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lafionda

Federico Caffè sulla controffensiva neoliberista degli anni Settanta

di Thomas Fazi

Estratto dal libro di prossima uscita “Una civiltà possibile. La lezione dimenticata di Federico Caffè” di Thomas Fazi (Meltemi, 2022)

Caffe Federico 305x205Alla metà degli anni Settanta, si sviluppò in Italia un fervente dibattito su quelli che nel discorso pubblico erano presentati come i due “mali” del paese: l’inflazione e gli squilibri con l’estero. Per ironia della sorte, la discussione vide confrontarsi da un lato il relatore della tesi di dottorato di Mario Draghi, Franco Modigliani, e dall’altro il relatore della sua tesi di laurea, Federico Caffè.

La tesi di Modigliani, a grandi linee, era la seguente: esiste un unico livello del reddito (in termini macroeconomici) compatibile con la stabilità dei prezzi, dato il livello dei salari reali. Ciò implica che ogni sforzo per accrescere l’occupazione sopra quel tasso determinerà inflazione, anche se non si raggiunge un reddito coerente con il pieno impiego delle risorse. Per questo motivo, l’Italia si trovava attanagliata in una sorta di ciclo infernale inflazione-svalutazione-disoccupazione, di cui il principale responsabile, per Modigliani, era la scala mobile (cioè il meccanismo di indicizzazione dei salari all’inflazione).

Era quindi nell’interesse dei lavoratori stessi, e compito dei sindacati, cancellare la scala mobile, rivedere lo statuto dei lavoratori (che creava “assenteismo”) e accettare un livello salariale più basso, compatibile con la piena occupazione e con l’equilibro dei conti con l’estero. Questo, ammetteva Modigliani, «richiede qualche sacrificio ai lavoratori», ma in cambio la classe operaia avrebbe ottenuto la difesa dell’occupazione, il riassorbimento della disoccupazione e la fine dell’inflazione.

Diametralmente opposta era la visione di Caffè. In uno dei tanti articoli che scrisse in quel periodo, disse di accogliere «con vero smarrimento intellettuale» il fatto che fossero riemerse nel dibattito pubblico e accademico posizioni prekeynesiane secondo cui «la causa della disoccupazione […] risiede in una deviazione dai prezzi e dai salari di equilibrio che si stabilirebbero automaticamente in presenza di un mercato libero e di una moneta stabile». Per Caffè una posizione di questo tipo era del tutto inaccettabile sul piano analitico e, ancor di più, su quello delle sue ricadute concrete; gli era ben chiaro, infatti, che essa implicava, in ultima analisi, «l’abbandono della piena occupazione come obiettivo di politica economica prefissato dai poteri pubblici».

L’indignazione di Caffè di fronte a questo tentativo di revisionismo storico e teorico era tale che durante una lezione dedicata ai quadri sindacali della CGIL abbandonò i suoi toni tradizionalmente pacati per lasciarsi andare a un giudizio particolarmente caustico: «Affermazioni del genere mi danno soltanto il fastidio che provo nel dovermi trovare oggi sotto gli occhi, sui muri, simboli nazisti o antisemiti». Caffè notava, infatti, come «non [fosse] verificato né empiricamente né analiticamente» che una riduzione dei salari, né tantomeno una riduzione del tasso di inflazione, «migliori di per sé le condizioni dell’occupazione: questo è solo un atto di fede». Anzi, la storia – nonché l’apporto teorico di Keynes, ovviamente – dimostravano l’esatto contrario: «di certo c’è solo che una politica di stretta creditizia provoca maggiore disoccupazione».

Senza considerare, poi, la parzialità, se non la malafede, di una lettura che vedeva nelle spinte salariali il principale responsabile delle pressioni inflazionistiche. Una caratteristica della posizione “anti-inflazionista”, notava Caffè, era infatti, «quella di sottovalutare l’importanza di episodi specifici che vengono generalmente collegati all’aumento dei prezzi sul piano mondiale», in particolare «la quadruplicazione dei prezzi dei prodotti petroliferi, a partire dallo scorcio finale del 1973». Non a caso, negli anni Ottanta, con la riduzione del prezzo del petrolio cominciò a rallentare anche l’inflazione, che si riportò su valori analoghi a quelli della seconda metà degli anni Sessanta.

Caffè comprendeva bene quale fosse il vero obiettivo della polemica anti-inflazionista: «mettere indietro le lancette della storia», a un tempo in cui il lavoro era trattato alla stregua di una qualunque altra merce, in cui, cioè, poteva essere acquistato e liquidato secondo le esigenze del datore di lavoro e più in generale del “mercato”; e anzi in cui l’uomo finiva per essere meno degno di considerazione persino dei mezzi non umani del processo produttivo. Insomma, Caffè aveva ben chiaro che la posta in gioco andava ben al di là della semplice scala mobile. In discussione, seppur in maniera implicita, c’era una conquista di civiltà che Caffè, fino a qualche anno prima, riteneva assodata per sempre: la ridefinizione del lavoro, a tappe alterne nel corso del XX secolo e poi in maniera più strutturale dopo la Seconda guerra mondiale, da merce in diritto, il che significava anche e soprattutto il diritto a un’esistenza dignitosa; e insieme il dovere delle autorità pubbliche di garantire il lavoro, per mezzo di politiche (monetarie, fiscali, industriali, sociali ecc.) tese alla piena occupazione.

Nei primi anni del dopoguerra, Caffè si era detto convinto che «l’impegno di promuovere il pieno impiega costituisca […] [una di quelle] svolte oltre le quali diventa imperativo il procedere ed impossibile il tornare indietro». E invece, a trent’anni di distanza, fu costretto a riconoscere che «[s]ono bastati cinquant’anni per dimenticare (o fingere di dimenticare) la intrinseca incapacità del mercato di determinare, con le sue forze spontanee, sia un accettabile livello di occupazione, sia una distribuzione della ricchezza e dei redditi meno sperequata di quanto lo sia nei paesi che si dicono “industrialmente progrediti”».

Caffè osservava con crescente preoccupazione «la riaffermazione», in quegli anni, «di un liberismo economico che spesso confonde la valorizzazione dell’iniziativa individuale con la salvaguardia a oltranza di posizioni privilegiate; l’offuscarsi della concezione di Stato garante del benessere sociale, che spesso si tende a valutare alla stregua di uno Stato acriticamente assistenziale; la tendenza a riabilitare il mercato, trascurandone le inefficienze». Per Caffè si trattava di tesi irricevibili non solo sul piano etico-morale, date le conseguenze pratiche che implicavano per le politiche occupazionali e di welfare, ma anche su quello strettamente analitico. Era semplicemente inconcepibile che «di fronte a una involuzione economica che è stata […] giudicata la più grave dopo quella del 1930, non si trovi nulla di meglio da proporre che “la riscoperta del mercato”».

In tal senso, secondo Caffè, era da considerarsi del tutto priva di fondamento la tesi, già circolante negli anni Settanta, secondo cui quella italiana fosse un’economia “ingessata”, necessitante di essere liberata da “lacci e lacciuoli”. Era semmai vero il contrario: anche nell’Italia degli anni Settanta, «l’entità dei costi sociali non pagati» generati dall’eccessiva enfasi posta sui meccanismi di mercato era «ben più rilevante degli intralci creati da forme, sia pure farraginose, di regolamentazione pubblica».

Particolarmente assurdo, poi, secondo Caffè, era proporre un “ritorno al mercato” nel momento in cui nelle principali economie capitalistiche era in corso «un processo di crescente concentrazione, centralizzazione e organizzazione societaria». Caffè, infatti, faceva notare quanto fossero infondati gli «orientamenti di pensiero» riaffiorati in quegli anni «che, contrapponendo lo “Stato” al “mercato” (secondo una tipica antitesi ottocentesca), attribuiscono agli interventi dei poteri pubblici nella vita economica un carattere perturbatore e destabilizzante. […] Poiché il mercato è una creazione umana, l’intervento pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per sé distorsivo e vessatorio». Anzi, è vero l’opposto. Caffè comprendeva bene che il capitalismo maturo – tanto nelle sue varianti “progressive” quanto in quelle più regressive, “neoliberali”, che cominciavano ad affermarsi in quegli anni – non può esistere senza un permanente intervento statale.

In questo senso, Caffè comprendeva bene che l’ideologia liberista, almeno nella sua polemica ufficiale contro lo Stato, era da considerarsi poco più che un comodo alibi per un progetto che non puntava a distruggere lo Stato quanto a riconfigurare radicalmente le forme dell’intervento pubblico.

Per lo stesso motivo Caffè contestava l’ideologia del «vincolismo» o dell’«automatismo internazionale», ossia la tesi che cominciò a prendere piede sempre in quegli anni, anche a sinistra, secondo cui la crescente internazionalizzazione economica e finanziaria e il sempre maggior potere delle imprese multinazionali – ciò che oggi chiamiamo globalizzazione – imponeva dei vincoli ineluttabili ai singoli Stati, rendendoli sempre più impotenti nei confronti delle forze del mercato, erodendo la capacità dei governi di decidere in autonomia (cioè a prescindere dalla volontà dei mercati) le politiche economiche e sociali, in particolare quelle di segno progressivo-redistributivo. Caffè, a differenza di molti suoi colleghi, comprendeva bene che la cosiddetta “globalizzazione” non era il risultato di una dinamica intrinseca al capitale o all’innovazione tecnologica che inevitabilmente riduceva il potere statale, ma al contrario un processo attivamente promosso dagli Stati stessi.

Insomma, secondo Caffè, l’esistenza di vincoli oggettivi derivanti dall’economia internazionale non era una premessa ineluttabile. I vincoli, infatti, erano in larga parte autoimposti e «nulla, nell’esperienza umana, costringe all’accettazione [impotente] e fatalistica d’un qualsiasi “vincolo”». Ancor meno giustificata era l’idea secondo cui «le singole economie nazionali [siano] obbligate ad adattarsi ai mutamenti del mondo circostante, anche a costo di subire disoccupazione e depressione». La visione di Caffè era diametralmente opposta: sono i rapporti di un paese con l’estero che devono essere subordinati alle esigenze della collettività e in particolare della piena occupazione, non viceversa.

Va detto che Caffè non era così ingenuo da ricondurre il nuovo clima di opinione affiorato in quegli anni – che invocava la necessità di assoggettare le esigenze della piena occupazione e del welfare state ai “vincoli” ineluttabili dell’economia internazionale – unicamente all’emergere di un nuovo consenso, sostanzialmente prekeynesiano, in ambito accademico. Gli economisti (tanto i neomonetaristi quanto i neokeynesiani) erano semmai gli apologeti, più o meno consapevoli, di quella che Caffè definisce – con stupefacente lucidità, se si considera che il termine non era ancora entrato nel linguaggio comune – una «controffensiva neoliberista», guidata da potenti interessi padronali decisi a ristabilire il loro dominio su una classe lavoratrice rea di essersi emancipata troppo.

In quest’ottica, osservava Caffè, l’enfasi ossessiva sul problema dell’inflazione – che monopolizzò il dibattito politico-economico italiano per circa un decennio dalla metà degli anni Settanta –, e soprattutto la lettura antioperaia che veniva data dal fenomeno, erano da considerarsi funzionali a una strategia che non mirava realmente, o primariamente, a risolvere il problema dell’inflazione stessa, comunque molto meno grave di quanto si voleva far credere (in Israele, ricordava per esempio, l’inflazione era tre volte superiore a quella italiana), ma piuttosto a sfruttarne lo spauracchio per raggiungere obiettivi politici ed economici di ben altra natura: «[O]ggi l’inflazione più̀ che essere combattuta viene strumentalizzata nel senso che evocando questo male dell’inflazione si intendono risolvere molti altri problemi di natura industriale, sindacale, rivendicativa e così via».

Caffè la chiamava «strategia dell’allarmismo economico»: una sorta di equivalente mediatico-narrativo della strategia della tensione di matrice propriamente terroristica utilizzata per destabilizzare il paese in quegli anni.

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