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L’irrazionalità del neomercantilismo

di Guglielmo Forges Davanzati

neomercantilismo 510Il neomercantilismo è una modalità di riproduzione capitalistica basata sull’obiettivo di generare crescita economica attraverso l’aumento delle esportazioni e la riduzione delle importazioni[1]. E’ questa la linea di politica economica dominante oggi soprattutto (ma non solo) nell’Eurozona e che si traduce mediaticamente nell’ossessione della competitività. L’Unione europea, nei Trattati più recenti che ne hanno configurato l’architettura attuale, è formalmente concepita come economia sociale di mercato estremamente competitiva. I due strumenti fondamentali ipotizzati (e attuati) per raggiungere questo obiettivo, per tutti i Paesi membri, consistono nel consolidamento fiscale (ovvero la generazione di avanzi primari, mediante riduzioni della spesa pubblica) e nelle c.d. riforme strutturali, nella forma della liberalizzazione dei mercati dei beni e dei servizi e deregolamentazione del mercato del lavoro (per generare moderazione salariale) e della detassazione degli utili d’impresa. Ciò nella convinzione che consentire alle imprese di contenere i costi di produzione sia il presupposto essenziale per consentire loro di vendere all’estero a prezzi ridotti. In più, le misure di moderazione salariale, combinate con il consolidamento fiscale, sono pensate per ridurre le importazioni.

La domanda che occorre porsi è se una strategia neo-mercantilista possa essere efficace (ai fini della crescita, come si ritiene) e sostenibile. La risposta rinvia a considerazioni di natura teorica e ad alcune evidenze empiriche, queste ultime qui riferite all’Italia.

In primo luogo, occorre ricordare che la crescita dell’economia mondiale nel suo complesso non può essere trainata dalle esportazioni dal momento che un modello di crescita trainata dalle esportazioni funziona soltanto se e fin quando esistono Paesi importatori netti. Questa considerazione destituisce di fondamento la visione dominante per la quale il modello di crescita trainato dall’accumulazione dei profitti può e deve riguardare tutti[2]: banalmente, non si può esportare sulla Luna. In secondo luogo, occorre riconoscere che il libero scambio non avvantaggia tutti i Paesi che ne prendono parte, fondamentalmente a ragione del fatto che gli scambi internazionali coinvolgono Paesi con differenti gradi di sviluppo. Alcuni Paesi (i c.d. early startes) possono produrre con costi decrescenti, soprattutto nel settore manifatturiero, traendo vantaggio dallo scambio con Paesi che producono con costi crescenti (i c.d. late comers)[3]. Non a caso, sul piano empirico, il fondamentale fatto stilizzato al quale riferirsi è che le economie più aperte agli scambi internazionali (ovvero quelle con più alto grado di sviluppo) tendono a essere economie la cui crescita è trainata dal reinvestimento dei profitti – il c.d. profit-led regime – e dalle esportazioni.

Si è dunque in presenza di un gioco a somma zero, nel quale l’Italia risulta perdente. Per queste ragioni.

1. La quota delle nostre imprese esportatrici è bassa nella comparazione con i nostri concorrenti dell’Eurozona[4], ed è concentrata nella classe di imprese di medie e grandi dimensioni localizzate quasi esclusivamente al Nord. Circa la metà delle imprese esportatrici è costituita da imprese del settore manifatturiero. Se si assume che le nostre esportazioni sono molto sensibili al prezzo (ipotesi niente affatto scontata), la moderazione salariale avvantaggia esclusivamente queste imprese. Per l’ampia platea delle altre imprese italiane, per contro, ovvero per le imprese di piccole dimensioni localizzate nel Mezzogiorno, la riduzione dei salari ha l’unico effetto di comprimere la domanda interna[5]. Da qui: riduzione dei margini di profitto, degli investimenti privati, aumento del tasso di disoccupazione. Se, per contro, si assume che le nostre esportazioni sono trainate da fattori che attengono alla qualità del prodotto (e dunque indipendentemente dal prezzo di vendita), la moderazione salariale è, con ogni evidenza, inutile per le imprese esportatrici e dannosa per le tante imprese che operano sul mercato interno[6].

2. La moderazione salariale non necessariamente implica, attraverso la compressione della domanda interna, una riduzione delle importazioni. Ciò per numerose ragioni, non da ultimo il fatto che al ridursi dei salari si modifica la composizione merceologica dei consumi e, per conseguenza, può risultare conveniente acquistare beni (a prezzi inferiori) non prodotti in Italia (si pensi, a titolo puramente esemplificativo all’aumento dell’acquisto di prodotti cinesi). Più in generale, i pattern di consumo risentono non solo del reddito e dei prezzi relativi dei beni, ma anche di effetti di ‘apprendimento’ e di imitazione: il che rende piuttosto semplicistica l’assunzione standard per la quale fra consumi e importazioni la relazione è sempre e necessariamente di tipo diretto. A ciò si può aggiungere che in un contesto di moderazione salariale e crescente precarizzazione del lavoro la propensione al consumo può ridursi, per effetto dell’aumento dell’incertezza sul rinnovo del contratto di lavoro e, dunque, sul flusso dei redditi futuri.

Sul piano empirico, si rileva che i principali Paesi dell’Unione Monetaria Europea, con eccezione della Francia e in parte del Regno Unito, a partire dal 2011 registrano aumenti del saldo della bilancia commerciale in rapporto al Pil. Ciò vale anche per l’Italia, ma con effetti sul tasso di crescita pressoché insignificanti (il miglior risultato ottenuto dal 2011 al 2016 è un tasso di crescita dell’1%) e comunque in assenza di apprezzabili riduzioni del tasso di disoccupazione (che, pur a fronte di incrementi di esportazioni è semmai aumentato, passando dall’8.3% dell’agosto 2011 all’11.2% dell’agosto 2017).

Saldi della bilancia commerciale Paesi 5 UME 1990-2016 (valori correnti, in % sul Pil)[7]

grafico 1

Perché, se queste misure non generano i risultati attesi (almeno nel caso italiano), esse vengono reiterate? Qui la risposta attiene a considerazioni di natura economica ma soprattutto di natura politica.

a) Sul piano propriamente economico, è del tutto evidente che la singola impresa, in concorrenza con le altre, ha la massima convenienza a ottenere sgravi fiscali e bassi salari. Ma la convenienza privata, in questo caso, confligge con quella della collettività delle imprese, per una duplice ragione. Innanzitutto perché bassi salari (e alta tassazione sul lavoro, essendo la ripartizione dell’onere fiscale un gioco a somma zero, in un contesto di consolidamento fiscale) riducono i consumi, generando effetti deflattivi e calo dei profitti nell’aggregato. In più, la compressione dei salari tende ad associarsi al deterioramento della qualità della forza lavoro (p.e. per la minore capacità di accesso a cure mediche) e, dunque, a minore tasso di crescita della produttività del lavoro e dei profitti futuri. In altri termini, la domanda di moderazione salariale espressa dalle imprese genera sia problemi di mancanza di coordinamento – e dunque di conflitto fra ciò che è privatamente conveniente e ciò che lo è per la collettività delle imprese (e che le imprese non farebbero – ridurre i salari - se potessero coordinarsi: cosa impossibile nell’ambiente ‘anarchico’ del mercato) – sia problemi di miopia – essendo, nella migliore delle ipotesi, una strategia utile solo nel breve periodo. A ciò si può aggiungere il fatto che all’aumentare dei profitti gli investimenti non necessariamente aumentano. Possono non aumentare per il peggioramento delle aspettative imprenditoriali, per il fatto che i profitti accumulati vengono destinati a usi speculativi e ancora per l’aumento dei consumi di lusso da parte dei capitalisti.

b) Sul piano politico, dati i rapporti di forza fra Capitale e Lavoro, fortemente squilibrati a vantaggio del primo, appare del tutto evidente che le politiche economiche rispondono agli interessi di chi ha maggior potere contrattuale – ovvero a chi ha maggior potere di ricatto sui Governi. Il potere di ricatto del Capitale sui singoli governi deriva essenzialmente dal c.d. sciopero del capitale (capital strike), ovvero dalla possibilità per il capitale – possibilità esclusa per il lavoro – di minacciare delocalizzazioni. A ciò si aggiunge il potere di condizionamento che le Istituzioni finanziarie internazionali esercitano sulle politiche economiche dei singoli Paesi e che si manifesta nella richiesta di essere ‘credibili’ – ovvero, in sostanza, di mettere in atto misure di moderazione salariale. Il loro potere deriva dall’essere creditori degli Stati, giacché detentori dei loro titoli del debito pubblico.

Per questa fondamentale ragione politica, il modello di politica economica dominante non può che essere profit-led e export-led, ma, al tempo stesso, tale modello non può generare crescita su scala globale (potendo farlo solo per singoli Paesi). E’ un modello irrazionale ai fini della crescita e dell’aumento dell’occupazione, è un modello che accentua i conflitti intercapitalistici in un pericoloso gioco di acquisizione di quote di mercato su scala globale, ed è un modello che, tuttavia, stante le condizioni date, non sembra avere alternative.


Note

[1] L’espressione neo-mercantilismo rinvia alla teoria economica considerata dominante nel XVII secolo (il mercantilismo appunto), che, nella sua forma più rozza, suggeriva ai Principi di accumulare ‘tesoro’ stimolando le esportazioni. Si tratta di una visione che, già in quel periodo, era considerata semplicistica. Si rinvia sul tema a G.Forges Davanzati, Thomas Mun. Il tesoro dell’Inghilterra nel commercio estero. Napoli: ESI, 1994.
[2] Sul tema si rinvia a O. Onaran (2016), Wage-versus Profit-led growth in the context of international interactions and public spending: The political aspects of wage-led recovery, PostKeynesian Economics Study Group, working paper n.1603, February.
[3] Non è questa la sede per soffermarsi sul dibattito fra protezionisti e liberoscambisti. Sul tema, si rinvia, in particolare, a M.De Cecco (2016), Moneta e impero. Economia e finanza internazionale dal 1890 al 1914, a cura di A.Gigliobianco. Roma: Donzelli, cap.1.
[4] ISTAT-ICE stima che il grado di apertura internazionale dell’Italia è circa la metà di quella media dell’area euro.
[5] Per un’analisi dettagliata del fenomeno, anche con riferimento alla tipologia di merci esportate/importate, si rinvia a ISTAT, Commercio estero e attività internazionale delle imprese. Roma, 2017.
[6] Cfr. A. Felettingh, A. and S. Federico, (2011). Measuring the price elasticity import demand in the destination of Italian exports, “Economia e Politica Industriale”, vol.38, n.1, pp.127-162.
[7] La figura è tratta da D.Moro, L’internazionalizzazione dell’economia dell’Italia nel passaggio dalla semiperiferia al centro dell’economia-mondo, mimeo.
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