzione complessiva di questa storia e di essere supportata dallo scontro politico, diplomatico ed economico conseguente a tutti i tentativi di bloccare tale processo.

 

La frammentazione della lotta di classe: responsabilità culturali e politiche

La lotta di classe comprende, come abbiamo visto, molteplici lotte per il riconoscimento, sicché ogni contrapposizione tra paradigma redistributivo, lotta per il riscatto economico da parte del movimento operaio, e paradigma del riconoscimento è arbitraria sul piano teorico e fallace su quello della storia. Da questo punto di vista, molti fraintendimenti o rimozioni hanno caratterizzato la visione delle lotte del XX secolo. L’illusione che il progresso tecnologico possa eliminare la povertà, che quest’ultima quindi sia il prodotto della natura e non di scelte economiche e politiche, è una posizione che con Arendt rimuove dall’analisi storica con un’unica mossa, insieme alla lotta di classe, categorie come sfruttamento e plusvalore, senza distinguere la scienza-tecnologia dall’uso capitalistico di essa. Mentre è proprio quest’ultimo a sconfessare l’ottimismo della crescita economica e a confermare la precarietà dell’operaio, l’oscillazione dei salari, l’accentuarsi della ricchezza oligarchica. L’idea poi che con l’affermazione dello Stato sociale si sarebbe realizzata la presunta pacificazione del conflitto di classe, sostenuta da Habermas, riceve secondo Losurdo una duplice smentita storica. Perché lo Stato sociale si afferma solo in Europa, e non negli Usa, mentre nel contempo a livello planetario si avviano una serie di lotte anticoloniali, che sono lotte di classe, appoggiate dagli stessi sostenitori europei dello Stato sociale. Lungi in ogni caso da introdurre una pacificazione, il Welfare è a monte il risultato della lotta di classe, mentre a valle ne ha al contrario innescato un’altra, vale a dire la reazione della borghesia capitalistica e finanziaria contro il mondo del lavoro, grazie anche alle condizioni favorevoli che si sono create dopo la svolta dell’89.

Non v’è dubbio che la riflessione habermasiana sullo Stato sociale, e più in generale sulla sovranità politica e sull’ordine internazionale, soffra in maniera sorprendente di molte lacune storiche, in particolare di un’attenzione alle dinamiche economiche colonialiste e neocolonialiste. Dunque sotto quest’aspetto Losurdo coglie nel segno. Meno convincente, però, appare la critica che egli muove alla stessa idea di pacificazione, e quindi a ciò che essa, seppur provvisoriamente, ha rappresentato in termini di compromesso tra le classi, di addomesticamento democratico e di incivilimento del capitalismo. Se consideriamo che il modello sociale europeo, pur nelle sue differenze geografiche, non ha rivali che possano eguagliarlo. Per Losurdo, infatti, quella che Habermas interpreta come pacificazione è in verità una sconfitta politica, non molto diversa da quella che Marx denunciava nell’Indirizzo inaugurale a proposito della situazione della classe operaia in Inghilterra nel 1864, nei termini di una «capitolazione nei confronti della classe dominante» e di una riconciliazione della classe operaia «con la sua nullità politica». Ma una lettura così selettiva appare contraria all’universalismo democratico-egualitario che attraverso la conquista politica dello Stato sociale riesce a dare forma e concretezza ai principi di eguaglianza sociale e solidarietà a cui si richiamano le costituzioni europee; sicché neanche l’attacco che sta subendo può inficiare il percorso storico che la prassi socialista europea ha contribuito politicamente a realizzare.

D’altra parte, Losurdo trascura l’analisi tutt’altro che conciliativa circa gli effetti prodotti dallo Stato sociale che per Habermas sono direttamente collegati alla spoliticizzazione delle masse. Innanzi tutto è chiara la consapevolezza che mentre compensa con politiche sociali gli squilibri prodotti dal mercato, lo Stato sociale non modifica la struttura e il meccanismo del sistema capitalistico (la distribuzione della proprietà dei mezzi di produzione) generatore di quelle disuguaglianze che esso è chiamato a compensare. In secondo luogo, molto chiare sono le dinamiche paternalistiche che esso innesca per attutire il conflitto sociale: il peso del lavoro alienato viene normalizzato, sia perché reso tollerabile con risarcimenti e garanzie giuridiche, sia perché scaricato su quello del consumatore; mentre il ruolo del cliente che usufruisce dei benefici dello Stato sociale viene «ipertrofizzato» a scapito del ruolo del cittadino. Lavoro alienato e spoliticizzazione vengono messi a tacere proprio grazie ai risarcimenti di consumatori e clienti. Insomma una visione non proprio idilliaca dello stato di cose.

Ora però, a partire da questa consapevolezza, il paradosso in cui persiste il rapporto tra capitalismo e diritti sociali in Europa, mutatis mutandis non sarebbe molto diverso da quello che persiste nella Cina socialista, dove al paternalismo liberale dello Stato sociale ora in crisi, si sostituisce il paternalismo oligarchico della classe dirigente al potere, che farebbe crescere le politiche sociali. Mentre in Europa lo Stato sociale non scalfisce il paradigma liberista capitalisticoindustriale che infatti resiste alle influenze sociali, a scapito dell’autonomia politica dei cittadini che se lo vedono gradualmente sottrarre; in Cina il capitalismo è fronteggiato attraverso un addomesticamento socialista che non cambia la sostanza del problema riguardo ai costi che i cittadini pagano in termini di accesso alle libertà fondamentali e di godimento dei diritti politici. In entrambi i casi, la prova storica della possibilità di controllare il capitalismo, anche un capitalismo di Stato, rimane vincolata a concreti diritti di partecipazione politica, che prima o poi dovranno essere riconosciuti anche in Cina. Tali diritti rappresentano il grimaldello per eventualmente approdare ad una democrazia più socialista o a un socialismo più democratico.

Diversa e per certi versi più pertinente è invece la critica che Losurdo muove alla separazione tra i due paradigmi, ridistributivo e riconoscitivo, alla conseguente idea che riduce la lotta di classe a lotta per il salario contro le ingiustizie socio-economiche, sicché con il crollo del comunismo le lotte per la giustizia sociale avrebbero abbandonato tale paradigma a favore di quello del riconoscimento, più adatto a rappresentare le rivendicazione dei diritti delle donne, dei neri, delle minoranze (Fraser). Qui la lettura binaria ha forse causato più danni di quelli che si proponeva di risolvere, perché ha rimosso dalle lotte per il riconoscimento le motivazioni economiche, iscrivendole entro letture eticizzanti e registri normativi liberal-democratici spesso sbilanciati sulle differenze di genere, culturali e identitarie.

La separazione del paradigma redistributivo da quello del riconoscimento non può essere certo solo un fenomeno intellettuale, bensì è il sintomo teorico di una frammentazione che la lotta di classe ha già subito sul piano storico. La lotta di classe c’è, ma i diversi soggetti e le diverse forme di lotta si trovano pressati da una frantumazione che impedisce alle varie forze, come accade in momenti epici della storia (Lenin, Mao), di coagularsi in un grande movimento emancipatore. I motivi sono molti. L’interesse delle classi dominanti a rompere i vari fronti delle lotte, e quindi a strumentalizzare la lotta in senso reazionario, può per esempio spezzare il rapporto tra condizione operaia e anticolonialismo, quando si mascherano le nuove politiche coloniali sotto la bandiera dei diritti umani che il popolo aggredito violerebbe e che occorre ripristinare in spregio della sovranità nazionale (imperialismo dei diritti umani). La divisione può avvenire anche tra movimento operaio e movimento femminile, oppure tra quest’ultimo e movimento anticolonialista.

La frammentazione più evidente della scena contemporanea è quella tra lotta anticapitalista delle metropoli e lotta delle ex colonie contro il nuovo colonialismo seguito alla svolta dell’89. Il destino toccato alla maggior parte delle ex colonie è quello di aver perso la lotta economica, dopo aver conquistato l’indipendenza politica. Quello che è accaduto ai neri americani, che dopo l’abolizione della schiavitù non riescono a consolidare l’emancipazione attraverso il possesso della terra, venendo condannati alla lunga emarginazione economica e alla subalternità sociale, o quanto è accaduto alla Repubblica di Haiti, esito di una lotta contro il sistema schiavistico che libera un intero popolo trasformandosi in lotta nazionale e poi anticoloniale, che però non fu in grado di conservare la propria autonomia economica, si ripete nei paesi che si sono liberati politicamente dal colonialismo, ma continuano a subire «l’aggressione e annessione economica» del neocolonialismo americano. La sfida ancora aperta di questi popoli è quindi quella «di conferire concretezza economica all’indipendenza politica faticosamente conquistata», oppure ancora più indietro di passare dalla fase militare a quella economica della rivoluzione. E questa è ancora una lotta di classe in cui ricompare il duplice nesso che lega la questione sociale (fine delle diseguaglianze interne) sia alla questione nazionale (lotta per l’indipendenza politica e economica) che a quella internazionale (fine delle diseguaglianze tra le nazioni). Il termine medio che accomuna queste lotte è ancora una volta la divisione internazionale del lavoro ed è ancora una volta, come da Marx, Lenin, Mao evidenziato nei momenti di maggiore consapevolezza, lotta per l’affermazione dello sviluppo delle forze produttive e per l’uscita dalla miseria, quindi lotta nazionale. La connessione che in determinate situazioni storiche esiste tra questione nazionale e lotta di classe può anche scandalizzare l’intellettuale di cultura marxista che in essa denuncia la rinuncia alla lotta contro i rapporti capitalistici di produzione (Žižek), ma si tratta anche in questo caso di letture semplicistiche che non fanno i conti con le contaminazioni concrete che le categorie della storia subiscono nel corso delle lotte politiche e sociali.

Di conseguenza, se la lotta di classe non supera la sua frammentazione e non riesce a produrre un nuovo processo storico, nonostante l’acutizzarsi delle diseguaglianze a partire dalla crisi iniziata nel 2008 e la reazione imperialistica dell’Occidente rispetto alla crescita economica dei paesi asiatici, ciò dipende anche dal debole e carente sguardo analitico sulle dinamiche storiche e sociali che accompagna i sentimenti di protesta. E qui Losurdo chiama in causa le diverse forme di populismo di sinistra, espresse con particolare enfasi da Simone Weil nella sua versione moralistica del conflitto che vede contrapposti tutti coloro che sono oppressi (ricchi, potenti) a tutti gli oppressori (poveri, impotenti). Una visione che dipende da quella lettura binaria già confutata, ma che ha la colpa di non comprendere ancora una volta il nesso tra lotta contro la borghesia capitalistica e lotta contro il colonialismo, quindi le lotte di liberazione contro l’imperialismo tedesco e quello giapponese che intanto si manifestavano ai tempi di Weil, e che oggi si manifestano contro l’imperialismo americano e occidentale.

Il populismo conosce molte varianti. Nella sua variante luddistica, si esprime nella condanna senza appello dell’industria moderna, e della scienza-tecnologia che la sostiene, senza proporne una critica dell’uso capitalistico e quindi ignorando il bisogno che un paese esige di crescere in termini di produttività e ricchezza per porre fine alle due grandi divergenze. Nella sua critica alla modernizzazione e alla ricchezza esso rischia di assumere una funzione conservatrice e strumentale che blocca la protesta delle classi subalterne inducendole all’appagamento della loro condizione di indigenza e penuria economica trasfigurate in ricchezza di spirito e felicità primordiale. Funzione conservatrice di accettazione della subalternità a cui rinvia anche la variante essenzialista del populismo, che trasfigura il passato e idealizza le vittime della lotta (popoli, operai, poveri, donne) presentandole come esempi di eccellenza morale. In tutte le sue forme il populismo è smentito dalla storia, mentre la sua diffusione ostacola la ricomposizione dell’unità della lotta di classe, distoglie dalle vere cause dello sfruttamento che vanno rintracciate nella divisione del lavoro, finisce per relegare la lotta di classe nell’anacronismo.

A partire da qui il j'accuse di Losurdo procede ad una critica serrata che ripete lo stesso adagio rivolto a tutti quegli intellettuali (Castoriadis, Hard e Negri, Žižek) che fermandosi ad una lettura binaria e quindi non marxiana del conflitto di classe, offrono letture incapaci di interpretare la storia del Novecento o di fornirne una versione troppo selettiva (Harvey). Letture che cedono il passo a categorie indistinte e indeterminate, come la lotta tra una moltitudine globalizzata che si contrapporrebbe a una borghesia altrettanto unificata a livello planetario. Letture che trascurano la globalità dei processi storici dove accanto alle lotte sociali, alle lotte di fabbrica, agli scioperi, la lotta di classe riesce a realizzare eventi di portata macrostorica come la Rivoluzione cinese che, ancora coinvolta in una lotta di liberazione internazionale, ha intrapreso un cammino di riscatto economico che non può in alcun modo essere assimilato all’assimilazione di politiche neoliberiste (Harvey). Oppure letture che enfatizzando, sotto la spinta di una sorta di foucoultismo populista, il nesso potere-dominio e la contraddizione masse-potere, finiscono per idealizzare le masse, e per ignorare il ruolo progressivo svolto in determinati momenti storici dalle lotte di liberazione nazionale e coloniale, per realizzare le quali esse hanno dovuto conquistare il potere e conservarlo anche a costo di tralasciare le altre contraddizioni sociali.

La crisi scoppiata nel 2008 è la prova storica di un conflitto di classe oggettivamente presente nella storia, ma che ancora non riesce a superare la frammentazione, sia perché quest’ultima è fortemente condizionata dalla stessa borghesia capitalistica, sia perché non ci sono partiti di sinistra in grado di proporre una visione globale delle contraddizioni e quindi di organizzare i movimenti di protesta.

Potremmo aggiungere che negli ultimi vent’anni anche quando l’orizzonte politico si sia limitato ai problemi della popolazione europea, i partiti di sinistra hanno assorbito l’ideologia neoliberista appoggiando politiche di progressivo svuotamento del Welfare, hanno giustificato tali scelte con lo spauracchio del debito pubblico causato dai costi di un livello sociale di benessere troppo oneroso per gli Stati. Con la connivenza dei mass media hanno costruito un consenso ad arte intorno a questo progetto, presentando gli effetti della crisi come sue cause: le politiche di erosione del Welfare e della precarizzazione del lavoro, quali effetti della crisi del capitalismo, vengono sponsorizzate come suo rimedio: le troppo famose politiche dell’austerità. Fin qui niente di nuovo sotto il sole dialettico della critica dell’ideologia. Ma a volerla seguire fino in fondo, la critica dell’ideologia ci mette di fronte alla realtà di un sistema economico, per dirla con Marx, personificato, se è vero che le persone sono anche il prodotto dei rapporti sociali di produzione del sistema sociale dominante. Sicché questo sistema può diventare culturalmente pervasivo proprio in quelle realtà istituzionali che dovrebbero combatterlo o resistervi (famiglia, istruzione, sanità, partiti, sfera pubblica), realtà colonizzate dal modello dell’impresa, dall’agire strumentale e dalla razionalità funzionale, secondo una logica che mina nelle fondamenta l’integrazione sociale e le fonti della solidarietà. (Cfr. Gallino, Il colpo di stato di banche e governi, La lotta di classe). Questo per dire che la frammentazione della lotta di classe, le timide reazioni di coloro che sono colpiti dagli attacchi del capitalismo e l’inedia della sinistra europea possono ricevere una spiegazione anche dalla possibilità che la colonizzazione abbia già prodotto forme di interiorizzazione del modello dominante

Succede, tuttavia, che la lotta di classe combatta anche contro la falsa coscienza. Le condizioni storico-oggettive che le impongono di assumere diverse forme e conflittualità, di diramarsi in diverse interconnessioni, di coinvolgere diversi soggetti storici, dimostra che anche nelle fasi di sconfitta essa ha saputo trasformarsi in nuovi processi di liberazione ed emancipazione.

Il movimento di Occupy Wall Street, secondo Losurdo, ha forse avviato un nuovo percorso di consapevolezza dell’intreccio tra le diverse contraddizioni generate dal capitalismo, tra capitalismo, neocolonialismo e guerra. Comincia sotto questo aspetto a diventare più chiaro che la manipolazione massmediatica condotta dall’Occidente è legata alle contraddizioni del capitalismo e alle lotte di classe che esso genera. La consapevolezza dell’intreccio delle diverse forme di lotta di classe è forse più evidente nelle metropoli dove cresce il conflitto sociale tra coloro che soffrono le conseguenze della crisi economica, in termini di impoverimento, perdita di garanzie sociali, emarginazione e coloro che migrano dai paesi più poveri del mondo in cerca di un riscatto economico e sociale. Interagiscono qui le due grandi divergenze: quella internazionale, imposta dal capitalismo, dal necolonialismo e dalle sue guerre che impedendo lo sviluppo economico, producendo diseguaglianza tra le nazioni, spinge i popoli a processi forzati di migrazione; quella nazionale che vede all’interno della popolazione crescere la polarizzazione economico-sociale. È chiaro che la possibilità di unire i fronti in una lotta comune contro le diseguaglianze generate dal capitalismo dipenderà dalla maggiore consapevolezza da parte di chi le subisce sia del nesso che esiste tra le due grandi divergenze, sia delle modalità con le quali le classi dominanti tendono a rimuoverlo.

Rispetto alle analisi che circolano sulla lotta di classe, il libro di Losurdo ha il grande merito di cogliere lo scenario di interconnessione globale nel quale essa è inserita, entro il quale i movimenti di protesta potrebbero muoversi e a partire dal quale i partiti di sinistra dovrebbero riappropriarsi dello spazio politico. È un libro che ricostruisce uno spaccato storico sul quale si fondano anche le conquiste della modernità e del suo progetto di emancipazione, e sorprende che proprio la sinistra europea vi abbia abdicato facendosi travolgere dal crollo del comunismo sovietico, senza reagire e provare a riconnettersi a quel progetto con spinte nuove, ma al contrario rendendosi complice del passaggio allo svuotamento della democrazia, della partecipazione politica e della dialettica democratica che si nutrono della conflittualità, degli antagonismi e delle lotte. Questo libro di Losurdo, allora, rappresenta l’occasione per un radicale ripensamento a cui la sinistra è chiamata se vuole ripristinare il proprio legame con la trasformazione del reale e con i soggetti sociali che in maniera consapevole, organizzata e solidale possano assecondarla.

Ma è forse anche spunto per un’ulteriore puntualizzazione. Se la storia della lotta di classe e delle rivoluzioni, se la storia nel suo complesso è un grande processo di apprendimento, allora la questione a dir poco speciosa se Marx avesse torto circa la capacità di reazione della classe antagonista è alla luce di tutto questo discorso, quanto meno mal posta e invece alquanto istruttiva. Se la decolonizzazione avvenuta nel Novecento e quindi la liberazione dei popoli colonizzati dai rispettivi popoli oppressori fosse stato il risultato del principio dell’autodeterminazione dei popoli sancito dalla Carta delle Nazioni Unite, ma in verità proclamato un secolo e mezzo prima dalla Rivoluzione francese, avremmo assistito alla ritirata pacifica delle potenze coloniali e avremmo potuto iscrivere tali eventi all’interno di un processo di apprendimento che tende gradualmente a universalizzare i diritti dell’eguali libertà di popoli e persone. Sappiamo che le cose non sono andate così, e sarebbe stato abbastanza arduo per l’Occidente liberarsi della contraddizione permanente che ha caratterizzato gran parte della sua storia più o meno progressiva -la fruizione dei diritti civili e politici ristretta alla classe di volta in volta dominante e la conseguente discriminazione fondata sul censo, la religione, il sesso, la razza -, dopo aver inaugurato il suo incontro con il diverso (a partire dalla sterminio degli indios) e averlo condizionato per più di tre secoli nella forma definita da Todorov della civiltà del massacro (dalla schiavitù dei neri alla brutalità delle colonizzazioni in tutte le sue forme note e meno note). La contemporaneità di eventi tra loro contraddittori dimostra che su molti avanzamenti il processo di apprendimento ha subito un vera e propria accelerazione grazie alle forze antagoniste. E che perciò, come sostiene Jaffe, decolonizzazione e antimperialismo sono il portato della lotta di classe, ma non sono processi conclusi. Dimostra inoltre che senza la forza antagonista del movimento operaio e socialista mondiale, l’Occidente non avrebbe potuto partorire il modello sociale europeo, l’emancipazione delle donne e dei neri e in genere una matura e piena democrazia (obiettivi di liberazione alla realizzazione dei quali le forze liberal-democratiche hanno pur sempre contribuito, ma non certo motu proprio).

E tuttavia, proprio in ragione dell’essere anche il portato del principio del riconoscimento universale, il fatto storico che la lotta di classe sia concentrata nel superamento delle due grandi divergenze, non dovrebbe impedire una seria riflessione intorno a quel principio di autodeterminazione dei popoli, che da una parte non può essere ristretto all’aspetto esterno dell’autonomia di uno Stato e al suo diritto di sottrarsi all’egemonia coloniale o semicoloniale, mentre dall’altra deve estendersi al riconoscimento interno del popolo nella sua libertà e autonomia politica (come sancito ormai da una pluralità di Carte). Eguaglianza delle nazioni ed eguaglianza dei popoli sono principi universali anche perché riflessivi, nel senso che implicano l’eguaglianza delle persone, nelle libertà e nei diritti in tutta la loro estensione. Tra le nuove forme che la lotta di classe dovrà assumere c’è la sfida a portare avanti questo progetto, sia dove la democrazia è istituzionalizzata, ma in crisi di legittimazione, sia dove essa ancora non lo è.

_______________________________________

Riferimenti bibliografici
Anweiler O., Storia dei soviet. 1905-1921, 1958; tr. it., Laterza, Bari 1972
Arrighi G., Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo, 2007; tr. it., Feltrinelli, Milano 2008
Chamberlain W.H., Storia della rivoluzione russa. 1917-1921, 1935; tr. it., Einaudi, Torino 19762
Colombo A. (ed.), Crollo del comunismo sovietico e ripresa dell’utopia, Dedalo, Bari 1994
Gallino L., Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi, Einuadi, Torino 2011
Gallino L., La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012
Gallino L., Il colpo di stato di banche e governi. L’attacco alla democrazia in Europa, Einaudi, Torino 2013
Graziosi A., L’Urss di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica. 1914-1945, il Mulino, Bologna 2007
Habermas J., Teoria dell’agire comunicativo, 1981; tr. it., il Mulino, Bologna 1986, 2 voll.
Habermas J., Fatti e norme. Contributi a una teoria del diritto e della democrazia, 1992; tr. it., Guerini e Associati, Milano 1996
Hobsbawm E., Il secolo breve. 1914-1991, 1994; tr. it., Rizzoli, Milano 1997
Hobsbawm E., Intervista sul nuovo secolo, Laterza, Roma-Bari 1999
Jaffe H., Davanti al colonialismo. Engels, Marx e il marxismo, 2007; tr. it. Jaca Book, Milano 2007
Jaffe H., Abbandonare l’imperialismo, 2008; tr. it. Jaca Book, Milano 2008
Losurdo D., Controstoria del liberalismo, Laterza, Roma-Bari 2005
Losurdo D., Il peccato originale del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1998
Perazzoli G., Contro la miseria. Viaggio nell’Europa del nuovo welfare, Laterza, Roma-Bari 2014
Web Analytics