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L’ordo-liberalismo e il «77-pensiero»

di Leo Essen

77I

Per il 1978-79 Foucault aveva deciso di tenere un Corso sulla Biopolitica. Nel résumé del corso, redatto per l’Annuaire del Collège de Francei résumés sono gli unici testi riguardanti i corsi resi pubblici dallo stesso autore – Foucault dice quanto segue: In origine il tema stabilito per il corso era la Biopolitica, termine con il quale intendevo fare riferimento al modo con cui si è cercato, dal XVIII secolo, di razionalizzare i problemi posti alla pratica governamentale dai fenomeni specifici di un insieme di esseri viventi costituiti in popolazione: salute, igiene, natalità, longevità, razze. È noto quale spazio crescente abbiano occupato questi problemi a partire dal XIX secolo e quali poste politiche ed economiche abbiano costituito sino a oggi.

Nel Corso, contrariamente a quanto annunciato dal titolo, Foucault non si occuperà direttamente della biopolitica. E ciò in quanto, dice, mi è sembrato che la biopolitica non potesse essere dissociata dal quadro della razionalità politica entro cui sono apparsi e hanno assunto il loro rilievo, vale a dire il «liberalismo».

Il liberalismo tedesco della scuola di Friburgo, raccolto intorno alla rivista Ordo – da qui ordo-liberalismo o neo-liberalismo – e il neo-classicismo economico austriaco (soprattutto Mises e Hayek) sono al centro dell’analisi.

Foucault si avvicina a questo tema con tutta la cautela che gli è propria. Il liberalismo, dice, non è una teoria, non è un’ideologia, non è un modo di rappresentarsi, non è una rappresentazione, non è una tecnica del governo, governo inteso in quanto istituzione o momento istituzionale. Il neo-liberalismo è una pratica di governo, se si intende per pratica un modo di fare e di comportarsi, un modo di agire che non è un praticismo, che non esclude un intento teorico ma che non si riduce alla mera teoria o a una teorizzazione su una presunta pratica – è una pratica-teorica di governo delle popolazioni.

Il tipo di governo neo-liberale si afferma distinguendosi dallo Stato di Polizia. La governamentalità neo-liberale non è uno stato di polizia.

Fatte queste brevissime premesse, ciò che è davvero interessante in questo Corso è la netta, decisiva, e forse definitiva presa di posizione (la svolta) di Foucault contro il pensiero della Differenza.

Attraverso l’analisi dell’ordo-liberalismo Foucault prende di mira, considerandola come un male, ciò che battezza Teologia negativa dello Stato.

Tutti, dice Foucault, sono d’accordo sul fatto di criticare lo Stato, di individuarne gli effetti distruttivi e nocivi. Si tratta, dice, di una critica anche confusa, visto che si trova formulata da Sombart a Marcuse, senza troppe differenze. Ciò che l’ordo-liberalismo vuole far passare è una formalizzazione generale dei poteri dello Stato e dell’organizzazione della società a partire da un’economia di mercato. Il mercato dovrà effettivamente avere un potere di formalizzazione sia in relazione allo Stato, sia rispetto alla società. È questo, dice, il problema importante, decisivo, del liberalismo attuale, ed è per questa ragione che esso rappresenta, rispetto ai progetti liberali tradizionali, quelli che abbiamo visto nascere nel XVIII secolo, una mutazione assolutamente importante.

Non si tratta semplicemente di lasciare libera l’economia – dice Foucault. Il problema, dice, è di sapere fino a che punto potranno estendersi i poteri d’informazione politici e sociali dell’economia di mercato. È questa la vera posta in gioco. E per rispondere che sì, l’economia di mercato può effettivamente informare lo Stato e riformare la società gli ordoliberali hanno operato un rovesciamento della dottrina liberale tradizionale.

In Sombart, e in realtà già a partire dal 1900, dice Foucault, si trova una critica che è diventata ai nostri giorni (1978) uno dei luoghi comuni di un pensiero di cui non sappiamo molto bene quale sia l’articolazione e l’ossatura, ovvero una critica della società di massa, della società dell’uomo a una dimensione, della società dell’autorità, della società dei consumi, della società dello spettacolo ecc.

Queste accuse di Foucault sono pesanti.

L’attacco a uno Stato di tipo pianificato – l’allusione è al Welfare State e alle politiche keynesiane improntate soprattutto al piano Beveridge -, attacco condotto in maniera anche confusa, viene dai teorici della Società dello spettacolo, dai teorici della Scuola di Francoforte, e in generale dalla sociologia, dalla critica della società di massa, della società dell’Uomo a una dimensione, della società autoritaria, della società dei consumi, della società di massa. Ciò che questi teorici hanno preso di mira è la tecnicizzazione della gestione statale del controllo, la tecnicizzazione della società, eccetera. I temi sono noti e non mi dilungo.

In questa critica generalizzata dello Stato-piano, dice Foucault, vengono presi per liquidarli insieme sia quello che accade in URSS, sia ciò che avviene in USA. Anche in questo caso si tratta di una decostruzione dello Stato che ha a che fare con l’ambiente ordo-liberale – Foucault fa allusione a Introduzione alla Metafisica, dove appunto Heidegger mette nello stesso calderone Usa e URSS e dice che l’Europa, quest’Europa in preda a un inguaribile accecamento, sempre sul punto di pugnalarsi da se stessa, si trova oggi (1935) nella morsa della Russia, da un lato, e dell’America dall’altro. Russia e America rappresentano entrambe, da un punto di vista metafisico, la stessa cosa: la medesima desolante frenesia della tecnica scatenata e dell’organizzazione senza radici dell’uomo massificato.

Heidegger tiene il corso riportato in Introduzione alla metafisica a Friburgo nel 1935. Del 1936 è il Manifesto dell’Ordo-liberalismo.

Nel suo Corso Foucault non cita mai direttamente Heidegger. Il suo nome non viene mai fatto. Tuttavia è evidente la sua presenza – anche se è complicato cogliere la misura della sua importanza. Da una parte Foucault accusa duramente Heidegger, accomunandolo alla schiera dei critici dello Stato-piano, dall’altra usa Heidegger, soprattutto l’Heidegger della Lettera e del Nietzsche, per correggere una critica alla tecnica o alla tecnicità piegata verso i temi dell’alienazione, della ripetizione, della copia e della massificazione, grimaldelli usati dalla sociologia per scardinare lo Stato-sociale. Sulla scorta di Heidegger, Foucault dice: bisogna condurre la tecnica alla produzione, bisogna mettere al centro la produzione. Bisogna rileggere il tema della tecnica, della tecnicizzazione dello Stato, e persino il tema della omologazione e della massificazione a partire dalla produzione – che è in soldoni quello che fa Heidegger nella sua lettura di Nietzsche: considerare la produzione come volontà di potenza.

 

II

Il neo-liberalismo ristruttura il pensiero del laissez-faire. Per i fisiocrati del liberalismo classico del XVIII secolo al centro c’era lo scambio libero tra soggetti, l’equivalenza di valore. L’obiettivo era trovare una misura che portasse nel mercato al giusto prezzo, allo scambio di equivalenti. Tutto ciò condusse, attraverso Adam Smith e David Ricardo, alla teoria del valore-lavoro.

Per Ricardo ciò che fa funzionare il mercato è lo scambio di merci rese equivalenti dalla quantità di lavoro spesa nella loro produzione – dal lavoro incorporato.

I neo-liberali spazzano via questo discorso. Per Böhm-Bawerk tutto ciò è metafisica. La teoria del valore-lavoro di Ricardo è metafisica. Il lavoro incorporato, ritenuto sostanza del valore, è metafisica.

Per i neo-liberali l’essenziale nel mercato non è lo scambio, ma la concorrenza. Non l’equivalenza o l’uguaglianza (l’omogeneo e il metafisico), ma la differenza. È attraverso il gioco delle differenze che si produce il giusto prezzo.

Si afferma in economia il pensiero della Differenza: è il prezzo, e non il valore, il principio regolatore.

Nel pensiero neo-liberale, soprattutto nel marginalismo, il prezzo (come strumento di giustizia) può funzionare solo se si lascia libertà al gioco delle differenze, solo se si lascia che le forze del mercato giochino senza impedimento la loro partita. In Economia e Filosofia, ma anche nella strategia bellica, entra e si afferma il tema del gioco.

Solo se si lascia libertà di gioco alle differenze si realizza una giustizia distributiva. Ma ciò accade solo se lo Stato si astiene dal modificare le condizioni di concorrenza e si guarda dal monopolizzare qualsiasi cosa – persino la forza. Se le forze di mercato vengono lasciate libere di esprimersi, si produrrà il prezzo giusto. Lo Stato non deve intervenire. Ogni sua intromissione rappresenta una alterazione del libero gioco delle forze. Invece, se non si interviene mai, se si lasciano i cittadini andar dietro alle loro necessità, ai loro bisogni, per così dire, naturali, le cose si aggiusteranno automaticamente. Non c’è possibilità che si formi un accumulo di potere.

Mises diceva che lasciata a se stessa l’economia non permette la formazione del monopolio. Se interesse del monopolio è vendere a un prezzo maggiorato, è interesse del compratore acquistare dal piccolo che vende a un prezzo minore.

Le cose si aggiustano da sole, non è richiesto l’intervento dello Stato. Addirittura, il suo intervento è ingiusto, guasta l’ordine delle cose. Il mondo delle cose trova da sé la propria armonia – è lo Stato l’elemento perturbatore, è lo Stato che introduce lo squilibrio nel mondo, è lo Stato che centralizza, sorveglia, misura, controlla, tassa, ruba, corrompe, degenera, etc. Il discorso è noto. È la corruzione il male di un sistema che altrimenti correrebbe libero per i suoi colli.

Come vedete, dice Foucault, ciò che costituisce il carattere della concorrenza è il rigore formale del suo processo. E ciò che garantisce che questo processo formale non deragli mai è il fatto che, nella realtà, se lo si lascia svolgere, niente di ciò che proviene dalla concorrenza, o dallo stesso processo economico, avrà una natura in grado di cambiarne il corso. Di conseguenza, il non-intervento è necessario.

L’uguaglianza non può costituire un obiettivo. Il meccanismo dei prezzi non si ottiene affatto attraverso fenomeni che mirano a stabilire delle uguaglianze, ma mediante un gioco di differenziazioni che è proprio di ogni meccanismo di concorrenza, e che si stabilisce attraverso delle oscillazioni in grado di svolgere la loro funzione e i loro effetti regolatori solo a condizione che le si lasci agire attraverso delle differenze. Di conseguenza, una politica sociale perequativa – livellatrice – sarebbe per definizione anti-economica. Bisogna far agire la diseguaglianza. Di cosa ci si lamenta, dice l’ordo-liberale – la disuguaglianza è la stessa per tutti!

Tutti sono d’accordo nel criticare lo Stato, dice Foucault, di individuarne gli effetti distruttivi e nocivi. Le lacune che vengono imputate all’economia, gli effetti distruttivi che le vengono rimproverati, non devono essere esclusivamente attributi all’economia, ma, al contrario, bisogna farne ricadere la responsabilità sullo Stato. Ogni carenza e difetto sono intrinseci allo Stato e alla sua specifica razionalità. Lo Stato, dicono gli ordo-liberali, è portatore di un un intrinseca difettosità, mentre nulla prova che l’economia di mercato sia intrinsecamente difettosa.

 

III

Il neo-liberalismo fece i primi passi nella seconda metà del XIX secolo. Una spinta importante venne dalla lunga depressione economica del 1873, la quale colpì in modo forte la borsa di Vienna e tutta l’economia austriaca.

Il tracollo del 1857 e ancor più quello del 1873, colpirono un numero molto elevato di imprese (nell’industria siderurgica) che non differivano molto fra loro per la capacità produttiva. Nel tracollo generale furono travolte parecchie industrie che, dal punto di vista meramente tecnico, erano vitali e avrebbero potuto salvarsi. La situazione si ripeté nel 1900. Molte imprese furono sorprese dal ribaltamento delle condizioni economiche. Accanto ai giganti dell’industria di base c’erano molte industrie semplici, salite in alto sull’onda dell’alta congiuntura, le quali precipitarono. La caduta dei prezzi e la contrazione della domanda gettarono queste industrie semplici in una situazione disperata (Hilferding, Il capitale finanziario).

Il sistema di pensiero messo in piedi dagli economisti classici non era in grado di dare ragione di queste trasformazioni. La teoria del valore-lavoro non era in grado di spiegare l’altalena dei prezzi, il crollo delle borse, l’inflazione e la deflazione, la distruzione di ricchezza, la chiusura di fabbriche efficienti, la disoccupazione crescente, la morte e la miseria in mezzo all’abbondanza, eccetera.

Se una merce ha incorporato un x di valore-lavoro perché sul mercato il suo prezzo è uguale a zero? Perché prezzo e valore non si allineano? Come mai il prezzo non si livella al valore attraverso le sue oscillazioni costanti? E come mai il prezzo delle merci, costantemente superiore o inferiore al loro valore, cade a terra e manda al macero le merci? Come mai la merce nega al valore il suo corpo?

Tutto il disastro e le conseguenze funeste del tracollo del 1873 che colpì l’Austria e la Germania con grande violenza mostrarono l’impotenza dello Stato, la sua incapacità di indurre il mercato alla ragionevolezza.

Evidentemente, pensarono gli economisti austriaci, il gioco degli scambi non può essere totalizzato. Nessun governo può totalizzare (computare) il gioco degli infiniti scambi, essi si aggiustano, se si aggiustano, da sé.

L’homo oeconomicus è la sola isola di razionalità possibile all’interno di un processo economico il cui carattere incontrollabile non contrasta, ma al contrario fonda, la razionalità del comportamento atomistico dell’homo oeconomicus. Il mondo economico, dice Foucault, è per natura opaco, non totalizzabile. È originariamente e definitivamente costituito da punti di vista la cui molteplicità è tanto più irriducibile in quanto questa stessa molteplicità assicura spontaneamente, e alla fine, la loro convergenza. L’economia, dice, è una disciplina atea; l’economia è una disciplina senza Dio; l’economia è una disciplina senza totalità; l’economia è una disciplina che comincia a manifestare non soltanto l’inutilità, ma addirittura l’impossibilità di un punto di vista sovrano, di un punto di vista del sovrano sulla totalità, dello Stato che deve sorvegliare e governare.

Che cos’è dunque Sorvegliare e punire?

Il gioco della sorveglianza funziona perché c’è una casella vuota, occupata a rotazione da tutti i membri della serie. Ogni sorvegliato è sorvegliante di se stesso, perché, nella torre panoptica, protetto da una barriera che lascia vedere ma non permette di essere visti, a sorvegliare i sorvegliati non c’è alcun sorvegliante. I prigionieri sono sorvegliati da un occhio assente. La struttura della sorveglianza panoptica funziona con un centro vuoto, e proprio in quanto è vuoto – invisibile – esso permette l’auto-sorveglianza. Questa struttura permette non la costituzione, ma il funzionamento di un sé, di una ipseità, di un essere sorvegliato che dunque è.

Il liberalismo è iniziato nel momento in cui è stata formulata l’incompatibilità essenziale tra la molteplicità non totalizzabile, caratteristica dei soggetti d’interesse, dei soggetti economici, e l’unità totalizzante del sovrano giuridico.

L’economia dice al diritto: non puoi perché non sai, e non sai perché non puoi totalizzare. Non c’è sovrano in economia, non c’è sovrano economico.

L’assenza o l’impossibilità di un sovrano economico: è questo il problema che verrà sollevato, un po’ in tutta l’Europa e in tutto il mondo moderno, dalle pratiche di governo, dai problemi economici. Tutti i ritorni, tutti i ricorsi del pensiero liberale e neo-liberale nell’Europa del XIX e del XX secolo, dice Foucault, rappresentano, ancora e sempre, un certo modo di porre il problema dell’impossibilità dell’esistenza di un sovrano economico. E tutto quello che emergerà, invece, come pianificazione, economia controllata, socialismo, socialismo di stato, comporterà il problema di sapere se non si possa oltrepassare questa maledizione formulata dall’economia politica, sin dalla sua fondazione, contro il sovrano economico, che è al tempo stesso condizione della stessa esistenza di un’economia politica: non ci può forse essere, malgrado tutto, un punto attraverso cui sia possibile definire una sovranità economica?

La teoria della mano invisibile ha il ruolo di screditare il sovrano. Nella microfisica si dice: non c’è alcun sovrano, alcun centro di controllo, tutto funziona per il gioco strutturale di micropoteri. Non c’è il potere, ci sono poteri, non c’è un controllo centrale, c’è un rintuzzarsi di forze che si auto-governano; di più, ci sono poteri che si muovono per azioni e controreazioni in una sorta di meccanicismo a retro-azione, di servo-meccanicismo.

L’economia politica liquida lo stato di polizia, ovvero lo stato sovrano del mercantilismo del XVI e XVII secolo.

L’economico sfugge a uno sguardo centrale, totalizzante.

 

IV

Nella costituzione della società economica manca ogni riferimento a un centro, a un soggetto, a un’origine o a un’archia assoluta. Si tratta di un decentramento, di una perdita del centro. Una perdita che apre al gioco delle sostituzioni, dei supplementi di centro, dei vicari, dei supplenti. Rinuncia all’esigenza di risalire a una sorgente, alla fonte, al principio. Il mercato è un gioco di scambi, una microfisica, una costellazione dove i punti non fanno massa, ma sono sempre in tensione, dove i prezzi non rimandano al valore, al valore d’uso o al valore del lavoro incorporato, ma sono indici di rinvio. Bisogna abbandonare la pretesa di giudicare il prezzo. Il prezzo esatto è anche il prezzo giusto. Il prezzo riscosso è sempre il prezzo giusto. Bisogna rinunciare alla pretesa di misurare il prezzo rispetto a una sostanza, a una scaturigine, a una fonte, a un centro, a un principio, eccetera. Bisogna abbandonare ogni pretesa di contestare il prezzo. Si può resistere a una pretesa, a un prezzo esagerato, a una richiesta, per così dire, fuori mercato, ma non gli si può opporre alcuna ragione – solo mera resistenza.

I prezzi sono sempre proposti come risultato di una quantità finita di informazioni che, sottoposte alla prova dell’esperienza, avranno bisogno di aggiornamento continuo. La non totalizzazione è vissuta empiricamente come incapacità dell’uomo di abbracciare un campo sterminato di relazioni. Più propriamente – strutturalmente – si può dire che la natura del campo esclude la totalizzazione. Il campo è il campo di un gioco, cioè di sostituzioni infinite nella chiusura di un sistema finito (Derrida, Le scienza umane). Questo campo non permette quelle sostituzioni infinite se non perché esso è finito, vale a dire, perché, invece di essere un campo inesauribile, come nell’ipotesi classica, invece di essere troppo grande, gli manca qualcosa, cioè un centro che fissi e fondi il gioco delle sostituzioni. Gli manca un’origine, una fonte, gli manca Dio, gli manca l’uomo.

 

V

La politica sociale, dice Foucault, dovrà avere come strumento non il trasferimento di una parte dei redditi verso un’altra parte, bensì la capitalizzazione più generalizzata possibile, vale a dire che dovrà avere come strumento l’assicurazione individuale e collettiva, e in definitiva la proprietà privata. Si tratta di un individualismo della politica sociale.

La crescita economica deve garantire a tutti gli individui di raggiungere un livello di reddito che permetta loro l’assicurazione individuale o familiare.

Dall’ordo-libealsmo, dice Foucault, si sviluppa l’anarco-capitalismo USA. È questa la tendenza: la politica sociale privatizzata. Dal 1969 in poi ciò che si cerca di ottenere non è una società dei consumi, una società dello spettacolo, una società dell’uomo a una dimensione. Ciò che si cerca di ottenere è una società delle differenze.

Non si cerca di ottenere una società sottomessa all’effetto-merce (una società dell’omologazione, una società dell’uguaglianza), ciò che si cerca di ottenere è una società della differenza, cioè una società sottomessa alla dinamica della concorrenza. Non una società da supermercato, dice Foucault, ma una società d’impresa. Cioè, una società dei produttori, una società di volontà di potenza. Niente Andy Warhol.

L’homo oeconomicus che si vuole ricostruire non è l’uomo dello scambio, l’uomo consumatore, ma l’uomo dell’impresa e della produzione.

Si tratta di fare della concorrenza, e dunque dell’impresa, (del produrre, dell’artista o del genio) quello che si potrebbe chiamare la potenza che dà forma alla società. Vengono riattivati vecchi temi della vita familiare, domestica, la comproprietà, il focolare, e tutta una serie di temi critici ricorrenti contro la società di mercato – contro la merce (Produzione vs Merci), contro l’omologazione mediante il consumo – la mercificazione. Ed è per questo che, dice, ci troviamo di fronte a una convergenza tra una critica alla omologazione e una politica di governo neo-liberale – ordo-liberale attuale (1979). Vogliono la stessa cosa.

Quei critici che vogliono vedere nella società post 69-70 una società dell’omologazione, del controllo omologante, totalizzante o totalitario, una società della mercificazione, eccetera, si sbagliano. Persistono nel criticare una società che non c’è più, una società che è esistita dagli anni venti agli anni sessanta.

Non siamo più a quel punto, dice Foucault.

L’arte di governare, in vigore nella maggior parte dei paesi capitalisti, non cerca la costituzione di quel tipo di società. Si tratta, al contrario, di ottenere una società orientata non verso il mercato e l’uniformità della merce, ma verso la molteplicità e la differenza delle imprese.

Per Hayek l’economia dovrà essere un gioco: un insieme di attività regolate, in cui le regole però non sono decisioni che vengono prese da qualcuno al posto degli altri. Si tratta di un insieme di regole che determina in che maniera ciascuno deve giocare un gioco di cui, al limite, nessuno conosce l’esito – né soggetto, né fine. Né sostanza – strutturalismo.

 

VI

L’ordo-liberalismo tedesco (dal 1930 fino ai gironi nostri) progetta un’economia concorrenziale basata sull’impresa, sulla produzione come agente economico fondamentale. Bisogna leggere l’ossessione per gli investimenti in questo quadro ordo-liberale. Dove investimento significa appunto dotare la produzione della forza produttiva necessaria alla sua riproduzione.

La Teologia negativa dello Stato vede nello Stato 1) una potenza di espansione capace di prendere totalmente in carico la società civile; 2) una parentela tra stato amministrativo, stato assistenziale, stato burocratico, stato fascista, stato totalitario. Questi due temi hanno un potere inflazionistico. Fanno aumentare l’intercambiabilità delle analisi.

Dal momento in cui si può ammettere che tra le differenti forme di Stato c’è una certa continuità o una certa parentela genetica, diventa possibile basare le analisi le une sulle altre, ma anche rinviare le une alle altre e far perdere a ciascuna la propria specificità. Per esempio, un’analisi della sicurezza sociale e dall’apparato amministrativo su cui queste si fondano finirà col rimandare, grazie a qualche slittamento e giocando su qualche parola, all’analisi dei campi di concentramento. Passando dalla sicurezza sociale ai campi di concentramento, la specificità che viene comunque richiesta all’analisi finisce col diluirsi.

Questa inflazione produce anche una svalutazione generale in direzione del peggio. Questa critica, dice Foucault, mi sembra inflazionistica anche per una seconda ragione, ovvero perché consente di praticare quella che potremmo chiamare una svalutazione generale in direzione del peggio. Infatti, qualunque sia l’oggetto dell’analisi, qualunque sia la sua tenuità, la sua esiguità, qualunque sia il funzionamento reale dell’oggetto dell’analisi, sarà sempre possibile riportarlo, in nome di un dinamismo intrinseco dello stato e in nome delle forme estreme che tale dinamismo può assumere, a qualcosa che rappresenterà il peggio. Insomma, dice, è possibile svalutare il meno attraverso il più, il meglio attraverso il peggio. In breve, continua Foucault, se mi passate l’esempio, immaginiamo che in un sistema come il nostro un poveretto infranga la vetrina di un cinema, sia giudicato da un tribunale e venga condannato in maniera un po’ troppo severa: ci sarà sempre qualcuno che dirà che una simile condanna è il segno della fascistizzazione dello stato, come se prima di ogni stato fascista non ci fossero state condanne di questo genere – e anche peggio.

Infine, dice Foucault, questa critica non si chiede da dove provenga questo suo sospetto anti-stato, da dove provenga questa fobia dello stato che circola oggi. A me pare, dice, che si possa rintracciare questa provenienza nell’ordo-liberalismo.

Si ritrova nel neo-liberalismo la critica dello Stato onnipresente, onnipotente, polimorfo – il problema dell’ordo-liberalismo era smarcarsi dal keynesismo, dal new deal e dal Fronte Popolare, di criticare la politica nazional-socialista, ma anche le scelte dell’unione sovietica, e, in fine, in termini più generali, di criticare il socialismo nella sua totalità.

Per Hayek i veri agenti della nazificazione sono i socialisti inglesi, il labour, il piano Beveridge.

Contro questa critica inflazionistica dello stato, e contro questa sorta di lassismo, dice Foucault, bisogna dire chiaramente che lo Stato assistenziale, lo stato del benessere, non ha la stessa forma né la stessa matrice, la stessa origine dello stato totalitario, dello stato nazista, fascista o stalinista.

Lo Stato che si può definire totalitario, dice Foucault, lungi dall’essere caratterizzato dall’intensificazione e dall’estensione endogena dei meccanismi statali, non rappresenta affatto l’esaltazione dello stato, ma costituisce, al contrario, una limitazione, una diminuzione, una subordinazione dell’autonomia dello stato, della sua specificità e del suo funzionamento. Rispetto a che cosa? Rispetto a qualcos’altro, e cioè al partito. In altri termini, dice, ritengo che il principio dei regimi totalitari non vada ricercato nella direzione di uno sviluppo intrinseco dello stato e dei suoi meccanismi; lo stato totalitario non coincide, cioè, con lo stato amministrativo del XVIII secolo, con il Polizeistaat del XIX secolo spinto all’estremo, con lo stato amministrativo, lo stato burocratizzato condotto al suo limite. Lo stato totalitario è qualcos’altro. Il suo principio va cercato non nella governamentalità statalizzante o statalizzata che vediamo nascere nel XVII e nel XVIII secolo, bensì all’interno di una governamentalità non statale, appunto in quella che si potrebbe chiamare una governamentalità di partito. È il partito, dice, questa organizzazione del tutto straordinaria, singolare, nuova, è questa governamentalità di partito del tutto inedita, ad aver fatto la sua apparizione in Europa alla fine del XIX secolo, e a rappresentare, verosimilmente, l’origine storica di qualcosa come i regimi totalitari, di qualcosa come il nazismo, come il fascismo, come lo stalinismo. Tutti coloro che partecipano alla grande fobia di stato, che almeno sappiano che stanno andando nel senso della corrente e che, in effetti, un po’ dappertutto e da anni si annuncia una reale diminuzione dello stato, della statalizzazione e della governamentalità statalizzante e statalizzata.

Tra il 70 e il 72 in Francia, dice, si pone il problema della liquidazione finale dell’economia pianificata di tipo keynesiano. I pretesti sono presentati nel 73, aumento costante della disoccupazione a partire dal 1969, squilibrio della bilancia dei pagamenti, inflazione. Non una crisi keynesiana, ma una crisi che riguarda gli investimenti, su questo sfondo scoppia la crisi petrolifera.

 

VII

Nel 1972 in Francia, dice Foucault, Giscard d’Estaing, che diventerà presidente, in un famoso discorso, quando era ancora ministro, riprende quelle che erano le tematiche dell’ordo-liberalismo e parla degli effetti nocivi sulla previdenza sociale e ricorda che l’economico e il sociale devono dividersi, che l’economico deve tornare a funzionare secondo le sue regole. Quali sono queste regole? L’economia, secondo Giscard d’Estaing, è un gioco, si sviluppa come un gioco tra partner. Tutta la società, dice, deve essere attraversata da questo gioco economico, e lo Stato ha come funzione essenziale solo quella di definire le regole del gioco economico, nonché di garantire che saranno effettivamente applicate. Ciò che caratterizza l’economia di mercato, dice esplicitamente Giscard d’Estaing, è il fatto che esistono delle regole del gioco che permettono di prendere delle decisioni in maniera decentralizzata e che queste regole sono le stesse per tutti.

Nel quadro fornito da Giscard d’Estaing, dice Foucault, è importante sottolineare questa idea che le regole del gioco sono decentralizzate. C’è un gioco strutturale senza soggetto, senza centro, senza centro di controllo. Ognuno si reca al mercato e risponde alla legge della mano invisibile – si comporta come deve, in virtù di una legge che non si mostra, che agisce senza mostrarsi.

Che valore hanno dunque nel mercato gli agenti economici?

Nessun valore. Valgono in quanto occupano una posizione. Più propriamente è la posizione che dà loro un valore. Come nel gioco degli scacchi, è la posizione che conferisce valore al pezzo, e non la sua livrea. I posti in uno spazio puramente strutturale sono primi rispetto alle cose e agli esseri reali che vengono a occuparli (Deleuze, Strutturalismo). Non importa quanto lavoro una merce incorpori, il prezzo dipende dal posto che occupa nel mercato, ovvero dalla differenze con tutte le altre merci e con la microfisica dei poteri d’acquisto schierati. Se le merci non hanno designazione estrinseca né valore intrinseco, ma solo un valore di posizione, bisogna porre in principio che il valore risulta sempre dalla combinazione di elementi che non hanno di per sé alcun valore (Deleuze). Il prezzo-(valore) è sempre un risultato, un effetto: non solo un effetto come prodotto, ma anche un effetto ottico, un effetto di posizione. C’è profondamente un non-valore del valore, da cui il valore stesso risulta. E ciò spiega l’invio al macero delle merci quando si spezza la catena strutturale del mercato.

È dal gioco delle differenze che emerge il valore-(prezzo). Non è un caso che, dice Deleuze, Lévi-Strauss si riferisca spesso alla teoria dei giochi, e dia tanta importanza alle carte da gioco. E Lacan, a delle metafore di gioco che sono più che metafore: non solo l’anello che corre nella struttura, anche il posto del morto che circola nel bridge. I giochi più nobili come gli scacchi sono quelli che organizzano una combinatoria dei posti in uno spatium puro, infinitamente più profondo dell’estensione reale della scacchiera come dell’estensione immaginaria di ogni figura. Oppure che Althusser interrompa il suo commento a Marx per parlare di teatro, un teatro che non è né di realtà né di idee, puro teatro di posti e posizioni, di cui vede il principio in Brecht, e che oggi troverebbe la sua espressione più radicale in Armand Gatti. In breve, il manifesto stesso dello strutturalismo dev’essere ricercato nella celebre formula, eminentemente poetica e teatrale: pensare, è emettere un colpo di dadi.

Lo strutturalismo non è separabile da un nuovo ateismo, da un nuovo antiumanismo. Infatti, se il posto è primo in rapporto a ciò che lo occupa, non sarà certo sufficiente mettere l’uomo al posto di Dio per cambiare struttura. E se questo posto è il posto del morto, la morte di Dio significa anche quella dell’uomo. Il posto di Dio deve rimanere vacante.

Per produrre la riflessione di un sé che osserva e di uno che è osservato, nella torre panoptica il controllore deve rimanere invisibile. La mano non può essere la mano dello Stato, e il regime non può essere un regime di prezzi controllati. Controllando i prezzi lo Stato immetterebbe nella peggiore perversione e confusione. Impedendo la riflessione, impedirebbe la costituzione del sé. Un prezzo amministrato non è un prezzo. Il valore di una merce, espresso da un prezzo amministrato, è perversione e corruzione, patente imposizione. Solo il gioco delle differenze – il colpo di dadi – produce un prezzo veridico, giustificabile, indiscutibilmente esatto.

Il mercato è dunque un sistema di rapporti differenziali, in base ai quali i prezzi si determinano reciprocamente, un sistema di singolarità che corrisponde a questi rapporti e traccia lo spazio della struttura. Ogni struttura è una molteplicità. Ma non è una mera molteplicità di oggetti reali – di valori-uso. Altrimenti un iPhone avrebbe lo stesso valore di un Huawei. Il valore-uso è indispensabile, ma ciò che conta è la posizione che quel valore-uso occupa. Una BMW non è una VW o un’Audi.

Quando Lévi-Strauss intraprende lo studio delle strutture elementari della parentela, dice Deleuze, non considera soltanto dei padri reali in una società, né le immagini di padre che hanno corso nei miti di quella società. Egli pretende di scoprire dei veri fonemi di parentela, ossia dei parentemi, delle unità di posizione che non esistono indipendentemente dai rapporti differenziali in cui entrano, e si determinano reciprocamente. I prezzi funzionano come i parentemi di Lévi-Strauss.

Il vero soggetto è la struttura: il differenziale e il singolare, i rapporti differenziali e i punti singolari, la determinazione reciproca e la determinazione completa.

Le strutture, dice Deleuze, sono necessariamente inconsce – invisibili. La struttura non è il fondo o la ragione o il centro da cui prendono le mosse i prezzi. La mano è, e deve rimanere, invisibile, assente. Se nel mercato ci fosse una mano, questa mano sarebbe la mano dello Stato, la mano della pianificazione, la mano a cui ricondurre il valore di ogni merce. Se ci fosse una mano visibile, non ci sarebbero differenze, tutte le merci sarebbero omologate in base a un identico criterio. L’identità e l’uguaglianza totalizzerebbero ogni differenza.

La struttura non è né reale né possibile. Cosa coesiste nella struttura? chiede Deleuze.

Tutti gli elementi, i rapporti e i valori dei rapporti, tutte le singolarità proprie al mercato considerato. Una tale coesistenza non implica nessuna confusione, nessuna indeterminazione: sono rapporti e elementi differenziali che coesistono in un tutto perfettamente e completamente determinato. Rimane che questo tutto non si attualizza come tale. Ciò che si attualizza, qui e ora, sono tali rapporti, tali valori di rapporti, tale distribuzione di singolarità; altri si attualizzano altrove o in un altro momento. Non c’è una lingua totale, che incarni tutti i rapporti di valore possibili.

I giochi hanno bisogno della casella vuota, senza cui nulla avanzerebbe o funzionerebbe.

Ciò che Foucault vuole mostrare in questo Corso non è soltanto la storia del neo-liberalismo. Vuole anche mostrare la simmetria tra questo pensiero e lo strutturalismo, tra questa tecnica di governo e il pensiero della differenza, tra la microfisica e l’ordo-liberalismo, tra una società panoptica e il neoliberalismo. Il panoptismo è un pensiero della differenza – è un pensiero della microfisica. È un sistema in cui l’io penso, la riflessione, è un effetto strutturale, l’effetto di un punto centrale vuoto, di una torre di osservazione al cui interno non c’è nessuno.

Nel 1966, in una famosa conferenza tenuta a Baltimora, Derrida prende una posizione netta rispetto a questo tema. La struttura, dice, ha l’età stessa dell’episteme. Sino ad un certo periodo, la strutturalità della struttura è stata ridotta e neutralizzata da un gesto che consisteva nel darle un centro, nel rapportare ogni elemento singolo ad un centro.

Nell’economia politica classica questo centro era costituito dal valore-lavoro. Ogni merce era rapportata a questa sostanza di valore. Il valore non era l’effetto della microfisica dei poteri che si esprime nel mercato, ma era il corrispettivo di questa sostanza, il rapporto a questa sostanza.

Questo centro, dice Derrida, non aveva solo la funzione di orientare e equilibrare, di organizzare la struttura, soprattutto faceva in modo che il principio di organizzazione della struttura limitasse il gioco della struttura.

Nel centro la sostituzione dei contenuti, degli elementi, dei termini, non è possibile. Al centro, la permutazione o la trasformazione degli elementi è interdetta.

Nel Capitale (I- 1,3) Marx inizia col dire che le merci non diventano commensurabili per mezzo del denaro. Viceversa, dice, poiché tutte le merci (compreso il denaro-merce) come valori sono lavoro umano oggettivato, quindi sono commensurabili, possono misurare i loro valori in comune in una stessa merce specifica e, in tal modo, trasformare questa nella loro comune misura di valore, ossia denaro.

Il denaro è al centro della struttura, ma il centro vero e proprio è occupato dal lavoro. Ma di che lavoro si tratta?

Il denaro è il corpo incaricato di attualizzare il valore della merce, ovvero il tempo di lavoro. Ma non si tratta di un denaro-lavoro, di un biglietto che rappresenti le ore spese nella produzione di quella singola merce. E ciò per delle ragioni ovvie che Marx ha spiegato in Miseria della filosofia.

L’espressione di valore di una merce in oro è il suo prezzo. Non c’è più bisogno ormai di far marciare una singola equazione (x merce A = y merce denaro) in fila con le altre equazioni di valore delle altre merci, perché la merce equivalente, l’oro, possiede già il carattere di denaro.

Se questa merce equivalente non possedesse già il carattere di denaro, bisognerebbe aspettare che la serie si chiuda per avere il prezzo di ogni singolo elemento che la compone, in quanto, fintanto che la serie delle permutazioni è aperta, ogni mutamento in un elemento della catena produce un mutamento in ogni altro elemento (Hayek, Nazionalismo monetario).

L’espressione relativa dispiegata di valore, dice Marx, ossia la serie infinita di espressioni relative di valore, diventa forma di valore specificamente relativa della merce denaro. Ma questa serie, ora, è già data, socialmente, nei prezzi delle merci.

Marx aveva già chiarito che l’oro rende qualitativamente eguali e quantitativamente comparabili le merci. L’oro, specifica merce equivalente, funge da misura generale.

Il valore, dice Marx, è distinto dal corpo tangibile del supporto.

Il valore (Der Wert) di una cosa esiste (existiert), non si vede (obgleich unsichtbar), non si percepisce con i sensi, dunque saremmo portati a credere che non esiste. E invece esiste. Esiste nelle cose stesse (in diesen Dingen selbst). Ossessiona la testa delle merci come un fantasma (Köpfen spukt) suscitato dal rapporto delle merci all’oro. Quando le merci si rapportano all’oro, ovvero quando si rapportano l’una all’altra – in quanto l’oro è ancora e sempre una merce – il fantasma si impossessa della testa della merce.

Questo fantasma che ossessiona la merce – non mi dilungo su una questione che Derrida ha chiarito già da tempo (Spettri di Marx) – si trova serrato nella testa della merce.

Il custode della merce sta davanti alla merce, dice Marx, non può entrare nella testa. Se vuole comunicarne il valore al mondo esterno deve infilare la lingua e trarre fuori il valore.

Il custode non deve limitarsi a guardare o intendere. Deve letteralmente infilare la lingua in testa alla merce e trarre fuori il valore – trascriverlo su un cartellino – e con un po’ di sputo appiccicarlo alla merce. Solo a questo punto abbiamo il prezzo.

L’espressione del valore in oro – il prezzo – non si tocca, dice Marx, è ideale – come il valore. E anche l’oro nel quale si esprime è oro ideale. Per stimare le merci in oro, dice, non c’è bisogno nemmeno di un grammo di metallo.

In quanto misura dei valori il denaro è mero denaro ideale. Nonostante ciò, dice Marx, il prezzo dipende interamente dalla materia reale del denaro – dall’oro vero e proprio.

Il denaro è sia misura del valore sia scala dei prezzi. Si tratta di funzioni completamente diverse, dice Marx.

La misura del valore serve a trasformare merci pittorescamente diverse in prezzi, in quantità ideali d’oro. Tutte le merci sono rapportate all’oro come unità di misura – sono tutte denominate in oro. Possono avere (ma non hanno) tutte un cartellino che esprime il loro valore in termini di oro.

Il denaro in quanto scala dei prezzi misura le quantità d’oro che le merci esprimono.

Quando Marx dice che il denaro non ha prezzo, allude al denaro in quanto misura del valore, e non al denaro in quanto scala dei prezzi.

A differenza della misura del valore, che è (e deve rimanere) ideale, la scala deve essere reale, perché solo una scala di unità finite può misurare, considerato che una entità infinità (ideale) non può essere misura di un finito quale è una merce variopinta. Si misura con una cosa della stessa specie che, presa più volte, gli diventa uguale (Wolff, Metafisica § 932).

L’oro può servire da misura dei valori unicamente perché è esso stesso un prodotto del lavoro. Sulla misura dei valori le merci si commisurano in quanto valori; la scala dei prezzi, invece, misura le quantità d’oro su di una quantità d’oro, non il valore di una quantità d’oro sul peso dell’altra.

Due sterline sono espressione della grandezza di valore di un quarter di grano – il suo prezzo. Il prezzo è il nome monetario del lavoro oggettivato nella merce. In questo rapporto si può esprimere tanto la grandezza di valore della merce, quanto il più o il meno in cui, in date circostanze, essa è alienabile. Ne segue che la possibilità di un’incongruenza quantitativa fra prezzo e grandezza di valore, ovvero di una deviazione del prezzo dalla grandezza di valore, risiede nella struttura del prezzo. Questa non corrispondenza tra la grandezza di valore e il prezzo non è un difetto: tale possibilità, dice Marx, la eleva a forma adeguata di un modo di produzione. La non-corrispondenza può arrivare sino al punto che una cosa può, formalmente, avere un prezzo senza avere un valore. Per esempio, dice Marx, un terreno incolto può avere un prezzo, anche se non ha valore, in quanto nessun lavoro umano vi è oggettivato. E può avere un prezzo perché possiede nel prezzo una valore ideale, ossia oro immaginario. Senza questo oro immaginario (senza questo Köpfen spukt), il ferro dovrebbe essere, il che non può essere, insieme, veramente ferro e veramente oro. Se fosse insieme veramente ferro e veramente oro ci sarebbe una corrispondenza perfetta, un’adesione esatta, tautologica, un’adesione che – a questo punto – renderebbe inutile lo scambio, perché avrei già nel ferro ciò che cerco nello scambio (oro). Dunque, lo scarto tra il valore ideale e il prezzo è ciò che apre allo scambio, aprendo anche a una possibile diseguaglianza. Non c’è uguaglianza possibile senza il rischio di una disuguaglianza.

Riassumo. Il denaro è misura del valore e scala dei prezzi. In quanto misura del valore non deve essere una merce, per esempio merce-oro. In quanto scala dei valori può essere una merce, ma deve necessariamente avere una natura empirica, tangibile, finita. Qualcuno ha detto che Marx oscilla tra una concezione del denaro in quanto merce e una concezione del denaro in quanto segno. È errato. Marx distingue un denaro-segno o denaro ideale e un denaro-merce.

Senza un denaro-segno non è possibile equiparare una merce ad un’altra. Senza un denaro-merce (o denaro referente) non è possibile misurare una merce. Ci vogliono entrambi, sia la scala sia l’unità di misura. Di più, questi aspetti sono la medesima cosa.

Della misura, dell’oro in particolare, Marx dice che può servire da misura dei valori unicamente perché è esso stesso un prodotto del lavoro.

Di che lavoro si tratta?

Il prezzo è il nome (monetario) del lavoro oggettivato nella merce. Questo nome dice sia il valore della merce, sia le parti aliquote di un peso metallico della scala di misura del denaro. In quanto nome il denaro è moneta di conto. Questo nome può cambiare, il rapporto con ciò che nomina è arbitrario. Rimane il fatto che, dice Marx, restando invariate le condizioni di produzione, cioè la forza produttiva del lavoro, per riprodurre un quantità x di una data merce bisognerà sempre spendere lo stesso identico tempo di lavoro sociale. Ciò che in fine si conta, e che il nome riporta, è il tempo di lavoro sociale speso nella produzione della merce.

Quando la grandezza di valore (non il valore, ma la grandezza di valore) diventa prezzo, questo rapporto tra grandezza di valore e prezzo si trasforma nel rapporto tra una merce corrente e la merce denaro. In questo rapporto si esprimere tanto la grandezza di valore della merce, quanto il più o il meno in cui, in date circostanze, essa è alienabile.

Il ferro, dice Marx, non è immediatamente scambiabile con oro. Per essere effettivamente scambiata, la merce deve spogliarsi del suo corpo naturale. Inoltre, deve tramutarsi da oro ideale (moneta-segno) in oro reale.

Accanto alla sua forma reale, per esempio ferro, la merce può possedere nel prezzo una forma valore ideale (oro-ideale). Ma infine con oro-reale si deve sostituirla, perché renda al suo possessore il servizio di un equivalente generale. D’altra parte, l’oro funge da misura ideale del valore solo perché si muove già nel processo di scambio come merce denaro. Nella misura ideale dei valori sta quindi già in agguato il denaro reale, la dura moneta.

Bisogna tenere ben presente tutte e due le serie: 1) a: valore; b: grandezza di valore; 2) A – moneta-segno (oro ideale), B – Moneta-merce (oro reale). Se si considera solo una serie, ovvero lo scambio fra due merci, una merce corrente e la merce denaro; se si tien fermo a questo solo momento empirico dello scambio fra merce e oro, dice Marx, si perde di vista ciò che si tratta di vedere. Si perde di vista che l’oro come pura e semplice merce non è denaro, e che le altre merci si riferiscono nei loro prezzi all’oro come denaro ideale.

Nella vendita si ha un passaggio del valore dal corpo della merce nel corpo dell’oro, questo passaggio, scrive Marx, costituisce il salto mortale della merce. Perché salto mortale? Perché il passaggio del valore (ricordo che il valore Köpfen spukt) dalla testa della merce alla testa dell’oro non è garantito. Non è necessario. È solo possibile. In più, nessuno garantisce l’esattezza, la piena corrispondenza quantitativa. Nel salto qualcosa può aggiungersi o andare perso. Se tutto filasse liscio, non si parlerebbe di salto mortale. In più, e qui Marx aggiunge una precisazione molto importante, il lavoro speso nella merce dev’essere speso in forma socialmente utile. «Socialmente utile» vuol dire che il salto riesce solo se il lavoro speso è un lavoro che ha un valore riconosciuto tale dall’acquirente. È nelle mani dell’acquirente che la merce diventa valore d’uso. Nelle mani del venditore la merce si spoglia di ogni sua caratteristica fisica; nelle sue mani è, dice Marx, non-valore d’uso. Diventa valore d’uso solo nelle mani del compratore. Il lavoro speso nella produzione della merce, dice Marx, deve dar buona prova di sé come articolazione della divisione sociale del lavoro. Ma, aggiunge, la divisione del lavoro è un organismo di produzione spontaneo, i cui fili sono stati e continuano ad essere tessuti dietro le spalle dei produttori di merci. Oggi il prodotto soddisfa un bisogno sociale; domani, un genere analogo di prodotti può scacciarlo in tutto o in parte dal suo posto. Se il bisogno sociale di questo prodotto è già soddisfatto da altri rivali, il prodotto diventa sovrabbondante, superfluo, quindi inutile.

Poniamo che il valore d’uso del prodotto di un lavoro dia buona prova di sé, e quindi che dalla merce si ricavi denaro. Ci si chiede: quanto denaro? Si dirà che la risposta è già anticipata nel prezzo della merce, esponente della sua grandezza di valore.

Il prezzo esprime la quantità di lavoro spesa nella produzione della merce. Ma questa quantità non corrisponde alle ore spese da quel produttore specifico, ma alla media socialmente necessaria di tempo di lavoro.

Anche in questo caso il lavoro non vale di per sé. Deve avere un riconoscimento sociale. Deve rispondere a un meccanismo i cui fili sono stati e continuano ad essere tessuti dietro le spalle dei produttori di merci. Supponiamo che, dice Marx, senza il permesso e all’insaputa del nostro lavoratore, le condizioni di produzione sancite dagli anni siano entrate in fermento: allora ciò che ieri, senza possibilità di dubbio, era tempo di lavoro socialmente necessario per produrre tela, oggi non lo è più, come si affretta a dimostrare con zelo il possessore di denaro mediante le quotazioni dei prezzi di differenti rivali del nostro amico. Infine, dice Marx, posto che ogni pezzo di tela sul mercato contenga soltanto il tempo di lavoro socialmente necessario, il totale generale di pezze di tela può tuttavia contenere tempo di lavoro speso in eccedenza. Se lo stomaco del mercato non è in grado di assorbire la quantità complessiva di tela al prezzo normale di x denaro, ciò dimostra che una parte eccessiva del tempo di lavoro sociale totale è stata spesa per la produzione di tela: l’effetto è lo stesso che se ogni singolo produttore avesse impiegato nel suo prodotto individuale più del tempo di lavoro socialmente necessario. Tutta la tela sul mercato vale come un unico articolo di commercio; ogni pezza, solo come sua parte aliquota. Il prezzo della singola merce viene livellato dalla domanda. Per questa ragione può esserci una discrepanza quantitativa tra valore e prezzo. Ricordo che siamo nel primo libro del Capitale, e non nel terzo, dove, secondo alcuni, Marx getta via la teoria del valore-lavoro, proprio perché non riesce a venire a capo di questa discrepanza. Ma qui Marx sta mostrando che non c’è modo per venire a patti con questa discrepanza, con questa differenza. Sta dimostrando non solo che è grazie a questa discrepanza che c’è scambio, ma che questa discrepanza è irriducibile.

Il lavoratore produce un bene, lo porta al mercato, non c’è modo di sapere né il prezzo esatto che ricaverà dalla vendita, né, tanto meno, se questo bene avrà un riconoscimento sociale, se sarà ritenuto utile da qualcuno, e ciò in quanto il produttore non è esterno alla serie delle compre e delle vendite. Tutto ciò gli impedisce di esprime un prezzo che dia ragione del suo valore, ovvero del lavoro contenuto. Non solo 1) il lavoro deve avere un riconoscimento sociale, viene valutato alla produttività media spesa in quel momento, lo stesso valore d’uso 2) deve avere un riconoscimento sociale, deve essere ritenuto tale da almeno un compratore presente sul mercato.

Se queste premesse sono esatte il produttore può portare il bene al mercato solo azzardando un prezzo ipotetico, un po’ come suggerirà Mises. Il soggetto accede al mercato ignorando i prezzi vigenti. Ciò non gli impedisce di comprare e vendere. Prepara una scheda con le quantità che comprerebbe o venderebbe. Il prezzo effettivo viene conosciuto al termine. L’interdipendenza tra prezzi e valore della moneta non dovrebbe produrre alcun ragionamento circolare.

Dopodiché, l’esposizione di von Mises diventa oscura perché vuole dimostrare che il singolo potrebbe conoscere l’utilità della moneta anche prima che il mercato abbia raggiunto la posizione di equilibrio.

Gli equilibrismi degli economisti neoclassici arrivano fino alle spericolate proposte di Hayek – proposte da prendere in seria considerazione, in quanto promuovono un’intensificazione della ricerca, o del controllo, statistico – di installare su ogni merce un calcolatore elettronico in grado di rapportare, in tempo reale, il prezzo di quella merce con i movimenti di tutti i prezzi in tutti i mercati. Si tratta di un tentativo empirico (votato al fallimento) di produrre un prezzo esatto e una giustizia sociale.

Lo stile di Marx è diverso. Non c’è bisogno di un report statistico aggiornato. Anche perché non c’è modo, restando nella serie, di produrre un prezzo esatto. Intanto, dice, bisogna riconoscere che la divisione del lavoro trasforma il prodotto del lavoro in merce, e quindi rende necessaria la sua trasformazione in denaro. Nello stesso tempo, essa rende casuale che questa transustanziazione abbia luogo. In più, e bisogna tenere bene a mente questa precisazione di Marx, la trasformazione del prodotto del lavoro in merce, e dunque in denaro, si verifica sempre, per quanto in tale cambiamento di forma si possa registrare una perdita o un’aggiunta anormali di sostanza, di grandezza di valore. Dunque, la sostanza può variare – non è stabile, il suo valore è arbitrario.

Non c’è più bisogno di far marciare una singola equazione (x merce A = y merce denaro) in fila con le altre equazioni di valore delle altre merci, come crede di poter fare Hayek utilizzando la fanteria della statistica, e ciò perché, dice Marx, la merce equivalente, l’oro, possiede già il carattere di denaro.

Che posto occupa l’oro?

Per funzionare come denaro, dice Marx, l’oro deve entrare nel mercato in un qualche punto. Questo punto si trova alla fonte della sua produzione, dove esso si scambia come prodotto immediato del lavoro con altro prodotto del lavoro, di valore eguale.

L’oro entra nel mercato come merce, valutato al suo valore. È evidente che l’oro non può entrare nel mercatoun passo dopo l’altro, ovvero rapportandosi a un altro prodotto. Prima del suo ingresso deve essergli possibile la comparazione, e la comparazione è possibile, solo se l’oro è saltato nel mercato già prima di entrarci.

Se si prescinde da questo primo scambio alla sua fonte di produzione, dice Marx, l’oro è assurto a denaro ideale, o a misura del valore, perché tutte le merci hanno misurato in esso i loro valori, e quindi ne hanno fatto l’opposto ideale della loro forma utile, cioè la loro forma valore. Se si prescinde da questo primo, e problematico scambio, e problematico perché l’ingresso deve precedere l’ingresso, l’oro reale può diventare la sede dell’oro ideale. Ma l’oro ideale è quella misura di valore che, fuori dalla serie, rende tutte le merci le une pari alle altre. Abbiamo qui quell’elemento fuori dalla serie che fornisce una ragione alla serie. Ma non lo abbiamo in cielo, lo abbiamo in terra, territorializzato nella dura moneta sonante.

Ma tutto ciò è una finzione. Alle spalle dell’oro la divisione del lavoro è un organismo di produzione spontaneo, i cui fili sono stati e continuano ad essere tessuti dietro le spalle dei produttori di merci. L’oro viene valutato al suo valore, ma questo valore – questa sostanza – può variare, nel cambiamento di forma si può registrare una perdita o un’aggiunta anormali di sostanza.

Il denaro è il prodotto della universale alienazione (delle merci). Legge a ritroso tutti i prezzi, e così si rispecchia in tutti i corpi di merci come nel materiale generosamente offertosi perché possa farsi merce.

I prezzi mostrano i limiti del denaro (ideale): la sua propria quantità.

Non è sufficiente sapere che l’oro e la merce sono prodotti del lavoro, che hanno la stessa sostanza. In questa equazione (oro e merce = moneta-segno) è sufficiente avere oro-ideale, moneta-segno, moneta di conto. Ma per contare – appunto – per numerare, occorre un metro finito, reale. Il denaro in quanto misura del valore deve incarnarsi in oro-reale.

L’oro-ideale deve presentarsi come oro-reale, altrimenti il venditore non acconsentirebbe allo scambio. In senso più stringente, solo un ente reale può dare la misura del valore, dato che un ente ideale, essendo infinito, non può essere misura di alcunché.

A questo punto l’ente reale, la carta-moneta, ad esempio, in quanto corpo (reale) incarna un valore-(facciale) ideale. Il denaro ideale è il centro che permette il passaggio da una merce all’altra, senza attendere la fine (fine che non arriva mai) della serie. Territorializzandosi l’oro-ideale si dissemina, si espone a un possibile (solo possibile) apprezzamento o deprezzamento.

Porto una mucca al mercato, vorrei scambiarla con un paio di scarpe. Mucca e scarpa non sono equivalenti. Dunque scambio la mucca con due asini, e due asini con tre pecore, etc. Quando torno dal possessore delle scarpe, con una merce più liquida, questi non sa che farsene delle pecore, vuole vacanze in India, tante quante ce ne stanno in un paio di scarpe.

Per permettere il passaggio da una merce all’altra c’è bisogno di denaro-ideale, se il denaro fosse reale entrerebbe nella serie come parte di essa, vanificando la sua funzione.

20 euro rimangono sempre 20 euro. Qualsiasi cosa succede alla carta su cui sono stampati e alla merce che prezzano. L’esistenza non aggiunge niente alla loro essenza. E tuttavia, questi venti euro-ideali devono spazializzarsi e temporalizzarsi, non c’è modo di misurare senza questo salto dall’infinito al finito.

Questa caduta nel corpo del denaro sonante consente all’ideale di svolgere la sua missione. Non senza pagare pedaggio.

L’ideale incarnato funziona come sostanza denaro. Questa sostanza, senza la quale lo scambio sarebbe impossibile, subisce una perdita o un’aggiunta anormali, dice Marx.

Come è possibile per una sostanza aumentare e diminuire? 20 euro ideali possono essere più o meno di 20 euro ideali?

Come è possibile?

È possibile perché i 20 euro-ideali devono entrare nel mondo, devono saltare qui e ora, devono esistere, sia pure sotto forma di ricordo. Non si danno 20 euro ideali senza 20 euro reali. Il salto è necessario.

 

VIII

Nella famosa critica della prova ontologica Kant dice che il concetto è una formazione mentale, è un’astrazione, alla quale si giunge a partire da oggetti particolari determinati, esistenti (seguo passo passo Adorno, Terminologia filosofica). Per Kant anche il concetto di Dio è stato formato seguendo questo processo di astrazione. Per poter dire se questo concetto di Dio ha anche realtà occorrerebbe confrontarlo con l’intuizione, con l’esperienza effettivamente data, fattuale. Poiché solo cosi si potrebbe constatare se si realizza o meno.

Questa argomentazione kantiana, dice Adorno, è la conseguenza estrema della concezione filosofica che ha cominciato a cristallizzarsi a partire dalla filosofia del tardo medioevo e più precisamente da Guglielmo di Ockham, il nominalismo. Secondo questa concezione i concetti come tali non possiedono nessuna realtà, ma valgono solo come abbreviazioni, quasi come sigle per i fatti a cui si riferiscono. Nei confronti di ciò che sussumono non possiedono nessuna forma di realtà e autonomia, ma – secondo l’espressione medievale – non sono altro che un flatus vocis, che un suono, che in se stesso è altrettanto effimero, altrettanto inconsistente della parola, appunto, che viene pronunciata e basta. L’esistenza non è dunque una determinazione che rientri nel concetto, non è un attributo che tocchi al concetto accanto ad altri; l’esistenza è invece una determinazione che si riferisce al rapporto dei concetti o del concetto con il suo materiale di volta in volta dato, con ciò in cui il concetto si concreta. Dai puri concetti non può essere tratta o dedotta alcuna conclusione circa l’esistenza di ciò che questi concetti esprimono.

Il segno – il flatus vocis – rimane confinato aldilà del mondo delle cose effettivamente esistenti. Non entra nel mondo. Non è una cosa tra le cose. Non ha una posizione assoluta. Un’autonomia di cosa.

Secondo il concetto, dice Adorno, Dio deve essere qualcosa di assolutamente trascendente, di assolutamente immune dalla nostra intuizione empirica. È qualcosa che la transitoria e ingannevole esperienza sensibile non ci può affatto dare adeguatamente. Il concetto di Dio, dice Adorno, esclude dunque già di per se stesso quella realizzazione sensibile. La quale sarebbe d’altra parte necessaria, perché si potesse dire di questo concetto che gli corrisponde qualcosa come l’esistenza.

Kant, continua Adorno, ne trae la conseguenza che Dio è un’idea, ma non qualcosa sulla cui esistenza o non esistenza si possa decidere in modo stringente mediante la pura ragione, e cioè il puro pensiero, secondo un procedimento puramente logico.

Pertanto, una moneta-segno, una moneta di conto, una moneta ideale, qualunque sia la sua natura, rimane una formazione concettuale. E in quanto formazione concettuale non può saltare nel mondo. Non può occupare quel posto centrale che le permetterebbe di regolare il passaggio delle merci da una mano all’altra. La moneta-segno è un’idea e non si può avere un’intuizione empirica di un’idea.

E tuttavia, qui inizia il contro-argomento di Adorno, i concetti non sono solo le abbreviazioni, le sigle che simboleggiano le note comuni agli oggetti a cui si riferiscono. Non c’è nulla per noi, nulla ci è dato, neanche l’esperienza sensibile più semplice ed elementare, che non sia stata filtrata attraverso il concetto; poiché noi non possiamo affatto trarci fuori dall’apparato concettuale, in cui siamo in un certo senso chiusi. È perciò una finzione fare come se ci fosse qualcosa di veramente reale che non contenesse anche il momento del concetto. Ma ciò implica indubbiamente anche una restrizione del valore della critica del nominalismo al realismo concettuale, e cioè una restrizione della concezione del flatus vocis. Poiché se si ammette che tutto ciò che è è sempre anche mediato dal concetto, in quanto noi lo determiniamo, diciamo qualcosa di stabile e definito, in quanto tale oggetto ha per noi qualcosa di stabile e fermo, in questo caso il concetto è veramente solo un flatus vocis, o invece non ha anche un momento di autonomia?

A questo punto, continua Adorno, si potrebbe osservare che in ogni singolo giudizio che noi formuliamo è contenuta la pretesa a tutta la verità. Nella mia proposizione «A è uguale a B» in fondo è già contenuta – che io lo voglia o meno, che io restringa o anche critichi questa affermazione – l’idea di una verità intera, assoluta. Questa può poi realizzarsi solo se da questo giudizio procedo a infiniti altri giudizi, ma è già contenuta nel giudizio più semplice. Poiché l’idea dell’assoluto è già contenuta nel «questo è cosi», sono costretto a procedere oltre, e propriamente senza tale concetto dell’assoluto non posso affatto pensare.

Fra l’utopia, a cui il pensiero si sente spinto come concetto, e la realtà in cui esistiamo, non sarebbe dunque affatto possibile una distinzione cosi radicale come quella che si ritrova nell’argomentazione kantiana. Si potrebbe chiedere: posso io pensare una cosa qualsiasi, se nella coscienza non esiste una motivazione, una coazione a pensarla? Posso pensare senza quell’assoluto che con linguaggio scolastico è stato chiamato il phantasma bene fundatum, la fantasia bene fondata?

 

IX

La bestia nera del neo-classicismo è l’inflazione. Il loro sogno – il sogno di Hayek – era di avere una moneta de-sostanzializzata, con un potere di acquisto invariabile, o, perlomeno, variabile, ma variabile in misura simmetrica alle variazioni delle merci.

È stata una ricerca vana. In un insieme empirico il valore di un elemento è determinato dalle posizioni di tutti gli altri, compreso il misuratore, e siccome le posizioni sono in continuo cambiamento, ottenere un valore stabile è impossibile.

Quanto denaro serve?

Nella circolazione c’è come una porta attraverso la quale l’oro (o l’argento) penetra come merce di valore dato. Questo valore, dice Marx, è presupposto nella funzione del denaro come misura dei valori, e perciò nella fissazione dei prezzi. Il valore del denaro-merce deve essere già disponibile, prima che esso entri nella circolazione.

Se il valore della misura stessa del valore cade, ciò si manifesta in primo luogo nel mutamento di prezzo delle merci scambiate. Una merce contagerà l’altra mediante il suo rapporto di valore con essa, a poco a poco i prezzi delle merci in oro o argento si compenseranno nelle proporzioni determinate dai loro stessi valori, finché tutti i valori delle merci saranno stimati in conformità al nuovo valore del metallo denaro. Fintanto che il contagio non si estenderà a tutte le merci, qualcuno ci avrà guadagnato e qualcun altro ci avrà perso. È questa l’ingiustizia dell’inflazione (o della reflazione) della moneta.

Con svalutazione o rivalutazione, contenuto nominale e contenuto reale (titolo aureo e sostanza aurea) iniziano il loro processo di divorzio. Il Denaro reale, come mezzo di circolazione, si allontana dal denaro come scala di misura dei prezzi, cessando così d’essere anche il vero equivalente delle merci i cui prezzi realizza. Demonetizza.

Se la stessa circolazione del denaro separa il contenuto reale della moneta dal suo contenuto nominale, la sua esistenza metallica dalla sua esistenza funzionale, essa, dice Marx, contiene già in forma latente la possibilità di sostituire il denaro metallico nella sua funzione di moneta con marche di materiale diverso, cioè con simboli o segni. Negli scambi minuti l’oro è sostituito dal rame. Il contenuto metallico della marca di rame è fissato arbitrariamente dalla legge. Nel circolare, queste monete si logorano ancor più rapidamente che le monete d’oro. Perciò la loro funzione monetaria diviene, di fatto, del tutto indipendente dal loro peso, cioè da qualunque valore. Il valore è fissato arbitrariamente. L’esistenza di moneta dell’oro si separa completamente dalla sua sostanza di valore. Non è più oro, dunque non è più prodotto del lavoro. Cose relativamente prive di valore, pezzi di carta, possono quindi funzionare al suo posto come numerario. Nelle marche monetarie metalliche, il carattere puramente simbolico è ancora in qualche modo nascosto; nella carta moneta, esso balza subito agli occhi.

Perché l’oro può essere sostituito da puri e semplici segni di se stesso, che non hanno valore? Come si è visto, esso è sostituibile solo in quanto è isolato e reso autonomo nella sua funzione di numerario o mezzo di circolazione. Ora, l’autonomizzazione di tale funzione non ha luogo per le singole monete d’oro, pur manifestandosi nel fatto che specie auree logore continuano tuttavia a circolare; le monete d’oro sono semplici monete, ossia mezzi di circolazione, solo finché circolano realmente. Ma quello che non vale per il singolo pezzo d’oro, vale per la massa minima d’oro sostituibile. Questa risiede in permanenza nella sfera della circolazione, funziona continuamente come mezzo di circolazione, e quindi esiste solo come depositaria di tale funzione. M – D – M, in cui la forma valore fronteggia la merce solo per scomparire subito di nuovo. La rappresentazione autonoma del valore di scambio della merce è qui solo un momento transeunte: essa è immediatamente sostituita da un’altra merce. Perciò, anche in un processo che fa continuamente migrare il denaro da una mano all’altra, basta l’esistenza puramente simbolica del denaro: la sua esistenza funzionale assorbe, per così dire, la sua esistenza materiale. Riflesso oggettivato evanescente dei prezzi delle merci, esso funziona ormai come puro segno di se medesimo, quindi sostituibile con segni. Solo che il segno del denaro ha bisogno di una sua validità oggettivamente sociale, e il simbolo cartaceo la riceve mediante il corso forzoso.

Appena la serie viene interrotta la Moneta (ideale) viene immobilizzate, diventa Denaro (Moneta-merce). Appena la serie delle metamorfosi viene interrotta, scrive Marx, e la vendita non è integrata da una compera successiva, la Moneta piomba a terra. Per arrestare la serie, bisogna far piombare a terra il valore. E siccome ogni compera non è mai immediata, anche quando avviene in un attimo, in quell’attimo la moneta piomba a terra, s’interra, tomba a terra, si territorializza. Siccome non c’è scambio senza tempo, allora non c’è scambio senza territorializzazione della moneta – senza tumulazione.

Per comprare senza vendere, il compratore deve aver in precedenza venduto senza comprare. Su scala generale, dice Marx, questa operazione è contraddittoria. Perché nella circolazione semplice, al termine delle contrattazioni, i debiti e i crediti debbono risultare azzerati. Ma se così stanno le cose, le operazioni registrano uno stallo. Per avviare lo scambio deve prodursi uno spareggio, uno squilibrio di bilancio.

I metalli nobili, dice Marx, alla loro fonte di produzione, vengono scambiati direttamente con altre merci. Qui ha luogo la vendita (da parte del possessore di merci) senza compra (da parte del possessore d’oro). Infatti, ribadisce in nota, la compera, intesa in generale, presuppone già l’oro come figura trasformata della merce, ossia prodotto della vendita. E le ulteriori vendite senza compere che le conseguono mediano semplicemente l’ulteriore distribuzione dei metalli nobili fra tutti i possessori di merci. Così, dice, su tutti i punti del traffico sorgono tesori d’oro e tesori d’argento, di volume differenziatissimo.

La merce, come valore d’uso, soddisfa un bisogno particolare e costituisce un elemento particolare della ricchezza materiale. Per il possessore di merci barbaro e semplice il valore è inseparabile dalla bene-uso valorizzato, e quindi per lui l’accrescimento del tesoro aureo è accrescimento di valore. Il che non è. Perché il valore del denaro-merce è variabile, sia in conseguenza delle proprie variazioni di valore, sia in conseguenza delle variazioni di valore delle merci. Ma tutto ciò, aggiunge Marx, non impedisce, da una parte, che 200 once d’oro contengano, prima e poi, più valore di cento, duecento, più di 300, ecc., né, d’altra parte, che il denaro-merce rimanga la forma generale di equivalente di tutte le merci, l’incarnazione, immediatamente sociale, di tutto il lavoro umano.

Il denaro, dice Marx, è, qualitativamente (in quanto attiene alla sua sostanza), senza limiti. E proprio perché è senza limiti è rappresentante generale della ricchezza materiale, perché è convertibile in ogni merce. Ma, dice, allo stesso tempo ogni somma di denaro è limitata quantitativamente (in quanto attiene al suo corpo fisico), e quindi è anche soltanto mezzo d’acquisto di efficacia limitata. Questa contraddizione fra il limite quantitativo e l’illimitatezza qualitativa rende pazza l’azione del tesaurizzatore. Per tenere fermo il denaro-merce gli si deve impedire di circolare, ossia di risolversi nell’acquisto di beni di consumo.

In un mercato in cui i pagamenti non sono immediati, dunque in un mercato in cui il denaro funziona come mezzo di pagamento, permettendo l’accensione di debiti e crediti, finché i pagamenti si compensano, scrive Marx, il denaro funziona solo idealmente, come denaro di conto, ossia misura dei valori. [Nota bene. Questa precisazione di Marx, come mostrano le osservazioni sul tesaurizzatore, non avalla nessuna teoria della moneta-segno. Non c’è moneta segno. Non c’è mera moneta concettuale senza una moneta fisica.] Appena si debbono compiere pagamenti reali, dice Marx, il denaro non si presenta come mezzo di circolazione, destinato a mediare e a scomparire, ma si presenta come incarnazione individuale del lavoro sociale, esistenza autonoma del valore di scambio, merce assoluta. Il causato diviene autonomo, sussiste per sé, disciolto dalle cause e dal causare, è l’ergon, il prodotto.

Il borghese, dice Marx, aveva appena finito di dichiarare che il denaro è vuota illusione. Solo la merce è denaro. E ora sul mercato mondiale ritorna il grido; «Solo il denaro è merce!».

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