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La mutazione neoliberista

di Franco Berardi Bifo

unpaid internship 300x223Un paio di anni fa, l’anno precedente l’EXPO milanese per intenderci, insegnavo a Brera, e il mio corso era dedicato alle questioni della precarietà. Il tema dell’EXPO, e particolarmente del lavoro gratuito che veniva “offerto” ai giovani, era naturalmente al centro delle mie lezioni e delle discussioni in classe. A un certo punto un ragazzo cinese che aveva seguito il mio corso con attenzione, anche se aveva qualche difficoltà con la lingua (ma sai come fanno, mentre tu parli digitano sul cellulare una parola che non capiscono e poi fanno cenno di sì tra sé e sé) prese la parola e mi disse che lui aveva accettato la proposta dell’EXPO. Gli chiesi di spiegare le sue ragioni alla classe, e lui disse una cosa ragionevolissima. Mi disse che lui veniva da un villaggio vico a Shanghai e che la possibilità di “fare un’esperienza come quella” (si espresse proprio così) per lui era un’occasione da non perdere. Mi immedesimai in lui, pensai se a venti anni mi fosse capitato di ricevere dall’EXPO di Shanghai la proposta di lavorare gratis per un po’. Effettivamente per me si sarebbe trattato di un’esperienza talmente sbalorditiva che solo il mio occhiuto dogmatismo operaista avrebbe potuto trattenermi dall’accettare.

Scrive Sergio Bologna in Lavoro gratuito ed economia dell’evento: “A casa, disoccupato, tua madre ti tormenta, ti senti un diverso, mentre se lavori gratis sei normale. L’accettazione del lavoro gratuito dipende perciò anche dal fatto che c’è qualcosa che ricompensa più della retribuzione: la protezione dall’angoscia, dalla solitudine”. Questa bellissima citazione l’ho trovata nel libro di Federico Chicchi, Emanuele Leonardi e Stefano Lucarelli, edito da ombre corte col titolo Logiche dello sfruttamento. Un libro importante, che produce alcuni spostamenti teorici e percettivi che si riveleranno preziosi se vorremo trovare il modo di dare forma cosciente e collettiva ai processi di soggettivazione del lavoro nell’epoca precaria. Il libro è dedicato a una ridefinizione del quadro concettuale che ci permette di comprendere la messa al lavoro della vita, cioè le nuove logiche dello sfruttamento.

Il caso del mio studente dimostra che la percezione salariale della prestazione di tempo si è dissolta nella mente collettiva della prima generazione connettiva, la quale è anche, intrinsecamente, la prima generazione precaria. Per comprendere questa trasformazione del rapporto di lavoro precario occorre focalizzare dal punto di vista esistenziale e psichico le modalità attuali della prestazione di tempo. I tre autori di questo libretto ripartono da un punto preciso dell’opera di Marx: da quel capitolo sesto inedito del Capitale che negli anni Settanta fu al centro di un’area di attenzione teorica.

Marx spiega in quel testo che la storia del capitalismo è segnata da un passaggio decisivo dal comando formale al comando reale nel rapporto tra capitale e lavoratori. Nell’epoca proto-capitalista, nella fase in cui si verifica l’accumulazione originaria, il lavoro si presenta come imposizione formale, come soggezione alla bruta forza, e l’estrazione di plusvalore avviene in forma di sfruttamento assoluto. Per aumentare l’estrazione di plusvalore si aumenta il tempo di lavoro, si estende la massa dei proletari costretti ad accettare il lavoro pur di non morire di fame.

Da questa prima fase si è passati ad una seconda, che Marx definisce dominio reale: il comando viene inserito nel macchinario, incorporato nella relazione tecnica fra capitalista e operaio. Lo sfruttamento non si manifesta più nella sua forma assoluta, perché l’estrazione di plusvalore può aumentare in maniera relativa, senza aumento del tempo di prestazione, e senza estensione del numero di forze di lavoro. È la tecnica che rende possibili gli aumenti di produttività e quindi di plusvalore: la macchina impone il suo ritmo e l’operaio è parte di una concatenazione che ne determina l’attività. L’attività dell’operaio è oggetto di una sussunzione, di un atto di sottomissione che diviene automatica, intrinseca al rapporto tra l’operaio e la macchina.

Penso da tempo che questa concettualizzazione marxiana andrebbe riformulata ai nostri giorni per il fatto che si è aggiunto un terzo livello di sottomissione, che forse potremmo definire dominio mentale.

Ora però gli autori di questo libretto offrono un concetto più preciso e più utile, il concetto di “imprinting”. Fin dalle prime pagine spiegano che il concetto di imprinting non va considerato come alternativo rispetto al concetto di sussunzione, semmai si può considerarlo come una determinazione particolare della sussunzione, che prende la sua forma nell’epoca in cui il lavoro si manifesta essenzialmente come lavoro mentale, come investimento lavorativo delle potenze nervose, psichiche e intellettuali. La sussunzione del tempo di lavoro si verifica attraverso un’iscrizione materiale di una modalità relazionale all’interno della dotazione neuro-psichica degli individui. In questo senso la modalità che corrisponde allo sfruttamento viene imprinted, stampata all’interno del continuum psichico e linguistico dei lavoratori.

Naturalmente il capitalismo ha sempre esercitato un’influenza decisiva sulle forme del pensiero, della percezione, dell’affettività, ma nel passato della storia industriale questa influenza si manifestava nella sfera della politica, dell’ideologia, come un fenomeno tutto sommato esterno rispetto al processo di valorizzazione. Ora invece abbiamo a che fare con un’influenza molto più diretta, e questa si manifesta prima di tutto attraverso l’induzione di un ritmo che procede dalla sfera tecnica alla sfera cognitiva, e quindi dalla cognizione si trasferisce alla sfera produttiva.

Sia ben chiaro, anche alla catena di montaggio il capitale impone i suoi ritmi, la sua velocità e le sue cadenze al lavoro vivo. Ma si tratta di un’influenza che non modella in profondità e in qualche modo organicamente, vorrei quasi dire irreversibilmente, il ritmo mentale stesso. L’accelerazione che la catena di montaggio impone ai corpi degli operai è un’imposizione esterna che i corpi operai debbono subire se vogliono avere un salario alla fine della giornata, se non vogliono essere respinti fuori dalla fabbrica, nella miseria della condizione proletaria. Ma nella sfera del semiocapitale e del lavoro cognitivo il ritmo non è più un’imposizione estrinseca, che finisce con il termine della giornata di lavoro e che può regredire se le condizioni di lavoro cambiano. Nelle condizioni del semiocapitale il ritmo della rete produttiva si imprime nel sistema nervoso e nelle modalità di organizzazione cognitiva, e questo imprimersi (imprinting) ha caratteri intimi, profondi, e in qualche modo irreversibili.

Non si tratta di una temporanea e superficiale trasformazione del ritmo del corpo da parte della catena di montaggio, ma si tratta della mutazione del funzionamento del sistema nervoso e delle modalità cognitive stesse. La parola mutazione segna un passaggio significativo perché, a differenza della mera trasformazione, la parola “mutazione”, che ha origine nell’ambito biologico, indica una ricodificazione a livello genetico, e quindi si presenta come un evento che non può sospendersi o regredire.

Per poter imporre questa invasiva mutazione il capitale deve precedentemente modificare le condizioni sociali entro cui la prestazione di tempo di lavoro avviene. E questo avviene attraverso la progressiva dissoluzione, o perlomeno marginalizzazione della forma salariale del rapporto di lavoro. Quando si realizza la deregolazione del lavoro, e il salario viene sostituito da premi come la sospensione dell’angoscia, la rassicurazione, o la promessa, o l’opportunità di socializzazione, si creano le condizioni perché il lavoratore possa (anzi debba obbligatoriamente) sentirsi e gestirsi come imprenditore. La prima mossa della deregulation che conduce alla precarietà è infatti quella di modificare la figura del lavoratore in figura di free agent, libero imprenditore di se stesso. Questa imprenditorializzazione contribuisce a rescindere il rapporto di solidarietà tra lavoratori perché ciascuno imprende per se stesso e deve rendere conto al mercato individualmente. In secondo luogo questo obbligo a essere imprenditori di se stessi crea le condizioni per l’umiliazione del lavoratore. Questa umiliazione è intrinseca al doppio legame fondamentale che il neoliberismo produce nella sfera psichica della società.

Questo doppio legame (nel senso clinico che Bateson attribuisce a questa espressione), questa doppia ingiunzione contraddittoria che genera psicopatia e paralisi psichica viene descritta nel libro con queste parole: “Ecco dunque la doppia ingiunzione dell’imperativo categorico del capitalismo contemporaneo: 1. sii ciò che vuoi, agisci la tua autonomia purché 2. la risultante della tua azione sia traducibile nell’assiomatica del capitale e nelle sue metriche convenzioni in continuo mutamento”.

Questa doppia ingiunzione contraddittoria è la trappola psichica implicita nella deregolazione del rapporto di lavoro, che viene liberato per potersi interamente dedicare alla competizione. Il massimo di libertà coincide allora con il massimo di conformazione alla regola unica della competizione in ogni campo della vita. La frustrazione e l’umiliazione sono dunque conseguenze strutturalmente connesse alla forma del lavoro precario cognitivo.

La categoria di “umiliazione” non fa parte del patrimonio linguistico della critica marxista, ma a mio parere l’umiliazione acquista un rilievo sempre più marcato dal momento in cui il lavoro perde il suo carattere di subordinazione regolata e si svolge invece in condizioni di indipendenza formale, di competizione generalizzata e costante, e in condizioni di falsa auto-imprenditorialità. Il libero imprenditore non è affatto libero, e soprattutto non può competere ad armi pari con coloro che godono del rapporto privilegiato con la finanza e gestiscono di conseguenza il vero potere. Ciascuno è quindi invitato ad essere libero e competitivo, e in questo gioco in cui inevitabilmente la grande maggioranza perde, lo spirito competitivo è frustrato e umiliato.

Il libro di Chicchi Lucarelli e Leonardi si conclude con un capitolo in cui la questione della psicoanalisi, che in epoca industriale si poneva in una sfera esterna rispetto all’analisi critica dei rapporti di produzione, diviene parte integrante di questa analisi critica, e le proiezioni fantasmatiche divengono parte essenziale di un processo consapevole di soggettivazione. L’ultima parte del libro propone finalmente un approccio psicoanalitico come condizione della pratica sociale del tempo presente.


Federico Chicchi, Emanuele Leonardi, Stefano Lucarelli, Logiche dello sfruttamento, ombre corte, 2016, 126 pp., € 12 
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