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Pensare la fase 2 delle lotte. Incostituzionalità e contraddizioni giuridiche delle norme anti-Covid
di Alessandro Mustillo
L’attività dell’Ordine Nuovo è iniziata nel pieno della pandemia, in un contesto di riduzione dell’attività politica tradizionale e in preparazione di una fase di lotte alle porte. Tra i compiti che ci siamo assegnati c’è quello di contribuire al dibattito fornendo materiali di analisi utili anche sotto un profilo tecnico (sia esso economico, storico, giuridico ecc…) che facciano avanzare parallelamente alla coscienza di classe, le capacità effettive di lotta dei lavoratori e delle organizzazioni di classe. Fornire dunque strumenti e contributi per delineare percorsi di lotta in una fase di grande arretratezza soggettiva e allo stesso tempo di necessaria riorganizzazione dei comunisti e di un fronte di classe.
Il compito di oggi è abbastanza ostico e risponde alle richieste di molti compagni. Abbiamo detto più volte che esiste un punto di incontro tra la responsabilità nell’evitare la diffusione del contagio e la crescita della curva della conflittualità sociale per il carattere di classe delle scelte governative sulla gestione della crisi. In questo contesto diviene fondamentale comprendere quali sono le “forzature” possibili al sistema di chiusura dell’attività politica e in particolare delle manifestazioni. La premessa necessaria quando dall’ambito politico si entra in quello giuridico è che per noi comunisti questi due elementi non comunicano: le categorie del primo non sono quelle del secondo, che non è elemento neutrale, ma espressione degli interessi della classe dominante. Quando si parla del conflitto di classe il diritto è prevalentemente strumento della repressione. Non bisogna quindi cedere all’idea di fare la lotta di classe con le norme, perché questo è semplicemente impossibile.
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Non è sfruttamento, è assuefazione
Leggendo il libro di Marta Fana
di Marco Ambra
Una recensione analitica a “Non è lavoro, è sfruttamento”, edito da Laterza (Roma-Bari 2017), che sarà presentato giovedì 11 alle 17.30 alla Biblioteca Comunale di Siena. Qui i dettagli della presentazione
Leggendo la cronaca quotidiana del declino industriale italiano, non ultimo il dibattito fra Calenda ed Emiliano sul futuro/passato dell’Ilva a Taranto, viene in mente una formidabile sentenza di Max Weber sull’etica spuria di chi dibattendo su tali questioni parte da una pregiudiziale pretesa di ragione, un’etica che «invece di preoccuparsi di ciò che riguarda il politico, vale a dire il futuro e la responsabilità davanti a esso, si occupa di questioni politicamente sterili – in quanto inestricabili – come quello della colpa commessa nel passato» (Scritti politici, Donzelli, Roma 1999, p. 219). Non che le colpe e le responsabilità, specie in sede penale, non abbiano la loro importanza, ma farle pesare all’interno di un dibattito politico significa falsificare del tutto il politico, offuscare la presa di responsabilità di fronte al futuro che dovrebbe esserne il compito.
Di fronte al declino industriale italiano il dibattito politico si polarizza così, tristemente, dietro la catena delle colpe e delle responsabilità trasformando concetti e argomentazioni in slogan lanciati fra contrapposte tifoserie: chi ha fatto le riforme contro chi non le ha fatte, chi ha accresciuto il debito pubblico contro chi ha praticato l’ortodossia ipercoerentista dell’austerità, mancando completamente l’obiettivo politico delle questioni.
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La schiavitù del capitale
di Alessandra Ciattini
La schiavitù non è un rottame del passato, ma un’istituzione riportata in auge dal capitalismo del Terzo Millennio
La schiavitù del capitale (Bologna 2017) è il nuovo libro di Luciano Canfora, che stupisce sempre per l’ampiezza della sua cultura e per la lucidità delle sue analisi, le quali delineano un quadro complessivo e sintetico delle prospettive storiche che abbiamo davanti a noi. Inoltre, si può cogliere tra le righe il piacere che prova lo studioso italiano, svolgendo il suo attento lavoro di ricerca, anche se da esso emerge un disegno drammatico.
La schiavitù del capitale è un saggio breve (111 pagine), nel quale vengono individuati in maniera precisa i gravissimi problemi della società contemporanea, che sarebbe caratterizzata dal “ritorno in grande stile del fenomeno della schiavitù come anello indispensabile del ‘cosiddetto capitalismo del Terzo Millennio’” (p. 69). Questo ritorno non deve meravigliarci, giacché conferma quanto sosteneva Aristotele: “la necessità e l’eternità della schiavitù” (p. 68).
Secondo Canfora la partita che è stata giocata nel corso del Novecento, iniziata con la Grande Guerra, è stata vinta da chi sfrutta e gli sconfitti sono stati gli sfruttati, ma è stato un grave errore credere che questa vicenda abbia posto fine alla storia.
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Hayek, Issing, Visco, Patuelli: preveggenza inspiegabile sulla moneta unica (bancaria)?
di Quarantotto
Antefatto 1
Prendiamo le mosse da questa interessante dichiarazione di Visco in un'intervista alla Repubblica:
"...La mera possibilità del "bail in" renderà più onerosa la raccolta bancaria, rischiando di essere, se non ben gestito, controproducente. Se un supermercato fallisce, magari se ne apre uno vicino in grado di vendere le stesse merci al pubblico di quello fallito. Se fallisce una banca, non ne riapre un'altra uguale vicina. Il rischio è che ne fallisca un'altra. Lentamente l'Europa sta cominciando a capire quali possono essere le reali conseguenze delle nuove norme".
Ma Visco dovrebbe magari dialogare, ad esempio, con Otmar Issing, che pare un interlocutore €uropeo, piuttosto attendibile e autorevole, visto che quest'ultimo, come vedremo, queste "reali conseguenze" pareva averle comprese molto bene fin dall'inizio, come vedremo in dettaglio. Il che pone allo stesso governatore delle esigenze di chiarimento con gli interlocutori europeisti, per appianare quella che, indubbiamente, risulta oggi come una fondamentale divergenza di vedute e di visioni strategiche.
Antefatto 2
A ciò aggiungiamo queste dichiarazioni del presidente dell'ABI, Patuelli che, come vedremo in una più attenta analisi del complessivo funzionamento "VOLUTO" della moneta unica (almeno a sentire Otmar Issing in qualità di esponente BCE e in tempi non "sospetti"), risultano obiettivamente contraddittorie.
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Microfisica della bêtise
Come distruggere l’università e vivere felici
di Federico Bertoni
Non amo affatto Michel Houellebecq, mi irrita da morire. Segno forse che è un vero scrittore, perché lo scopo primario della sua scrittura sembra proprio quello di irritare il lettore (e ancor più la lettrice). Ma c’è un dettaglio che mi ha colpito molto in Sottomissione, a parte gli astuti e tendenziosi richiami alla situazione che sta sgretolando il nostro (?) mondo. Qualunque cosa accada, nota a più riprese Houellebecq, l’Amministrazione non ti lascia in pace: ti bracca, ti raggiunge ovunque. Può esserci il panico, la rivoluzione, la guerra civile o lo stato di emergenza, ma a un certo punto torni a casa e trovi una bolletta delle tasse o una multa non pagata. Mi viene anche in mente, su un registro molto diverso, un capitolo esilarante del Pensatore solitario di Ermanno Cavazzoni, in cui si descrivono le peripezie di un ipotetico eremita dei nostri giorni, che prima di potersi dare a una vita di sacrosanta solitudine e ascetiche meditazioni nel deserto dovrebbe fare i conti con Equitalia, il commercialista, la tassa dei rifiuti, l’avvocato dell’ex-moglie e via dicendo.
Figurarsi uno come me, che non pensa (più) a fare il rivoluzionario o l’eremita ma ha un posto ben integrato nel sistema universitario del nostro Paese, e che vorrebbe solo studiare e insegnare in santa pace, pretese ormai velleitarie e antisociali in un mondo che regolamenta anche il dissenso e che pretende di misurare tutto,
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Grecia, una nuova moneta fiscale la salverà?
di Enrico Grazzini
Comunque vadano le trattative con la Troika, il governo Tsipras dovrà porsi certamente la questione se emettere o no una moneta nazionale parallela all'euro, possibilmente al posto della dracma. Su questo il Financial Times sembra avere tesi contrapposte. Ma per uscire dalla crisi di liquidità anche l'Italia dovrebbe emettere certificati di credito fiscali, non vi sono altre soluzioni
La Grecia può stampare una sua moneta parallela all'euro? Sì, secondo Wolfganf Munchau, autorevole commentatore del Financial Times. Questo sarebbe il vero piano B del governo greco per uscire dalla crisi: emettere una (quasi)moneta, cioè un titolo fiscale che funzionerebbe come mezzo di pagamento per sfuggire alla stretta monetaria imposta dall'Unione Europea e dalla BCE1. Munchau è stato però aspramente contraddetto sull'autorevole quotidiano britannico da Hugo Dixon, noto editorialista della Reuters. Secondo Dixon se la Grecia stampasse una sua moneta parallela si suiciderebbe2.
Comunque vadano le trattative in corso sul programma di “salvataggio” (?) della Grecia, una cosa è certa: il governo greco dovrà certamente porsi la questione se emettere o no una moneta nazionale, una moneta parallela all'euro, possibilmente al posto della dracma. Anche l'Italia ha un problema analogo di crisi di liquidità, e, secondo l'appello lanciato da Luciano Gallino, Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Guido Ortona, Stefano Sylos Labini e da chi scrive, dovrebbe emettere una sua moneta statale-fiscale3.
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Euro e pieno impiego: la conferenza di Grenoble
di Lorenzo Battisti
L’attuale situazione economica rappresenta una sfida per tutti gli economisti, compresi quelli “eterodossi” che pure avevano avvertito con anni di anticipo l’arrivo di una crisi di grandi proporzioni. In particolare va analizzata l’Unione Europea e il ritorno della disoccupazione di massa.
Il 15 e 16 Maggio alcuni tra i maggiori economisti critici a livello mondiale si sono riuniti a Grenoble, in Francia, per discutere e confrontarsi su questi argomenti.
Il pieno impiego in Europa: con o senza l’Euro?
Il dibattito sull’Euro attraversa ormai molti paesi, sia del Nord che del Sud Europa, poiché la crisi, iniziata negli Stati Uniti, sembra non trovare un termine in Europa. Molti pensano che la differenza tra la durata e gli effetti della crisi in queste due aree sia dovuta alla costruzione europea. Il dibattito tra gli economisti ha quindi cercato di indagare se questa sia davvero la causa, e, in questo caso, se sia meglio riformare l’Euro oppure abbandonarlo. Molti libri negli ultimi anni hanno trattato questi temii ricevendo sempre maggiore attenzione dal grande pubblico.
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Io, medico ferito e sfollato
Massimo Gallucci
Questa è la testimonianza di Massimo Gallucci, professore e direttore Uoc [Unità Operativa Complessa] di Neuroradiologia Università - Asl dell'Aquila, ma anche uno delle migliaia di sfollati del terremoto in Abruzzo. Il racconto di quel 6 aprile, dell'impossibilità di tacere «in nome di quei morti in merito alla disorganizzazione preventiva e all'informazione fuorviante».
"Da gennaio, quasi settimanalmente si faceva sentire. Ma, un po’ come nel film X-men 2, il verme divoratore era sotto controllo. Così ci era stato detto più e più volte dalla stampa e dalle televisioni locali. E così parcheggio, senza particolari precauzioni, nel piazzale alberato 100 metri da casa.
Casa: una palazzina cielo-terra di 3 piani e piccolo attico, di stesura settecentesca, manipolata più volte in seguito, e da noi restaurata 12 anni fa. Per strada, davanti il mio ingresso, gli studenti che alloggiano in affitto negli appartamenti di fronte in cemento armato.
Sono una decina, in strada. Una ragazza piange: “non ne posso più, ho paura voglio andare via”. Un ragazzo l’abbraccia protettivo. Stai tranquilla. Sono scosse di assestamento. Ormai ci siamo abituati.
Così ci prepariamo, come ogni sera quasi tranquilli.
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Modello Kadima
di Rossana Rossanda
Il Partito democratico non ha finito di stupire anche i più smagati di noi vecchi. Dei tremila delegati (non si sa da chi, perché non c'è uno statuto) ne sono venuti la metà, l'altra avendolo scordato o avendo supposto che era inutile. Ci avevano avvertito che la metà presente era una base furente, uno tsunami di rifiuto che avrebbe gridato: tutti a casa, ci avete rotto, si ricomincia da zero. La valorosa Anna Finocchiaro ha dovuto reggerne l'onda financo alzando la voce che cinque parlassero per le primarie e congresso subito, e cinque per un interim fino a ottobre. Tutti i dieci si sono educatamente espressi; il più terribile è stato Arturo Parisi. Ben di più, una voce di protesta s'è levata dalla platea. Ha vinto l'interim per alzata mano. Intervallo per colazione. Indi voto. 1.047 hanno votato compatti Dario Franceschini, auspicato da Veltroni in partenza. Novantadue hanno votato Parisi, un po' meno di uno su dieci. La base eversiva forse non c'era.
Dario Franceschini aveva preparati il discorso e anche il tono. Decisionale. Non sarò il signor nessuno. Ha azzerato sul colpo il governo ombra. Navigherà da solo fino a ottobre quando, ha detto, si potrà fare il congresso, il Pd non è come il Pdl, una cosa arrangiata a cena o sul predello di un automobile. Franceschini è un giovane di buone maniere, che per età non è compromesso con la vecchia Dc e ne presenta la faccia gradevolmente moderata (in tutte le accezioni). Si ispira alla Resistenza, alla Costituzione nonché all'onesto Zaccagnini, fulminato dalla maledizione di Moro. Vuole l'unità dei sindacati. Applausi e via. C'è voluto più tempo per decidere quale era la migliore canzone a Sanremo che il segretario del Pd nella tempesta.
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La sottile linea rossa
di Enrico Tomaselli
Siamo abituati a pensare alle leadership delle grandi potenze come a un’élite di persone consapevoli e lungimiranti, magari ‘buone’ o ‘cattive’ ma comunque capaci – appunto – di una visione di ampio respiro. Persino l’atteggiamento ‘complottista’ finisce col rafforzare questa convinzione. Ma è davvero così? La storia ci dice piuttosto che, quando una potenza è in declino, anche la sua leadership è sempre meno all’altezza del compito; e ciò è, al tempo stesso, concausa ed effetto del declino stesso. Ne abbiamo drammaticamente conferma sui campi di battaglia dell’Ucraina.
* * * *
Il suicidio dell’impero americano
È in effetti paradigmatico che il leader degli USA sia un vecchio con evidenti problemi cognitivi. E per quanto, com’è ovvio, sia circondato da consiglieri (più o meno ufficiali, più o meno occulti), ciò non toglie che sia altamente simbolico – e non meno concreto… – dello stato di decadenza in cui versa l’ex impero statunitense. Ed in questo caso la preposizione ex non è né casuale né involontaria; al contrario, indica convintamente uno stato di cose, che sarebbe bene cominciare ad accettare e considerare. Perché quell’impero ha fondato la sua tumultuosa ascesa (e la breve stagione del suo dominio incontrastato) sulle armi e sul dollaro, ma oggi le sue forze armate non sono più l’invincibile strumento di guerra che hanno creduto di essere, ed il dollaro non è molto lontano dal divenire l’ombra di se stesso.
In verità, il dominio americano è andato avanti, negli ultimi decenni, più per forza d’inerzia che non per una guida realmente imperiale. L’ascesa al potere dei neocon – passati disinvoltamente dai repubblicani ai democratici – non è stata soltanto la ragione di una svolta aggressiva e delirante, ma un fattore accelerante nel processo di decadimento della leadership statunitense.
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Rapporto Oms. Come la Cina sta vincendo il virus
di Redazione Contropiano
E voi “godetevi” la sanità privata e regionalizzata…
Una Commissione internazionale di esperti virologi, diversi dei quali statunitensi, è stata inviata in Cina dall’Organizzazione mondiale della sanità. Il loro rapporto finale, dopo un approfondito esame della situazione sanitaria in loco, è un poco meno che entusiastico.
Apprezzato tutto, dalle misure prese per il confinamento (decine di milioni di persone chiuse in casa) allo sforzo inaudito per rafforzare la sanità pubblica là dove era indispensabile. Con cifre impensabili qui da noi, non solo in assoluto (che è ovvio, vista la differenza di dimensione della popolazione…), ma soprattutto in percentuale.
Emerge la superiore efficienza di un modo di concepire e organizzare la vita sociale a partire da un interesse generale. Non c’entra nulla l’ideologia, quel che conta sono le priorità fissate politicamente, ossia gli obbiettivi che devono guidare un’azione generale.
Fin dall’inizio è stato chiarissimo che l’economia avrebbe subito un colpo molto duro, con una provincia di 60 milioni di abitanti, cuore dell’industria automobilistica cinese, completamente ferma per almeno un paio di mesi.
Ma nessuno è stato licenziato per questo, al contrario che qui da noi. Il Paese prende su di sé il carico di una sua parte che si deve fermare perché la priorità è fermare la diffusione del virus. Per l’economia si provvederà dopo, concentrando anche in quel caso lo sforzo generale.
Tutto l’opposto di quel avviene da noi, in tutta Europa e ancor più negli Stati Uniti, “patria” della privatizzazione e dove un tampone in un ospedale privato costa 3.200 dollari e quindi – come ha ben sintetizzato anche Vasco Rossi – nessuno o quasi lo fa. E dunque la diffusione del virus è “libera”. Le persone vengono ospedalizzate solo quando crollano.
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Macroeconomia, mezzo secolo di regresso
di Sergio Bruno
Nell’esegesi del libro di Francesco Saraceno “La scienza inutile”, i limiti di Keynes e alcuni errori che iniziano ad emergere anche tra gli studiosi di stampo neoclassico, dallo scarso peso al contesto di forti disuguaglianze alla sottovalutazione dei “prezzi ombra” di lavoro, beni e servizi
Di questi tempi, che piovono dal cielo dei governi, pesanti come chicchi di grandine, quasi solo atteggiamenti e decisioni densi di insipienza, mi vien da pensare come, nella prima metà del Novecento, vi sia stata una vera e propria rivoluzione copernicana nella comprensione dei fatti economici, con studiosi capaci di “vedere al di là del velo delle mere apparenze”, come accadde quando fu faticosamente superato il geocentrismo. Allo stesso tempo mi chiedo come negli ultimi cinquant’anni, invece, possa esservi stato in vaste parti della teoria economica un regresso cognitivo altrettanto sorprendente. Ed è interessante pure come tutto ciò, rivoluzione e controrivoluzione, abbia avuto riflessi importanti sulla cultura espressa dalla sfera politica e da quella della comunicazione influente.
La prima rivoluzione mi sembra tanto ovvia quanto ampiamente sottovalutata e per certi versi non pienamente compresa, quanto meno se si pensa che chi conosce bene i rivoluzionari della prima ora in macroeconomia – Robertson, Keynes, Hansen, Lerner- potrebbe fare fatica a vedere la parentela che questi studiosi hanno con quelli, da Pigou a Coase, che hanno posto con grande anticipo le premesse per una critica radicale all’efficienza dei mercati, evidenziando addirittura come il sistema dei prezzi espresso dal libero agire del mercato sia un pessimo indicatore di valori relativi, e quindi fonte di distorsioni sistematiche nell’uso delle risorse.
Molto più arduo per me, e penso per molti, cominciare ad intravvedere le ragioni dell’emergere e del consolidarsi impasticciato della controrivoluzione; ragioni, ben inteso, che vadano oltre all’ovvio intreccio tra il fascino ideologico del mercato e lo strapotere degli interessi a questo fattualmente legati. Tra questi non mi astengo dal segnalare la opulenta circolazione di studiosi tra organizzazioni che si occupano di banche e moneta a livello internazionale e tra tali organizzazioni e l’accademia.
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Capitalismo, piattaforme e trasformazioni del lavoro
Dialogando a distanza con Benedetto Vecchi
di Michele Cento
Capitalismo delle piattaforme è una definizione precaria che ambisce a ricomporre la realtà in frammenti che viviamo ogni giorno. In virtù della sua precarietà, l’espressione si presta a evocare un mondo di mezzo, uno stadio di transizione che inizia con la crisi degli anni Settanta senza aver ancora concluso il suo ciclo, senza cioè aver raggiunto un assetto stabile che lo identifichi con precisione, come l’assetto fordista rendeva identificabile il capitalismo industriale. Più precisamente, lo suggerisce Benedetto Vecchi nel suo ultimo volume, con il quale vorremmo dialogare a distanza (Il capitalismo delle piattaforme, Manifestolibri, 2017), agli assetti certi il capitalismo delle piattaforme preferisce quelli a geometria variabile: è un agglomerato per sua natura instabile, rifiuta le vecchie «regolazioni» e mette a valore la presenza di identità diverse e non immediatamente riconducibili a unità, spacciando per ambivalenze quelle che sono le sue contraddizioni. In questo modo va dritto al cuore degli uomini: può dominarli perfino fuori dai tradizionali luoghi dello sfruttamento e fare a meno dell’intermediazione delle cose, grazie soprattutto all’intermediazione immateriale della Rete.
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La fine della nostra speranza
“Occidente senza utopie” di M. Cacciari e P. Prodi
Paolo Missiroli
Recensione a: Massimo Cacciari, Paolo Prodi, Occidente senza utopie, Il Mulino, Bologna, 2016, 141 pp., € 14,00 (Scheda libro)
“Utopico” è un aggettivo oramai con valenza negativa. Qualcosa di utopico è qualcosa di non realizzabile e quindi non realista (aggettivo che ha invece una valenza assiologica positiva). Segno dei tempi? Eppure, ogni moderno ha sentito su di sé la brezza del futuro radicalmente altro, dell’avvenire che si trasforma già sotto i nostri occhi. Ogni moderno ha percepito, da una parte o dall’altra, dal reale che gli stava di fronte o dall’altrove assoluto, un vento forte che soffiava verso un altro tempo, del tutto differente dal presente. Chi non ha mai provato nulla di tutto ciò, non è mai stato moderno. Riflettere oggi sui temi della profezia e dell’utopia, come fanno Paolo Prodi e Massimo Cacciari in Occidente senza utopie, vuol dire riflettere sulla vicenda della modernità e più in generale, se si ha il coraggio di non essere così moderni da pensare quest’incredibile epoca come inrottura radicale con il prima, dell’Occidente tout court. Non vi è Occidente senza profezia, come non vi è modernità senza utopia. Il libro è diviso in due parti: nella prima, Paolo Prodi attraversa la storia dell’ebraismo e del cristianesimo intrecciandola con la storia della modernità dal punto di vista che vi svolgono la profezia e l’utopia.
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L’“intellettuale collettivo”. Da Gramsci al mondo attuale*
di Alexander Höbel
1. La riflessione di Gramsci negli scritti politici
Quello dell’intellettuale collettivo è un tema classico dell’elaborazione gramsciana, e in parte si collega a quella estrema attenzione al terreno della formazione e dell’approfondimento, al lavoro culturale organizzato, tipica della sua impostazione. Per Gramsci, cioè, come già era stato per Gobetti, “la cultura è organizzazione”, e agendo sulla formazione della coscienza di singoli e masse ha ricadute decisive sul piano politico1.
Già nel dicembre 1917, dinanzi alla proposta di una “Associazione di cultura” emersa nella sezione torinese del Partito socialista, Gramsci osservava: “Una delle più gravi lacune dell’attività nostra è questa: noi aspettiamo l’attualità per discutere dei problemi e per fissare le direttive della nostra azione”, il che fa sì che non tutti si impadroniscano “dei termini esatti delle questioni”, cosa che provoca “sbandamenti”, disorientamento, “beghe interne”. Non esiste cioè “quella preparazione di lunga mano che dà la prontezza di deliberare in qualsiasi momento”, perché chiari sono i presupposti teorici della decisione politica. “L’associazione di cultura dovrebbe [quindi] curare questa preparazione […]. Disinteressatamente, cioè senza aspettare lo stimolo dell’attualità, in essa dovrebbe discutersi tutto ciò che interessa o potrà interessare un giorno il movimento proletario”2.
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Organizzare la rottura costituente
Un passaggio necessario
di Sandro Mezzadra e Toni Negri
Mentre prosegue il duro scontro tra il governo greco, le istituzioni europee e il Fondo Monetario Internazionale, le elezioni spagnole del 24 maggio hanno aperto una nuova breccia nell’“estremismo di centro” che ha governato gli anni della crisi in Europa. A Madrid, a Barcellona, in decine di altre città di piccola o media grandezza, peculiari coalizioni di movimenti sociali urbani, esperienze di associazionismo e forze politiche hanno travolto gli equilibri istituzionali esistenti e hanno fatto irruzione all’interno dei governi municipali con programmi nati nel corso delle lotte, a partire dal 15M. Il ruolo di Podemos è stato importante all’interno di molte di queste coalizioni, che hanno tuttavia tratto la propria forza dal radicamento in dinamiche di mobilitazione e costruzione quotidiana, irriducibili alla forma partito. È su questa base che dovranno ora essere sperimentati processi innovativi di governo municipale, di fondamentale importanza anche in vista delle elezioni politiche di novembre. Questa rottura non è simbolica ma istituzionale: la costituzione materiale è messa in discussione, quella spagnola (e greca) e quella europea.
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Crisi e (sotto) consumi
Antiper
Nelle teorie economiche che condividono l'approccio “sotto-consumista” è il livello della domanda (di merci) che regola il livello dell'offerta (detto in modo diverso: è la scala del consumo che regola la scala della produzione); per i sotto-consumisti, dunque, le crisi capitalistiche sono sempre figlie, in un modo o nell'altro, di un difetto di domanda. Ne consegue che la ricetta anti-crisi dei sotto-consumisti è sempre, in un modo o nell'altro, quella di aumentare la domanda mediante un innalzamento dei redditi.
Naturalmente, ci sono sempre due modi per fare le cose. E difatti “aumentare il reddito” può voler dire aumentare il reddito (e il consumo) dei ricchi oppure aumentare il reddito (e il consumo) dei poveri. Non a caso, i sotto-consumisti si dividono in due grandi “scuole”: diciamo, una “scuola sotto-consumista di destra” (in cui vengono in genere annoverati esponenti come Thomas Malthus o John Hobson) e una “scuola sotto-consumista di sinistra” (in cui vengono annoverati, tra i moltissimi altri, autori come Sismonde De Sismondi, Rosa Luxemburg, Paul Sweezy... nonché più o meno tutte le espressioni sindacali esistite ed esistenti, di regime e “di base”).
I sotto-consumisti “di sinistra” - peraltro molto più numerosi di quelli “di destra” - sono fan di “Robin Hood” perché propugnano l'espropriazione di quote di reddito dei “ricchi” per destinarle ai consumi di prima necessità dei “poveri”.
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6 Agosto 2011: l’Italia rasa al suolo dalla BCE
di Carlo Bertani
Le porte sono aperte, e i servi rimpinzati si fanno beffe della loro consegna russando.
William Shakespeare – Macbeth – Atto II, Scena Seconda.
Questi giorni sonnacchiosi, d’Agosto, questa falsa Estate che già si tinge delle dolenti piogge autunnali, questi cieli bigi sul mare, le nuvole di vapore sui colli e sui monti, sembrano un messaggio degli Dei ai mortali: lascia il chiasso delle spiagge e dei ristoranti all’aperto, smettila d’osservare ostinatamente il dito e lascia spaziare l’occhio in cielo, perché questa è un’Estate di guerra. La Libia? Sì, anche, ma non è questa la grande guerra che è in atto: anzi, sono più d’una, almeno tre o quattro. Vediamole nell’ordine.
a) La guerra per il primato geostrategico nel Pianeta fra USA e Cina.
b) La guerra, interna all’Unione Europea, fra la BCE e la Commissione Europea.
c) L’eterna guerra fra John Maynard Keynes e Milton Friedman.
d) La (finta) guerra fra i nani e le ballerine italiane.
La guerra per il primato geostrategico nel Pianeta fra USA e Cina
La notizia del declassamento del debito USA, da AAA ad AA+ (con outlook negativo), è di portata storica, verrebbe quasi da dire “la notizia del secolo” ma siamo prudenti, poiché il secolo che avanza – almeno, secondo chi scrive – ne riserverà altre di ben diversa portata. In ogni modo, sarebbe come se al Soglio Pontificio fosse salito il cardinal Milingo, con Vasco Rossi al Quirinale e il mago Otelma ministro dell’Economia. Tutto ciò era inevitabile: anzi, il giudizio è stato ancor troppo bonario.
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Letame
di Augusto Illuminati
Il ruolo provocatorio assunto dai due organi casalinghi di Berlusconi, «Il Giornale» e «Libero» (i due carabinieri maneschi, mentre «Il Foglio» è quello buono) viene a volte ricondotto alla grande tradizione progressista statunitense dei Muckrakers di fine Ottocento e inizio Novecento. Niente di più erroneo. Quegli «spalatori di letame» denunciavano gli scandali e la corruzione delle amministrazioni locali e dei trust, nell’illusoria prospettiva di un capitalismo “puro” e magari sboccavano nel volenteroso comunismo di un Lincoln Steffens, mentre Feltri e Belpietro (a proposito, l’hanno poi trovato l’attentatore fantasma invisibile alle telecamere?) ricordano piuttosto le imprese dei fogliacci dell’estrema destra maurrassiana e collaborazionista francese degli anni ’30 e ’40, «Gringoire» e «Je suis partout». Curiosità: nella più sconcia delle campagne di calunnie, quella che nel 1937 portò al suicidio del Ministro degli Interni del Fronte Popolare, Roger Salengro, gli stereotipi diffamatori furono la passione per il ciclismo e l’accusa di omosessualità. Prodi e Boffo, rispettivamente, ne sanno qualcosa.
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L’euro e il capitalismo europeo
di Csepel
Osservazioni su Bellofiore, Garibaldo e Mortagua, Euro al capolinea? La vera natura della crisi europea
Negli ultimi anni si sono succeduti testi che analizzano, da una prospettiva più o meno eterodossa, la parabola dell’euro 1. Anche questo testo interviene nel dibattito che si sviluppa a sinistra sul futuro della moneta unica. Il tema di fondo è che per capire l’euro bisogna analizzare la ricomposizione del tessuto produttivo europeo, innanzitutto tedesco, a partire dalla caduta del muro di Berlino. Nato nel mondo della guerra fredda, il progetto di unificazione europea risorge, soprattutto per impulso francese, con lo scopo di controllare l’ormai straripante potenza tedesca. In cambio di una banca centrale unica (comunque plasmata sulla Bundesbank) la Germania pretende vincoli sulla situazione dei conti pubblici dei futuri paesi dell’Unione. Da qui il Trattato di Maastricht e tutto il resto, sino al Fiscal Compact. La politica economica condotta dal grande capitale tedesco dagli anni ‘80 in poi è stata coerentemente orientata a riorganizzare la produzione su scala europea, riprendendosi il cortile di casa (Ungheria, Polonia, ecc.) in cui esternalizzare le produzioni a minor valore aggiunto, affiancandolo alle aree già prima fortemente integr ate nella filiera produttiva tedesca, come il Veneto o l’Austria. La moneta unica va studiata all’interno di questo quadro di cui costituisce una tessera importante ma non esclusiva. Lo dimostra il fatto che buona parte dell’est europeo, colonia tedesca, non ha nemmeno l’euro anche se fa parte dell’UE. Ridurre dunque il tema dell’uscita dall’Eurozona alla possibilità di svalutare è sicur amente futile.
In questo quadro, l’Italia gioca un ruolo particolare. Già verso la fine del miracolo economico era chiaro che il capitale italiano non fosse in grado di reggere lo scontro con i concorrenti internazionali sul piano dell’innovazione. Alle difficoltà fece fronte, in un primo momento, con le svalutazioni, in seguito con le delocalizzazioni, il far west sul mercato del lavoro, l’appropriazione delle ex aziende pubbliche. Definire come fanno gli autori questo calo degli investimenti come “kaleckiano” nel senso di legato a una decisione co sciente di “punire” le lotte operaie ci sembra parziale. Può essere vero per alcuni momenti di acu to scontro sociale, ma qui si parla di un processo ultradecennale legato a fattori strutturali, peraltro indicati nel libro stesso, come la polverizzazione produttiva delle aziende, la loro concentrazione in settori maturi, ecc.
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Ritornare a Marx
di Collettivo di fabbricato
Lo scritto che pubblichiamo qui di seguito è intitolato Ritornare a Marx. È stato recuperato scartabellando tra documenti, carte e libri conservati alla rinfusa e di cui avevamo quasi perso traccia. Strano destino quello di questo testo, destinato più volte all’oblio, e che invece continua periodicamente a circolare. Vale la pena allora ripercorrerne la genesi, visto che esso è il frutto singolare di un’elaborazione collettiva che, pur risalendo oramai a più di quindici anni fa, mantiene intatta una certa originalità e una significativa attualità.
Tra il 2001 e il 2003 un piccolo gruppo di attivisti e attiviste decide a Palermo di dedicarsi alla lettura e allo studio del primo libro de Il Capitale. Si dà pure un nome, Collettivo di fabbricato, evocando ironicamente la pellicola di Wolfgang Becker Good Bye Lenin: forse perché in quel gruppo c’era qualcuno particolarmente affezionato alla Berlino dei tempi andati, o forse perché già allora la vittoria del capitalismo suscitava quel sentimento, un misto di rabbia e rassegnazione che, dopo l’annessione della DDR, l’Anschluss, è stato definito Ostalgie.
Il Collettivo di fabbricato si proponeva di affiancare lo studio e l’elaborazione teorica all’impegno militante, coniugando, per così dire, teoria e prassi. Al contempo costituiva uno spazio di elaborazione teorica al di fuori dei tradizionali circuiti culturali accademici e dell’establishment, anche quello di sinistra.Anzi, la sua stessa esistenza si configurava implicitamente come una critica, radicale e spietata, a quei luoghi dell’elaborazione del sapere, in primis l’università, che già allora manifestavano quei segni di imbalsamata sclerosi e mummificata inutilità e immobilismo oggigiorno diventati scandalosamente evidenti.
Il collettivo si riuniva ogni due settimane nelle case dei vari componenti, si discuteva un capitolo alla volta, periodicamente ci si dedicava alla lettura di testi critici, e di volta in volta si decideva come proseguire. Quella dei seminari autogestiti era una pratica che era già stata abbondantemente sperimentata negli anni ’90 nella Facoltà di Lettere e Filosofia di Palermo, a partire dal movimento della Pantera.
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Il cadavere nel pozzo
di Il Pedante
Restando sul tema che ha motivato la sospensione di questo blog, ho seguito con interesse le risposte date dall'onorevole Stefano Patuanelli, capogruppo M5S al Senato, al pubblico di una trasmissione locale andata in onda il 26 ottobre scorso a proposito del disegno di legge n. 770, che porta la sua firma. Il DDL, che si candida a sostituire la legge Lorenzin in tema di vaccinazioni obbligatorie e il cui testo è oggetto di audizioni in Senato in questi giorni, è già stato qui criticato in quanto, collocandosi in perfetta continuità con la norma varata dal governo precedente, ne moltiplica i difetti e ne amplia la forza sanzionatoria, la portata, i destinatari.
Ai lettori - fortunatamente pochi - che ancora si interrogano su quanto sia giustificata l'attenzione ormai quasi esclusiva che dedico al nuovo obbligo vaccinale, dovrebbe bastare il fatto che in tutta la storia d'Italia - inclusa, quindi, quella caratterizzata da ondate epidemiche oggi sconosciute - non si era mai assistito a un'imposizione farmaceutica di massa di queste proporzioni e alla collegata limitazione dei più elementari diritti sociali. Come è logico aspettarsi, la riduzione dei casi di malattie infettive si era invece accompagnata, fino all'anno scorso, a un progressivo allentamento dei già blandi obblighi di vaccinazione senza peraltro incidere negativamente sulle coperture. O dovrebbe ancora prima bastare l'altrettanto inaudita pressione ricattatoria esercitata sui professionisti della sanità che - lo ripetiamo: per la prima volta nella storia nazionale - devono oggi temere provvedimenti disciplinari qualora, in scienza e coscienza, fornissero ai propri assistiti il «consiglio di non vaccinarsi». Ho descritto gli intuibili effetti che questa militarizzazione del personale sanitario sta producendo sull'indipendenza dei medici e quindi sulla fiducia dei pazienti - e quindi sulla loro salute - nel libro Immunità di legge.
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"Far maturare il bambino, non buttarlo insieme all'acqua sporca"
di Domenico Moro
I risultati delle elezioni italiane sono l’ulteriore dimostrazione del collasso, a livello europeo, del sistema politico tradizionale, basato sull’alternanza bipolare di centro-destra (PPE) e centro-sinistra (PSE). Forza Italia, interna al gruppo dei Popolari europei (PPE), è il quarto partito, il Pd, rappresentante del Partito socialista europeo (PSE), è secondo a pari merito con la Lega e scende al minimo storico. Il risultato del Pd non è per nulla eccezionale rispetto a quanto fatto registrare dai partiti socialisti in Germania, Spagna e Francia (anzi, qui le cose sono andate peggio).
Il punto è che la presunta e tanto sbandierata ripresa non è tale da recuperare quanto perso in 10 anni di crisi e di austerity europea e soprattutto è una crescita senza lavoro, o meglio senza lavoro adeguato a sopravvivere, fatta di aumento delle disuguaglianze. Infatti, il tema implicito di queste elezioni è stato il lavoro, o meglio la mancanza di lavoro. Le elezioni sono state vinte da chi ha messo in campo una risposta - giudicata credibile dagli elettori - a questo problema e alla questione collegata, cioè come determinare una effettiva ripresa economica. In particolare tre proposte sono state portate all’attenzione degli elettori da Lega e M5S: la critica ai vincoli dei trattati Europei, la riduzione dei flussi di immigrazione, e soprattutto il reddito di cittadinanza, collegato quest’ultimo a un programma neokeynesiano.
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Sperimentare il comune
La democrazia e l'offensiva dell'oligarchia neoliberista
Pierre Dardot, Christian Laval
Pubblichiamo un estratto dal nuovo saggio di Dardot e Laval, «Guerra alla democrazia, L’offensiva dell’oligarchia neoliberista», in uscita in questi giorni per DeriveApprodi
Fa buio. Nel secolo ancora non è mezzanotte, ma quello da poco nato sembra cominciare sotto cattivi auspici: il nazionalismo esacerbato, la xenofobia rivendicata con orgoglio, il fondamentalismo religioso che dichiara guerra, i cui volti più inquietanti assumono la forma di un desiderio di morte, fenomeni che ricordano gli orrori del secolo trascorso nei loro risvolti più tragici.
Nelle diverse varianti del neofascismo contemporaneo, si fanno giorno strane alleanze nelle quali la pressione capitalistica più sfrenata e più criminale si mischia a forme di irredentismo identitario tra le più variegate. La globalizzazione del neoliberismo, lungi dal partorire un mondo pacificato nel commercio, come pretendeva l’irenico Vangelo dei suoi predicatori, è il terreno fertile di uno scontro sanguinoso tra identità, che fa sembrare il fondamentalismo religioso e il fondamentalismo del mercato come due versioni complementari della reazione postmoderna.
Ritorno alle origini, ripiegamento sulla comunità di appartenenza, sottomissione assoluta alla trascendenza: la grande regressione che abbiamo davanti è portatrice di nuovi disastri, c’è da starne certi. La paralisi del pensiero di fronte alle forme più mortifere di questa regressione è tale da farci sembrare un’impresa titanica quella di aprire nuovi possibili, come affascinati dallo spettacolo del peggio. Ma non c’è altra scelta. Anzitutto, occorre guardare con lucidità la condizione alla quale siamo ridotti.
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Le trattative tra Tsipras e Merkel dimostrano che l'Europa è già fallita
di Enrico Grazzini
In apparenza Tsipras e Merkel si stanno giocando il futuro dell'Europa. Ma in effetti, il sogno europeo è già morto e sepolto sotto i colpi dell'euro-marco. Comunque vadano le trattative tra la Grecia del socialista Alexis Tsipras e l'Unione Europea, guidata dal mastino Angela Merkel, il destino dell'Unione Europea è già segnato. Le illusioni di una Europa più forte e più giusta sono ormai del tutto ingiustificate. La UE è ormai apertamente nemica dei popoli. L'Europa è ormai solo l'alibi dei governi europei di tutti i colori per imporre le riforme strutturali neo-liberali volute dalla grande finanza: riduzione del costo del lavoro, disoccupazione, abbattimento selvaggio del welfare, privatizzazioni, compressione dei diritti sociali e politici, riduzione della democrazia a feticcio formale.
Le regole europee della moneta soffocano l'Europa, ma nessuna regola vincola invece la grande finanza. “Vi tolgo tutto in nome dell'Europa”. Questo è ormai lo slogan dei governi “europeisti” per perseguire drastiche politiche di destra, come quelle di Matteo Renzi. I governi europei e le elite dirigenti delle nazioni europee sono diventati dei semplici portavoce di interessi sovranazionali – istituzioni europee e grande finanza – che perseguono politiche di prolungamento della crisi.
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Nel nuovo capitalismo ammortizzatori da ripensare
Bruno Amoroso*
La cassa integrazione era funzionale all’economia com’era prima della globalizzazione e della finanziarizzazione. Un obiettivo importante è quindi quello di sostenere un sistema di economie di comunità (già economia sociale) che si facciano carico di dare risposta ai problemi che emergono dal nuovo quadro
Gli eventi ed il dibattito politico-sindacale sviluppatosi di recente a partire dalla cassa integrazione e poi estesosi al sistema degli ammortizzatori sociali mettono bene in evidenza la rilevanza del problema ed il bisogno di ripensare ed ampliare strumenti e politiche al riguardo. Tuttavia questo avviene tuttora con un approccio che considera fondamentalmente immutato il paradigma produttivo e politico generale e propone mutamenti tutti in chiave di ampliamento e quantità, ma non di qualità. Un approccio che attribuisce tuttora al sistema degli ammortizzatori sociali il ruolo di garantire un reddito minimo ai lavoratori in caso di disoccupazione e di consentire il mantenimento del loro livello di professionalità e del legame con il luogo di lavoro.
Entrambe queste funzioni, pensate prevalentemente per i lavoratori della grande industria e solo di recente estese ad altri gruppi di lavoratori, sono state ispirate dal contesto generale di funzionamento dell’economia capitalistica nei primi due decenni del dopoguerra e, quindi: 1) limitate al mercato del lavoro capitalistico ed ai gruppi più forti di questo; 2) guidate dal principio del ciclo capitalistico caratterizzato da fasi di recessione e da fasi di ripresa in un contesto di crescita economica.
L’ammortizzatore sociale consentirebbe la copertura dei redditi e della professionalità del lavoratore nell’impresa nelle fasi brevi della recessione, per poi riaffidare all’imprenditore la gestione del ciclo produttivo. Spettava allo Stato fornire mezzi e politiche per aree del bisogno sociale e del lavoro non coperte dall’economia capitalistica.
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Distribuzione del reddito e diseguaglianza: l’Italia e gli altri
Stefano Perri*
Scriveva Keynes, nelle Conseguenze economiche della pace, che il processo di formazione del capitalismo industriale si è fondato su un “doppio inganno”. Da una parte i lavoratori si appropriavano di una piccola parte della torta che avevano contribuito a produrre, mentre i capitalisti ne ricevevano “la miglior parte”, con la tacita condizione di non consumarla, ma di destinarla prevalentemente all’accumulazione del capitale.
Dopo la crisi del ’29 e la seconda guerra mondiale, il processo di sviluppo è sembrato invece basarsi su una graduale diminuzione delle diseguaglianze che ha stimolato la domanda aggregata. Tuttavia, dagli anni settanta, le diseguaglianze sono tornate a crescere, con l’aggravante che nei paesi sviluppati la “miglior parte della torta” ha alimentato prevalentemente la speculazione piuttosto che gli investimenti reali. In molti hanno scambiato questa restaurazione del “doppio inganno”, che con la crisi attuale mostra tutte le sue contraddizioni, con la via maestra della modernizzazione.
In questo quadro il governo italiano ha varato una manovra del tutto inadeguata. Avendo appreso l’idea che le aspettative si auto-realizzano dalle storielle che è uso raccontare, Berlusconi sembra ritenere che bastino le sue esortazioni a consumare per ristabilire la fiducia. Soprattutto non sembra rendersi conto che la spesa per il consumo dipende dal reddito delle famiglie e che l’ insufficienza della domanda aggregata è il risultato del mutamento nella distribuzione del reddito che ha caratterizzato in modo fondamentale l’ultima fase economica nei paesi sviluppati.
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Populismo pedagogico e scuola senza concetto
Cancellare il volto della scuola
di Salvatore Bravo
La scuola facile non libera, ipostatizza il presente, necrotizza la prassi e la trasformazione. La scuola difficile educa alla domanda. La scuola facile non permette al pensiero di configurarsi, ma lo destruttura in chiacchiera. La scuola dell’impegno è la scuola che forma alla costanza, ai tempi del concetto. Non vi è sapere critico se non nella gradualità dell’apprendimento dei contenuti. Il sapere critico deve conoscere la temporalità distesa e densa di contenuti Nell’antiumanesimo programmato il fine è cancellare ogni disponibilità all’umana comprensione
Populismo pedagogico
Il populismo pedagogico è il volto operativo della cattiva politica. Per populismo pedagogico si intende l’esemplificazione fine a se stessa: il semplicismo privo di concetto. In nome dell’esemplificazione si educa alla formazione del suddito, si forgiano le catene dorate dell’ignoranza con la pedagogia del disimpegno, della promozione sociale con contenuti minimi. Ma ciò che maggiormente rende nefasta tale struttura operativa è la formazione di caratteri dalla fragile resistenza alla frustrazione, pronti a rinunciare, a demordere, a svicolare dalle difficoltà. Si rafforza solo l’atomismo narcisistico da cui il mercato attingerà per promuovere i consumi. La comunità è dissolta nell’individualismo. Le azioni pedagogiche personalizzate – in nome della cosiddetta inclusione – sono finalizzate ad assottigliare, fino a divenire programmi e contenuti inconsistenti. In tal modo si ottiene il successo formativo da utilizzare nella campagna acquisti alunni della scuola azienda: la deprivazione culturale è presentata come un’eccellenza della didattica. Tutto dev’essere liscio quanto il desktop di uno smartphone:
«La vera contrapposizione è oggi tra “saperi difficili” e “saperi facili” o, meglio, saperi apparenti, fatti di scorciatoie, semplificazioni, impoverimenti linguistici ed argomentativi, saperi di superficie, saperi di formule. Questa è la vera alternativa per una scuola del futuro, una scuola che insegni a padroneggiare realmente Internet, non solo a saper battere i tasti e a essere schiavi di tutto ciò che passa per questa via».[1]
Il sapere apparente diventa parte fondante dell’industria del falso e del dominio globale. Il populismo pedagogico ha inventato «il docente facilitatore dell’apprendimento». Ovvero, il docente deve essere il regista silenzioso dell’apprendimento, non più educatore, non più punto di riferimento per i contenuti, ma solo un mediatore del lavoro dei discenti, i quali indirettamente stabiliscono contenuti, obiettivi, competenze che naturalmente sono minimi, semplici.
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Dall’ideologia politicamente corretta al populismo di destra. Che fare?
Fabrizio Marchi
Come ho già avuto modo di spiegare in diverse occasioni, dopo il crollo del muro di Berlino il sistema capitalista a trazione americana ed europea ha messo in panchina il vecchio apparato valoriale ideologico sostanzialmente fondato sul matrimonio con la Chiesa e la religione per assumere l’ideologia politicamente corretta come sua ideologia di riferimento.
Ho già ampiamente trattato le ragioni che hanno determinato questo processo e non ci torno.
Ora, cosa sta accadendo da alcuni anni a questa parte? Sta accadendo ciò che era inevitabile accadesse. E cioè che il bombardamento ideologico-mediatico sistematico politicamente corretto ha prodotto il suo (falso) “antagonista” o meglio la sua contraddizione, e cioè il neopopulismo di destra.
Che cos’è il neopopulismo di destra e perché è un falso antagonista del sistema capitalista? Facciamo un passo indietro, o meglio una premessa.
Il processo di globalizzazione capitalista ha visto prevalere il grande capitale, in particolare finanziario ma non solo, multi e transnazionale, rispetto ad alcuni settori delle vecchie borghesie nazionali, che hanno gradualmente perso la loro egemonia politica che si fondava sul controllo e appunto sulla capacità di essere egemoni all’interno dei vecchi “stati-nazione”.
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Il capitalismo dei disastri: uno stato di estorsione
di Naomi Klein
Quando il petrolio ha superato i 140$ a barile, anche i più rabbiosi e conservatori ospiti dei media hanno dovuto provare il loro credo populista riservando una parte del loro show per colpire il Grande Petrolio. Qualcuno è pure andato oltre invitandomi a partecipare ad una amichevole chiacchierata riguardo un nuovo e insidioso fenomeno: il capitalismo dei disastri. Solitamente va bene, fino a prova contraria.
Per esempio il conduttore radiofonico Jerry Doyle, un “conservatore indipendente”, ed io stavamo chiacchierando amabilmente sulle squallide compagnie assicurative e sui politici inetti quando successe questo: “Credo di conoscere un modo rapido per abbattere i prezzi”, annunciò Doyle. “Abbiamo investito 650 miliardi di dollari per liberare un paese di 25 milioni di persone. Potremmo chiedere a loro di fornirci il petrolio.
Ci sarebbero autobotti su autobotti che si raggruppano nel Lincoln Tunnel, il puzzolente Lincoln Tunnel, all’ora di punta con biglietti di ringraziamento
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