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scienzaepolitica

Residui, persistenze e illusioni: il fallimento politico del globalismo

di Geminello Preterossi

A partire da un’analisi del rapporto tra diritto, territorio e il cosiddetto “spazio globale”, il saggio esamina e discute la crisi “spaziale” dell’età dei diritti, a fronte di una specificità urbana dello spazio europeo e di una persistenza degli Stati come attori politici principali, in rapporto funzionale o di tensione con i poteri indiretti del capitalismo finanziario. In particolare, l’autore mette in questione l’esistenza di un’alternativa credibile agli universali politici concreti. Contro uno spazio che rischia di caratterizzarsi come postdemocratico e decostituzionalizzato, l’autore propone un’analisi tesa a mostrare la necessità di recuperare il precipitato politico del costituzionalismo sociale e democratico rilanciandone il portato emancipativo e l’attualità, consapevole del rischio di muoversi tra residui (novecenteschi), persistenze concettuali (moderne) e illusioni (globaliste)

merkel draghi ordoliberismo 4991. Diritto senza territorio?

In questi ultimi decenni, segnati dal cosiddetto «globalismo giuridico»1, abbiamo assistito a un progressivo divorzio tra diritto e territorio2 e all’affermazione di uno spazio giuridico deterritorializzato, egemonizzato dai flussi finanziari. Depositatasi la polvere della retorica, della giustizia globale e della religione dei diritti umani quali fondamenti di un nuovo ordine mondiale, è rimasto ben poco. Mentre campeggiano i poteri economici transnazionali, che non avendo problemi di legittimazione politica, possono permettersi di ignorare gli effetti sui territori - cioè sui concreti legami sociali -dell’estrazione sistematica di valore in basso e della sua sussunzione in alto, nello spazio gassoso dei “flussi”.

Ora siamo in una fase nuova, determinata dagli effetti della crisi di sistema apertasi nel 2007 e dal disvelamento delle illusioni aporetiche alimentate dopo l’Ottantanove (Maria Rosaria Ferrarese ha parlato di recente di «promesse mancate»3). A giudizio di molti osservatori, siamo anzi entrati in un processo di deglobalizzazione4. Persino Sabino Cassese, scrive di una «rivincita del territorio»5. Mentre Wolfgang Streeck, le cui analisi delle “bolle” connaturate al modello neoliberista negli ultimi quarant’anni e delle contraddizioni strutturali dell’eurozona sono imprescindibili, denuncia la fine del matrimonio di convenienza tra capitalismo e democrazia6.

Come si riflette ciò sul nesso spazio-diritto e sulla triangolazione locale-statale-sovranazionale? La mia tesi è che uno spazio deterritorializzato sia uno spazio non politico, o a bassa intensità politica. Il problema è che i diritti hanno bisogno della politica per essere realizzati. Quindi rischia di essere uno spazio decostituzionalizzato e postdemocratico. Inoltre, il fatto che lo spazio sia spoliticizzato, non vuol dire che non sia attraversato da dinamiche di potere (per lo più sregolato) e che sia immune dalla violenza7.

Il cosiddetto “spazio globale” è un “non luogo” di confluenza di teologia economica e teologia giuridica. L’anomia che ne deriva rilancia i fantasmi del “politico”: micro-stati di eccezione normalizzati in prassi amministrativa, guerre asimmetriche, norme-manifesto sulla sicurezza. Ma sono appunto fantasmi: sintomi di una patologia deformante, se si vuole, non strumenti effettivamente ordinativi o “costituenti”. La “naturalizzazione” dei flussi, uno dei formanti dell’ideologia neoliberale, è incompatibile con corpi politici artificiali dotati di autonoma progettualità.

Quella che oggi viene qualificata come “teologia economica” è a mio avviso una variante antipolitica della teologia politica. Nello stesso senso in cui i processi di neutralizzazione in funzione di un’amministrazione “tecnica”, in grado di escludere qualsiasi interferenza nell’agire spontaneo per il mercato di individui auto-interessati, costituiscono allo stesso tempo una modalità di spoliti-cizzazione dei soggetti, e una forma di politica peculiarmente intensa, dominata dall’ostilità per l’autonomia delle scelte collettive e la loro trascendenza rispetto al particolarismo degli interessi. Il tratto differenziale di tale impostazione che esclude la possibilità stessa di alternative e di conflitti sui fini è la negazione del proprio carattere situato e partigiano. Ma tale ideologia monopolistica che nega la legittimità di tutte le (altre) ideologie sembra collocarsi ancora nel teologico-politico, seppure nella forma paradossale del suo scardinamento e della sua esasperazione. Peraltro, da un punto di vista storicoconcettuale non è per nulla ovvio che i due paradigmi - teologia politica e teologia economica - siano concepibili come separati e alternativi; lo statuto dei loro reciproci nessi è molto incerto e soggetto a slittamenti nelle stesse letture che hanno proposto la formula della “teologia economica” per indicare un paradigma autonomo rispetto a quello teologico-politico (da Foucault ad Agamben8).

La saldatura di un diritto sempre meno preoccupato dell’effettività e della certezza con la “morale” neoliberale non è solo il segno di una generale crisi del “giuridico”, ma allo stesso tempo il tentativo, disperato e fallimentare, di individuare una sfera legale eticamente immunizzata, che compensi la perdita di auctoritas delle istituzioni e l’inaridimento della sfera pubblica. Il diritto slitta sempre più in sacralizzazione moralistica, volta a esibire simbolicamente ambiti resi intoccabili, in ordinamenti sempre più laicizzati, per rispondere al bisogno di vittime, testimoni e storie esemplari in cui identificarsi, tipico delle soggettivazioni neoliberali. Ciò non significa che acquisisca più autorevolezza e forza, ma che si presta a usi confusi e strumentali. Insomma, al di là del suo apparato “principialista”, la teologia giuridico-morale si presenta come un dispositivo funzionale a coprire di veste “normativa” l’agenda dettata dai poteri “indiretti” della globalizzazione. Non a caso, il suo presunto universalismo a bassa intensità politica si rivela il più delle volte profondamente asimmmetrico.

 

2. Nomos globale e grandi spazi

Dopo l'universitas medievale (dove la linea di confine era spirituale, e poteva contenere un pluralismo giuridico spiccato), nella modernità si afferma una delimitazione simbolica stringente dell’ordine, cui corrisponde un aggancio territoriale: universali politici concreti. Un processo di centralizzazione e monopolizzazione del potere di lunga durata (anche se segnato da scarti simbolici puntuali), realizzatosi in virtù di un cospicuo riduzionismo politicogiuridico e di un processo di omogeneizzazione sociale non privo di costi. Ma il guadagno non fu banale: pacificazione delle guerre di civili di religione, secolarizzazione degli ordinamenti, emersione della società civile come spazio pubblico non statuale, pluralismo sociale, lotta per i diritti, fino allo Stato plu-riclasse. Non a caso, la necessità di preservare quel “contenitore” (l’unità politica statale), pur nelle sue metamorfosi, è condivisa anche da giuristi democratici (come Bockenforde, che ha elaborato una sorta di urbanizzazione del confine e della dicotomia amico-nemico). Lo stesso Tribunale costituzionale federale tedesco oggi ragiona ancora così, ponendo sull’Europa le domande che altri evitano.

È evidente che quel monopolio normativo non è attualmente praticabile. Però, al netto della fine del mondo vestfaliano europeo, siamo sicuri che ci sia un’alternativa credibile agli universali politici concreti? Credo sia necessario mettere in discussione la tesi schmittiana sul tramonto della statualità: diventata un topos comune a impostazioni teorico-politiche assai lontane, va collocata nel contesto specifico dei presupposti di Schmitt, secondo il quale qualsiasi forma di Stato che si distanziasse da un modello stretto (e per certi aspetti ideale) di unità era da considerarsi una deformazione. Gli Stati non solo ci sono, ma sono proliferati. Certo, non sono tutti sullo stesso piano, né operano in solitudine. Ma restano ancora gli attori politici principali sulla scena internazionale. A fianco non tanto di istituzioni sovranazionali (politicamente gracili), ma dei poteri indiretti “assolutistici” del finanzcapitalismo: in un rapporto di cooperazione, funzionalizzazione, a volte tensione. Alcuni, di questi grandi spazi statali, sono ipersovrani (e certamente ben più autonomi di altri: quelli che hanno l’atomica, un apparato militare poderoso, e controllano risorse strategiche). Se la tesi sul tramonto della statualità è azzardata e segnata da nostalgia eurocentrica, occorre anche riconoscere, come lo stesso Habermas è arrivato ad ammettere9, che altrettanto fuorviane è l’analogia domestica. Da queste due smentite di timori e illusioni globalisti, derivano precise conseguenze in termini di realismo critico. Una cosa è l’internazionalismo come visione politica, altra cosa un globalismo senza polis, come puro flusso di poteri selvaggi. La sovranità politica aveva l’obbligo di garantire l’ordine della sopravvivenza, scambiando protezione-obbedienza in un contesto determinato. Ciò esponeva ai rischi della sua primazia, ma implicava anche un’assunzione di responsabilità specifica da parte dell’autorità politica, che doveva strutturarsi istituzionalmente su un territorio. In realtà, a differenza di quello che pensa Ferrajoli10, la sovranità moderna non è un potere selvaggio. Può esserlo stato in determinate circostanze storiche, ma non lo è strutturalmente. In questo senso, quelle economiche attuali solo metaforicamente possono essere qualificate come sovranità economiche: probabilmente per la loro pretesa di assolutezza e immunità; ma per la loro modalità di esercizio privatistica, il loro rapporto con il territorio (dove atterrano per sfruttarlo per poi librarsi in volo), la loro coesistenza con gli altri poteri (che mirano semmai a funzionalizzare), sfuggono alla configurazione precipua dell’obbligo politico.

Inoltre, bisogna sempre ricordare che nell’analisi delle relazioni intemazionali, dal paradigma vestfaliano si è passati al modello anarchico (la cui rappresentazione più emblematica è stata elaborata da Bull11): è come se l’idea del diritto intemazionale come diritto interstatale fosse stato generalizzata e trasfusa in un modello realistico-politologico complessivo. Pur con significative trasformazioni, e affiancato ad altri paradigmi come quello umanitario12 (che però il più delle volte è invocato strumentalmente, a paradossale supporto di interessi geopolitici13), l’immagine dello stato di natura internazionale resiste, così come l’esigenza del contenimento realistico del disordine.

Come sappiamo, il diritto pubblico vestfaliano è stato possibile in Europa sullo sfondo di immani spazi liberi (per la conquista) e della opposizione dialettica terra-mare. Dialettica infranta dal compimento della proiezione oceanica dello spirito commerciale, connessa ambiguamente all’internazionalismo liberal, da un lato, e alla definizione di linee di confine globali ferree (dottrina Monroe), dall’altro: universalismo polemico e macro-spazializzazione (che unifica terra e mare in un unico grande spazio di influenza da presidiare) convivono, giustificate entrambe dall’eccezionalismo americano, sempre in bilico tra ripiegamento comunitario e slancio missionario. Ma le due spinte sono solo parzialmente in contrasto, poiché l’obbiettivo è sempre l’egemonia americana, mentre la divisione è sulle strategie e le modalità di realizzazione più efficace.

Inoltre è bene precisare un punto, che funge da avvertenza rispetto a certi luoghi comuni “global”: il fatto che sullo sfondo degli ordinamenti territoriali statali ci fossero “grandi spazi” globali (come accadde anche dopo la seconda guerra mondiale, “costituente” dell’equilibrio bipolare), non significava né l’azzeramento della politicità dello spazio, della striatura del globo, né l’integrale funzionalizzazione degli Stati alle logiche privatistiche della finanza (anzi, in Occidente si realizzò, nel secondo dopoguerra, il compromesso key-nesiano che rese possibili democrazie ad alta inclusione sociale). La globalizzazione ha una genealogia risalente. E non significa necessariamente negazione degli spazi concreti di conflitto. A patto però di leggerla fuori dal dottrinarismo neoliberale e da quello postmoderno. La lotta per la democratizzazione, e a un certo punto nel mondo coloniale per l’indipendenza e l’autodeterminazione, sono state possibili all’interno (o in nome) di contesti statali.

Non sorprende che, rivelatasi la natura strumentale e illusoria dell’ideologia del governo mondiale, fallito l’azzardo imperiale dei neoconservatori, scontate le difficoltà del soft power in virtù dell’esplosione delle “bolle” finanziarie, oggi emerga reattivamente una rispazializzazione difensiva (anche della forza lavoro). Il problema è che non si mettono affatto in discussione le cause strutturali dell’inferiorizzazione del ceto medio e del lavoro povero (individuati efficacemente da Luciano Gallino nelle dinamiche della «finanza ombra» e nei costi sociali della lotta di classe dall’alto14), ma si tenta solo di arginarne fittiziamente gli effetti, spettacolarizzando una sorta di rivoluzione reazionaria, sia con chiusure dimostrativo-punitive sia diffondendo una narrazione alternativa rispetto al “politicamente corretto” globalista, così da compensare il senso di frustrazione ed esclusione dei ceti medio-bassi impoveriti. Dal punto di vista analitico, aperta è la questione se strumenti giuridici riterritorializzanti e pragmatiche (rispetto al dogma dell’autosufficienza dei mercati) aperture a investimenti pubblici (soprattutto militari o anche infrastrutturali?) avranno una portata significativa e potranno produrre effetti di reintegrazione sociale. E resta il nodo inquietante del segno politico-culturale complessivo, da nuova “rivoluzione conservatrice,” di tale inversione di marcia (almeno in USA e probabilmente in Europa, anche se i segnali che provengono dal Regno Unito di Corbyn dimostrano che non ci sono destini reazionari già scritti).

 

3. Città ambivalenti

Da più parti si insiste sulla portata politica dell’esperienza delle città15. Indubbiamente esiste una specificità urbana dello spazio europeo: dalla civitas ai comuni. Ciò ha un chiaro significato politico: esperienze di civismo, legame con i territori, ricchezza della loro eterogeneità, lo stesso classico nesso “cittadino-borghese” (che smentisce l’unidimensionalità dell’homo oeconomicus). Questa storia di lunga durata16 si protrae tutt’oggi: 3500 centri urbani con più di 10.000 abitanti in Europa, molti meno (un migliaio) in USA. Si mette in evidenza, inoltre, come la rete delle città globali17 (megalopoli) - molto più simili e connesse tra di loro, che rispetto ai Paesi nei quali insistono - rappresenti un fenomeno in larga parte inedito e portatore di un potenziale di innovazione politica.

È vero che la città oggi sembra uno spazio politico più concreto di altri: ma fino a che punto, a quale livello di intensità, è politico? Può esserlo in senso costituente? Certamente è luogo di sperimentazione: le città come spazi porosi e aperti di nuovi conflitti ed eccedenze (della «materialità insopprimibile» della vita18). Ma pensiamo anche a ciò che rimane all’esterno, o è interno ma escluso, tagliato fuori. È la gran parte. Probabilmente siamo di fronte a una nuova dialettica: non più centro-periferia, ma flussi globali-territori, dove è sparpagliata una immane manovalanza e si gioca la partita per difendere i beni ambientali e l’autonomia (economica e culturale) delle comunità. Per non parlare dei luoghi desertificati, delle città abbandonate a se stesse dalla deindustrializzazione, ad esempio in USA: una fascia di esclusione e marginalità impressionante, che si riorganizza non per combattere, ma per sopravvivere adattivamente, nel collasso delle infrastrutture materiali e istituzionali. Qui si radica la nuova questione sociale. A questi fenomeni di sradicamento sociale e rilocalizzazione post-identitaria occorre guardare per capire quello che sta accadendo, dalla Brexit a Trump, uscendo dalla post-verità dei media di sistema19.

Fondamentale è evitare la frattura (tanto interna quanto esterna alla città) tra spazio urbano come “spazio di diritti” e luoghi (sempre più ghetti) della marginalità o al massimo della manovalanza (periferie e territori abbandonati o oggetto di sfruttamento estrattivo). Tale polarizzazione rischia di codificare la separazione tra terzo incluso e due terzi esclusi, ponendo in discussione la stessa idea di spazio (inclusivo) dei diritti. La politicizzazione della città non può certo ridursi ai “ceti medi riflessivi”. Da un punto di vista di politica del diritto, il nodo fondamentale oggi è come saldare nuove rivendicazioni (sui beni comuni, sull’ambiente, sui diritti di genere) e lotta contro la svalutazione del lavoro. Alcune esperienze interessanti ci sono, anche se circoscritte: la riappropriazione comunitaria dello spazio urbano (oltre la gentrification), la lotta contro Uber, le esperienze di uso collettivo dei beni (non fuori dello Stato e del diritto pubblico, ma per rigenerare la democrazia costituzionale).

 

4. Diritti senza radici

Siamo di fronte a una crisi “spaziale” dell’età dei diritti. Allo stesso tempo, è un dato di fatto che il linguaggio dei diritti mostri ancora una certa vitalità, soprattutto dove si aggancia a rivendicazioni e conflitti, animandoli, e che sia l’unico vettore etico-politico che circola nel mondo (ciò che spiega perché appaia come l’unico antidoto al predominio della lex mercatoria). Nei diritti, insomma, abbiamo una risorsa ambivalente e un paradosso. In questo senso, se è vero che esiste una retorica dei diritti, che si presta a odiose strumentalizzazioni, nelle lotte per i diritti dal basso, sui territori, c'è ben più di una mera retorica, ma anzi forse la possibilità di un rilancio politico del «costituzionalismo dei bisogni»20. Certo, occorre riconoscere che alla spoliticizzazione delle democrazie ha dato il suo contributo anche una cultura giuridica e politica pangiuridicista, affetta da normativismo astratto, ingenuamente globalista e antistatuale, sospettosa del potere, moraleggiante, che si è trovata spiazzata rispetto a un dato evidente e prevedibile: il cosiddetto soft law, più che alimentare una politica costituzionale mondiale, si è rivelato spesso funzionale all’ hard power dei mercati. Le ragioni di questa contraddizione hanno un legame profondo con il problema della politicità dello spazio giuridico.

La cifra della modernità giuridica sta nell’aver pensato l’appartenenza collettiva a partire dalle soggettività (perciò la tematica dei diritti, in quanto strumenti di tutela individuale ma anche trasmettitori di senso sociale, diventa centrale). Ma se la modernizzazione globalista le sradica completamente, o le lascia sole, abbandonate su territori da cui il diritto costituzionale fugge o nei quali è ineffettuale, il rischio di un vero e proprio scarto incolmabile tra il diritto delle élites globaliste in alto, immunizzate nei flussi, e quello delle persone incarnate in basso si fa concreto, con tutto il suo carico di conseguenze anomiche, in termini di rottura del vincolo di solidarietà sociale e di ingovernabilità sistemica. Le reazioni “nazionaliste” e “populiste” sono l’effetto di questo svuotamento del patto di cittadinanza. Nel “multiverso” di “grandi spazi”, verso cui sembrano articolarsi le differenze del mondo post-globalizzato, il tema di un nuovo katéchon rispetto al disordine è all’ordine del giorno.

Come abbiamo visto, siamo in una transizione ambivalente fatta di sfondamento dei limiti e di rilocalizzazioni (spinte da bisogni tanto di protezione sociale quanto identitari: è indubbio che i primi alimentino i secondi, anche se non ne esauriscono il campo). In questa transizione, assistiamo al grande ritorno delle passioni di appartenenza. Naturalmente l’uso politico del concetto di identità, intimamente connesso a quello di territorio21, può essere insidioso. Ma non possiamo cavarcela limitandoci a constatare in chiave liquida-toria che le identità sono costruzioni, per squalificarle in quanto false: in realtà tutti i concetti politici moderni sono artificiali, frutto di accelerazioni e sedimentazioni storico-culturali che sulla lunga durata si stabilizzano. Il fattore tempo e quello volontaristico, il lato inventivo delle tradizioni e la loro capacità di persistere e pesare, sono facce della stessa medaglia. Ancor più illusorio sarebbe dichiarare l’inutilità dell’identità. Anche perché la sua proclamata assenza si risolve spesso in un’autodenigrazione senza riscatto: nel caso dell’Italia, ad esempio, nella consegna al vincolo esterno.

Il grande equivoco del neoliberalismo è che pretende di fare a meno delle identità collettive o di fare dell’individualismo competitivo l’unica identità collettiva possibile. Fallendo, perché non è in condizione di generare vincoli di solidarietà sociale aperta e integrativa. Ciò non significa, ovviamente, che l’identità (etnica, religiosa ecc.) non costituisca una risorsa anche per la politica neoliberista, soprattutto di matrice neoconservatrice (destra economica e culturale possono sempre trovare punti di equilibrio): particolarmente in fasi e contesti di crisi, la saldatura tra paradigma economicistico e politiche dell’identità può costituire una chiave significativa a fini di stabilizzazione, sia perché offre compensazioni simboliche agli effetti anomici della competizione forsennata e della demolizione del welfare (attraverso fantasmi di legame sociale sostanziale), sia perché contribuisce a inibire la costituzione di soggetti antagonistici del conflitto sociale, canalizzando il disagio sul piano “culturale”. In effetti, politiche dell’identità e spoliticizzazione del conflitto sociale vanno spesso di pari passo (persino nella versione liberal, che mira a strumentalizzare le giuste rivendicazioni di nuovi diritti civili nella chiave di un’offerta identitaria post-tradizionale, che copra almeno in parte l’abbandono del terreno dei diritti sociali: in realtà, i diritti fondamentali sono indivisibili, e le grandi stagioni di lotta per l’affermazione dei diritti hanno visto avanzare sia quelli civili sia quelli sociali). Ma si tratta di politiche identitarie reattive, che rivelano un vuoto di legittimazione. Così, se si distrugge il welfare e si svaluta il lavoro, è facile che si torni non tanto alla nazione, ma al nazionalismo, che emerga la tentazione di ricompattarsi nella comunità omogenea che espelle il diverso. E che passi l’idea secondo la quale ‘'unica sicurezza sociale possibile sia basata sul sostrato etnico-identitario. Invece il problema è il recupero di autonomia democratica e un rilancio universalistico, il più possibile inclusivo, dei diritti sociali. Tuttavia, il nesso tra democrazia e nazione non può essere negato né demonizzato. Identificare nazione e nazionalismo è un grave errore concettuale e storico. Pur con tutte le ambiguità del termine (che oscilla tra l’artificialismo della nazione costituente rivoluzionaria e le radici prepolitiche della comunità etnica), e dunque le necessarie cautele, negare che la democrazia abbia bisogno di contesti, e che quello offerto dallo Stato-nazione sia stato quello privilegiato e a tutt’oggi insostituito sarebbe irrealista. A me pare che per certi aspetti siamo di fronte a un tempo post-nazionale (nel senso che difficilmente la nazione appare in grado di suscitare il fervore ideologico di un tempo22), per altri di fronte a una persistenza non residuale dell’interesse nazionale, e spesso al tentativo di saldarlo a forme di sovranità economica extrastatale, o parallela agli Stati, che si intersecano con l’esercizio del potere pubblico (chiedendogli pragmaticamente, e contraddittoriamente, a seconda delle necessità, protezione da minacce competitive esterne, disciplinamento del lavoro attraverso l’abbattimento delle tutele nazionali, implementazione di regolamentazioni tecnocratiche ecc.). Un ritorno della nazione in chiave di sovranità economica e, per chi se lo può permettere, di autonomia politica. 

 

5. Il ritorno della nazione e gli equivoci del post-nazionale

Non si tratta qui (se non blandamente, o con qualche specifica eccezione) della risorsa-nazione in chiave culturale egemonica, o come fattore di mobilitazione politica intensa (che ha avuto versioni molto diverse: dalla primavera dei popoli mazziniana all’interventismo bellico). Stiamo ragionando di un uso della nozione di nazione in chiave funzionale, in qualche modo “economica”: come riferimento per delimitare uno spazio di interessi prevalenti (cosa che riesce benissimo alla Germania, ma che certo non praticano solo i tedeschi). Queste considerazioni non sono in contraddizione con la messa in guardia rispetto ai pericoli del nazionalismo identitario ed escludente e al fatto che questa carta venga già effettivamente giocata e abbia dimostrato di funzionare, soprattutto in certi contesti (ad esempio, nell’Europa dell’Est). Ma questo uso politico della nazione è oggi puramente retorico-polemico: rassicurare, compensare il senso di inferiorizzazione, offrire un capro espiatorio. Non è una vera alternativa alla nazione ordoliberale tedesca, organico-economica (o alla nazione amministrativo-tecnocratica francese, finché regge). Né tanto meno mira a ricostruire un effettivo legame democratico, un collante inclusivo largo. Offre sfogatoi senza risposte integrative. Il disagio motivato rispetto agli effetti disgreganti e alla polarizzazione disegualitaria della globalizzazione, i legittimi bisogni di riconoscimento, non trovano risposte proprio perché manca nella retorica nazionalista la comprensione delle effettive cause (le dinamiche del capitalismo finanziario, le conseguenze della rivoluzione neoliberista). Come sostiene Žižek23, la lotta di classe slitta in lotta d’identità: il neonazionalismo etnico è il rovescio speculare dello spazio liscio neoliberale. È possibile invece neutralizzare tale pericolo attraverso un rilancio dello Stato politico come Stato sociale democratico, evitando il travestimento nazionalistico del neoliberismo? Questa è a mio avviso la grande questione che una riflessione politica realmente radicale, perché al contempo critica e realista, deve affrontare.

Del resto, credo sia necessario chiedersi cosa si intenda di preciso, in senso politico e giuridico, per “post-nazionale”. Se è un dato culturale, allora si confonde con una generale attitudine cosmopolitica, ma non è un’invenzione recente e soprattutto non implica una forma politica. Se invece il concetto deve avere una caratura politica e istituzionale, si rivela una nebulosa. Infatti, non si può confondere post-nazionale con “federale”, perché gli Stati federali sono sì unioni complesse, ma caratterizzate da una forza politica centrifuga (appunto quella federativa, com’è evidente in Jefferson); inoltre, il loro carattere multietnico (e quindi in un certo senso multinazionale, da un punto di vista culturale) non impedisce di basarsi su una qualche idea di “nazione” come appartenenza comune di diversi, religione civile, patriottismo ecc., che di fatto fa rientrare in campo un contenuto sostanziale minimo della cittadinanza.

Se invece per post-nazionale si intende “sovranazionale”, allora bisogna dire che questo livello non solo non è politicamente originario perché strutturalmente derivativo, pattizio, ma non è neppure suscettibile di democratizzazione, perché non ha alle spalle una istituzionalizzazione su grandi spazi tale da consentire il radicarsi di un principio di legittimità autonomo. Viene il sospetto che per post-nazionale si intenda semplicemente indebolimento della sovranità, giurisdizionalizzazione del potere ecc.: un processo da un lato oggettivo in virtù della maggiore porosità dei confini e della proliferazione reticolare degli scambi (anche se i veri sovrani, cioè gli Stati che se lo possono permettere, cercano di conservare gelosamente le prerogative immunitarie della sovranità, soprattutto in campo militare, per quanto adattandole al nuovo contesto di forte interdipendenza globale), dall’altro fortemente ideologico (segnato dalla confluenza del ripudio hayekiano della taxis e della fuga nor-mativista, genericamente “progressista” dal potere). Ma l’idea di un ordine interamente giuridificato e a bassissima intensità politica si è rivelata un’astrazione e un inganno: un’astrazione perché non regge di fronte alle istanze fondative che deve affrontare, un inganno perché le comunità politiche robuste si sono guardate bene dal seguirla in concreto, preferendo trarre vantaggi competitivi dalla sua diffusione propagandistica. Alla fine a troneggiare sono le sovranità economiche “indirette” del mercato “assoluto”, e le ipersovranità militari e poliziesche alle quali non si applica il diritto umanitario. Alla luce di queste considerazioni, credo si possa concludere che, allo stato attuale, il post-nazionale sia ineluttabilmente post-democratico. E quindi non possa essere la risorsa prioritaria per riguadagnare uno spazio agonistico.

È difficile dire se stia incubando una nuova forma del potere, in grado di “costituire” un assetto globale stabile e in condizione di colmare l’attuale deficit di legittimazione. O se si tratti semplicemente di un accumulo più o meno disordinato di poteri, intorno a un arcipelago di potenze, di cui quella americana resta almeno per ora egemone. Molto incerta è non solo la consistenza della nozione stessa di ordine globale, ma soprattutto la sua natura, che appare molto lontana da quella del “costituzionalismo mondiale” (ammesso e non concesso che questa sia una prospettiva credibile). Certo è che all’erosione dei confini come limiti simbolici (un problema per la stabilità e l’integrazione degli ordinamenti24) si risponde con l’innalzamento compensativo di muri fisici25, oppure con l’uso delle zone di confine e dei luoghi di gestione preventiva dell’immigrazione, sia extraterritoriali (Australia, USA) che endoterritoriali (i CPR)26: tutte risposte reattive all’ingovernabilità del caos geopolitico e alla crisi della “neutralizzazione” (per erosione dei suoi presupposti istituzionali); destinate all’inefficacia, probabilmente, ma funzionali a rassicurare. Questa messinscena dei fantasmi truci della sovranità (militari e repressivi) è una delle conseguenze più evidenti del fallimento dell’illusione globalista e postpolitica. Impariamo la lezione: pensare di liberarsi delle ipoteche del “politico” è molto azzardato, perché le sue sfide si ripresentano, in forme incattivite. Scindere diritto e territorio è impossibile. Se ne paga il fio. L’obiettivo a cui puntare è riconfigurarne il rapporto, come è sempre accaduto nella storia.

Si pone dunque un’esigenza di rispazializzazione politica che non va demonizzata, anche perché può essere resa funzionale a un recupero di effettività del costituzionalismo sociale e una lotta per la ridemocratizzazione degli spazi politici. Si tratta di pensare forme di rispazializzazione inclusive e civili (altrimenti l’operazione si farà comunque, ma sarà monopolizzata da forze regressive). Del resto, c’è un’evidente persistenza degli strumenti codificati nel «momento nazione»27 nella globalizzazione (democrazia, diritti di cittadinanza, interessi geopolitici e strategici). Più che di improbabili superamenti, si può parlare di «coesistenza»28 tra Stato, città, reti globali, poteri economici transnazionali. Il problema è il governo dei flussi: perché sia possibile, occorre una strategia per renderli più solidi, dotati di gravità. Solo così saranno contenibili, obbligati a rispondere a istanze collettive. Spesso si invocano, giustamente, i “soggetti” (in vista di un cambiamento). Ma questi hanno bisogno di “contenitori” effettivi, dove sia agibile il conflitto per la distribuzione delle risorse, e sulla tutela e la gestione collettiva di beni ambientali e civili. Il diritto deve decidere se servire la civitas, o società integralmente di diritto privato, attraversate da scoppi endemici e crescenti di violenza insensata. Una cosa è certa: globalismo neoliberale e internazionalismo non sono la stessa cosa.

 

6. L’Europa come spazio di spoliticizzazione neoliberale

Siamo dunque di fronte allo scacco delle illusioni post-politiche alimentate dalla globalizzazione neoliberista. Lo mostrano platealmente alcune ipoteche che molto ingenuamente si è pensato potessero essere definitivamente superate dall’omologazione del mondo attraverso il mercato, mentre in realtà si tratta di costanti di sfida che chiedono risposte politico-simboliche e non economicistiche: persistenza del residuo della violenza, ritorno di bisogni identi-tari, necessità di riannodare il legame sociale e di fronteggiare gli effetti della tensione capitalismo-democrazia. Per fortuna, l’organizzazione dei raggruppamenti umani è irriducibilmente plurale e perciò refrattaria alle uniformazioni coatte e astoriche. Il precipitato perfetto di quelle illusioni globaliste sono le contraddizioni strutturali della costruzione europea, coltivate per certi aspetti ingenuamente (nella speranza mal risposta che avrebbero favorito un’integrazione politica para-federale), per altri cinicamente (perché il loro portato sociale, in termini di riallocazione del potere a favore del capitale finanziario e a discapito del lavoro, non era affatto neutro né imprevedibile).

La stessa questione della democrazia (ce la possiamo ancora permettere?) in Europa si è fatta particolarmente spinosa, anche perché investe un architrave dell’autolegittimazione dell’Occidente: sta di fatto che la sovranità popolare oggi è vista con sempre maggiore sospetto dalle élites liberal-globaliste; ed è impressionante come documenti del FMI e della Banca Mondiale qualifichino ormai come “populiste” tutte le posizioni che rivendicano politiche per il lavoro e diritti sociali (quindi l’applicazione delle Costituzioni del secondo dopoguerra). Pur con tutte le cautele rispetto alle possibili distorsioni nella rivendicazione della sovranità popolare (se assolutizzata, svincolata dalle regole della rappresentanza pluralistica), il più grande pericolo attuale mi sembra quello di giustificare politiche antipopolari, per paura del populismo. Anche perché si preparerebbe così il terreno a risposte regressive, da rivoluzione passiva globale.

Se la narrazione neoliberale è in crisi, è altrettanto vero che un paradigma alternativo fatica ad emergere, almeno per ora. Perché? Un rilancio globalista in chiave alternativa appare oggi astratto e senza presa politica, mentre dominano titubanze e paure - soprattutto a sinistra (in questo speculare alle élites neoliberali, tranne poche, preziose eccezioni, come quella di Corbyn) - sul recupero di spazi politici concreti, nei quali tornare ad esercitare il conflitto sociale e un’autonomia democratica effettiva. In qualche modo, è quindi inevitabile muoversi tra residui (novecenteschi), persistenze concettuali (moderne) e illusioni (globaliste). Certo, contrapporre residui a illusioni può essere rischioso. Ma non si tratta di fare marcia indietro, ovviamente (sarebbe impossibile, peraltro). Piuttosto, il punto è recuperare, rilanciandone il portato emancipativo e l’attualità, il precipitato politico del costituzionalismo sociale e democratico. Senza complessi di inferiorità rispetto al potere, alla sua istituzionalizzazione e alla stessa forma-Stato come spazio del conflitto politico (certo non l’unico, ma a tutt’oggi il più rilevante dal punto di vista della legittimazione democratica). Del resto, è dalla riappropriazione democratica della sfera pubblica statale in chiave anti-neoliberista che derivano le possibilità concrete di proficue connessioni di lotta internazionaliste e le stesse condizioni (oggi inesistenti, a dispetto della retorica sulla governance sovranazionale) per una cooperazione effettivamente paritaria (e non disciplinare, gerarchiz-zante, come quella dell’eurozona). Ciò implica anche uscire dal grande equivoco dell’europeismo di maniera, che è una delle cause principali che alimentano le pulsioni antieuropee: in particolare, si tratta di riconoscere razionalmente che l’euro è un simulacro fallito di sovranazionalità, per restare attaccati al quale occorre pagare il prezzo assai oneroso di politiche antisociali che mettono a rischio la democrazia29. Ne vale la pena?

Il punto da cui partire, a mio avviso, per inquadrare in una prospettiva complessiva l’impasse europeo, è la natura neoliberale dell’Europa di Maastricht: al centro c’è il mercato e la competizione sul suo terreno; la stessa nozione di libertà è quella auto-imprenditoriale dell’homo oeconomicus. La Carta dei diritti (in teoria l’altra gamba dell’UE, per compensarne l’impianto economicistico) è valida ma ineffettuale politicamente: le politiche imposte dalla BCE non paiono ispirate al titolo IV dedicato alla “Solidarietà”.

Il Rapporto della Trilaterale del 1975 individuava la causa della crisi della democrazia nell’eccesso di pretese che aveva ingenerato. Un’analisi per nulla innocente, che conteneva una diagnosi dal carattere spiccatamente ideologico. Davvero il welfare e le spinte partecipative si erano fatti insostenibili? Un’ampia letteratura ha tematizzato, enfatizzandola, la “crisi fiscale” dello Stato keynesiano; certo, c’erano anche fattori endogeni nella battuta d’arresto del modello socialdemocratico, ma non bisogna dimenticare lo shock petrolifero degli anni Settanta e il peso di fattori geopolitici. Soprattutto, non si può dimenticare l’offensiva egemonica neoliberista, che ha accompagnato il revanscismo del profitto sul salario, come conseguenza proprio dei successi delle politiche keynesiane, che avevano garantito piena occupazione (la quale dette forza al conflitto redistributivo), riduzione delle diseguaglianze, attivazione dell’ascensore sociale30. La cosa singolare è che la narrazione neoliberale sul welfare è stata fatta propria anche da certe correnti “post-moderne” della sinistra “radicai”. Il carattere paternalistico, disciplinare, escludente delle politiche di welfare è stato enfatizzato a dismisura, fino ad occultare la concreta funzione emancipativa che lo Stato sociale ha svolto, garantendo un netto miglioramento delle condizioni di vita e l’emersione sulla scena pubblica di chi fino ad allora era invisibile, e consentendo oltretutto quell’inclusione sociale nella cittadinanza dello Stato pluriclasse, che ha rappresentato la chiave per superare le insidie autoritarie dovute all’instabilità dei regimi di massa. La vulgata biopolitica post-foucaultiana, il ripudio di qualsiasi trascendenza e mediazione politico-sociale nella mistica della moltitudine di Negri-Hardt (al di là del linguaggio immaginifico e retoricamente radicale, piuttosto indulgenti con l’americanismo e cauti rispetto all’Europa ordoliberale), il progressivo abbandono del terreno sociale nella riflessione del femminismo egemonico in Occidente: queste impostazioni si sono rivelate permeabili a una serie di luoghi comuni veicolati dal neoliberalismo, condividendone la retorica antistatuale e pseudo-libertaria (la libertà di chi?), la diffidenza verso i ceti popolari, la valorizzazione della presunta orizzontalità del contratto (privatistica), il ripudio dei corpi intermedi, la svalutazione del diritto pubblico, la mitologia della governance. Ma naturalmente le forze neoliberiste, se serve, sanno far appello al popolo (o meglio, si inventano chi lo faccia per esse) e, soprattutto, sanno bene che, al di là della rappresentazione ideologica, del potere (e dello Stato stesso, purché neoliberale, così come del suo diritto), non si può fare a meno. Anche analisi utili degli effetti sociali del neoliberismo, e del rischio democratico che comportano, come quelle di Dardot e Laval31, si chiudono, in chiave propositiva, con vaghe ipotesi che sono tutte interne al mantra dell’orizzontalità post- o alter-politica: in che modo ciò possa condurre, realisticamente, a creare le condizioni per spostare almeno un po’ i rapporti di forza e imporre anche solo un nuovo compromesso resta un mistero; è come se la rinuncia all’orizzonte dell’effettività politica fosse ormai un dato strutturale per un certo pensiero “critico”32.

Possiamo dire che l’Europa di Maastricht si è allineata al Rapporto della Trilaterale e alla nuova ideologia neoliberista (lo stesso Guido Carli lo riconosceva lucidamente nei suoi appunti): non conta la disoccupazione, solo l’inflazione; ovvero non contano l’inclusione sociale e la qualità della produzione, ma la rimunerazione borsistica del capitale (come ha magistralmente messo in evidenza Luciano Gallino). Con la crisi del 2007 si disvela un’aporia che ha le sue radici in quella svolta: il capitalismo promette benessere, ora deve puntare sulla colpa/debito.

Vi sono dei nodi di fondo della costruzione europea che sono stati sottovalutati (forse non aveva tutti i torti Schmitt a qualificarla come un processo di integrazione per progressive neutralizzazioni): innanzitutto quello della forma politico-istituzionale (federazione, confederazione, Stati Uniti d’Europa, altro? Ma cosa? Un UFO, cioè un oggetto non identificato? Si può dire che sia un’unione pattizia, la quale ha in sé qualcosa in più di un’alleanza: burocrazia stabile, istituzioni comunitarie). Una cosa è certa: dall’UE si può recedere, quindi non ha nulla di politicamente originario. I signori dei trattati rimangono gli Stati membri. Di conseguenza l’Unione non può avere una vera e propria “costituzione” (al massimo un trattato costituzionale). Dall’euro invece non si capisce se si può recedere (ma il fatto che non sia previsto non esclude che accada). Certo, il disciplinamento operato dalla Bce (ad es. verso la Grecia), anche in funzione preventiva ed esemplare, indica che la Banca centrale si pensa e opera come un potere sovraordinato. Paradossalmente, perché in teoria è un potere tecnico. Di fatto, nell’anomalia di una moneta senza Stato, è un potere politico indiretto, democraticamente irresponsabile. Ho sempre pensato che tale difficoltà di qualificazione politica e istituzionale dell’Europa fosse alla lunga un problema, non una risorsa. Non lo sarebbe stato, forse, se si fosse rimasti sul piano di un’unione commerciale, doganale, o di una parziale convergenza giuridica (parziale perché l’idea che le decisioni giurisdizionali sovranazionali impattino senza filtri negli ordinamenti interni, ad esempio nel campo penale, è molto problematica e va controllata con molta cura; così come è del tutto conseguente che le Corti costituzionali vigilino

sull'intangibilità del nucleo indisponibile delle Costituzioni statali, erigendo alla bisogna lo scudo dei “controlimiti”). Ma nel momento in cui si tocca una delle prerogative fondamentali della sovranità (quella monetaria) il problema sorge con forza. Il post-sovrano si è rivelato un’illusione velenosa: sia perché vale solo per alcuni (non per i più forti), sia perché niente affatto progressivo socialmente e ben poco democratico (avendo lasciato campo libero alla lex mercatoria). Realisticamente dobbiamo constatare la persistenza, peraltro comprensibile da un punto di vista geopolitico, dell’interesse nazionale (di crisi dello Stato si parla da più di un secolo: ma i sostituti latitano). C’è poi un problema evidente, e sempre più evocato, di legittimazione democratica (ma davvero quello di sovranità popolare è un concetto anti-europeo?). Per non parlare delle problematiche complesse relative a quei fattori coesivi, tanto culturali quanti legati alla cura degli interessi di una comunità, necessari a generare vincoli di solidarietà, che trovano tuttora nelle identità nazionali il loro riferimento privilegiato (identità che come sappiamo sono artificiali, certo, ma frutto di accumuli storici che le rendono spesse, non agevolmente sciogli-bili in contenitori più vasti e sottili, perlomeno non in poco tempo e in condizioni ordinarie). Certo, la violenza interna inter-europea è stata bandita: una conquista non da poco. Ma non basta a generare uno spazio politico, e comunque è stata realizzata sulla base di presupposti non scontati, che debbono essere costantemente rigenerati.

Da Hobbes a Rousseau, popolo è nozione artificialista per eccellenza, costruita sulla nozione di volontà33. Certo, serba in sé un doppio lato, perché è tanto matrice, quanto volontà di esistenza politica, tanto “corpo” collettivo, quanto soggettività costituente. Ma sarebbe un grave fraintendimento storico, concettuale e politico ridurre il popolo a un’essenza naturalistica. La concezione organica è presente in alcuni filoni, soprattutto tedeschi (le cui espressioni più alte, peraltro, come quella di Savigny, contemplano un Volk come accumulo di lunga durata di esperienze storico-culturali selezionate, non come dato etno-razziale). Ma in generale la cifra del popolo moderno è politica. Da ciò deriva che la sovranità democratica in una democrazia costituzionale, come non è affatto incompatibile con le “parti”, non lo è neppure con un’inclusione regolata nella cittadinanza delle persone immigrate e dei loro figli, sulla base di una presenza stabile sul territorio e di una scelta consapevole in tal senso. C’è poi, ovviamente, la questione pragmatica delle compatibilità quantitative, degli investimenti in politiche di inserimento sociale e culturale ecc. Ma per perseguire tale via occorre evitare l’errore tanto di demonizzare quanto di “naturalizzare” i flussi migratori, come fossero processi oggettivi, destinali, che sostanzialmente non hanno bisogno di essere governati (o non possono esserlo). Il nodo va invece compreso e trattato politicamente, approntando con realismo i necessari strumenti sociali di una nuova, più larga, integrazione democratica (non più solo pluralistica ma anche, in qualche modo, pluriculturale): un approccio “spontaneistico”, o ingenuamente irenico, non sarebbe la miglior premessa per disinnescare drammatiche “guerre tra poveri”, o tra ultimi e inferiorizzati, e sterilizzare efficacemente chi strumentalizza le paure. Dunque, è certamente vero che le migrazioni oggi sottopongono a tensione la cittadinanza, sia nel senso di un suo allargamento, sia in direzione di una sua articolazione su più livelli. Tutto ciò impone una ridefinizione del concetto, che consenta di registrare e gestire tali mutamenti, ma non il suo superamento. Credere che la nozione di cittadinanza (e quella correlata di popolo) possa semplicemente dissolversi, in una sorta di spazio globale omogeneo e senza appartenenze, o illudersi che tale passaggio possa costituire la premessa di una sorta di potere costituente globale amorfo, è ingenuo e irrealistico. La sovranità popolare come principio di soggettivazione politica basata sulla legittimazione dal basso del potere, e i “popoli” come forme di esistenza politica frutto di storie, costruzioni culturali e lotte, sono sì soggetti al divenire, a ridefinizioni e mobilitazioni, ma non paiono prossimi alla liquidazione.

La formula «multilevel system of government» (utilizzata spesso da Habermas, tra gli altri, per indicare uno spazio sovranazionale a bassa intensità politica ma a suo dire in grado di democratizzarsi, almeno parzialmente) si è rivelata a mio avviso ambigua e fuorviante (come la nozione di governance). Perché dietro l’apparenza della mitigazione del potere e dell’orizzontalità stratificata, delinea uno spazio giuridico-economico senza effettivi luoghi del conflitto e della legittimazione. La democrazia nasce invece nello Stato nazione e lo presuppone. Perché la lotta per la democratizzazione è stata possibile al livello dello Stato. In astratto, l’analogia domestica non sarebbe forse fuorvian-te sul piano di un grande spazio europeo politicizzato. Ma occorrerebbe una decisione costituente in tal senso, che non è all’orizzonte: probabilmente si è sottovalutato il peso delle storie e delle tradizioni nazionali e del fattore tempo. E si è preferito non vedere come solo un’erogazione di energia politica poderosa, che di solito avviene dopo eventi traumatici, può accelerare quei tempi, mobilitare i popoli, “inventare” tradizioni comuni. Certo, si può puntare il dito sulla mancanza di coraggio e visione delle attuali classi dirigenti europee. Ma forse certi equivoci vengono da lontano e ora si stanno semplicemente disvelando, legati come sono all’oscillazione inevitabile tra cura dell’interesse nazionale (prevalente) e integrazione cooperativa (parziale), in assenza di un’unione politica della solidarietà (che implica condivisione di destino, trasferimenti interni di risorse, eurobond, progetti e investimenti comuni con un budget federale significativo, fino a una politica estera e di difesa condivisa). Per garantire tutto ciò non può essere sufficiente uno spazio di mercato tecnocratico, che sarà perfetto per i poteri indiretti transnazionali (che così possono scorrazzare senza argini e controlli), ma che non potrà mai essere una comunità dotata di un minimo comun denominatore politico (per quanto multinazionale e articolata al suo interno): Bockenforde aveva posto qualche anno fa la questione correttamente. Come a suo modo lo stesso Grimm. Si è preferito liquidarli come passatisti.

Non sorprende pertanto che l’Europa attuale sia diventata uno spazio di spoliticizzazione post-democratica, ispirata alla peculiare variante eurotedesca del neoliberismo: l’ordoliberalismo. In quanto tale, non è, non può essere un campo di battaglia, nel quale agire il conflitto politico e rappresentare quello sociale. Questa immunizzazione del potere euro-tedesco fa sì, però, che le refrattarietà si manifestino sul piano nazionale, in forma di profonda sfiducia e disconoscimento dei rappresentanti. I cosiddetti “populismi” ne sono l’effetto (e bisognerebbe evitare di mettere tutto in un unico calderone: la Le Pen, Podemos, Mélenchon, persino Corbyn). Certi tassi di disoccupazione, soprattutto giovanili, sono incompatibili con la democrazia: abbiamo davvero del tutto rimosso la lezione di Polany e Keynes? Come ormai chiaro, inferio-rizzando il ceto medio, comprimendo i salari, creando disoccupazione e lavoro povero di massa, c’è bisogno di bolle (finanziaria, immobiliare, tecnologica) per sostenere fittiziamente la macchina. Ma a un certo punto i nodi vengono al pettine, com’è accaduto con la crisi finanziaria e la recessione globale che ne è derivata. Cui si è risposto, però, non rivedendo assiomi e ricette fallimentari, ma con una poderosa operazione di pubblicizzazione del debito privato, che è stato scaricato sul “pubblico”, anche grazie a una grande manipolazione veicolata dal circuito mediatico mainstream, giocata sulla demonizzazione del welfare e sull’ostilità verso lo Stato politico interventista, cioè ancora sull’onda lunga dello spartiacque del 1989. Chi ne sta pagando il conto, ad esempio nell’eurozona? I Paesi più fragili, i giovani, i pensionati, i lavoratori dipendenti; ma anche i piccoli imprenditori, gli artigiani, in generale chi vive di domanda interna. Quanto può durare la giostra degli inganni? È così strano che ci sia una crisi generale di consenso e di fiducia, che ha già travolto il socialismo europeo?

Ordoliberalismo e neoliberismo sono due varianti dello stesso assunto anti-keynesiano. Ma lo Stato sociale democratico può essere anti-keynesiano? Se consideriamo che il passaggio dallo Stato monoclasse allo Stato pluriclasse ha mostrato come il welfare serva a creare le premesse dell’inclusione democratica, la risposta non può che essere negativa. L’ordoliberalismo postula che l’inclusione sociale passa realizzarsi solo attraverso il mercato. In questo senso non ha nulla a che fare con l’idea fallace, diffusa nel dibattito pubblico italiano, secondo cui l’economia sociale di mercato rappresenti una correzione dell’economia di mercato in senso sociale e welfaristico34. Si tratta di un modello che prevede sì una iper-regolazione, ma per escludere qualsiasi eteronomia rispetto alle leggi di mercato (ad esempio, le politiche keynesiane) e garantire le condizioni della competitività. Al di là del fatto che questa impostazione ha un nucleo fideistico, e che spoliticizza il conflitto, il problema è che (probabilmente) funziona solo per la Germania (un Paese che, nonostante alcuni scricchiolii e una crescente polarizzazione della società tra un corpo sociale integrato e una parte esclusa e impoverita, soprattutto a Est, rappresenta ancora un sistema abbastanza compatto e coeso, anche grazie ai presupposti organicistici e alla retorica del bene comune oggettivo cui subordinare gli interessi di parte, che fanno parte della tradizione tedesca). Del resto l’ordoliberalismo è una filosofia sociale elaborata come alternativa al comunismo e al nazismo, per tenere insieme le società di massa35. L’ordoliberalismo in questo senso è un tentativo di offrire una base organica al mercato, inteso quale meccanismo di socializzazione anticollettivista. C’è però il problema che quel modello, ancora abbastanza efficace per la Germania, anche a fini di consenso politico, scarica sugli altri i problemi: il perseguimento del surplus come premessa per una sorta di Stato sociale in un solo Paese (pur con le sue contraddizioni e disfunzionalità da correggere: disuguaglianze sociali e territoriali, compressione salariale, mini-jobs) implica la rinuncia a svolgere una funzione di traino, generando squilibri in nome del proprio vantaggio competitivo sul fronte delle esportazioni: gli effetti sono la gerarchizzazione dell’Europa e la svalutazione del lavoro come svalutazione interna imposta ai Paesi più deboli da una moneta senza Stato, sottratta al controllo democratico (non a caso, già teorizzata da Hayek). La Germania cura il proprio interesse nazionale a qualsiasi costo e di fatto considera l’euro il marco. Ma non ha senso trattare moralisticamente la questione: è un calcolo di interessi, forse non lungimirante, ma razionale; sono gli altri che non si attrezzano per tutelarsi: noi, in modo particolare. Inoltre, pragmaticamente, quando serve, la mano pubblica interviene eccome a difesa dell’industria e delle banche tedesche (ma anche la Francia non si comporta diversamente). La domanda di fondo è: ha senso autoimporsi un vincolo esterno in nome di un apparato dottrinario fideistico che ha generato il paradosso dell’austerità espansiva e delle politiche pro-cicliche in una fase di crisi strutturale? Un’impostazione che oltre ad essere inefficace e a generare un profondo scollamento tra classi dirigenti e ceti popolari, ci condanna all’autolesionismo e alla disattivazione del contenuto sociale della democrazia costituzionale.

Per contrastare tale deriva, è necessario optare per la ricostruzione di contesti politici concreti, che reagiscano all’espropriazione democratica operata dal globalismo finanziario e favoriscano l’emersione di soggettività politiche autonome. La via per la produzione di tali nuovi attori del conflitto, cioè di corpi politici realmente radicati nella società, passa inevitabilmente attraverso una critica spietata delle subalternità trasversali al ciclo neoliberale e il perseguimento dell’obbiettivo, decisamente prioritario, di rappresentare in modo credibile e coerente gli interessi dei ceti popolari, di prendere sul serio la nuova questione sociale generata dalla crisi del capitalismo democratico (Corbyn sta dimostrando che è possibile, avendo colto il senso profondo della ripoliticizzazione della società determinata dalla Brexit). Si tratta di dare precisi segnali materiali e simbolici, combattendo senza incertezze ciò che ha reso possibile la divisione e la conseguente svalutazione del mondo del lavoro (salariato, precario, pseudo-indipendente), nonché la rimozione dall’agenda politica della disoccupazione di massa (soprattutto giovanile). Ciò significa tornare a ragionare - all’altezza del tempo attuale e correggendo storture del passato -di investimenti pubblici e di espansione del ruolo del pubblico nell'economia, di indicizzazione dei salari, di politiche redistributive, di centralità dello Stato nella ricerca (da sottrarre agli automatismi insensati e opachi della governan-ce tecnocratica). Farsi carico di tutti gli esclusi e gli inferiorizzati, portare a visibilità le ragioni oggettive del conflitto capitale finanziario-lavoro deprivato, sbarrando la strada alla via di fuga reazionaria rappresentata dallo spostamento dell’ostilità verso i migranti, significa provare a uscire dalla decosti-tuzionalizzazione e dalla post-democrazia, creando le premesse di un conflitto “(ri-)costituente”. A dispetto delle trivialità sulla fine della storia, ancora una volta: hic Rhodus, hic salta!


 

Note
1 Per un inquadramento generale, mi limito a citare: S. Sassen, Sociologia della globalizzazione (2007), Torino, Einaudi, 2008; D. Held - A. McGrew, Globalismo e antiglobalismo (2002), Bologna, Il Mulino, 2010; M.R. Ferrarese, Diritto sconfinato, Roma-Bari, Laterza, 2006; S. Cassese, Lo spazio giuridico globale, Roma-Bari, Laterza, 2003; N. Irti, Norma e luoghi, Roma-Bari, Laterza, 2006; D. Zolo, I signori della pace, Roma, Carocci, 2001; M. Vegetti, L’invenzione del globo, Torino, Einaudi, 2017.
2 Sull’epoca della territorialità, la sua ascesa e la sua caduta, cfr. C. Maier, Secolo corto o epoca lunga?in C. Pavone, Novecento, Roma, Donzelli, 1997, pp. 45-52, pp. 29 ss.
3 Cfr. M.R. Ferrarese, Promesse mancate, Bologna, Il Mulino, 2017.
4 Cfr. sul punto l’interessante numero 11/2016 di Limes, dedicato all’Agenda Trump.
5 Cfr. S. Cassese, Territori e potere, Bologna, Il Mulino, 2016.
6 Cfr. W. Streeck, Tempo guadagnato (2013), Feltrinelli, Milano 2013.
7 L’analisi critica delineata in queste pagine, che non può né vuole essere politicamente “neutrale”, guarda soprattutto al contesto europeo e, all'interno di questo, alla situazione italiana. Credo che sia necessario, anche come atto di responsabilità intellettuale. Pur ragionando, ovviamente, in termini concettuali generali e tenendo conto del quadro geopolitico complessivo, al di fuori dei luoghi comuni connessi alla sovrapposizione impropria di globalismo, cosmopolitismo e federalismo e alla stigmatizzazione del cosiddetto “sovranismo” (funzionale a non affrontare le questioni attuali, per nulla nostalgiche o fittizie, relative al profilo dello Stato contemporaneo e al destino della sovranità democratica di fronte alla crisi della globalizzazione).
8 Cfr. M. FOUCAULT , Sicurezza, territorio, popolazione (2004), Milano, Feltrinelli, 2005; G. AGAMBEN, Il regno e la gloria, Torino, Bollati Boringhieri, 2009.
9 Cfr. J. Habermas, L’Occidente diviso (2004), Roma-Bari, Laterza, 2005.
10 Cfr. L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno, Roma-Bari, Laterza, 2004.
11 C. Schmitt, Il Nomos della Terra (1950), a cura di F. Volpi - E. Castrucci, Milano, Adelphi, 1999.
12 Sul tema, cfr. L. Scuccimarra, Proteggere l’umanità, Bologna, Il Mulino, 2016.
13 La rilevanza decisiva dell’interesse strategico di una superpotenza, ai fini dell’attivazione del faro umanitario, è ammessa anche anche da M. Ignatieff in Una ragionevole apologia dei diritti umani(2001), Feltrinelli, Milano 2003.
14 Mi limito a citare: L. Gallino, Finanzcapitalismo, Torino, Einaudi, 2011; L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Roma-Bari, Laterza, 2012.
15 Cfr. J. Zielonka, Disintegrazione (2014), Roma-Bari, Laterza, 2015 (ma la sua fiducia nell’orizzontalità reticolare, in funzione di un mutamento radicale dell’Europa, non convince).
16 Cfr. M. Berengo, L’Europa delle città, Torino, Einaudi, 1999.
17 Cfr. S. Sassen, Le città nell’economia globale (1994), Bologna, Il Mulino, 2010.
18 Cfr. G.M. Labriola, Trasformazione dello spazio urbano e strumenti del diritto, in G.M. Labriola (eds), La città come spazio politico, Napoli, Editoriale Scientifica, 2016, p. 8.
19 Per una panoramica delle radici sociali dei nuovi “populismi,” cfr. M. Revelli, Populismo 2.0, Torino, Einaudi, 2017.
20 Cfr. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, Laterza, 2013.
21 Sul tema, cfr. F. Thual, Le désire de territoire, Paris, Ellipses, 1999.
22 Anche se bisogna essere cauti nel generalizzare una coscienza post-nazionale che è specifica (seppur con evidenti differenze tra Paese e Paese) dell’Europa occidentale post-bellica, segnata dalla memoria degli orrori della II guerra mondiale e dalla guerra fredda. Certamente, il senso della nazione è avvertito oggi laddove è negato (come in Palestina), in quanto bisogno di indipendenza, autonomia, non ingerenza contro la legge violenta del più forte. O in chi - a torto o a ragione - ritiene conculcata la propria autentica identità culturale “nazionale”, come i catalani. In generale, e al netto dei fattori simbolico-culturali che hanno un autonomo peso, è evidente che, se si indebolisce lo Stato costituzionale democratico e l’integrazione sociale che garantisce, soprattutto in determinati contesti possano manifestarsi con maggior forza rivendicazioni identitarie micro-nazionali.
23 Cfr. S. ŽIŽEK, La nuova lotta di classe (2016), Milano, Ponte alle Grazie, 2016.
24 Cfr. E.-W. Bòckenfòrde, Diritto e secolarizzazione (1964-1999), a cura di G. Preterossi, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 115 ss.
25 Cfr. W. Brown, Stati murati, sovranità in declino (2010), Roma-Bari, Laterza, 2013.
26 Un caso significativo delle attuali ridislocazioni della sovranità, e della dilatazione (che non è affatto un’eclisse, ma semmai una mobilitazione adattativa) del confine, è il recente accordo tra il governo italiano e la Libia sull’immigrazione, che mira a confinare la sua gestione sul territorio libico, affidandola al governo locale (con gravissime conseguenze per le persone che si trovano lì confinate, senza alcuna garanzia e in balia di abusi e violenze); da un lato questo sancisce il fallimento di una gestione comune della questione profughi, e quindi la sostanziale rinazionalizzazione di un tema che sarebbe per sua natura “europeo”. Dall’altro l’intento di rafforzare l’impenetrabilità dei confini nazionali viene garantito non al confine, ma sul territorio straniero e per interposto governo, in virtù di un accordo interstatale. In un quadro generale (certamente non limitato alla sola l’Italia: basti pensare all’atteggiamento francese), che appare sempre più “neocoloniale”, sia dal punto di vista del perseguimento degli interessi geoeconomici da parte dei vari attori coinvolti, sia per le modalità di partnership politica. Sulla rilevanza della questione coloniale nella progressiva definizione di una vera e propria faglia tra Oriente e Occidente all’interno della stessa tradizione marxista, non colmata neppure dagli studi post-coloniali, cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale, Roma-Bari, Laterza, 2017. Sul confine come “metodo”, cfr. S. Mezzadra - B. Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale (2013), Bologna, Il Mulino, 2014.
27 Cfr. G.M. Labriola, Trasformazione dello spazio urbano e strumenti del diritto, p. 10.
28 Cfr. S. Sassen, Autorità, territorio, diritti. Assemblaggi dal medioevo all’età globale (2006), Milano, Bruno Mondadori, 2008.
29 Ormai anche il pensiero mainstream ha cominciato, seppur timidamente, a dire l’indicibile. Del resto, i contributi critico-analitici di Streeck, Stiglitz, Gallino sono difficilmente liquidabili con il mantra del populismo. Sarebbe bene, però, riflettere seriamente sulle cause che hanno condotto a santificare l’euro, e sui prezzi politici che ciò ha comportato. Mi limito a citare, per alcuni spunti interessanti, il volume collettaneo AA. VV., Rottamare Maastricht, Milano, DeriveApprodi, 2016.
30 Come ha ricordato efficacemente Tony Judt in Guasto è il mondo (2010), Roma-Bari, Laterza, 2011.
31 Cfr. P. Dardot - C. Laval, La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista (2009), Roma, DeriveApprodi, 2013. Impressionano, ad esempio, la totale incomprensione del nesso storico-concettuale tra sovranità popolare e Stato e le ingenuità sull’Europa, la concezione dell’euro come un feticcio cui rimanere aggrappati (ignorandone il fallimento politico, dovuto alle sue aporie strutturali, così come i costi sociali) e le illusioni sull’efficacia agonistica di una politica fluida e global, che rinuncia al territorio e all’organizzazione.
32 Per una coraggiosa messa in questione della permeabilità di certe correnti del femminismo contemporaneo al neoliberalismo, cfr. N. Fraser, Fortune del femminismo (2013), Ombre Corte, Verona 2014. Per un’analisi equilibrata, tanto della straordinaria portata innovativa quanto di alcuni limiti (ad esempio, legati al genere) e delle sfide attuali del welfare (immigrazione, rapporto tra generazioni, mutamenti della famiglia ecc.), cfr. A. Supiot, Grandeur et misère de l’Ètat social, Paris, Collège de France/Fayard, 2013; G. Esping-Andersen, La rivoluzione incompiuta (2009), Bologna, Il Mulino, 2011.
33 Sul punto, mi permetto di rinviare al capitolo 6 (“Costruire il popolo”), del mio studio Ciò che resta della democrazia, Roma-Bari, Laterza, 2015, pp. 96 ss. Sul tema generale, mi limito a segnalare: P. Costa, Civitas, 4 voll., Roma-Bari, Laterza 1999-2002; AA.VV., Che cos’è un popolo?, Roma, DeriveApprodi, 2014; E. Laclau, La ragione populista (2005), a cura di D. Tarizzo, Roma-Bari, Laterza, 2008; C. Mouffe, Agonistics. Thinking The World Politically, London-New York, Verso, 2013; E. Balibar, Cittadinanza, Torino, Bollati Boringhieri, 2012.
34 Per un inquadramento corretto del tema, si veda A. Somma, La dittatura dello spread, Milano, DeriveApprodi, 2014.
35 Cfr. W. Ropke, Civitas humana (1944), a cura di F. Felice, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2016.

Da Scienza & Politica, vol. XXLX, no. 57, 2017, pp. 105-126, ISSN 1825-9618
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