Print Friendly, PDF & Email

carmilla

La guerra e il lato oscuro dell’Occidente

di Fabio Ciabatti

lato oscuroI. Il nemico esterno

E ci risiamo. Mondo libero contro autocrazia, bene contro male. L’orso sovietico si è estinto ma è stato sostituito da una specie di predatore se possibile ancora più pericoloso, la Russia di Putin. Ma stiamo davvero assistendo al remake della guerra fredda? In realtà la ripetizione porta con sé una significativa variazione. Il nemico attuale ha un carattere diverso da quello passato. Se l’Unione Sovietica rappresentava un’alterità reale rispetto al mondo occidentale, la Russia di Putin può essere caratterizzata come il versante osceno del nostro mondo. O, per dirla in altro modo, la cosiddetta democratura putiniana può essere considerata come il lato oscuro della postdemocrazia occidentale (quest’ultima intesa, sulla scia di Colin Crouch,1 come un sistema che è svuotato progressivamente da ogni reale possibilità di partecipazione collettiva alle decisioni politiche, lasciando in vita le sole procedure formali della democrazia). Per questo il rapporto con il nemico oggi dà luogo ad una dinamica differente per quanto riguarda la costituzione della soggettività occidentale. Se in passato il confronto con nemico venuto dall’Est aveva avuto degli esiti per certi versi positivi nei paesi a capitalismo avanzato, oggi assistiamo ad una dinamica sostanzialmente regressiva. Partendo da questo punto di vista, la riflessione che segue non ha come obiettivo quello di stabilire chi ha torto e chi ha ragione nell’attuale guerra o come andrà a finire il conflitto. Vuole essere soprattutto un ragionamento sugli effetti della guerra sull’immaginario occidentale.

Ciò nonostante, dovendo parlare del rapporto con il nemico bisognerà per prima cosa fare alcune considerazioni sulla sua natura che, senza pretesa di esaustività, saranno utili per approfondire successivamente il filo principale del nostro ragionamento e che, al tempo stesso, serviranno a sgomberare il campo da alcuni dei più diffusi luoghi comuni della propaganda bellicista dell’Occidente. Il primo pregiudizio implicito nella narrazione occidentale è che la Russia post-sovietica si era incamminata verso l’economia di mercato e la democrazia durante gli anni di Yeltsin, ma che questo processo è stato invertito a causa di Putin. Insomma, l’unico russo buono è un russo ubriaco! In realtà gli anni di Yeltsin furono un disastro completo: tra il 1991 e il 1995 il PIL crollò di poco più di un terzo, mentre tra il 1991 e il 1994 l’aspettativa di vita tra gli uomini precipitò di 5 anni, solo per citare alcuni dati clamorosi. Per quanto riguarda la democrazia basterà ricordare il bombardamento del parlamento russo che si opponeva ai voleri di Yeltsin nel 1993.

Considerando questi antefatti, Tony Woods nel suo testo Russia Without Putin, da cui prenderemo molti spunti nelle righe che seguono, sostiene che “L’autoritarismo per il quale Putin è ampiamente criticato non è il prodotto di una sinistra preferenza personale, ma piuttosto una caratteristica integrante del sistema che ha ereditato e ha continuato”.2 Gli anni Novanta e gli anni Duemila devono dunque essere visti come due fasi nell’evoluzione dello stesso sistema: nel prima turbolento periodo si assiste alla distruzione del sistema sovietico e all’installazione di un nuovo ordine capitalistico, nel secondo si verifica processo di stabilizzazione e consolidamento in cui il nuovo modello si radica in profondità nel tessuto socioeconomico del Paese. La priorità, però, è sempre rimasta la difesa del capitalismo, come dimostra il fatto che Putin, nel corso dei suoi mandati, ha introdotto molti provvedimenti di stampo neoliberale: flat tax sul reddito al 13%, tagli di tasse per il capitale privato, codice del lavoro con il ridimensionamento dei diritti dei salariati, accrescimento del ruolo dei privati nell’educazione, nella sanità e nel settore immobiliare, trasformazione di servizi sociali in pagamenti in denaro.

In altri termini il sistema politico russo si è sviluppato dalla contraddizione tra i suoi dichiarati obiettivi democratici e la mancanza di un supporto popolare per il suo programma di trasformazione verso il libero mercato. Anche Putin non ha mai negato il principio democratico in sé, ma ha sostenuto che va declinato sulla base della specificità russa. Di fatto, la sovranità popolare è stata sacrificata ogni volta che è entrata in contraddizione con le necessità della transizione capitalistica. Se tra democrazia e capitalismo si sviluppa un rapporto contraddittorio non altrettanto si può dire a proposito della relazione tra i principi dell’economia neoliberale e la logica statalista. In questo caso si può parlare di due impulsi paralleli che ispirano la gestione putiniana del potere. È fuori di dubbio che lo stato sotto Putin abbia riguadagnato il controllo sulle leve fondamentali dell’economia nazionale, a cominciare dal controllo sulle risorse naturali, in particolare petrolio e gas. Ma questo significa che abbiamo assistito ad un ribaltamento della dinamica che vedeva il capitale privato utilizzare lo stato per il suo profitto a favore di un processo in cui lo stato si serve del capitale privato per perseguire le sue politiche di potenza? Probabilmente le cose sono un po’ più complesse. Il rapporto tra potere e ricchezza nella Russia post-sovietica è stato sempre molto stretto, quantomeno perché il capitalismo è iniziato con la vendita a prezzi di saldo da parte dello stato di pezzi dell’economia pianificata. Se all’inizio i principali beneficiari sono stati i cosiddetti outsider (persone prive di significativi rapporti con l’élite economico-politica sovietica) che hanno prosperato principalmente nei settori della finanza, dei media e dell’industria leggera, con l’inizio del nuovo millennio, complici la crisi finanziaria del 1998, la crescita dei prezzi delle commodities e il consolidamento dello stato, a emergere come vincitori sono stati gli insider che controllavano l’industria delle materie prime.

Insomma, ciò che è cambiato con Putin sono state le fonti della ricchezza, l’identità dei suoi possessori individuali e i metodi per mantenerla e estenderla. “Dopo il 2000, i termini del rapporto tra stato e ricchezza privata hanno cominciato a cambiare, ma l’impegno dello stato nei confronti del principio del guadagno privato – e delle enormi disuguaglianze che ha generato – no”.3 C’è stata una sempre maggiore convergenza nelle logiche e nelle pratiche dello stato e del settore privato dell’economia. Molte persone provenienti dal settore del business entravano nella sfera del governo mentre il settore privato reclutava i suoi dirigenti tra le fila dei funzionari governativi. È dunque emersa una élite ibrida capace di attraversare facilmente due domini formalmente separati, quello della politica e quello dell’economia privata. La promiscuità tra un capitale privato sempre più centralizzato e un potere statale che ha ristabilito la “verticale del potere” ha dato luogo a un sistema fortemente oligarchico in cui la democrazia diventa una forma sempre più svuotata di contenuto: democrazia gestita, democrazia sovrana, democrazia per imitazione, democratura sono le varie definizioni che se ne sono date (le prime due dagli stessi ideologi del Cremlino).

Sottolineare i momenti di continuità tra gli anni Novanta e i Duemila non significa però ignorare che la Russia di Putin sia stata protagonista di un progressivo slittamento ideologico che ha incentrato la sua rinnovata identità nazionale su alcuni princìpi di stampo conservatore, se non propriamente reazionari: Stato, sovranità, autocrazia, ortodossia, patriottismo, militarismo, famiglia tradizionale e status di grande potenza. In particolare, la difesa dei valori cristiani e tradizionali, è nato in opposizione a quello che viene considerato il declino morale dell’Occidente e al relativismo culturale dell’Europa. Per certi versi il nemico non è tanto l’Occidente in quanto tale ma la sua degenerazione postmoderna, come testimonia la crociata anti LGBT.

Questa dinamica non è una novità nella storia russa, sostiene Luca Gori nel suo saggio La Russia eterna,4 perché il conservatorismo ha sempre accompagnato il percorso di sviluppo della Russia, offrendole un “rifugio” ogni qual volta si è sentita minacciata dall’esterno o messa sotto pressione da spinte riformiste interne di segno “eccessivamente” liberale. La “svolta conservatrice” della Russia andrebbe dunque letta come un riflesso ricorrente e difensivo, come la ricerca di una risposta tranquillizzante alla sensazione di una minaccia esistenziale o al rischio di un cambiamento troppo radicale.

Questa natura difensiva della identità ideologica della nuova Russia è confermata dal rapporto particolare che la lega al suo nemico. La ricerca post-sovietica di una nuova identità nazionale, nota Gori, ha individuato negli Stati Uniti l’”altro” dalla Russia: gli USA, più che l’Europa, sono stati il termine di paragone per valutare la bontà del proprio percorso e l’interlocutore privilegiato per vedersi riconosciuto lo status di grande potenza. Per molto tempo l’élite post-sovietica, Putin compreso, ha aspirato ad un’alleanza o anche a un’integrazione con l’Occidente. Il confronto, però, è diventato scontro perché le reciproche aspettative si sono dimostrate irrealistiche.

Da un lato, quella russa di vedersi riconosciuta – in cambio dell’adesione alle regole del gioco occidentale – una “partnership egualitaria” con Washington e una sorta di “sfera di influenza” nello spazio ex sovietico. Dall’altro, quella di Stati Uniti ed Europa per cui la Russia, sconfitta dalla Storia, fosse ormai pronta a svestire gli abiti imperiali per diventare un Paese “normale”, una democrazia liberale secondo i canoni del paradigma impostosi nel post Guerra fredda.5

Il risultato è stata l’impossibilità di conciliare due forme diverse di “eccezionalismo”: da una parte, l’aspirazione universalistica americana a sostegno della diffusione universale di libertà e democrazia e, dall’altra, l’ispirazione conservatrice a difesa di ordine, stabilità, equilibrio multipolare e di una missione speciale della Russia ortodossa.

Da un punto di vista ideologico, il richiamo all’ortodossia può però costituire una debolezza perché condanna la Russia a oscillare tra “particolarismo” e “universalismo”, tra il riconoscimento del diritto di ciascun popolo alla propria specificità in un mondo multipolare e l’attribuzione a Mosca di una missione unica, rivolta a tutti i Paesi. Una seconda possibile mancanza è costituita dal fatto che Mosca si è proposta come una potenza a difesa dello status quo che enfatizza i principi di sovranità e di non ingerenza negli affari interni in opposizione alla freedom agenda statunitense.

Queste debolezze, insieme ad una sproporzione di mezzi materiali rispetto ai suoi competitor, hanno determinato il fatto che la Russia post-sovietica difficilmente sia riuscita a presentarsi come una potenza in grado di esercitare un ruolo egemonico. Putin non è in grado di offrire un progetto di sviluppo attrattivo per le classi e le nazioni subalterne. Priva di soft power ha deciso alla fine di fare ricorso all’hard power della sua potenza militare. I successi degli anni passati della politica internazionale di Mosca sono non a caso il frutto di una maggiore prontezza e spregiudicatezza che la forte concentrazione del potere politico consente, anche in campo militare, alla Russia. Ma si può sostenere che questi successi, più che essere frutto di una strategia compiuta, siano dovuti a reazioni estemporanee a situazioni critiche che, in ultima istanza, hanno creato effetti opposti a quelli desiderati. Di qui la spericolata fuga in avanti rappresentata dall’invasione dell’Ucraina che si sta trasformando in una guerra di lunga durata rischiosissima per le sorti della Russia.

In estrema sintesi, “il capitale e lo stato della Federazione Russa sono predatori (come tutti i capitali e tutti gli stati capitalistici), ma predatori di ‘secondo rango’” perché sono incapaci, a differenza degli Stati Uniti, di manipolare gli altri attori del processo economico e politico mondiale imponendo le proprie “regole del gioco” a livello globale.6

Da un punto di vista strutturale, seguendo gli autori appena citati, si può definire la Russia un capitalismo semi-periferico nato da un’incompleta trasformazione dell’economia pianificata sovietica che ha dato luogo a un sistema di transizione estremamente contraddittorio, non organico, ma al tempo stesso relativamente stabile. Un sistema caratterizzato dal dualismo tra una sfera integrata nel sistema capitalistico mondiale e una contraddistinta da un’ampia gamma di forme pre-borghesi o da rimanenze di ordinamenti sovietici. Nonostante il consolidamento dei rapporti di produzione capitalistici, l’economia russa è ancora deindustrializzata rispetto all’epoca sovietica e per questo fortemente dipendente dall’esportazione di materie prime ed energetiche, ha istituzioni finanziarie sottodimensionate rispetto ai competitor internazionali, non esporta capitali in misura significativa se non nella forma di ricchezze private alla ricerca di paradisi fiscali, è piagato da una corruzione e una burocratizzazione endemiche.

In conclusione, la Russia non può essere considerata una potenza imperialistica, almeno non nel significato che a questo termine viene attribuito da una classica analisi marxiana. Ciò, come risulta ovvio dall’invasione dell’Ucraina, non esclude che possa perseguire progetti di restaurazione della sua passata grandezza imperiale e praticare politiche di aggressione nei confronti di stati e capitali più deboli. Ma, aggiungiamo, proprio per il suo carattere di predatore di secondo rango, sembra davvero eccessivo considerare la Russia “la minaccia più diretta all’ordine mondiale con la guerra barbara contro l’Ucraina”, come ha sostenuto Ursula von der Leyen. Ingigantire il pericolo rappresentato dal nemico può essere una mera mossa propagandistica, ma può anche essere una spia di debolezza. E se l’“aggressione barbara” più che una minaccia all’“ordine internazionale” fosse un sintomo della sua crisi già in atto?

 

II. Il nemico interno

Ogni guerra si combatte anche sul fronte interno. Occorre mettere a tacere il nemico che può indebolire la compattezza delle nostre fila. In effetti anche la Russia di Putin aveva le sue “quinte colonne” in Occidente, l’arcipelago di formazioni reazionarie sovraniste. Un universo che potremmo utilmente definire post-fascista (includendo anche formazioni come la Lega che storicamente non provengono dal mondo fascista). Il presidente russo aveva creduto di poter utilizzare queste formazioni per indebolire e disarticolare il fronte opposto, pensando che si trattasse di possibili nemici interni dell’occidente liberale e democratico. Molti estimatori occidentali di Putin, però, nel momento dello scontro militare si sono affrettati a prendere le distanze dal loro vecchio idolo o hanno mantenuto un profilo basso, tale da non disturbare troppo le manovre belliche dei loro rispettivi Paesi, anche se, aggravandosi le conseguenze socioeconomiche della guerra, le voci critiche nei confronti dell’atlantismo prenderanno fiato, comprese quelle filoputiniane. Voltafaccia e opportunismi non devono sorprendere perché i presunti nemici interni dell’Occidente, che si rispecchiavano nella cosiddetta democratura putiniana, hanno in realtà un legame profondo anche se occulto con il mondo liberale e democratico. Per capire questo punto facciamo un rapido riferimento alla guerra fredda.

Dopo la Seconda guerra mondiale, la minaccia rappresentata dall’alterità esterna, l’Unione Sovietica, convergeva oggettivamente con quella proveniente dall’interno, la classe operaia, anche se soggettivamente i loro obiettivi potevano essere ben differenti. Almeno a livello dell’immaginario, il comunismo rappresentava effettivamente, come si direbbe oggi, un altro mondo possibile, a dispetto della natura autoritaria del socialismo reale. Nemico esterno e nemico interno costituivano un pericolo reale per l’Occidente capitalistico che non poteva combattere sul fronte esterno senza proporre una tregua su quello interno (e viceversa). Una tregua, non una pace, che comportava la possibilità di significative concessioni, compatibili con l’ordine capitalistico, tali da raffreddare lo scontro di classe. Non sempre il gioco è riuscito. Il conflitto sul fronte interno si è talvolta spinto oltre i confini ritenuti compatibili con il sistema capitalistico e anche al di là dei limiti posti dall’ordine di Yalta e dai suoi custodi: l’insorgenza operaia degli anni ’60 e ’70 in Italia, per esempio, si scontrò non solo contro la feroce repressione statale e “parastatale”, ma anche con il Partito Comunista Italiano.

Sta di fatto che la pressione proveniente dal nemico interno e da quello esterno ha costretto il mondo occidentale ad una parziale ridefinizione. Sul piano politico, il pensiero liberal-democratico nasce dal confronto/scontro con il comunismo. Liberalismo e democrazia nascono esplicitamente come due termini oppositivi, diventano un connubio inscindibile durante la guerra fredda, tornano implicitamente a separarsi durante l’epoca neoliberale. Sul piano economico, il pensiero liberale nasce all’insegna del laissez faire demonizzando l’intervento statale, ma finisce per accettarlo come strumento subordinato all’accumulazione capitalistica perché considerato capace di salvare il mercato stesso dai suoi fallimenti e dai suoi eccessi. Dopo il crollo del muro di Berlino l’ideologia neoliberale pretende nuovamente di sciogliere le “magnifiche sorti e progressive” del libero mercato dai “lacci e lacciuoli” dell’intervento statale. In altri termini il confronto con l’Unione Sovietica, in un contesto di accumulazione capitalistica sostenuta, ha portato dei benefici alle classi popolari dei paesi capitalisticamente più sviluppati che, attraverso un aspro conflitto, sono riuscite ad ampliare i diritti democratici e sociali. Per civettare con un linguaggio dialettico, la presenza di un’antitesi reale richiedeva la parziale assimilazione delle sue istanze nella riproposizione modificata della tesi. Scomparsa l’antitesi, con la dissoluzione dell’URSS e l’indebolimento della classe operaia, abbiamo assistito alla pretesa fine della storia. Non c’era più necessità di cambiamento qualitativo. Si poteva dare un solo tipo di movimento: la riproduzione allargata del medesimo. O almeno così ce l’hanno raccontata.

Oggi la minaccia esterna, la Russia, non solo appare più debole rispetto a quella rappresentata dallo stato sovietico, ma rimanda anche a un nemico interno fantoccio, quel populismo nel cui versante di destra, come si diceva, si trovavano i principali estimatori di Putin. Autoritarismo, gerarchia, ordine, xenofobia, identitarismo, nazionalismo, sessismo, plebiscitarismo, tradizionalismo di stampo religioso, potere carismatico sono senz’altro elementi che il postfascismo populista eredita dai suoi progenitori novecenteschi e condivide con il revanchismo russo. Da un punto di vista politico, però, il postfascismo non contesta la democrazia parlamentare, anche perché, nella sua forma tendenzialmente dominante, la post-democrazia, assume tratti sempre più autoritari, tali da non essere troppo sgraditi neanche all’amico russo. Anche il modello antropologico neoliberale, quello che mette il libero individuo al centro soltanto per imporgli di organizzare la vita come un’attività imprenditoriale, non è messo seriamente in discussione. Difficilmente il postfascismo, al pari del putinismo, può proporre una critica frontale all’ideologia del mercato di stampo neoliberista, anche se si oppone alla globalizzazione, alle politiche neoliberiste dell’Unione Europea, all’euro. Ciò, infatti, non avviene in nome di una richiesta di maggior intervento pubblico nell’economia, ma al massimo di un ritorno ai mercati e alle monete nazionali, confidando nel fatto che questo ritorno, insieme al blocco dei flussi migratori, consenta una maggiore protezione sociale e una maggiore distribuzione della ricchezza a favore degli autoctoni.7

Tutto ciò non presagisce alcun ritorno di forme comunitarie, per quanto reazionarie. A ben vedere quando si parla di cultura autoctona messa in pericolo dall’invasione degli immigrati quello che si ha in mente sono modelli di consumo, al massimo rituali di consumo, cioè riti collettivi contraddistinti da una “relazione senza desiderio” tra i suoi partecipanti perché il desiderio è rivolto completamente verso lo sfavillante mondo delle merci. Anche quando si evocano le radici cristiane, il primo rituale collettivo che viene in mente è probabilmente lo shopping natalizio, non la messa di mezzanotte. Più Babbo Natale che Gesù bambino, insomma. La “fantasia di separazione” nei confronti dell’alterità rappresentata dagli immigrati è l’altra faccia dall’isolamento già esistente nei confronti di coloro che sono percepiti come i propri simili, i propri connazionali.8

Ciò non toglie che proprio la mancanza di un senso comune d’identità, di un sentimento condiviso di appartenenza possa rappresentare il brodo di cultura per l’emersione di pulsioni compensatorie di stampo autoritario e xenofobo.

Si tratta però, di attitudine sostanzialmente reattiva, non diversamente da quella che ha ispirato il conservatorismo russo dell’epoca putiniana, priva di quell’impeto modernista e a suo modo utopico proprio dei fascismi storici. Il “pessimismo nostalgico” ha sostituito quel misto di slancio vitalistico e pulsioni di morte che implicava anche il sacrificio estremo dell’individuo nel nome della patria perché l’unica libertà concepibile era la libertà dello stato e dell’individuo nello stato. Oggi è la libertà di consumo ad essere riconosciuta l’unica cosa seria, imprescindibile, anche dai nostalgici dei bei tempi andati. Oggi al massimo possiamo fare il tifo, a distanza, per gli ucraini che si sacrificano per la loro indipendenza. Abbiamo esternalizzato anche “la bella morte”.

Insomma, i movimenti populisti e postfascisti contemporanei non costituiscono una reale minaccia per il mondo occidentale, almeno non nel senso che ne mettano a rischio i fondamenti ultimi. Essi rappresentano piuttosto l’altra faccia di questo mondo. Sono quelli che dicono e fanno ciò che l’élite liberale non può esprimere esplicitamente, almeno al momento. Salvo poi recuperare in modo politically correct le stesse oscure pulsioni: non siamo razzisti ma … non possiamo accoglierli tutti e perciò, nostro malgrado, adottiamo politiche razziste con un tocco di umanitarismo. Aiutiamoli a casa loro con un po’ di cooperazione internazionale non governativa, ma intanto blocchiamoli alle frontiere.

Con il suo solito gusto per il colpo ad effetto, Zizek in uno scritto di qualche anno fa paragonava l’atteggiamento dei nostri governanti di fronte alla “minaccia immigrazione” all’“antisemitismo ragionevole” che Robert Brasillachs nel 1935 riteneva necessario per arginare le azioni sempre imprevedibili dell’antisemitismo istintivo.

Dopo aver virtuosamente respinto il razzismo populista come “irragionevole” e inaccettabile, considerati i nostri standard democratici, essi assumono delle misure protettive razziste “ragionevolmente … Come dei Brasillachs di nostri giorni alcuni di loro, persino i socialdemocratici, ci dicono “… Non vogliamo uccidere nessuno, non vogliamo organizzare nessun pogrom. Ma pensiamo anche che il modo migliore per impedire le azioni sempre imprevedibili di violente proteste contro gli immigrati è organizzare una protezione contro gli immigrati”.9

Con la guerra in Ucraina abbiamo aggiunto una nuova figura alla galleria della barbarie dal volto umano, quella del nazismo ragionevole. Il nazismo che dobbiamo aiutare in Ucraina per proteggerci dal nazismo folle e imprevedibile di Putin. Sia ben chiaro, la denazificazione dell’Ucraina come obiettivo proclamato dal presidente russo assomiglia ad una battuta di pessimo gusto, considerati il suo profilo ideologico e i suoi legami con la peggiore feccia di estrema destra in giro per il mondo. Ciò detto, la questione dei nazisti dell’Ucraina va presa seriamente. Tra le varie baggianate della propaganda di guerra occidentale c’è la barzelletta che la Russia non poteva tollerare l’esempio di un paese democratico che si stava sviluppando ai suoi confini.

In realtà la differenza tra il capitalismo oligarchico-burocratico russo e quello ucraino prima della seconda Maidan consisteva solo nel fatto che nel primo c’era un maggior grado di centralizzazione economico e politica mentre nel secondo c’era un vero e proprio campo di battaglia tra gruppi di oligarchi che si battevano per il potere. Dopo il 2014, in Ucraina ha preso definitivamente il sopravvento la cordata filoccidentale. Ciò, però, non ha significato l’approfondimento di una reale dinamica democratica, ma il venir meno di un confine politico e ideologico istituzionalizzato tra l’ala liberale della società civile e l’estrema destra, come ha sostenuto il sociologo ucraino Volodymyr Ishchenko. La piattaforma politica delle formazioni di ispirazione nazista è stata integrata nel programma di governo. Rivendicazioni che prima di Maidan erano considerate estremamente radicali sono entrate nel dibattito pubblico come perfettamente accettabili, a dispetto dei risultati elettorali risibili delle formazioni di estrema destra. Allo stesso tempo un’ampia gamma di posizioni politiche sostenute da molti ucraini, etichettate come “narrazioni filo-russe”, è stata sottratta la possibilità di essere pubblicamente rappresentata attraverso aggressive campagne di opinione, violenze vere e proprie, messa fuori legge di partiti e media di opposizione.10 Quella che in Occidente è una segreta convergenza tra estrema destra e liberali, in Ucraina è diventata manifesta solidarietà, con tanto di benedizione da parte delle democrazie atlantiste.

In conclusione, di questa seconda parte, torniamo in Italia per notare che oggi assistiamo a una divaricazione, mai stata così forte, tra sistema politico mediatico, completamente schierato su posizioni filo-atlantiste e belliciste, e opinione pubblica orientata largamente su posizioni quantomeno scettiche riguardo al nostro coinvolgimento nella guerra. L’assenza di un’alterità reale, esterna e interna, che poteva apparire una situazione ideale per la nostra classe dominante, ha in realtà portato alla sclerotizzazione di un sistema che ha prodotto una situazione davvero paradossale. Oggi, infatti, abbiamo un sistema che esercita un’egemonia pervasiva sull’immaginario collettivo ma al tempo stesso risulta incapace di metterla a profitto per creare un consenso diffuso in un tornante storico decisivo. Il paradosso si potrebbe spiegare con il carattere essenzialmente negativo di questa egemonia. “There is no alternative” è la sua cifra dominante. Non ci sono possibilità diverse da un mondo in cui la società cessa di essere qualcosa di reale perché esistono sono gli individui (e le loro famiglie) in competizione fra di loro. Ci dovremmo dunque sorprendere se, quando si presenta la necessità, si fa sempre più fatica a orientare questi stessi individui verso un progetto collettivo, fosse anche quello di affrontare un presunto nemico?

Per molto tempo l’Occidente si è illuso che non sarebbe più esistito un nemico alla sua altezza. Il terrorismo internazionale è apparso come un fantasma evocato a bella posta che andava soltanto esorcizzato. Per affrontare un nemico che rappresenta una minaccia reale, invece, bisogna per prima cosa capirlo e questo significa distruggere i cliché che lo riguardano senza cancellarne l’alterità. Un sistema che è in grado di fare ciò ha al suo interno risorse materiali e ideali che gli consentono di modificarsi e di evolversi nel corso del conflitto. Nulla di tutto questo sembra prospettarsi all’orizzonte. Se l’opposizione che oggi si manifesta solo nei sondaggi di opinione divenisse movimento reale potrebbero venire alla luce i demoni più oscuri di un sistema. In questo caso è così peregrino ipotizzare che la nostra classe dominante finirebbe per prendere sempre di più a modello la tanto esecrata Russia di Putin?


Note
1 Colin Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2005.
2 Tony Wood. Russia Without Putin: Money, Power and the Myths of the New Cold War, Verso Books, London 2020, edizione Kindle, p. 5 (traduzione nostra). Dello stesso autore si veda anche Matrix of war, in New Left Review, n. 133/134, January/April 2022.
3 Ivi. p. 5.
4 Luca Gori, la Russia eterna. Origini e costruzione dell’ideologia post sovietica, Luiss University Press, Roma 2021. vi, p. 52-53, edizione Kindle.
5 Aleksandr Buzgalin, Andrey Kolganov, Olga Barashkova, “Russia: A New Imperialist Power?” in Boris Kagarlitsky, Radhika Desai, Alan Freeman (a cura di), Russia, Ukraine and Contemporary Imperialism, Routldge, London-New York. p. 169, edizione Kindle.
6 Aleksandr Buzgalin, Andrey Kolganov, Olga Barashkova, “Russia: A New Imperialist Power?” in Boris Kagarlitsky, Radhika Desai, Alan Freeman (a cura di), Russia, Ukraine and Contemporary Imperialism, Routldge, London-New York. p. 169, edizione Kindle.
7 Su questi temi cfr. Enzo Traverso, I nuovi volti del fascismo, Ombre Corte, 2017, pp. 141, € 13,00 e la nostra recensione qui.
8 Per i concetti di relazione senza desiderio e fantasia di separazione cfr. Achille Mbembe, Nanorazzismo. Il corpo notturno della democrazia, Laterza, Bari 2019.
9 Slavoj Zizek, Dalla tragedia alla farsa. Ideologia della crisi e superamento del capitalismo, Ponte alle Grazie, Milano 2010, p. 65.
10 Volodymyr Ishchenko, “Towards the abyss”, in New Left Review, n. 133/134, January/April 2022.

Add comment

Submit