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linterferenza

Il sessantotto

Armando Ermini

Proseguiamo la riflessione sul ’68 che abbiamo iniziato alcuni giorni fa in seguito alla pubblicazione di una breve ma significativa testimonianza del compianto filosofo marxista Stefano Garroni, con questo interessante contributo  di  Armando Ermini che riportiamo di seguito. Si tratta di un argomento molto controverso in grado di suscitare ancora, a distanza di tanti anni, un vivace e accesissimo dibattito. Saremo ovviamente felici di ospitare i contributi di tutti coloro che volessero esprimere la loro opinione sul tema. 

734“Ripensare quel periodo della nostra storia non solo è legittimo ma anche doveroso. Oggi, lontano dal fuoco della lotta di quegli anni, lo possiamo fare con più razionalità e realismo, solo che  si abbia la volontà e la lucidità necessarie.  Proprio quello che la grande maggioranza di chi a quel movimento partecipò si rifiuta  di fare fino in fondo.  Non si tratta  di nostalgia per i giovanili anni ruggenti, né di fare i cantori  dell’immobilismo ideologico.  Il cambiamento,  nello sforzo di capire la realtà che ci circonda, anche per trasformarla,  è  non solo normale ma anche inevitabile. Non si tratta nemmeno di rinnegare alcunchè, di fare abiure del passato o simili penose pratiche. Si tratta “solo” di  tentare di capire se, dove e perché sbagliavamo; non nel desiderare astrattamente un mondo diverso, ma nel come realizzarlo concretamente.  Non sto pensando, ovviamente,   a quei figli dell’alta/media borghesia in “libera uscita”,  passati in breve tempo con la nonchalance degli snob, dai gruppi dirigenti duri e puri  di Potere Operaio o Lotta Continua al board di una Società per azioni. E nemmeno a coloro i quali,  bloccati in ferree e malintese armature ideologiche, sono sconfinati nella follia terroristica scambiandola per lotta di classe. Sto invece pensando alla massa di studenti di estrazione piccolo borghese diventati il nucleo forte dell’intellighenzia,  nei giornali, nelle TV, nelle case editrici , nella scuola e nell’università, insomma in tutti quei luoghi dove si forma il consenso. Essi si ostinano a  credere di aver fatto qualcosa di grande e di rivoluzionario, magari non concluso causa il destino cinico e baro, ma comunque nel flusso di una trasformazione sociale positiva e rivolta ad una più ampia libertà.

Ammettono la sconfitta  sul piano politico  attribuendola popolo bue che ha creduto  ad Andreotti o a D’Alema o anche all’arcinemico Berlusconi,   ma   credono ancora di aver ottenuto importanti seppur parziali vittorie su quello culturale. Approdati  infine all’area  progressista del PD o a  Sel, sono fermamente convinti di stare proseguendo  la loro battaglia progressista contro l’oscurantismo.

Ora, poichè che nessun soggetto sano di mente può sostenere che oggi vige  maggior giustizia sociale di quarant’anni or sono, se la misuriamo non  in termini di telefonini ma di precariato o  di disoccupazione, di pensioni o di prospettive di vita per sé e per le generazioni future o di divario fra i redditi più alti e quelli più bassi, i  parametri  classici di chi si pensa di sinistra, l’attenzione si deve allora  spostare su cosa significa rivendicare  vittorie  sul piano culturale.

Fabrizio Marchi dice che il sessantotto si tradusse in sostanza in un rinnovamento ideologico della borghesia per sostituire il vecchio sistema valoriale (Dio, Patria, Famiglia), con un altro più funzionale alle nuove esigenze del capitalismo. Dal canto suo Garroni parla di  “tipiche ideologie del decadentismo borghese (aborto, femminismo, droga, omosessualità)…. con l’opportuno intervento dietro le quinte – ma neanche tanto - delle grandi multinazionali..”

I due concetti non sono identici ma sono affini, quindi compatibili, e colgono un aspetto importante della verità di quegli anni: la necessità del nuovo capitalismo che da industriale si avviava a divenire finanziario e globalizzato,  di sbarazzarsi delle vecchie ideologie, ma ancor più in profondità delle vecchie concezioni antropologiche,  che lo avevano fino a quel momento supportato o che, almeno, non erano incompatibili con esso. Tuttavia, a mio parere, contengono entrambi un errore. Marchi parla di rinnovamento della borghesia, Garroni di appropriazione da parte del capitale delle ideologie del decadentismo borghese;  entrambi cioè fanno riferimento al capitale e alla borghesia come fossero entità interscambiabili. Circa Garroni è da osservare che il decadentismo è si l’altra faccia della borghesia, quindi un suo prodotto, ma riservato ad alcune circoscritte “elite” che il corpaccione maggioritario della classe poteva tranquillamente sopportare, rappresentando anzi una valvola di sfogo per i suoi figli “ribelli”. Certamente non ne era il fulcro, rappresentato meglio, piuttosto,  da quei valori di cui parla Marchi; con la precisazione che si trattava in realtà più di Patria e di Famiglia che di Dio, essendo le rivoluzioni borghesi  anticlericali e in particolare anticattoliche, legate  al positivismo scientifico e al rifiuto di ogni idea di trascendenza.  Le norme religiose erano  utili per molti aspetti (si veda il Gramsci di Americanismo e fordismo), ma più per controllo sociale che per contiguità o identità ideologica.

E’ però un fatto inoppugnabile che quei valori  definiti “borghesi” erano, come riconosceva Pier Paolo Pasolini,  radicati  nel popolo col loro portato di tradizioni, usi, costumi.  Il proletariato si contrapponeva alla borghesia sul terreno sociale, economico e politico ed anche su quello religioso nella misura in cui il clero si poneva come stampella dell’ordine economico capitalistico, ma non su quello antropologico.  Temi quali aborto, omosessualismo, femminismo erano quanto di più lontano dalla mentalità popolare, e del resto sappiamo bene che quando si trattò di scegliere fra Patria  e Internazionalismo,  i proletariati europei  scelsero, all’alba del primo conflitto mondiale,  la prima. Si potrebbe spiegare questo fatto  seguendo il filo  di ragionamento di Gramsci, secondo il quale le idee della classe dominante divengono quasi automaticamente le idee dominanti, ma:  a) proprio per questo,  se l’ideologia borghese tipica viene spazzata via ad opera del capitale, magari utilizzando le concezioni  di una sua parte minoritaria, ciò significa che si è prodotta una forte rottura  culturale nella classe e della classe, e b) si dovrebbe riflettere maggiormente su quanto avvenne in Urss. Stalin,  dopo venticinque anni di socialismo, per vincere la Grande Guerra Patriottica dovette fare appello, appunto, alla Patria russa ed anche alla fede popolare, allorchè riaprì le chiese al culto e concluse accordi col Patriarcato ortodosso . Quanto poi alla famiglia, dopo l’iniziale fervore distruttivo rivoluzionario, i sovietici dovettero tornare sui loro passi, pena la perdita di coesione sociale della Russia, e il pericolo di dissoluzione dall’interno.

Insieme ad una fortissima contrapposizione di classe, fra borghesia e proletariato esisteva insomma  un comune terreno antropologico che mi sembra sbagliato attribuire sic et simpliciter all’egemonia  culturale che la borghesia dominante avrebbe esercitato sulle classi subalterne.

Se quanto sopra è vero, anche solo in parte, ciò significa che il capitale come rapporto sociale di produzione è “indipendente” dagli attori nei quali tale rapporto si incarna, e che esiste potenzialmente la possibilità  di una  loro trasformazione storica, peraltro già intravista da Marx ed Engels al loro tempo, e precisamente nelle conseguenze, allora ancora molto relative,  del passaggio dell’impresa individuale in società per azioni. Queste  si distinguono dalla prima per la separazione fra la funzione e la proprietà del capitale, per  la  “trasformazione del capitalista realmente operante in semplice dirigente, amministratore di capitali altrui, e dei proprietari di capitale in puri e semplici proprietari, puri e semplici capitalisti monetari”[1]. Questa trasformazione, descritta così sempre nel Terzo Libro; “Questo significa la soppressione del modo di produzione capitalistico nell’ambito dello stesso modo di produzione capitalistico stesso”,  ha alimentato la discussione sul fatto che volesse significare l’effettivo superamento del capitalismo sulla base di un processo tutto interno al capitale. Esula dagli scopi di questo lavoro l’approfondimento di questa discussione, limitandomi ad affermare l’inconsistenza di questa tesi sulla base del fatto che tutto ciò non mette in discussione il concetto di capitale come rapporto sociale di produzione, quindi come funzione distinta dagli attori che lo impersonificano.  Semmai, per Marx, quel processo di socializzazione della produzione creava le condizioni oggettive per il superamento, non il superamento in quanto tale. Oggi  che quei processi si sono accentuati al massimo grado, vediamo che non è così, e che qualsiasi prospettiva di transizione al comunismo non è all’ordine del giorno in nessuna parte del mondo, nondimeno è però di grande interesse per quello di cui scriviamo.  A questo proposito vale riportare quanto scrive Engels  sui trust e sul processo di concentrazione  in un numero sempre minore di soggetti della proprietà dei mezzi di produzione:  “ tutte le funzioni sociali del capitalista sono ora compiute da impiegati salariati”, e tutto ciò “dimostra che la borghesia è diventata superflua”[2] [corsivo mio].

Se operai e capitalisti sono “estremi di un rapporto di produzione”, come  scrive Marx nei Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (Grundrisse) cioè “agenti, rappresentanti, sociali, depositari, personificazioni” di funzioni sociali collegate al processo di produzione capitalistico , e se “il capitale  è costituito non soltanto dai prodotti dei lavoratori trasformati in potenze autonome, dei prodotti come dominatori e compratori dei loro produttori, ma anche dalle forze sociali” (Il Capitale III),  Engels prefigura  dal canto suo  un capitalismo senza borghesia, cioè senza un suo proprio specifico agente sociale;  un capitalismo che non necessita più di  mediazione culturale e politica in quanto in grado di rappresentarsi da solo tramite suoi funzionari. Il venir meno della necessità di mediazione culturale per affermare la propria logica, significa però  che il capitale  è riuscito a saturare ogni spazio della vita sociale e individuale,  culturale e politica, tanto che ciascun soggetto, qualsiasi posto occupi nella scala sociale è indotto a pensarsi solo nelle sue coordinate o, come scrive Camatte, come comunità capitale.

Se dunque borghesia e proletariato sono ora culturalmente unificati sotto il segno del capitale, tanto che si può parlare come fa Costanzo Preve, di Capitalismo Assoluto, se borghesia e proletariato hanno perduto la loro perseità, dovrebbe essere evidente che si pone anche il problema delle forme in cui la lotta di classe possa e debba esprimersi per manifestare quell’antagonismo irriducibile che l’aveva contraddistinta in passato. Si pone anzi, qui, un problema in più a cui accennerò soltanto di sfuggita, non essendo questo l’argomento vero e proprio dell’articolo.

Se la sfera della sovrastruttura diventa di importanza almeno pari a quella strutturale per determinare i rapporti di potere, se in questa sfera il Capitale ha dissolto le due classi antagoniste per unificarle sotto l’egemonia  culturale della forma merce e della sua circolazione illimitata che esige la rimozione di qualsiasi ostacolo materiale (globalizzazione economica e giuridica),  e valoriale (attacco alla religione,  alla famiglia, alla differenza sessuale stessa in nome dell’omologazione del Gender, del femminismo e dell’omosessualismo), allora un problema si pone anche riguardo alla definizione del concetto di classe, ossia circa la distinzione fra classe in sé e classe per sé,  e addirittura circa la natura stessa del modo di produzione capitalistico come lo si è sempre inteso.

In ogni caso il cambiamento qualitativo, il vero e proprio salto di paradigma attuato dal capitale, sposta tutti i termini della discussione, non per ultimo quello della rappresentanza politica delle classi e delle sue forme, quindi anche del partito leninista e del rapporto fra avanguardie e classe.

Tornando  quindi al sessantotto, credo che ciò che non si capì allora, e forse non era ancora possibile farlo, fu proprio quel salto di paradigma,  e continuammo in realtà a identificare la lotta contro l’ideologia borghese con la lotta contro il capitale, mentre questo aveva già preso altre strade.  Avvenne non solo per il movimento giovanile nel suo complesso, che giustamente Garroni connota come “politicamente immaturo e ignorantissimo”.  Fra partentesi quì mi sento di dire  che è in parziale difetto quando scrive  che né i partiti riformisti né il movimento giovanile seppero reggere l’urto della classe capitalistica che fece crescente ricorso ai fascisti. Non perché il ricorso allo squadrismo non sia stato vero, ma perché anch’esso fu usato (e  incentivato) spregiudicatamente dallo Stato e dal capitale (la teoria degli opposti estremismi),  per porsi come l’unico fattore si stabilizzazione democratica contro il pericolo fascista o comunista,  e come unica possibilità di riformare culturalmente il sistema in senso vagamente progressista (Compromesso storico).  D’altronde quel movimento politicamente immaturo  si muoveva, lo vedremo, non tanto su un piano direttamente politico quanto su un’esigenza di rinnovamento dei costumi e degli stili di vita (beat generation, fenomeno hippy), e non troppo si poteva pretendere da esso.  Il fatto è, piuttosto, che quell’errore  teorico di identificare il capitale col suo agente storico tradizionale (borghesia) fu compiuto anche da chi si autoproclamava avanguardia, ossia da quei gruppi collocati alla sinistra del PCI che volevano porsi a capo della sommossa giovanile.  Questi possono essere grosso modo suddivisi in due filoni principali, con caratteri  molto diversi. Da una parte l’area, genericamente definita marxista-leninista (di cui facevo parte), contrassegnata da rigidità ideologica, che applicava scolasticamente i paradigmi del marxismo della Terza Internazionale, e che  guardava allo stalinismo ed al maoismo come corpi dottrinari i cui principi trasferire pedissequamente nelle società occidentali sviluppate.  Se la rigidità ideologica preservò quest’area dal libertarismo e da quei caratteri che Garroni definisce di decandentismo borghese, dall’altro rese questi gruppi assai sclerotici e minoritari, alle volte attraversati anche da venature moralistiche. In sostanza incapaci di aggregare consensi ma capaci in teoria di esistere in eterno continuando ad recitare le solite giaculatorie.  Dall’altra parte possiamo collocare quei gruppi che, per comodità e con molta approssimazione, definiremo  in generale “operaisti”, come Potere Operaio e soprattutto Lotta Continua, il più numeroso ed anche il più duttile, innovativo e aperto alle  istanze libertarie, peraltro già  presenti come filone minoritario di un marxismo letto in chiave anarchicheggiante (Daniel Guerin).   In essi il richiamo alla dottrina era molto più generico e metodologico piuttosto che analitico, mentre il riferimento a Luxemburg ne connotava lo spirito movimentista più che di partito rigidamente leninista.  Sta di fatto che dopo un tormentato dibattito LC si sciolse come vera e propria organizzazione politica nel  nome della parola d’ordine “il personale è politico”, assumendo in pieno le istanze del femminismo e del libertarismo antiborghesi, scambiandoli per autentico anticapitalismo. Non può essere un caso che da  LC siano transitati Emma Bonino, Mario Mieli (fondatore del F.U.O.R.I – Fronte unito omosessuali rivoluzionari italiani) e soprattutto che ne fosse leader carismatico Adriano Sofri,  che su Repubblica è diventato uno dei maggiori corifei del femminismo e dell’interventismo militare occidentale nel mondo in nome dei diritti umani e dell’esportazione della democrazia. A metà fra queste due aree possiamo collocare il gruppo de Il Manifesto, del quale basti dire che la linea culturale del quotidiano che porta lo stesso nome costituisce lo sviluppo coerente di ciò che già era in fieri alla sua nascita.

Il sessantotto fu quindi un periodo temporale complesso in cui si intrecciarono più istanze. Le necessità di ammodernamento capitalistico (produttivo e culturale), le istanze di ribellione giovanile verso i vecchi valori della società industriale diventati improvvisamente superati e anacronistici, culture politiche  dotate di categorie interpretative della realtà obsolete ma che alla luce della quali quella ribellione poteva sembrare un prodromo rivoluzionario. E’ come se la scena di un film fosse percepita in un modo dagli attori che la girano, ma in tutt’altro modo da uno spettatore che vi assistesse dall’esterno e, conoscendo le intenzioni e le idee del regista,  ne avesse una visione d’insieme diversa.  E’ questo, credo, il motivo per cui siamo ancora a parlare di quel tempo senza trovarsi d’accordo sul suo senso, per il quale occorre tuttavia prescindere dalle buone intenzioni soggettive, che c’erano ed erano generose ed entusiaste,  per valutarlo  dai suoi esiti.

In poche parole: oggi il capitalismo è più debole o più forte di ieri? Il sistema di valori  sui quali si fonda è stato davvero intaccato o si è invece esteso a tutto il corpo sociale? Quelle “libertà” che sembrammo aver conquistato sono libertà strappate al capitale o “libertà” che il capitale concede perchè funzionali alla sua riproduzione allargata?

Vorrei chiudere questo intervento con un richiamo storico, perché se la storia non si presenta mai due volte in modo identico, tuttavia certe analogie dovrebbero indurre a riflettere.  Ho accennato sopra alla beat generation ed agli hippy, antesignani statunitensi di ciò che avvenne in Europa in modo  più politicizzato e con l’ambizione non solo di modernizzazione culturale ma anche di rovesciamento economico-politico. Valgono, per USA ed Europa, le domande che ho posto sopra, ma quello sessantottino non fu il primo movimento antiborghese  e antiautoritario della storia.  Voglio ricordare  l’esperienza anarchicheggiante della repubblica del Carnaro a cavallo fra il 1919  e il 1920, cui parteciparono “nazionalisti e internazionalisti, monarchici e repubblicani, conservatori e sindacalisti, clericali e anarchici, imperialisti e comunisti”, secondo la descrizione dello storico  Leone Kocknitzky (1892-1965) nel suo La quinta stagione o i centauri di Fiume. A  Fiume “il piacere diventa prerogativa di tutti coloro che sono convenuti alla festa della rivoluzione. Godimenti senza limiti, divertimenti, libero fluire dei desideri, comportamenti disinibiti, privi di moralismo: tali sono i caratteri che di quest’esperienza collettiva, sostanzialmente liberatoria, ci tramandano cronache e memorie” , afferma Claudia Salaris nel suo saggio, Alla festa della Rivoluzione.

“Vogliamo liberare l’Italia dal papato, dalla monarchia, dal Senato, dal matrimonio, dal Parlamento. Vogliamo un governo tecnico senza parlamento, vivificato da un consiglio o eccitatorio di giovanissimi. Vogliamo l’abolizione degli eserciti permanenti, dei tribunali, delle polizie e dei carceri, perché la nostra razza di geniali possa sviluppare la maggior quantità possibile di individui liberissimi, forti, laboriosi, novatori, veloci” .

Potrebbe tranquillamente essere una dichiarazione d’intenti del movimento del sessantotto, ma è invece un testo di  Filippo Tommaso Marinetti “Al di là del comunismo”, pubblicato sul giornale dei legionari fiumani La testa di ferro. Marinetti è noto, aderì poco tempo dopo  al fascismo.

Da parte loro, i Wandervogel[3],  movimento giovanile tedesco  nato a cavallo fra il XIX e il XX secolo, presentano forti analogie con gli Hippy.  Antiautoritarismo, ribellione contro l’ipocrisia e la rigidità  della società guglielmina, disprezzo del “pantano borghese e dell’associazionismo”, dei sistemi pedagogici del mondo dei “vecchi”, ecologismo ante-litteram, pacifismo, culto della natura e del corpo,  amore per la musica, ne furono i caratteri principali.  I Wandervogel aggregarono molti giovani tedeschi di entrambi i sessi.  Ebbene, finirono per confluire nella gioventù hitleriana.

Nei movimenti antiborghesi,  e tali furono quelli che ho ricordato sopra, esiste sempre una componente non razionale, inconscia, direi quasi un’eccedenza che alla fine li spinge verso esiti del tutto estranei alle loro originari intenzioni.  Ne scrisse C.G. Jung  nel 1936 nel saggio  Wotan, a proposito della nascita del nazismo in Germania. Wotan è il Dio guerriero e passionale, incantatore e illusionista, inquieto e in perenne movimento, il cui spirito è da sempre presente, seppure “in sonno” per lunghi periodi, nell’inconscio collettivo del popolo tedesco. I caratteri archetipici di Wotan sono rintracciabili sia nei Wandervogel, come Jung stesso accenna nel saggio quando parla dei giovani biondi armati di chitarra e zaino che errano liberamente sulle strade d’Europa, sia nelle inquiete istanze libertarie che animarono gli entusiasti protagonisti del Carnaro, ma anche nel movimento libertario del sessantotto. Diventa allora importante capire il senso del risveglio del Dio capace di “afferrare” e “possedere” un intero popolo, e non soltanto quello tedesco. Senso che Erich Neumann sintetizza così :

“il wotanismo, col suo abbandono estatico e con le sue tempeste di emozioni guerresche, è privo dell’occhioluce della conoscenza superiore […] L’oscuro tipo wotanico del cacciatore selvaggio e dell’Olandese volante appartiene al seguito della Grande Madre. Dietro la loro inquietudine spirituale si nasconde sempre l’antica brama uroborica, la volontà di morte dell’incesto uroborico, che sembra così profondamente radicata nel mondo germanico” [4]

Credo che ci sia molto su cui riflettere, perché le analogie col movimento del sessantotto esistono, non tanto nei gruppi politici che nacquero da quell’esperienza o che tentarono di inserirvisi, quanto nello spirito e nei sentimenti che animavano chi lo visse come grande momento di liberazione, personale e politica. Non si tratta di distribuire condanne o assoluzioni, e nemmeno di negare  ogni validità alle istanze che allora ci mossero. Alcuni, e credo a ragione, hanno definito quel movimento come una rivolta contro il principio d’autorità e contro il padre che da sempre lo incarna. Ecco, anche da questo punto di vista credo si sia commesso un errore, analogo ma simmetrico, a quello che ha portato a identificare borghesia e capitale; si è identificato  il padre tout court col padre borghese, ed invece di ribellarsi contro il secondo per liberare e recuperare il primo, si è voluto distruggerlo completamente, aprendo  un’autostrada all’avversario. Ciò che personalmente mi sgomenta  non sono gli errori del passato, ma il fatto che ancora oggi non si vedano (o non si voglia farlo), e che si pensi anzi di accelerare ulteriormente nella stessa direzione. Il Capitale ringrazia!

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Note
[1]Karl Marx. Il Capitale, libro III
[2]F. Engels, Il socialismo dall’utopia alla scienza, Roma 1970
[3]Si veda, anche per l’esperienza fiumana, http://www.ilcovile.it/raccolte/RACCOLTA_COVILE__2_Romano_Guardini_e_i_movimenti_moderni.pdf
[4]E.N. Storia delle origini della coscienza, Astrolabio, Roma 1972
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