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Introduzione a «Lessico postfordista»

di Adelino Zanini, Ubaldo Fadini

0e99dc 3163078c1dd14ce99f577938fa2f47e9mv2Nel gennaio 2001 usciva per Feltrinelli la prima edizione di Lessico postfordista, a cura di Adelino Zanini e Ubaldo Fadini; dopo pochi mesi, a maggio, era già necessaria una ristampa. Il volume, con oltre sessanta voci e l’impegno di una cinquantina di autori e autrici, si proponeva di costituire – come recita il sottotitolo – un «dizionario di idee della mutazione», che ruotava attorno a una categoria ormai consolidata in diversi ambiti di ricerca, il postfordismo appunto. La sua origine e diffusione, tuttavia, è legata innanzitutto alle elaborazioni sulle trasformazioni dell’organizzazione produttiva e del lavoro della «scuola regolazionista» francese e di quel filone proveniente dall’operaismo che, negli anni Novanta, darà vita alla fondamentale stagione teorico-politica di riviste come «Luogo comune», «DeriveApprodi», «Futur antérieur» e successivamente «Multitudes». Anche l’anno di pubblicazione, il 2001, ha un evidente valore simbolico: è infatti l’anno della mobilitazione contro il G8 di Genova, punto culminante di quel movimento no global che, a dispetto dei cantori delle magnifiche sorti e progressive del capitalismo-mondo, dimostrava che in realtà la storia non si è mai chiusa. Non è un caso che il volume ebbe grande circolazione tra le nuove generazioni di militanti e attivisti, e al contempo un significativo riscontro sui media mainstream: fu ad esempio recensito su «Il Sole 24 Ore», «Repubblica» vi dedicò un paio di pagine, mentre Francesco Alberoni sulla prima del «Corriere della sera» lo indicava – insieme a Empire di Negri e Hardt – come un testo di riferimento per comprendere l’«egemonia del neomarxismo rivoluzionario» sui nuovi movimenti. Insomma, sono davvero molte le ragioni per rileggere l’introduzione al volume scritta da Zanini e Fadini che qui riproponiamo, non solo per ripercorrere i tratti centrali delle elaborazioni sul postfordismo, ma anche per ripensare alle aporie di quella mutazione irrisolta. 

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Il catalogo è questo

Postfordismo è termine la cui diffusione è ormai codificata in numerosi ambiti di ricerca: dalla sociologia all’economia, dalla politologia all’urbanistica, al diritto commerciale internazionale [Amin 1994]. La sua fortuna è dovuta soprattutto alla «scuola regolazionista» francese, a sua volta ispiratasi all’«operaismo» italiano. Il termine indica un modello sociale il cui modo di produzione non è più dominato da forme di accumulazione verticalmente integrate e di distribuzione della ricchezza contrattate tra rappresentanze collettive e supervisionate dallo Stato, bensì da forme di accumulazione flessibili [Harvey 1993, pp. 151-244] capaci di integrare, di mettere in rete, modi, tempi e luoghi di produzione tra loro molto diversi: dalla fabbrica robotizzata alla cascina hi-tech, dal distretto industriale alle maquilladoras messicane, ai templi della finanza globale.

Ne esce ridisegnato il carattere (inter)nazionale dei processi di produzione e controllo. In primo luogo, è riformulato il rapporto tra sovranità politica e sfera economica; in secondo, i processi mondiali di creazione di ricchezza, al cui interno i differenziali salariali tra le diverse realtà nazionali vengono utilizzati per la costruzione reticolare delle imprese su scala transnazionale. Essenziale in ciò è il legame tra informazione, comunicazione, sapere e produzione. Saperi e conoscenze immagazzinati nelle reti telematiche, non meno che la più comune cooperazione linguistica di uomini e donne, nel loro concreto agire, sono il tessuto connettivo grazie a cui si costituisce il «capitale sociale» delle società postfordiste [Bagnasco 1999, pp. 65-85].

In esse gioca un ruolo decisivo un general intellect, un insieme di saperi e conoscenze non riducibile a un agire macchinico determinato (al «capitale fisso» marxiano), per quanto complesso esso sia. Nei processi lavorativi contemporanei, ci sono pensieri e linguaggi che funzionano di per sé come «macchine» produttive, senza dover adottare un corpo fisico, meccanico o elettronico. Tali pensieri e linguaggi appartengono – anche, non solo – all’esperienza degli individui. Ed è appunto nella progressiva difformità e nello scarto tra una intelligenza collettiva diffusa e il «cervello sociale» sussunto negli stessi processi lavorativi che si può scorgere la matrice conflittuale, complessa e contraddittoria della produzione postfordista e, allo stesso tempo, i processi che definiscono in termini di biopolitica le modalità di controllo, di regolazione e di riproduzione della forza-lavoro e della soggettività su scala planetaria. Delineiamo in breve questi punti. 

 

Chi è sovrano?

Che il carattere (inter)nazionale dei processi di produzione sia totalmente ridisegnato non significa che sia privo di centri di comando. Globalizzazione non è sinonimo di dispersione. Come ha indicato Saskia Sassen, sovranità e territorialità rimangono caratteristiche essenziali del sistema internazionale globalizzato, ma in ambiti istituzionali affatto diversi dal territorio dello Stato [Sassen 1997a; 1997b, p. 8]. Alla sovranità statale pertengono ampie discrezionalità politiche [Bonefeld – Holloway, 1991; Jessop 1994, pp. 251-279]. Le organizzazioni sovranazionali, però, si appropriano di quelle economiche. Certamente, non solo tramite l’influsso esercitato dai mercati internazionali sulla sfera delle politiche governative dei singoli stati – ciò è sempre avvenuto. «Il punto, piuttosto, è che l’attività di questi mercati richiede determinati obiettivi di politica economica» [Sassen 1998, p. 74]. Di economic policies è fatta la politica moderna, almeno a partire dalla fine degli anni Venti; i principali attori d’essa, tuttavia, oggi non sono più i soggetti istituzionali, le cui capacità di governo sono fortemente compromesse.

Basti pensare all’influsso esercitato dalle agenzie internazionali di rating: quale sovranità nazionale può contrastarne gli effetti macroeconomici delle periodiche valutazioni? Di ciò si tratta, ossia dell’incidenza dei dettami di politica monetaria sui parametri dell’economia reale. Questo non significa che si possa immaginare un’economia interamente globalizzata, in cui le singole economie nazionali siano completamente private delle loro radici [Berger – Dore 1998]. In ogni caso, il principale ufficio del vecchio paradigma della sovranità statale può essere mantenuto soltanto al prezzo di continui stiramenti concettuali e del moltiplicarsi di eccezioni e spiegazioni ad hoc, causati soprattutto dai cosiddetti «regimi internazionali». Nulla vieta di ricondurre la loro esistenza alla volontà degli stati che li statuiscono, «ma l’ampiezza e il peso della fenomenologia apparsa negli ultimi decenni rendono sempre più difficile trattenere tale esistenza entro una dimensione di atipicità marginale». La permanenza della «forma Stato» va catalogata «come ambito e soggetto tra gli altri di governo globale».

Una delle questioni frequentemente sollevate a livello macroeconomico è relativa alle posizioni di chi, dati alla mano, ritiene che l’economia mondiale fosse, comparativamente, più «globale» nel periodo tra il 1870 e il 1914, data la maggiore intensità del movimento di capitali per investimenti diretti esteri [ma cfr. Andreff 2000]. Ora, è caratteristica di queste posizioni mostrare a quale impasse conducano le analisi della globalizzazione che non pongono al centro dell’attenzione i mutamenti dei modi di produrre e le trasformazioni della natura del lavoro. Come osserva Marazzi, inoltre, quello che queste interpretazioni perdono per strada è la forma sociale che i processi di globalizzazione comportano, essenzialmente: a) il ruolo del nuovo capitale finanziario dal punto di vista del risparmio operaio (rendita pensionistica); b) la finanziarizzazione delle economie domestiche; c) la crisi della relativa autonomia della regolazione monetaria del ciclo economico; d) la subordinazione delle politiche delle banche centrali alle dinamiche dei mercati borsistici; e) la disintermediazione bancaria come risultato della riduzione progressiva dei tassi di interesse; f) la crescita non inflazionistica, ossia la produzione di un’eccedenza strutturale di ricchezza sociale che le tradizionali manovre sui tassi di interesse per la regolazione dei cicli economici non riescono più a veicolare senza aggravare l’instabilità del sistema finanziario globale.

Il nodo centrale è costituito dalla sovranità monetaria intesa sia come capacità di controllo della monetary base, sia, soprattutto, come capacità delle istituzioni internazionali di Bretton Woods di controllare la sempre maggiore e sempre più rapida finanziarizzazione [Dorn 1998]. A partire dalla fine degli anni Settanta, la libera circolazione di capitali (capital account liberalization) si è dimostrata un perno indispensabile della strategia postfordista, anche perché – come nota Conrad Herold – la liberalizzazione dei flussi di denaro non dà luogo agli stessi problemi di coordinamento inerenti alla liberalizzazione dei commerci. Inoltre, la mobilità dei capitali tiene sotto tiro i governi nazionali. Così, negli anni Ottanta e Novanta abbiamo assistito a uno spostamento globale dei carichi fiscali dal capitale ai lavoratori, e l’eventuale tentazione dei governi nazionali di ricorrere al deficit fiscale è stata sottoposta alla costante minaccia di un attacco speculativo nei confronti delle loro monete. Ciò ha contribuito al processo di privatizzazione e di espropriazione della sovranità a vantaggio delle esigenze dei creditori globali. Conseguentemente, la crisi della relativa autonomia nella regolazione monetaria del ciclo economico nei confronti dei mercati borsistici e della titolarizzazione diffusa del risparmio collettivo (sempre più stornato dai titoli di stato ai titoli azionari e obbligazionari) ha inverato «il carattere onnivoro dei processi postfordisti di produzione di ricchezza» e determinato il superamento della separazione keynesiana tra risparmio e investimento [Marazzi 1998].

Ciò rivela che la vera posta in gioco non è il banale – e in realtà privo di fondamento – «superamento» neoliberistico dei confini dello Stato, ma il progressivo sciogliersi normativo dell’idea moderna di Stato, qualificabile, come Carl Schmitt insegna, per mezzo di un’identità territoriale sovrana. La crisi di tale identità può essere letta nei processi che conducono a quella che è stata definita una sorta di impero etico, di nuova civitas planetaria. Accantonata l’idea classica di imperialismo, in cui «le frontiere territoriali della nazione delimitavano il centro di potere da cui il dominio era esercitato nei confronti dei territori stranieri esterni», l’impero esercita una sovranità decentralizzata e deterritorializzante, che progressivamente incorpora l’intero «regno globale» all’interno delle sue frontiere aperte e in espansione. È un ordine che di fatto vorrebbe sospendere la storia e fissare per l’eternità lo stato delle cose presenti [Hardt – Negri 2000]. A questo nuovo «ordine etico», non riducibile all’indubbia leadership statunitense, nulla è esteriore. Del resto, come sottolinea Dal Lago, l’impero deve costantemente contenere, in ogni senso, i conflitti che sono determinati dall’assetto instabile del sistema/mondo. Ciò non determina certamente le condizioni di sovvertimento della galassia imperiale, «ma attiva dinamiche interne sempre meno prevedibili. L’impero è potente e intrinsecamente fragile, come risulta dalla limitata razionalità con cui è capace di gestire i conflitti che provoca per sua stessa natura».

In effetti, che a ciò faccia da pendant l’apologia di identità locali frutto di una sempre più spiccata frammentazione politica è stato sottolineato da diversi autori. Come osserva Bauman [1999], non c’è contraddizione tra la nuova extraterritorialità dei capitali e delle merci e il nuovo proliferare di «quasi-stati», sovrani nella loro precaria debolezza. Parallelamente all’emergere di una scala planetaria per l’economia, si impongono infatti processi di localizzazione che differenziano notevolmente le condizioni di vita di intere popolazione e di estesi segmenti al loro interno. Si tratta di processi complementari, che comportano extraterritorialità e cosmopolitismo per gli inclusi, residenza coatta, blocco alla migrazione, tolleranza zero per gli esclusi [Wacquant 2000]. Sembrerebbe comunque impropria un’eccessiva semplificazione in questo senso. Non meno importante è il considerare come a un potere fondamentalmente negativo, che reprime ed espelle dall’area sociale gli elementi indesiderati, si affianchi «un intervento positivo e “inclusivo”, volto a rimodellare e normalizzare le anomalie»: «non l’essere-esclusi di alcuni (o anche di molti), ma il poter-essere-escluso di chiunque» potrebbe diventare il vero elemento strutturale del sistema globalizzato.

Questo è tanto più vero in quanto lo si rapporti non solo alle forme più macroscopiche di «protezione» contro la «invasione dei clandestini», ma anche al vero e proprio «“imbrigliamento” della libera circolazione della forza-lavoro» globalizzata. Se è assodato, infatti, che il superamento del regime di accumulazione fordista equivale ad andar oltre l’insieme di regolazioni macro che si è definito nei decenni centrali del secolo in una specifica forma statale (nazionale) keynesiana, è altrettanto certo che «la globalizzazione è la forma – l’unica forma possibile – in cui un regime produttivo e di “controllo” postfordista può esistere», giacché il governo dei flussi macro su cui il nuovo regime è sorto è «fin dall’inizio a scala globale: è la gestione della crisi internazionale degli anni Settanta che lo tiene a battesimo». 

 

Tra fordismo «maturo» e postfordismo

Gli anni Settanta sono un punto di svolta riconosciuto. L’impennarsi dei prezzi delle materie prime, la crisi petrolifera, la tempesta valutaria connessa all’inconvertibilità del dollaro definiranno il nuovo scenario di ristrutturazione del mercato mondiale [Bologna 1974]. Alla crisi di governo degli aggregati keynesiani, farà riscontro (secondo le diverse realtà nazionali) un processo simultaneo di concentramento/decentramento, teso a disarticolare la composizione di classe della grande fabbrica, a ridurre il costo del lavoro, il ruolo degli ammortizzatori sociali e della spesa pubblica in generale; insomma, a trasformare il processo di accumulazione [Aglietta 1976], dentro il quale si erano espressi gli articolati processi di maturazione e di diffusione dell’esperienza dell’operaio massa multinazionale [Gambino 1997].

A questo – in Italia, ad esempio – servirà l’interazione di dinamiche tanto diverse, dall’automazione al decentramento, al lavoro a domicilio [Brusco 1975]. L’esasperata produttività del lavoro integrato, la ricostituzione e il mantenimento di un esercito industriale di riserva, il recupero del gap tecnologico e lo sfruttamento del nesso tra inflazione e svalutazione come linea di politica economica diverranno punti di uno stesso programma: rendere sempre più oggettivo il ciclo economico, frantumando la composizione di classe dell’operaio-massa e riproiettando sul territorio lunghi segmenti di valorizzazione. Nella piccola e media impresa si riscontra infatti uno sviluppo tecnologico per nulla trascurabile, coadiuvato dall’estendersi dell’informatica distribuita, sostenuto dal basso costo del lavoro, integrato da varie forme di lavoro marginale, indispensabili alla dialettica tra fabbrica robotizzata e decentramento ad alto tasso di valore aggiunto. Non è la grande fabbrica che scompare; mutano, piuttosto, il suo ruolo e la sua centralità strategica [Bagnasco – Messori – Trigilia 1978]. È in questi anni, non a caso, che riprende fiato la ricerca sui distretti industriali e su quella che sarà definita la «terza Italia» [Bagnasco 1977].

Non meno complessa si presenterà la situazione dal punto di vista della soggettività del lavoro vivo, della cosiddetta «quinta generazione operaia» [Bologna 1980], cresciuta nella metropoli, nelle scuole e nelle università nel decennio che va tra ’68 e ’77. L’organizzazione fordista della produzione aveva il suo cervello nella «grande fabbrica» modellata sui dettami dello scientific management taylorista, dislocata a ridosso della città-fabbrica, vero centro del mercato del lavoro, da cui era emersa una «forza-lavoro riarticolata, atomizzata e dequalificata all’interno di un processo di meccanizzazione e però anche di socializzazione del lavoro» [Alquati 1975, p. 17; Coriat 1979]. Né era a ciò estraneo il lungo percorso di costituzionalizzazione del lavoro e di edificazione dello stato sociale, quali «caratteri peculiari della forma costituzionale vigente nei paesi capitalistici maggiormente sviluppati nel secondo dopoguerra».

Ebbene, quando, tra il ’78 e il ’79, i cosiddetti «nuovi assunti» entreranno a Mirafiori, porteranno con sé un’esperienza radicalmente diversa da quella della precedente generazione «di lavoratori individualmente dequalificati e deprofessionalizzati, neoimmigrati e neourbanizzati, ma massificati e socializzati su scala inedita dentro questa ‘fabbrica’ a meccanizzazione spinta» [Alquati 1975, p. 19]. Contesteranno non solo la «struttura» del salario, ma la sua «forma» e, quindi, la necessità stessa di lavorare una vita per ricavare un «reddito», non un «salario». Non vi possono essere dubbi sul fatto che la soggettività espressa dalla nuova forza-lavoro in genere non intaccò il regime di fabbrica. Anzi, lo rese più praticabile e agevolò manovre di ristrutturazione fondate sulla flessibilità. E ciò perché l’offerta di lavoro era particolarmente rigida, a causa del livello ormai diffuso di scolarità. In altri termini, se nella fase precedente era stato possibile leggere i comportamenti produttivi della forza-lavoro come articolazione della composizione tecnica di classe, ora questa possibilità è negata dalla crescente penetrazione del «sociale» all’interno della sfera della produzione, fino a limitarne il potere normativo sui comportamenti operai [Berra – Revelli 1979]. Il settantasette era entrato in fabbrica.

Vi era un abisso tra i tempi e i modi di socializzazione dell’operaio massa e quelli della «quinta generazione operaia». La differenza tra una forza-lavoro di prima immigrazione e una socializzata nella metropoli, nel rifiuto della famiglia e di ogni coercizione, era lampante. Ridefinito il rapporto tra condizioni oggettive e soggettive di produzione, la conflittualità non vivrà però una semplice crisi di crescita: l’identificazione tra uguaglianza e uniformità era definitivamente saltata. Vennero poi gli anni Ottanta, e con essi un sommovimento che toccò l’intero emisfero industrializzato [Castells 1989, pp. 21-32]. Processi molto chiari in Italia, perché l’onda dei movimenti degli anni Settanta fu più lunga che altrove, ma diffusi in tutto l’occidente. Furono caratterizzati dalla secca sconfitta del movimento operaio, non meno che dall’allargarsi dell’area del rifiuto del lavoro salariato stabile. Rifiuto tanto più marcato quanto più omogenei divennero tempo di lavoro e forme di vita [Gorz 1998, pp. 92-94]

Il modo di produzione fordista non è stato di certo un modello universale, le sue realizzazioni sono state perciò diversificate a seconda delle realtà nazionali: dei loro assetti istituzionali, delle macrodinamiche creditizie, dell’impatto degli shock esterni [Boyer 1999]. Nonostante tutto, è però possibile individuare delle caratteristiche comuni, che vanno dall’ipotizzare una crescita illimitata della produzione di massa e della capacità di assorbimento del mercato al ricorso costante alle economie di scala; dallo scientificmanagement taylorista alle politiche anticicliche keynesiane; dall’imporsi, come soggetto politico autonomo, di una classe operaia unskilled, riconosciuta nella sua alterità politica, al suo radicalizzarsi in quello che fu definito turbulent environment. Tutto ciò assunse in Italia un profilo particolare e qualificò, da subito, la riflessione italiana sulla transizione postfordista come paradigmatica. Lo riconosce Krishan Kumar [2000], quando scrive che le radici della teoria postfordista affondano proprio negli sviluppi dell’economia italiana e che è dunque nel «caso italiano» che vanno ricercati i principali ingredienti dell’analisi postfordista.

Una certa cautela è comunque necessaria quando si tratti di definire i caratteri generali della transizione postfordista, al fine di evitare inutili dispute nominalistiche o, peggio, pericolose piccole filosofie della storia. Il termine postfordismo ha suscitato «sentimenti» molto contrastati: da una sorta di vero e proprio «lutto» alla gioiosa prefigurazione di un nuovo – cela va sans dire, migliore – capitalismo delle opportunità [cfr. Rullani – Romano 1998]. Nessuno di questi «sentimenti» è adeguato. In ogni caso, il delinearsi di alcune macrotendenze chiare e, ormai, di lungo periodo, ci sembra esplicito. Potremmo così sintetizzarle: a) accresciuta flessibilità di localizzazione e di delocalizzazione dei processi produttivi; b) espansione delle istituzioni finanziarie che operano in ambito internazionale e conseguente transnazionalizzazione della proprietà e del controllo delle grandi corporation; c) riorientamento dei flussi internazionali degli investimenti (affermazione degli Usa come principale destinatario degli investimenti esteri diretti); d) internazionalizzazione dei servizi; e) accesso a mercati del lavoro periferici, anche nei settori di punta; f) interazione tra mercati del lavoro tradizionali e informali locali e mercati del lavoro internazionali; g) forti differenziazioni salariali al loro interno, verticali e orizzontali.

Questo insieme di mutamenti simultanei si è intrecciato con importanti movimenti di ritrazione delle attività produttive dalle aree industriali consolidate, dando luogo a nuove macroregioni che incorporano le aree economicamente più dinamiche, in grado di sfruttare i molti vantaggi della rete produttiva nel suo complesso. L’impatto sui processi di produzione di merci e servizi è stato notevole, senza che ciò abbia comportato la miracolosa sparizione di importanti, e ancora centrali, aree a «fordismo maturo» [Rullani – Romano 1998, pp. 46-47]. Al riguardo è utile essere chiari: non è stato il toyotismo quale negazione (o «superamento») del taylorismo, né il modello di distretto industriale italiano, né i processi di finanziarizzazione globale, ad aver determinato, in quanto tali, la transizione al modo di produzione postfordista, quasi si potesse pensare a un «semplice» passaggio di fase. Tale transizione è stata ed è frutto di un insieme di dinamiche molto più numerose e oltremodo complesse, che hanno posto in discussione una «forma sociale» dominante, nella quale vi erano determinate relazioni tra economia e politica; nella quale lavoro, reddito, consumo, produzione erano categorie macrosociologiche e macropolitiche (ancor prima che macroeconomiche), al pari di famiglia, scuola, fabbrica, rapporti sociali di sesso, informazione. Cos’è rimasto di quelle società di massa? 

 

La fatica del linguaggio

In quest’insieme di dinamiche, i mutamenti possono essere colti da diverse angolature. È tuttavia nostra convinzione che «spia» essenziale sia e rimanga il lavoro e, nello specifico, il suo caratterizzarsi sempre più – tenendo pur nel debito conto le diversità geopolitiche – come processo informale, che prefigura, accanto a un nucleo di occupazione relativamente stabile (ma non più necessariamente privilegiato), una precarizzazione di massa, un’intermittenza diffusa tra lavoro e disoccupazione, l’estendersi di ampi «moduli» di lavoro autonomo in settori non tradizionali, fortemente connessi alle attività di reti locali e globali, collegati alle nuove professioni, alla domanda di lavoro emergente nelle imprese della network economy, e caratterizzati da una varietà di figure lavorative [Bologna – Fumagalli 1997].

Tali sviluppi sono da tempo identificati, ma ciò che è fondamentale è riconoscere il tratto distintivo che accomuna gran parte dei processi lavorativi. Processi i quali, grazie al potente sviluppo della «information technology society», rivelano che la loro sempre più diffusa e spiccata natura comunicativa è da individuarsi nel fatto che la «fatica linguistica» risulta essere preponderante in tutti i settori produttivi, materiali o immateriali che siano, senza che questo comporti alcuna disincantata «convivialità». Nelle società in cui prevale l’informazione, le differenze non si tolgono, si amplificano. Ciò che è specifico in quello che Manuel Castells definisce «informational mode of development» è il fatto che la conoscenza, accumulandosi, induce nuova conoscenza come fonte primaria di produttività e di mutamento sociale, per mezzo del suo impatto sui processi produttivi, culturali, amministrativi. È chiaro che, nelle sue linee generali, ogni modo di produzione ha sempre comportato l’accumularsi di esperienze e saperi, generici e determinati. Nello specifico odierno, tuttavia, vi è una sorta di «produzione di conoscenza a mezzo di conoscenza», determinata da costanti interazioni produttive, garantite non solo dai sistemi di informazione en général, ma anche, e soprattutto, dalle particolari nervature informazionali e comunicative che pertengono ai diversi processi produttivi e sociali nella loro interezza. Questi ultimi sfruttano tecnologie il cui «core» è costituito da elaborazioni di informazioni che sono, a un tempo, materia prima e prodotto. Conseguentemente, l’incarnarsi di quelle tecnologie in merci e servizi, in decisioni e procedure, è il risultato dell’applicazione del loro output informazionale, non ne costituisce l’output proprio. Lo stesso ruolo assolto dal macchinario in quanto tale viene dopo le sinergie rese possibili dal suo utilizzo.

L’assunto fondamentale secondo cui in ogni rivoluzione tecnologica ad essere fondamentali sono le innovazioni di processo, più che quelle di prodotto [Rosenberg 1976], non può che essere confermato nell’ambito di un modo di produzione nel quale i flussi delle informazioni interagiscono in modo crescente con la sfera vitale e trasformano le basi materiali dell’organizzazione sociale nella sua globalità. «L’informazione – osserva Castell [1989, p. 15] – è basata sulla cultura, il trattamento dell’informazione è infatti una rielaborazione simbolica che si fonda sulla conoscenza esistente; cioè, su di un’informazione codificata, verificata dalla scienza e/o dall’esperienza sociale». Pertanto, il ruolo essenziale e predominante delle tecnologie informazionali nei processi innovativi consiste nello stabilire relazioni sempre più strette tra cultura sociale, conoscenza scientifica, sviluppo dei fattori produttivi. Il «capitale culturale» sociale, la capacità collettiva di rielaborazione simbolica, in breve, la capacità del lavoro, strutturalmente determinata, di elaborare informazioni e generare conoscenza, sono «la fonte materiale di produttività». Ma la destrezza del lavoro nell’ambito di quella che Castells definisce produzione e manipolazione simbolica non è un attributo individuale; maggiore sarà perciò lo scambio di flussi informativi, maggiore sarà la capacità collettiva di manipolazione simbolica. In altri termini, lo «information processing» è il nocciolo di tutti i processi di produzione, distribuzione, consumo, management. «Sono proprio la convergenza e l’interazione tra il nuovo paradigma tecnologico e la nuova logica organizzativa del lavoro che costituiscono la fondazione dell’economia “informazionale”».

Del resto, questo è possibile in quanto la destrezza del lavoro astratto non è caratterizzata dalla semplice connotazione tecnologica; non è in quanto «sorveglia» una «macchina linguistica» che il lavoro astratto dimostra la sua capacità di governo della sfera simbolica (regolarmente messa a profitto), ma in quanto comunica, agisce in modo relazionale, è tramite della circolazione informale di conoscenza, è capacità di utilizzare molteplici codici linguistici: non solo di tipo informatico e non solo in quanto essi siano specifici di una determinata «macchina linguistica». Va infatti sottolineato che «comunicazione» è «un vero e proprio termine-costellazione, che abbraccia altri concetti contigui, tra cui informazione, conoscenza, informatica, linguaggio». Nel modo di produzione postfordista, l’inclusione della comunicazione nella produzione ha un valore direttamente produttivo; dà luogo a una catena produttiva «parlante», a un lavoro comunicativo, appunto, che non si pone accanto all’interazione, ma la costituisce. Pertanto, contrariamente a quanto suggerisce l’ideologia postmoderna, la coincidenza tra lavoro e interazione linguistica non attenua le antinomie del modo di produzione dominante, anzi le radicalizza.

Nella fabbrica fordista, osserva Virno, l’attività lavorativa è muta, la produzione è una catena silenziosa, in cui è tagliata ogni correlazione interattiva tra processi simultanei. Il lavoro vivo asseconda la causalità naturale al fine di utilizzarne la potenza. «Nella metropoli postfordista, invece, il processo lavorativo materiale è descrivibile empiricamente come complesso di atti linguistici, sequenza di asserzioni, interazione simbolica. In parte, perché l’attività del lavoro vivo si esplica, ora, a fianco del sistema di macchine, con compiti di regolazione, sorveglianza e coordinamento. Ma soprattutto perché il processo produttivo ha per ‘materia prima’ il sapere, l’informazione, la cultura, le relazioni sociali». Prestazioni linguistiche che, anziché dar luogo a un prodotto indipendente, «si esauriscono nell’interazione comunicativa che la loro stessa esecuzione determina». Pertanto, il lavoro basato sulla comunicazione «non ha una struttura rigidamente finalistica, ossia non è guidato da un obiettivo univoco predefinito», tanto più definito, quanto più si ha a che fare con un agire meramente strumentale, che dà luogo a un prodotto che sopravvive alla prestazione lavorativa. Spesso, tale lavoro non dà affatto luogo a un oggetto estrinseco e duraturo, «trattandosi piuttosto di una attività senza opera», in cui «la comunicazione incrina la connotazione rigidamente finalistica del lavoro».

Ora, se è vero che «la crisi dell’epoca fordista si impasta con quella del soggetto maschile, suo principale referente empirico», è altrettanto vero che uno dei tratti fondamentale dei processi lavorativi postfordisti, ossia il venir meno della connotazione rigidamente finalistica del lavoro, è caratterizzato dal diffondersi di modelli femminilizzati di produzione [Beck 2000c, p. 96], in cui prevale l’immaterialità della merce e, quindi, gli elementi legati alla conoscenza, al sapere, al linguaggio, come pure all’assistenza, alla cura. Il «prendersi cura», col suo fondo indubbio di «gratuità», col suo fondere lavoro e vita, è una delle forme esemplari del lavoro vivo postfordista: «un lavoro che riproduce nella sfera privata un contesto relazionale pubblico», un lavoro comunicativo, in cui ciò che fino a ieri veniva considerato improduttivo, relegato com’era nella sfera del privato, oggi assume un carattere pubblico e immediatamente produttivo.

Lo stesso toyotismo si appropria di moduli operativi relazionali, un tempo specifici dell’industria culturale, poiché in esso la forza-lavoro non può essere supposta «passiva» (e conflittuale), ma soggettivamente motivata alla «autovalorizzazione» [Revelli 1993; 1995]. Nell’ambito dell’impresa postfordista, modulare, snella, a rete, virtuale, transnazionale, le conoscenze in quanto patrimonio personale devono perciò mutarsi in «capitale intellettuale»: il sapere sociale è «materia prima» senza la quale non c’è processo lavorativo. L’impresa trasforma in innovazione organizzativa e di prodotto la socializzazione delle conoscenze. Particolarmente indicativa, al riguardo, la situazione nei settori di punta, in cui «la messa in produzione dell’intera sfera linguistico-comunicativa fa sì che proprio sulla linea della proprietà intellettuale si vengano a definire i nuovi equilibri dei poteri».

Stretto e decisivo è pertanto il mutuo legame tra lavoro, produzione di conoscenze, loro diffusione/socializzazione e formazione; non tuttavia nel senso tradizionale dell’apprendere una professione, perfezionarne le tecniche, affinarne le strategie, bensì in quello di una costante «disponibilità» a sovvertire le proprie competenze specifiche e a riciclare le proprie attitudini generiche, in un ricorrente altalenarsi tra occupazione, inoccupazione, formazione. Quest’ultima, spesso acquisita dalla forza-lavoro postfordista come consumo culturale, viene incassata dall’impresa come investimento produttivo, appropriazione privata della cooperazione sociale. Ciò è particolarmente evidente per la forza-lavoro del «ciclo allargato della conoscenza» (le nuove professioni «digitali»), per la quale «entrare nell’ordine di idee della formazione continua non è più un optional, ma una necessità di sopravvivenza». Né pura trasmissione di sapere, né semplice addestramento in vista di un’attività specifica, «la formazione si propone di condurre gli individui verso una determinata forma di vita,intendendo con ciò un insieme coerente di cognizioni, capacità, comportamenti, gusti, valori, relazioni, inclinazioni e abitudini». È quindi necessario non sottovalutare la duplicità, intrinseca e strutturale, che esiste tra informazione e comunicazione. Come osserva Scelsi, la sfera della comunicazione è costantemente minacciata dal suo riallinearsi «sotto le bandiere dell’informazione: un processo di digitalizzazione di ogni attività umana che reca con sé le marche sintattiche della proprietà privata». Flessibilità, formazione costante, precarietà diffusa, incertezza sono i tratti di un modello sociale mobile [Bauman 1999], di una società mondiale del rischio, per questo altamente politica – come osserva Ulrich Beck [2000c, p. 70] – e quindi agli antipodi di una «costellazione postmoderna». 

 

Tecnologie del sé

È inutile dire che l’aggettivazione mobile è sociologicamente alquanto ambigua, quando la si coniughi, come necessario, all’interno di un lessico politico. Se è infatti vero che il termine in genere denota una società non statica, altrettanto vero è che esso ha assunto uno statuto del tutto nuovo nel modo di produzione postfordista. L’esperienza comune sembra caratterizzarsi per la capacità o meno di dare un senso alla mobilità e, quindi, per la capacità o meno di conferire un senso allo spazio in cui la percezione del tempo accade [Bauman 1999]. Nei sistemi di produzione flessibile, osserva Sennett [1999], l’articolazione implicita essenziale di cui il potere è costituito è la reinvenzione discontinua delle istituzioni, che fa sì che tra presente e passato non vi sia alcuna continuità. All’interno di un sistema a «reti aperte», la mancanza di continuità è messa a frutto dalla possibilità di sfruttare l’incoerenza di un sistema frammentato, in cui la necessità di fronteggiare mobilità, incertezza e rischio è quotidiana e di massa. Tale necessità chiama in causa la nozione foucaultiana di «governo di sé», poiché un sistema flessibile, caratterizzato dalla precarietà diffusa, dà luogo a una struttura del sé costantemente «in recupero» sugli eventi. Come osserva Günter Amendt, flessibilità e mobilità hanno infatti un loro corrispettivo psichico, poiché la società del rischio comporta la disposizione dei soggetti «a correre rischi più elevati, da un lato per separare tempo di lavoro e tempo libero, dall’altro per poter sopravvivere psichicamente alla costante accelerazione», non di rado grazie al sussidio di sostanze.

Come si è data un’esperienza della modernità [Berman 1985] si dà, indubbiamente, anche un’esperienza della postmodernità, caratterizzata dall’espansione illimitata del regno delle immagini, che comporta una virtualizzazione crescente dell’esperienza, «un passaggio generazionale dalle politiche dell’identità a quelle dell’esperienza, della percezione diretta e della fruizione immediata, in perfetta linea con l’economia esperienziale delle trasformazioni del consumatore». Tale esperienza postmoderna non è però da intendersi come disincanto rispetto al mito delle grandi narrazioni occidentali del novecento, secondo il «canone» maggioritario europeo, quanto come logica culturale del capitalismo contemporaneo. Essa è cioè specifica di quello che con Frederic Jameson [1989] potremmo definire dislocamento dalla produzione alla circolazione di alcune delle caratteristiche primarie che sorreggono la riproduzione allargata del sé: mancanza di profondità della teoria e culto dell’immagine, sempre più diffuso grazie all’efficace cross-breeding tra i diversi media; indebolimento della storicità, della storia pubblica e della temporalità privata; nuovo tipo di tonalità affettiva, di «intensità».

In questo senso, l’orizzonte biopolitico, delineato per primo da Foucault nell’ambito dell’articolazione microfisica dei poteri e poi, in modo diverso, da Donna Haraway, afferma con vigore la propria ineludibilità: non la difesa regressiva di identità supposte originarie nei confronti della scienza e dell’innovazione tecnologica è necessaria, ma «l’assunzione piena della dimensione biopolitica attraverso lo sviluppo di punti di vista situati che, eludendo l’ipoteca dell’obiettivismo funzionalistico, si rivelino capaci di giocare le potenzialità mutanti del nostro tempo su registri differenti da quelli previsti dagli assetti di potere consolidati». Il divenire del corpo ha infatti «a che vedere con la tecnologia, con la capacità di trasformare la materia e i suoi stati»; esso è luogo di sperimentazione di tecnologie e pratiche sociali che non solo lo «disciplinano», ma lo rendono campo privilegiato di ogni sperimentazione; non ultimo quale luogo di ridefinizione di un costrutto identitario fluido, conflittuale rispetto a tutti i processi di normazione in atto all’interno delle dinamiche di trasformazione sociale «identitario-consumista» (dove le identità si identificano nei consumi e sono oggetto di consumo esse stesse).

Al rischio, alla flessibilità, alla mobilità corrispondono perciò sia l’indebolimento dei legami collettivi, sia il darsi di reticolarità di esperienze che compongono la costituzione dei soggetti. Nella metamorfosi del modo di produzione, tra il fordismo disciplinare e il postfordismo caratterizzato da una forte mobilità e flessibilità, la questione dell’insicurezza si mostra quale tratto specifico dell’esistenza [Beck 2000a; 2000b; Giddens 1994; 2000]. Sennett spiega ciò molto bene, laddove sottolinea come la condizione problematica della personalità nel capitalismo odierno non sia data dalla mancanza di storia (al contrario), bensì dalla difficoltà di condividere le incertezze, l’insicurezza complessiva, il rischio – quel rischio che penetra gli individui e le stesse istituzioni politiche, le quali non possono più alimentarsi, parassitariamente, di una legittimità forfetaria, data una volta per tutte entro la cornice politico-nazionale.

Si può pensare a questo venir meno, in termini benjaminiani, come a una sorta di «nuova barbarie», nel senso che non si può che «ricominciare da capo», «iniziare dal nuovo». Ma nella «corrosion of character» di cui parla Sennett, ha luogo anche un processo di familiarizzazione di un orizzonte di incertezza, che non concerne più, come sosteneva Benjamin negli anni Trenta, «le migliori “teste”», «qua e là», ma quella moltitudine che vive l’espropriazione del massimo di potenza di cooperazione, di produzione di sapere e di saper fare sociale che è stato possibile raggiungere. Non è detto che la messa al lavoro di ciò che è «comune», intelletto e linguaggio, disegni un soggetto completamente assorbito da una sorta di personalizzazione della dipendenza, tale da rendere completamente «disponibile» l’esistenza generica di ciascuno. L’individuo, «lungi dall’assumere i tratti di un dato di fatto autoevidente e chiaramente delimitabile, si presenta come una transizione di fase, una singolarità, si potrebbe dire utilizzando il linguaggio deleuzeano, interna a un campo di forze». In tale operazione egli si mostra sempre in relazione con un ambiente, con una riserva di potenza preindividuale. La sua mente è caratterizzata dall’essere insita, immanente «alla più vasta rete di canali comunicativi, messaggi, informazioni e rappresentazioni esistenti all’esterno del corpo individuale. Lo stesso concetto di “individuo” deve essere pertanto ridefinito (anche dal punto di vista evoluzionistico) come “individuo-nel-suo-ambiente”». Non solo. Ancor prima, tale ridefinizione è legittimata in quanto si svincoli del tutto da una struttura sociale prescrittiva, in cui il genere è strettamente collegato a modelli di dominio e subordinazione, e contempli perciò il genere stesso «come categoria fondamentale della realtà, della percezione sociale, culturale, storica».

Non ci sono più saggi o maestri che possiedano come talento la propria vita da «narrare fino in fondo» a chi non ha «consiglio». Quest’ultimo è ormai un complesso di «istruzioni per l’uso», incessantemente rivisto e rinnovato: al «barbaro» benjaminiano succede un «comune» postfordista, sicuramente ingabbiato, ma in ogni modo dotato di una frastagliata esperienza dei confini, della mutabilità delle «chiavi d’accesso», della mobilità/trasformabilità dei costrutti identitari. Questo «comune» può essere raffigurato, ancora, come una sorta di «barbaro», ma equipaggiato tecnologicamente, ricco di competenze sempre diverse, che tenta di dare un senso soggettivo alla sua mobilità attraverso i terminali applicativi, sempre più «retificati», del sapere sociale generale, della potenza complessiva degli «agenti», dello stesso stato della scienza e della tecnologia, riscoprendo in tutto ciò il protagonismo del lavoro vivo, dunque dell’intellettualitàdi massa.


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Immagine: Marcello Panni, Encore!
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Adelino Zanini, è professore di Filosofia politica all’Università di Ancona. Tra i suoi libri più recenti: Adam Smith. Economia, morale, diritto (1998), Macchine di pensiero. Schumpeter, Keynes, Marx (1999), J. A. Schumpeter. Teoria dello sviluppo e capitalismo (2000), Retoriche della verità (2004). Con Ubaldo Fadini ha curato Lessico postfordista (2012). 
Ubaldo Fadini, insegna attualmente alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Firenze. È autore di Il corpo imprevisto. Filosofia, antropologia e tecnica in Arnold Gehlen, Milano, 1988; Configurazioni antropologiche. Esperienze e metamorfosi della soggettività moderna, Napoli, 1991; Deleuze plurale. Per un pensiero nomade, Bologna, 1998. Ha pubblicato inoltre numerosi saggi sulla filosofia del Novecento e ha curato la raccolta di colloqui tra Adorno, Canetti, Gehlen, Desiderio di vita.

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