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Neoliberismo, Pil e gli stereotipi dell’informazione

di Giovanni Dursi

economia export 1920x939«L’economia britannica è ora come l’Italia e la Grecia in termini di rischio per gli investitori, e i politici non sono stati onesti rispetto ai problemi che la nazione deve affrontare», denunciava il conservatore Daily Mail, giudizio immediatamente rilanciato, 18 Ottobre 2022, e commentato da Ugo Tramballi su Il Sole 24ore [1].

Nell’incipit, l’analista tra l’altro riferiva: «Narendra Modi aveva annunciato che l’India era diventata la quinta potenza economica mondiale. Come dato statistico assoluto, non per Pil pro capite. Ma, aveva annunciato il premier, la cosa più importante era che l’India avesse superato la Gran Bretagna.[…]».

Come è facile constatare, in Europa ed altrove nel mondo, l’ansia per le convulsioni economico-finanziarie, presunte o reali, è generata quotidianamente dai media preposti, old and new, al presidio informativo quotidiano con ricorrenti riferimenti che immaginano d’essere chiari e persuasivi, ma che di fatto sono utili stereotipi [2].

Perché questo accade è presto detto: il “mondo” è caratterizzato da una sempre più imprescindibile interdipendenza economica dagli Stati nazionali la cui governance risiede in una sostanziale “regia” delle grandi imprese multinazionali, in grado di “radicarsi nei territori”, grazie anche alle “delocalizzazioni”, con minori costi generali e con possibilità tecniche e finanziarie di presidiare tutto l’andamento produttivo e distributivo prevalentemente “da remoto”.

L’inerente informazione è strategicamente indispensabile a quel “presidio” rendendolo accettabile, è essenziale all’affermazione delle forme di “globalizzazione economica” in corso, come ha efficacemente impostato, pioneristicamente, la disamina in merito al funzionamento ed alle finalità della corrente “produzione politica delle menzogne” e dettagliatamente esplorato Vladimiro Giacché [3].

Ossessiva e contestuale, per pubblici indifferenziati, è la profusione, da molteplici canali e piattaforme, degli stereotipi. Questa sorta di peculiare sovraccarico di informazioni determina condizioni per la confusione inferenziale, spiegata come un deficit specifico consistente nella difficoltà di discriminazione tra immagini mentali ed eventi reali percepiti. Tipicamente, l’indotta confusione inferenziale costituisce una maniera distorsiva d’elaborazione delle informazioni, contraddistinta da una propensione a dislocare preminente reputazione nelle proprie rappresentazioni intellettuali o idee specifiche a svantaggio dei dati attendibili semmai ricavabili dalla diretta esperienza individuale e/o sociale.

Ad esempio, il linguaggio economico da tempo immemore esclude qualsiasi riferimento divulgativo alla “ricchezza delle Nazioni” [4] che non sia il Pil, la cui accezione stereotipata vuole che con essa s’intenda la complessiva condizione economico-sociale. In verità, si riferisce esclusivamente al valore dei prodotti e servizi realizzati all’interno di uno Stato sovrano in un determinato arco di tempo. Detto valore è quello che risulta da un mero processo di scambio ovvero, dalla vendita di prodotti e servizi.

Tali concetti, certo non sono menzogneri tout court; tuttavia, come principali indicatori di benessere di un sistema economico-sociale, omettono, selezionano, censurano ulteriori utili notizie che meglio configurerebbero la floridità o meno di un Paese, come effettivamente potrebbe essere se si desiderasse “misurare” esaustivamente la stessa fenomenologia con lo Human Development Index (HDI) [5]. Quest’ultimo strumento, consente di cogliere i dati necessari a comprendere e di incrociarli, esattamente come avviene nella interrelazione fattuale delle parti di realtà – strutturali o sovrastrutturali – che essi esprimono.

Infatti, lo H.D.I con le dimensioni analitiche integrate considera dappresso ed oggettivamente: 1) la possibilità di condurre una vita lunga e sana, misurata attraverso la speranza di vita alla nascita; 2) il livello di istruzione, misurato attraverso la media degli anni trascorsi a scuola dagli adulti e la media attesa degli anni da trascorrere a scuola per i bambini che si iscrivono alla scuola primaria; 3) avere uno standard di vita decente, misurato attraverso il Pil pro capite medio. Tutto ciò consente di oltrepassare la percezione-codificazione dello “crescita” come puro e semplice tasso di produzione e commercializzazione di prodotti e servizi.

Bisogna riandare ad Immanuel Kant per impostare correttamente la problematica; nella Critica della ragion pura (1781-1787) il filosofo di Königsberg, volendo definire il concetto di realtà mediante la coppia Erscheinung (fenomeno) / Noúmenon (realtà in sé, inconoscibile, essenza pensabile), giunge a contemplare come dirimente il punto iniziale d’osservazione: se si portassero perennemente occhiali con lenti di color verde, saremmo ovviamente sollecitati ad immaginare il mondo dall’inequivocabile aspetto cromaticamente verde.

Non inediti, del resto, sono gli stessi singolari “abbagli previsionali” commessi dai vari governi che si sono alternati negli ultimi anni di crisi (dal 2007-2008), su deficit pubblico, debito pubblico e Pil nominale, ampiamente divulgati dagli Uffici-Studi ministeriali dei diversi Paesi e dalle interpretazioni che si trasformano in messaggi oracolari, veri e propri «editti prescrittivi e comunicativi», delle società, prevalentemente statunitensi, di rating e di servizi finanziari, nonché degli organismi internazionali quali il FMI, la Banca mondiale e la Banca centrale europea, «portatori di una filosofia finalizzata al condizionamento politico» [6].

Proprio in questi giorni sui media viene “sobriamente” diffusa la notizia di “errori”, nelle previsioni circa la recrudescenza dell’inflazione che mette in subbuglio soprattutto il mercato monetario, da parte di chi ha la responsabilità della governance mondiale economico-finanziaria. Ciononostante, si arriverà presto a nascondere le inerenti informazioni perché il Circo Barnum degli artifici contabili, degli sconfinamento deficit/Pil, dei conti pubblici in dissesto, del difficoltoso introito tributario, del ripiegamento dello spread, degli aggiornamenti ai Documenti di programmazione economico-finanziaria, deve comunicare una “complessità” virtuale per far pensare ad altro e perché la società civile deve essere sovradeterminata in modo profittevole dalla manipolazione delle conoscenze, dalle menzogne occultanti la realtà sociale.

La stessa logica è alacremente all’opera in queste ultime ore. Viene offerta all’opinione pubblica italiana una panoramica decontestualizzata, ma ottimista dell’economia nazionale. Innanzitutto, si esalta il fatto che dal resto d’Europa arrivano indicazioni incomparabili con il Pil italiano in crescita: si ferma la Germania, cresce leggermente la Francia e accelera la Spagna. Sotto l’attese l’Eurozona, con crescita dello 0,1% nel primo trimestre e dell’1,3% su base annua, contro il +0,3% e +1,8% raggiunti rispettivamente dalla UE. Si insiste sull’ottimismo sostenendo che nel primo trimestre del 2023 il Pil, espresso in valori concatenati con anno di riferimento 2015, corretto per gli effetti di calendario e destagionalizzato, sia aumentato dello 0,5% rispetto al trimestre precedente e sia cresciuto dell’1,8% in termini tendenziali. Questi dati sono stati comunicati dall’ISTAT diffondendo la stima preliminare, constatando che il primo trimestre del 2023 ha avuto due giornate lavorative in più rispetto al trimestre precedente e una giornata lavorativa in più rispetto al primo trimestre del 2022.

Qualcuno s’avventura a dire che «alle illazioni rispondono i fatti», automedagliandosi per i presunti risultati raggiunti.

Viene da chiedere al Ministro dell’Economia e delle finanze, di grazia, a quali “fatti” ci si riferisce? Il solo “fatto” di un esclusivo – effimero e transitorio – recupero o rimbalzo, che dir si voglia, parametrato limitatamente all’andamento di due anni addietro, mentre è notorio che la sofferenza sociale e l’eventuale indice di sviluppo va misurata sul medio e lungo periodo e non riguarda la “crescita” come puro e semplice tasso di produzione e commercializzazione di prodotti e servizi.

Si sta constatando che la politica, le istituzioni, i media compiacenti, prediligono il linguaggio totalizzante della “comunicazione d’impresa”. Essa è generata e veicolata tradizionalmente dalle aziende per informare l’ambiente economico e sociale, declinata nelle forme di comunicazione commerciale, istituzionale, gestionale ed economico-finanziaria, oggi assume un aspetto totalizzante.

Costruisce, in altri termini, uno stereotipo pubblico agente come “coazione a ripetere” in grado di sussumere gli inerenti concetti in una narrazione senza sfumature di colore o alternative. Riconduce cioè la complessa e plurivoca realtà umana – socio-culturale e tecnologica – nell’ambito di un’astratta semplificazione – spesso frequentante la banalizzazione – nella cui estensione essa è compresa, alla dimensione dell’homo œconomicus. Tale concezione, affatto inedita, è illustrata per la prima volta da John Stuart Mill, che opera nella seconda metà del XIX secolo [7].

Mill vaticinò il liberismo delle “compatibilità” con l’intenzione di conciliare il principio della proprietà e della libera produzione con una dose non eccessiva di giustizia distributiva, ritenendo fenomeno naturale, retta da leggi immutabili, l’attività umana della produzione e come sovrastruttura civile in corso d’evoluzione storico-sociale, soggetta quindi a continue variazioni in seguito all’azione degli uomini, quella della distribuzione.

L’epoca contemporanea, riconfermando il “fondamentale” dell’economia classica – l’esistenza dell’homo œconomicus – accentua l’idea del laissez faire corrispondente al ripristino integrale dell’effettiva libertà del “mercato” ed alla codifica unilaterale delle forme collettive di vita.

L’impressione è che sia strumentalizzata una nota concezione giusnaturalista, che sia piegata a scopi di riproduzione del sistema capitalista una “metafisica influente”. Quest’ultima basata su due principi: l’esistenza di un diritto naturale (conforme, cioè, alla natura dell’uomo e quindi intrinsecamente giusto) e la sua superiorità su qualsivoglia diritto positivo, il diritto prodotto dalle comunità umane che obbligherebbe ad ammettere l’idea della trasformazione storico-sociale.

Il liberismo ammette l’economia capitalista come condizione prepolitica, quindi necessitante le circostanze, ritenute invariabili in cui vivono gli individui.

Il neoliberismo, infatti – ci si riferisce, in particolare, a Friedrich August von Hayek, a Ludwig von Mises e a Jacques-Léon Rueff – sostiene concordemente lo smantellamento dell’ipotesi di John Maynard Keynes – secondo il quale importante è l’intervento dello Stato attraverso la spesa pubblica perché la condizione tipica del sistema economico non è l’equilibrio, ma la sottoccupazione – enfatizzando gli inconvenienti pratici dell’intervento dello Stato, ritenuto spesso inefficace, sempre tardivo, pesante e facile a degenerare in costrizione.

L’unica “coazione a ripetere” accettabile dai neoliberisti ed adepti, dunque, è il consolidamento dello stereotipo dell’homo œconomicus supportato dalla persistenza del modo capitalistico globale di produzione e riproduzione della vita. Vita socialis hominum est ancilla œconomiae.

Si può constatare una vera e propria convergenza semantico-lessicale da parte di chi tratta, con competenza o meno, nello svolgimento di inerenti e diversi compiti istituzionali, le problematiche economiche e finanziarie, al fine di congegnare e/o rappresentare univocamente l’andamento del sistema vigente di produzione e riproduzione della vita – apparentemente privo di barriere o confini statali – che notoriamente è definito dell’economia globale la cui affermazione internazionale non è un evento recente, bensì durevole da oltre un secolo.

Gli universi materiali, linguistici e psicologico-comportamentali si amalgamano, si fondono fino all’indistinzione in un unicum che, sul lungo periodo, diviene condizione alienata del mancato possesso individuale-sociale o assenza di ogni elemento cognitivo necessario (singolo o particolare) di individuazione. Per dirla con un’espressione di G. W. Friedrich Hegel, presente nella Prefazione ai “Lineamenti di filosofia del diritto”, opera del 1821: «Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale è razionale».

La narrazione di tal fatta allude con costanza all’incremento di accordi commerciali e trattati di diverso tipo come ambiti di veridicità circa le vicende che sembrano accadere come in una “realtà panottica” [8].

A dire il vero, sono «gli anni Ottanta [ad essere] unanimemente riconosciuti come il decennio della grande controrivoluzione neoliberista, di cui si erano poste le fondamenta già nel decennio precedente, come aveva intuito [Federico] Caffè, che un po’ in tutto l’Occidente avviarono lo smantellamento degli strumenti “keynesiani” di gestione dell’economia, la deregolamentazione dei mercati e della finanza, l’attacco al sindacato ed alla contrattazione collettiva, nonché l’ascesa di un nuovo spirito del capitalismo” [9], fondato sull’elogio dell’individuo, del consumismo, della competitività, dell’autoimprenditorialità, del profitto e della cultura d’impresa […]”[10].

La concezione neoliberista dell’economia e della società utilizza come megafono appropriato la comunicazione pubblica per far conoscere l’idea di una lieve flessione congiunturale dell’ultimo trimestre del 2022 e di una mirabile ripresa di inizio 2023 che prospetta un tasso di crescita acquisito per il 2023 stimato allo 0,8.

Di fronte a tanta ingiustificata acritica “fiducia” divulgata con straordinaria generosità, vale la pena ricordare ben altrimenti serie considerazioni di Federico Caffè: «Le misure di aggiustamento imposte ai paesi debitori hanno provocato nell’area una crisi senza precedenti, caratterizzata da un drastico declino del prodotto pro-capite, che è ora al livello del precedente decennio e ha condotta ad una disoccupazione che coinvolge un quarto della forza lavoro, come pure ad un rilevante declino dei salari reali, con la prospettiva di serie ripercussioni politiche e sociali […] É da queste affermazioni che trae significato ciò che sembra non improprio designare come “economia usuraia”» [11].


Note
[1] L’analisi – Le menzogne della Brexit dietro il declino di Londra.
[2] Definizione alla quale ci si riferisce: “Opinione precostituita su persone o gruppi, che prescinde dalla valutazione del singolo caso ed è frutto di un antecedente processo d’ipergeneralizzazione e ipersemplificazione, ovvero risultato di una falsa operazione deduttiva” Fonte: Voce enciclopedica dell’Istituto Treccani.
[3] Vladimiro Giacchè, La fabbrica del falso – Strategie della menzogna nella politica contemporanea, I Edizione, DeriveApprodi, 2011.
[4] La definizione è tratta, come è noto, dall’opera An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations redatta dal 1767 al 1773 da Adam Smit.
[5] Si tenga presente che ogni anno l’United Nations Development Programme (il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) pubblica, dal 1990, il dettagliato “Rapporto”.
[6] F. Caffè, intervento pubblico in “La dignità del lavoro”, a cura di Giuseppe Amari, Castelvecchi, 2017., cit. in Thomas Fazi, “Una civiltà possibile – La lezione dimenticata di Federico Caffè”, Meltemi, 2022.
[7] Rif. all’autore dei Essays on some unsettled questions in political economy, pubblicati nel 1844, dei Principles of political economy, del 1848. Il filosofo ed economista inglese, ciò non va trascurato, propone, inoltre, come unico fondamento della morale la “regola aurea” dell’utilitarismo, nell’omonima opera, Utilitarianism del 1863.
[8] Jeremy Bentham, Panopticon ovvero la casa d’ispezione, a cura di M. Foucault e M. Perrot, Marsilio, 1997.
[9] Luc Boltanski, Ève Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis Edizioni, 2014.
[10] Op. cit., Thomas Fazi, Una civiltà possibile – La lezione dimenticata di Federico Caffè, Meltemi, 2022.
[11] Federico Caffè, Il tempo dell’economia “usuraia”, 1984, in In difesa del welfare state – Saggi di politica economica, Rosemberg & Sellkier, 1986. la citazione è resa in Thomas Fazi, Una civiltà possibile – La lezione dimenticata di Federico Caffè, Meltemi, 2022., pag. 180.

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