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“Il passo e il sogno”

di Elisabetta Teghil

il passo e il sogno 768x432La nostra società si sta esprimendo ed ha compiuto atti importanti nella realizzazione dello sfruttamento illimitato. Questa violenza strutturale si è incarnata nell’ideologia neoliberista che è una sorta di macchina infernale e che è stata veicolata attraverso la divinizzazione del potere dei mercati. Sotto gli occhi di tutti ci sono gli effetti di questa nuova organizzazione sociale a partire dalla miseria di una parte sempre più grande delle società economicamente più avanzate e lo straordinario aumento del divario fra i redditi. Quindi, un’affermazione scomposta della vita personale intesa come una sorta di darwinismo che instaura la lotta di tutti contro tutti, il cinismo come norma, la ricchezza come premio di questa selezione, la traduzione nella vita quotidiana con l’assuefazione alla precarietà, all’insicurezza e all’infelicità che permea l’esistenza. Con una precarizzazione così diffusa da ridurre il lavoratore/trice a mano d’opera docile sotto la permanente minaccia della disoccupazione. L’aspetto paradossale è che questo ordine economico e sociale si spaccia e si promuove sotto il segno della libertà e addirittura come società armoniosa.

E’ questo un momento storico che produce un inaudito cumulo di sofferenze. Tutto ciò a partire dal dominio assoluto della flessibilità con contratti a tempo determinato, con assunzioni ad interim, con una concorrenza spietata, non più quella tradizionale fra imprese, ma oggi all’interno della stessa impresa tra lavoratore e lavoratore con l’individualizzazione del rapporto salariale, con l’introduzione di colloqui preassunzione e successivamente di valutazione individuale. La valutazione permanente con una forte dipendenza gerarchica, con lo spacciare i lavoratori come categoria di operatori autonomi, con l’estensione a tutti del ”coinvolgimento” si traduce in un iperinvestimento sul lavoro e in una perenne condizione di insicurezza che tende ad abolire i riferimenti e le solidarietà collettive.

Questo, a livello più generale, si realizza con la privatizzazione a tutto campo dei servizi pubblici e sociali, con l’incoraggiamento sistematico del part-time, naturalmente con un salario anch’esso parziale, con i lavori a tempo determinato e porta ad un impoverimento dei lavoratori cassando più di un secolo di lotte che spingevano per una redistribuzione della ricchezza collettiva e per una maggiore uguaglianza.

Siamo nel regno degli eufemismi, del rovesciamento del significato delle parole, una cannibalizzazione dei diritti sociali che ha investito ambiti impensabili a partire dai sistemi scolastici piegati in funzione dei bisogni del mercato del lavoro, dalla sanità pubblica e dalle pensioni. Le pensioni, la liquidazione, l’assistenza sanitaria sono i temi umanamente più scottanti, ma al centro della macchina dell’ineguaglianza c’è l’istruzione. Nulla è più dovuto, casa, gas, acqua, luce, al cittadino/a non spetta più niente. Un terrorismo sociale forte e vincente annichilisce le persone, colpevolizzandole, avvilendole, frustrandole, trascinando perfino ogni comportamento dovuto al bisogno nella sfera delinquenziale. Questo è il pensiero unico cioè l’ideologia neoliberista.

Le società occidentali sono sempre più vicine alle colonie come dimostra l’arroganza della borghesia sovranazionale convinta di far parte di una categoria superiore più civilizzata, più progredita e il suo disprezzo per i colonizzati, per i poveri, per chi non ce l’ha fatta. In questo contesto tutto è lecito, inasprire le pene, aumentare i casi di carcerazione, ampliare la fascia dei reati penali, dilatare i tempi della flagranza di reato fino ad etichettare tutti come terroristi che è la premessa per garantire l’impunità a chi esegue le pene di morte extra legem e la tortura.

La “vera democrazia” si attuerà quando saremo tutti colpevoli.

Questo patrimonio di assoggettamento era già la sorte dell’operaio al servizio della macchina utensile e ridotto alla condizione di proletario dalla perdita della sua stessa individualità. Oggi, però, il ceto impiegatizio, il libero professionista, il commerciante al dettaglio, in definitiva la classe media è stata largamente proletarizzata in quanto ne sono state svalutate le competenze professionali ed è stata fortemente impoverita. Quindi, oggi, vasti strati sociali sono stati tutti plasmati e ridotti a strumenti di una nuova servitù volontaria. Il neoliberismo si è caratterizzato come un grande fratello traducendosi in un vero e proprio strumento di controllo sociale che occupa ogni interstizio della vita. Così vengono sottratte le possibilità stesse di esistenza sostituite da norme che sono vere e proprie rimozioni delle capacità intellettuali, affettive, estetiche e politiche delle singole persone e dell’umanità tutta. Questa società disossa le persone, le rende dei corpi senza anima, afflitti dal male di esistere e dal male di divenire cioè dalla mancanza di un presente e di un futuro con una crescente tendenza alla rabbia spoliticizzata che spiega tante situazioni che avvengono negli Stati Uniti con individui che, senza un apparente motivo, fanno delle stragi.

Tutte le attività umane, nessuna esclusa, istruzione, cultura, salute…sono diventate merce e per questo non possono che finire in frustrazione e in istinti distruttivi.

Anche in politica si adottano tecniche di marketing, la politica stessa si trasforma in merce. D’altra parte la miseria a tutto campo non può che diventare miseria politica.

Un sentimento di disillusione, di esasperazione attraversa le società occidentali e la socialdemocrazia non utilizza più lo spirito di Tomasi di Lampedusa “cambiare tutto perché niente cambi”. Oggi fa ricorso ad una strategia di cambiamento effettivo, cambiamento perfino del senso delle parole, il colmo è nello stravolgere e rovesciare il loro stesso significato e tutto si trasforma in un talismano che è il diritto incontrollato e a tutto campo dei proprietari dei mezzi di produzione di far sì che le forme politiche organizzate siano l’armatura del dominio del capitale nella società. In effetti se si esclude, almeno nei paesi occidentali, la coercizione diretta rappresentata dalla schiavitù, si ha un dominio diretto come mai nel passato sulla vita delle persone, sulla loro esistenza a partire dal lavoro salariato necessario per la semplice sopravvivenza anche in condizioni di semischiavitù e comunque permesso dai proprietari dei mezzi di produzione solo alle loro condizioni. Non c’è più ostentazione ma dittatura vera e sostanziale dell’impero del capitale. E quando si manifestano forme di contestazione rispetto a questa brutalità di sistema portata ad un punto limite, allora si svela la violenza di cui è capace il potere per difendere i propri vantaggi.

Il limite di sopportazione è continuamente superato e pertanto ogni più piccolo tentativo di ribellione è soggetto alla repressione. In questo momento puoi lavorare, quando puoi, se fai quel che ti viene detto e come ti viene detto e, comunque, lo fai finché il datore di lavoro te lo permette e se non ti sta bene, vieni cacciato impunemente perché ci sono le Istituzioni, nessuna esclusa, e in maniera eclatante, che proteggono e realizzano questo impianto. E finisci per ubbidire per una buona ragione perché vivi nella paura. Le condizioni stesse dell’esistenza delle persone sono affidate al braccio esecutivo delle Istituzioni.

E’ una concezione atavica, altro che innovativa e moderna! È un ritorno al passato..

Il terrorismo e la guerra mantengono un simulacro di coesione nazionale e per questo vengono coltivati.

Non c’è nessuna crisi, il neoliberismo è una scelta ideologica e pertanto si irradia in tutta la società. Il paradosso è che si parla sempre più di lavoro nel momento in cui il lavoro viene sempre più a mancare e, quando c’è, è precario e volatile. Si tratta, in fondo, dello stesso paradosso per cui i discorsi sull’ambiente e sulla natura proliferano quando la natura diventa sempre più artificiale e l’ambiente sempre più snaturato e devastato, a conferma, come diceva Walter Benjamin “L’essenza di una cosa appare nella sua verità nel momento in cui essa rischia di scomparire.” Questo vale per tutto l’impianto che la borghesia si è data con i suoi connotati e addentellati, nello sport, nella ritualità, nei momenti mondani e conviviali, e utilizza lo stesso approccio che ha per il mondo del lavoro, la natura, l’ambiente nei riguardi dei diritti umani, del razzismo e del sessismo. Aver teorizzato la negazione di ogni solidarietà verso la popolazione sempre più emarginata e sfruttata è anche un venir meno alla solidarietà verso le generazioni future e tutto questo non è che l’altra faccia della moneta delle nuove guerre coloniali.

La società si sta dissolvendo nella barbarie del dominio di una borghesia transnazionale in un delirio di onnipotenza.

Questo lento ed oggi inarrestabile degrado è stato possibile in gran parte grazie alla socialdemocrazia comunque si chiami nei vari paesi.

La devastazione del tessuto sociale è stata ed è accompagnata, sponsorizzata e veicolata dal lessico di sinistra portato in dote dalla socialdemocrazia. Vengono valorizzate le situazioni che tendono ad abolire la distanza tra il soggetto e l’oggetto, che privano il cittadino del momento della riflessione e della discussione e che sono propizie agli arruolamenti mediatici sempre disposti a sostenere qualche guerra umanitaria, qualche manifestazione spoliticizzata. Rivoluzioni colorate, primavere arabe, manifestazioni interclassiste, marce bianche, fiaccolate, tutto imbellettato ma svuotato dal ruolo e dal significato, mentre per contribuire alla ricostruzione del tessuto sociale sarebbe necessario un processo che chiarisse i legami stretti fra le manifestazioni così dette progressiste e il loro ruolo funzionale al potere e ricordasse la natura politica che li guida al di là dei ritornelli , delle parole tanto belle e accattivanti quanto vuote che si risolvono in pace, giustizia, democrazia come se tutto fosse sospeso in un limbo .

Il filo nero o il fiume carsico, comunque lo si voglia chiamare, è la parola moderazione che viene spacciata per ragione: chiedere poco e aspettarsi ancora meno. Questa prudenza rivendicativa riflette lo stato d’animo di questa stagione politica. E questo approccio si realizza in un calendario di raduni, di appuntamenti, di ricorrenze ritualistiche e fine a se stesse. Che si tratti di disuguaglianze, di razzismo, di sessismo, di ecologia, di politica internazionale tutto si risolve in belle parole e nella richiesta sommessa di qualche briciola e la validità delle richieste non viene dalla scelta di campo ma da qualche legittimazione colta, magari accademica e dalla disponibilità a collaborare con il sistema.

In questo contesto cupo troppi/e si sono rassegnati a non puntare più all’impossibile, alla luna, ma a sollecitare il minimo secondo loro accettabile, a non procedere più in avanti ma al massimo ad auspicare la fine degli arretramenti. Man mano che la socialdemocrazia si propone come strategia del neoliberismo, tutto si risolve in richieste che hanno le caratteristiche della preghiera. Si chiedono solo briciole e si raccoglie solo vento.

Il patto sociale è stato rotto unilateralmente dal capitale e il neoliberismo procede a tappe forzate tramite i suoi funzionari socialdemocratici.

Perfino la sola idea di articolare obiettivi strategici di lungo termine e battaglie tattiche immediate è stata completamente rimossa con l’uso delle etichette diffamatorie di “vetero”, “superato”, “stantio” e ammantandosi di termini come “moderno” e “postmoderno”.

Come si inserisce la lotta femminista in questo quadro? Il femminismo è un movimento politico che si propone di percorrere strade di liberazione e non ha nulla a che fare con l’emancipazionismo usato come fine e non come mezzo, con le lotte categoriali e corporative, con il collaborazionismo con questo sistema di potere. E’ un movimento di uscita da questa società e non potrebbe essere altrimenti perché il patriarcato non è altro che un modello economico basato sulla gerarchia, sui ruoli sessuati, sul possesso e sul dominio in modo da ottenere la massima resa degli individui messi al lavoro, ognuno per la sua parte di competenza e di questo modello gli aspetti culturali e sociali sono la conseguenza perché il comando sul lavoro innerva tutta la società e diventa dunque metabolismo sociale,  e la sua configurazione attuale è quella funzionale al capitalismo neoliberista.

Il capitalismo neoliberista ha delle caratteristiche specifiche con cui porta avanti la difesa della sua organizzazione di potere, caratteristiche e modalità che ha mutuato dalla socialdemocrazia riformista che è il suo principale sponsor e naturalizzatore, vale a dire linguaggi, modalità, strumenti semantici e discorsivi di sinistra per portare avanti un progetto così fortemente reazionario e repressivo da far impallidire la destra tradizionale. E da relegarla in un ruolo di servizio. Alcuni di questi strumenti caratterizzanti sono il politicamente corretto e la strumentalizzazione dei diritti umani, della violenza sulle donne e sulle diversità, l’abuso di termini svuotati dei significati originari e addirittura ribaltati quali riforme, democrazia, libertà, autonomia, scelta…tanto da costruire una società dell’antirazzismo razzista, dell’antisessismo sessista, dell’antifascismo fascista.

Il femminismo, se tale vuol essere e non il fantasma di se stesso usato come maschera dal dominio, può essere solo antagonista, può solo rifiutare ogni ipotesi di collaborazione con questo potere, porsi fuori e contro la società del capitale.

Invece ora tantissime donne, femministe, compagne sono cadute nella trappola del piatto di lenticchie, del realistico, dimenticando che l’insieme delle donne è pesantemente attraversato dalla classe e da ciò non è possibile prescindere in questa stagione in cui le patriarche sono parte integrante del potere, e andando dietro alle pifferaie socialdemocratiche, facendosi incantare come i topi di Hamelin dalla musica delle lotte corporative mascherata con parole femministe svuotate di ogni significato che aleggiano come bolle di sapone, inconsistenti ed effimere. Basterebbe fermarsi un attimo a riflettere ma questo comporterebbe revisione critica di scelte e comportamenti.

E così, invece, l’oppressione delle donne diventa strumento di controllo sociale. Un altro strumento di controllo insieme a tutti quelli messi in atto finora dalla socialdemocrazia per conto del neoliberismo. La socialdemocrazia femminile si arroga il diritto di decretare quello che si può dire e non dire, come si deve chiamare e non chiamare chi e cosa, si chiedono a gran voce soldi allo Stato per centri antiviolenza e strutture di supporto, corsi di adeguamento del linguaggio, corsi di formazione per la scuola, per i tribunali, per la polizia e per la stampa …addirittura la creazione di un osservatorio sul controllo dell’informazione  sulle questioni di genere, naturalmente foraggiato sempre dallo Stato.

E il femminismo diventa parte attiva dell’Impero del Bene.

Eppure la lotta femminista potrebbe essere di grande aiuto in questo frangente storico per la liberazione di tutti gli oppressi.

Il neoliberismo ha femminilizzato il lavoro. Questo vuol dire che pretende una dedizione assoluta, e spesso e volentieri gratuita, di chi lavora nei confronti dell’azienda, una partecipazione emotiva alle sorti della stessa, una cancellazione della linea di demarcazione tra tempo del lavoro e tempo del riposo, una continua reperibilità, un riconoscimento “affettivo” della filiera gerarchica.

Ma non vi dice niente tutto questo? Non ci dice niente? Non vi ricorda le modalità con cui hanno ottenuto e perpetuato il nostro asservimento? Il lavoro di cura e riproduttivo è un lavoro non pagato che viene estorto con il ricatto affettivo. La famiglia è la nostra azienda in cui siamo state spinte al coinvolgimento emotivo, non esiste distinzione tra il tempo del lavoro e quello libero, dobbiamo essere reperibili ventiquattro ore su ventiquattro, dobbiamo riconoscere qual è il nostro ruolo e la nostra collocazione ed esserne appagate perché solo così potremo essere felici.  

Ma il neoliberismo vuole anche altro. Un mettersi in gioco continuamente per dimostrare quanto si è bravi, un’attesa continua del riconoscimento del merito e quindi una continua dipendenza dal giudizio, un’accettazione supina dei propri limiti e della propria inadeguatezza e quindi dei rimproveri, delle umiliazioni e della concorrenzialità con i propri simili, una disponibilità ad assumere la scala di valori vincente e quindi a stigmatizzare tutti quelli che si comportano in maniera deviante. Da sempre noi donne abbiamo dovuto dimostrare di essere brave, di essere all’altezza, anzi da quando, poi, siamo entrate nel mondo del lavoro salariato, il nostro impegno nel dimostrare quanto valiamo si è addirittura centuplicato. Abbiamo sempre dovuto accettare rimproveri e rimbrotti perché chi li faceva li faceva per il nostro bene, l’essere inadeguate è stato sempre considerato un nostro difetto e ci siamo dovute sempre dare un gran daffare per dimostrare il contrario. Il giudizio altrui ha sempre contato moltissimo, soprattutto quello maschile ma anche quello delle altre donne che hanno avuto sempre anche il compito di stigmatizzare le loro simili che non accettavano la norma, la normalità, che non volevano rientrare nei ranghi della scala di valori codificata. Ricordiamoci sempre che l’educazione dei figli/e è demandata soprattutto alle madri che si fanno garanti anche della riproduzione sociale.

E come hanno potuto ottenere da noi tutto questo? Attraverso la costruzione dei modelli sociali, sessuati e non, attraverso l’instaurazione di una norma sociale fatta passare per “naturale” e immutabile, attraverso la santificazione dell’autorità, della legge, della gerarchia, del possesso, attraverso lo stigma e la condanna sociale, attraverso il ricatto economico e affettivo…

E allora, proprio noi, possiamo e dobbiamo smascherare questi meccanismi e non dobbiamo certo essere quelle che impongono nuove regole e stigma e divieti, non siamo noi che dobbiamo educare, bensì liberare. Dobbiamo essere proprio noi, forti e consapevoli della nostra millenaria servitù ed esperienza, a dire che non bisogna riconoscere la filiera gerarchica in nessun posto né nel pubblico né nel privato, che le leggi, la norma, l’organizzazione sociale non hanno nessuna sacralità, ma anzi vanno disattese ogniqualvolta siano contro la nostra vita, che la socialdemocrazia e il politicamente corretto sono dei mostri nascosti dietro una maschera affabile.

Solo così possiamo scardinare i meccanismi che ci tengono vincolate attraverso la scala gerarchica capitalista e patriarcale. L’approccio e l’approdo vanno completamente ribaltati: non siamo noi che dobbiamo sgomitare per posti di comando, per quote privilegiate, per finanziamenti statali a osservatori e corsi di sensibilizzazione sulle questioni di genere. In questo modo il femminismo diventa un ulteriore strumento di controllo sociale e si inserisce di diritto nell’Impero del Bene, la costruzione neoliberista per cui lo Stato diventa etico e si prefigge sul fronte interno di decidere quello che è bene e quello che è male per ognuno/a di noi e sul fronte esterno di convincere con le “guerre umanitarie” tutti quelli, popoli, Stati, territori, ambiti che non sono allineati o sono recalcitranti o sono asimmetrici agli interessi  dell’occidente.         

Solo abbandonando la visione categoriale e di orticello protetto e privilegiato potremmo ottenere rispetto politico e autorevolezza nella dimensione di lotta portata a sintesi.

Il percorso di liberazione se anche è un sogno non è meno reale di un passo, il sogno senza il passo si dissolve nel cielo delle idee, ma il passo senza il sogno arranca nel pantano.

Il passo e il sogno disegnano un progetto politico. Il compito ai giorni nostri si annuncia sicuramente rude, ma se sapremo far convergere le classi medie, il mondo operaio, i precari, i marginalizzati, i migranti, i quartieri periferici…cioè tutti coloro che sono attaccati dal neoliberismo e spazzare via i partiti socialdemocratici, comunque si chiamino, potremo determinare un progetto politico capace di mettere in moto le lotte.

E dovremmo partire strappando il velo ad un capitalismo che si è messo una maschera buonista e “democratica” e che così si è spinto a definire e a leggere la sofferenza come una colpa personale e perciò l’io sofferente umiliato, maltrattato viene derubricato dalla sua sofferenza e viene reinserito nel mercato come merce. Un capitalismo per il quale ogni colpa è sempre dell’essere umano che è bacato, fallato e attanagliato da un intimo disordine da combattere ricorrendo alla medicina, al marketing, alla psicanalisi e alla polizia, per cui il conflitto sociale non può che essere un malinteso, le lotte, le ribellioni, gli scioperi i picchetti non possono che essere un disordine intimo da sciogliere in un modo, nell’altro o nell’altro ancora.

In questa società pervasa da inquietudini, da angosce, da sconcerto perfino un granello di umanità può essere uno zoccolo nell’ingranaggio. E’ necessario costruire un baluardo contro il dilagante e vincente neoliberismo che è la realizzazione di una società contemporaneamente feudale, ottocentesca e nazista.

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