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Il keynesismo militare nel ciclo economico-politico

di Gianmarco Oro

0e99dc a48a83c4be1a445085ea75063eacce0amv2Nelle sue pubblicazioni transuenze ha dedicato, e continuerà a farlo, molto spazio alle elaborazioni sulle trasformazioni dell'economia «post-covid». Il contributo di oggi di Gianmarco Oro, dottorando di ricerca in economia politica presso l'Università degli Studi di Macerata, introduce un tema che rischia di diventare quantomeno attuale: la crescita degli investimenti nell'industria di guerra come modalità di fuoriuscita dalla crisi. Nel prossimo futuro proveremo a dedicare un certo spazio al tema. L'articolo di oggi è molto utile perché aiuta a contestualizzare storicamente il keynesismo militare nel ciclo economico-politico e perché fornisce delle chiavi di lettura molto interessanti per decodificare alcuni aspetti strutturali delle politiche economiche del dopoguerra.

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I paesi occidentali si trovano oggi nella fase di restaurazione capitalistica dei rapporti sociali ed internazionali nel post pandemia. Contestualmente, i governi europei sono allineati e concordi sul fatto che questa restaurazione, ovvero l’uscita dalla crisi economica, debba avvenire a mezzo di spesa pubblica fatta in disavanzo e finanziata con nuova moneta (via istituto di emissione o via banche commerciali). Sembrerebbe dunque la fine delle austerità e delle restrizioni monetarie usate come mezzo di disciplina per i governi, se non fosse che l’indirizzo prioritario di spesa pubblica sia diventato (complice la destabilizzazione dell’area est-europea con l’invasione russa dell’Ucraina) l’aumento della spesa in armamenti (con obiettivo al 2% del Pil entro il 2024 nel bilancio dei paesi Nato). Questa scelta ha suscitato una varietà di opinioni a favore o contro. Qui vogliamo lasciare che altre penne si prodighino a dare sostanza geopolitica, sociale e morale a queste decisioni, per fornire esclusivamente un’analisi critica dei fatti di politica economica per come si manifestano nell’attuale congiuntura storica.

Il decennio di politiche appena trascorso in Europa sarà ricordato per i vincoli di bilancio, il comportamento «disertore» della Banca centrale europea dal ruolo di prestatore di ultima istanza e il sotto-investimento sia privato che pubblico. La politica di austerità è stata difficilmente messa in discussione, in un primo momento, perfino dalla crisi del Coronavirus, che per di più evidenziava tutte le mancanze strutturali dei sistemi sanitari nazionali. Poi le necessità materiali della recessione pandemica e dell’inflazione energetica hanno convinto i governanti ad intervenire per rilanciare la crescita economica, e i muri sono crollati. Sarebbe bene in questa sede riflettere sulla natura di tali muri e sul perché la spesa militare, in relazione ad altri indirizzi di spesa, sembra essere riuscita apparentemente ad abbatterli.

 

Il profitto e il deficit pubblico

Supponiamo di trovarci in un paese che opera economicamente senza scambi commerciali con l’estero. Nell’economia vige il principio della domanda effettiva, secondo cui è quest’ultima a determinare il reddito nazionale e non il contrario. Dunque, la domanda aggregata è in questo caso composta dai consumi delle famiglie, dagli investimenti privati e dalla spesa pubblica. Il reddito nazionale che ne scaturisce viene distribuito tra i salari dei lavoratori, i profitti delle imprese e la tassazione diretta e indiretta applicata dal governo. Se facciamo, come ipotesi estrema, quella che i lavoratori spendono tutto il loro salario in beni di consumo, ne deriva che il livello dei profitti delle imprese dipende dalle decisioni di spesa dei capitalisti (consumo e investimento) e da quelle del governo (deficit o disavanzo pubblico). Per dirla con Kalecki: «Se il settore governativo risparmia le sottrazioni ai profitti saranno maggiori delle aggiunte ai profitti. Al contrario, un deficit governativo è una fonte positiva di profitti, perché fluiscono più soldi dal settore governativo per poi far sì che ci siano più entrate nel settore commerciale, rispetto a quanto poi il governo chiederà indietro sotto forma di tasse» (M. Kalecki, Teoria della dinamica economica. Saggio sulle variazioni cicliche e di lungo periodo nell’economia capitalistica, Boringhieri, Torino, 1957, corsivo aggiunto).

Sembra dunque che l’ipotesi dell’ «effetto di spiazzamento» degli investimenti privati, che sarebbe provocato dall’intervento pubblico nell’economia, non regga alla prova macro-contabile. Non soltanto, quest’ultima suggerisce che in assenza di un deficit dello Stato risulterebbe alquanto improbabile, per le imprese, realizzare un profitto in moneta crescente nel tempo. Senza disavanzo pubblico, infatti, il profitto verrebbe a dipendere esclusivamente dalle decisioni di spesa dei capitalisti. In questo caso il livello dei profitti rimarrebbe costante e di conseguenza non si potrebbero recuperare i finanziamenti necessari ad espandere la produzione, a meno di un taglio continuo del tasso d’interesse (fino a diventare negativo) e dell’imposta sui profitti (fino a trasformarsi in sussidio). L’austerità del governo provoca dunque una perdita netta per il settore privato e per l’economia nel suo complesso, il che spiega perché oggi l’intervento dello Stato fatto in deficit è la ricetta economica più raccomandata, sia nell’ordine della sua fattibilità, che per quanto concerne l’intensità dell’impatto che una nuova immissione di potere d’acquisto può avere durante una fase recessiva.

A essere realisti, una manovra economica di questo tipo potrebbe sortire effetti anche nelle fasi non-critiche, come per finanziare i nuovi investimenti, sostenere la spesa sociale e ridurre la disoccupazione. Le imprese continuerebbero comunque a guadagnare dall’aumento del disavanzo e oltre a questo, come noto, il deficit produrrebbe un effetto indiretto sui consumi (per via di un maggiore reddito distribuito alle famiglie) tale da sostenere la crescita del debito pubblico in rapporto alla crescita del prodotto nazionale. In altre parole, in un’economia monetaria di produzione, in cui alla spesa segue il reddito, il deficit finisce sempre per autofinanziarsi attraverso gli effetti che induce nel sistema. Come mai, allora, tanto affanno in Europa per promuovere, durante la Grande recessione, una politica economica ostinatamente direzionata in senso opposto?

 

Il pieno impiego e il ciclo economico-politico

Se gli investimenti privati non sono sufficienti a garantire un livello di occupazione piena (o accettabile), lo Stato deve intervenire con la spesa per compensare l’insufficiente domanda aggregata. In effetti, sarebbe possibile perfino fondare un modello di sviluppo economico su tali presupposti, con effetti benefici per imprese e lavoratori. I limiti che tali interventi incontrano sul loro cammino, nei sistemi capitalistici dei paesi democratici, sono di carattere sostanzialmente politico e Kalecki ne ha individuati due già sul concludersi della Seconda guerra mondiale. Questi limiti vengono ricollegati entrambi al blocco rigido che una certa parte del capitale industriale e finanziario (quella meno internazionalizzata) esercita nei confronti dell’autonomia della spesa governativa.

Il primo riguarda la funzione che la disoccupazione svolge all’interno di un’economia capitalistica. Quando il sistema si avvicina al pieno impiego, la scarsa disponibilità di manodopera disoccupata aumenta il potere negoziale dei lavoratori in sede di contrattazione salariale. Questi ultimi possono avanzare richieste presso i propri datori di lavoro (con episodi di insubordinazione) e riuscire ad ottenere, dato il restringimento del mercato del lavoro, un più alto livello di equità economica sia dentro che fuori la produzione (aumento del salario, riduzione dell’orario, sicurezza sul lavoro, tutela al consumo, assistenza sociale e sanitaria, istruzione, etc.). Il secondo motivo, e ben più strutturale, è legato alla sopravvivenza stessa delle imprese capitalistiche quali entità sociali in grado di esercitare un comando del lavoro sul livello e la composizione della produzione. Il mantenimento perpetuo del pieno impiego conduce inevitabilmente a trasformazioni (se non veri e propri sconvolgimenti) di carattere istituzionale, sociale e morale. Nel discorso strettamente economico, i lavoratori potrebbero essere in grado di influenzare direttamente la composizione e il livello della spesa pubblica, così che i mezzi di produzione potrebbero venire utilizzati per la creazione di valori d’uso sociale (scuole, ospedali, abitazioni, strade, etc.) piuttosto che per produrre quei «beni di lusso», come dicevano gli economisti classici, non socialmente o produttivamente necessari, come gli armamenti.

Con una profittabilità in compressione, insieme ad una scarsa capacità di disciplinare il lavoro dipendente, le imprese sono costrette ad aumentare i prezzi per ripristinare i profitti a discapito di salari e rendite. Un processo inflazionistico di questo tipo (la c.d. spirale prezzi-salari) conduce ad una sorta di «unione di interessi» tra industriali e redditieri per la salvaguardia dei rispettivi redditi (profitti industriali e rendite finanziarie-immobiliari) contro il pieno impiego. Comunque i settori industriale e finanziario decidano di provare a influenzare le politiche economiche, il governo non può fare altro, data la situazione istituzionale, che ritirarsi da investimenti e sovvenzioni al consumo e pareggiare il bilancio pubblico annullando il deficit. Quando non lo fa, compromette il «clima di fiducia» necessario ai creditori dello Stato, che promuovono dunque la «finanza sana» (le manovre di bilancio che consentono un alto rendimento reale sui titoli pubblici) come soluzione alla crisi economica, apparentemente generata dal disavanzo, ma provocata in effetti dall’instabilità politica.

Il risultato di questa opposizione deve essere pertanto il ripristino di un livello di disoccupazione compatibile con le condizioni di profittabilità delle imprese considerate nel loro complesso. In questo modo viene innescato un ciclo economico-politico, per cui fintantoché il deficit resterà conveniente per le imprese, queste risponderanno con una crescita della capacità produttiva e dunque dell’occupazione. Tuttavia, «la disciplina nelle fabbriche e la stabilità politica sono più importanti dei profitti correnti» (M. Kalecki, Aspetti politici del pieno impiego, Sul capitalismo contemporaneo, Editori Riuniti, Roma, 1975) e quando le classi del reddito da capitale si sentiranno minacciate dalle istanze dei lavoratori, esse si schiereranno in difesa dei privilegi derivanti dalla proprietà di mezzi di produzione e patrimoni e dal bilancio pubblico riportato in pareggio.

 

Il keynesismo militare

Sui semplici lineamenti riportati sopra è stato fondato il primo keynesismo, che ha ispirato le politiche per il pieno impiego dichiaratamente perseguite dai governi occidentali usciti dalla Seconda guerra mondiale. Tuttavia, la lezione era già stata impartita nel pieno del conflitto mondiale e non soltanto dalla teoria di Keynes ma dalla prassi economica di quegli anni: i due casi esemplari sono la Germania nazista e gli Stati Uniti di Roosevelt-Truman, che sono entrambi casi di keynesismo militare.

La destra nazista conquista il potere in Germania in un momento di orribile devastazione sociale provocata dalla Grande depressione e lo fa essenzialmente attraverso le politiche per il pieno impiego. Ad una prima fase di keynesismo (ante litteram, perché la Teoria generale di Keynes sarà pubblicata solo nel 1936) in cui la spesa pubblica viene necessariamente veicolata ad opere sociali, industriali ed infrastrutturali, segue progressivamente lo spostamento del finanziamento all’industria bellica. La stabilità politica viene garantita dal controllo statale sulle corporazioni industriali e dall’annullamento del processo di elezione democratica, che fa scomparire il problema della finanza sana. La disciplina del lavoro viene garantita invece con l’oppressione politica: vengono sciolti sindacati e partiti d’opposizione, finché non si arriva a costruire i campi di concentramento, viene allungato l’orario di lavoro ed aumentata l’intensità dell’attività lavorativa sotto la coercizione dello Stato fascista, mentre il pieno impiego per gli ariani viene assicurato dall’espulsione degli ebrei dal mondo del lavoro. Inoltre, poiché la spesa viene dirottata dai lavori funzionali al pieno impiego all’industria bellica, la crescita degli investimenti militari implica un aggiustamento a ribasso dei consumi (provocato dall’abbassamento dei salari reali), i quali scendono al di sotto del livello corrispondente alla piena occupazione. In altri termini, le famiglie, sebbene tutte collocate lavorativamente, vengono ridotte alla servitù e alla fame, poiché «la pressione politica sostituisce qui la pressione economica della disoccupazione» (Kalecki, 1943).

Anche i governi Roosevelt-Truman raggiungono e mantengono il pieno impiego durante la Seconda guerra mondiale e il periodo di Guerra fredda, in cui l’atmosfera e la retorica della guerra (come della ricostruzione) sono risultate strumentali e adoperate per mitigare le pretese e i dissapori dei gruppi sociali e farli convergere verso l’interesse della nazione. Alle imprese viene impedito di aumentare i prezzi per via della scarsità di materie prime durante il conflitto mondiale. In cambio, gli alti profitti vengono realizzati con le commesse governative per armamenti, i piani di innovazione bellica che proseguiranno per tutta la Guerra fredda ed oltre, l’incoraggiamento massmediatico al «duro lavoro» e al sacrificio (aumento della forza produttiva dei lavoratori, calmieramento delle istanze sindacali) e l’introduzione, fino a quel momento proibita, di donne ed afroamericani nelle fabbriche.

In entrambi i casi, il governo esercita un potere molto più grande che in un normale sistema democratico in tempi di pace. La ragione è che il pieno impiego espone il sistema economico al rischio di inflazione per via di una crescita dei salari reali superiore alla crescita della produttività del lavoro. Pertanto, quando il pieno impiego diventa un obiettivo del governo, questo deve preoccuparsi non solo di stabilizzare prezzi e salari, ma anche di accelerare il progresso tecnico ed incitare al duro lavoro con il fine di impedire che gli effetti della spesa pubblica erodano i profitti.

 

Il keynesismo non-militare ovvero il neoliberismo

Quello che sorgerà da una prassi congiunturale per tempi di guerra sarà un keynesismo social-democratico quale modello di sviluppo economico istituzionalizzato che segnerà la stagione del «miracolo economico». Le misure macroeconomiche vengono qui fondate su due principi: la politica dei redditi e la programmazione del bilancio in funzione dell’occupazione. Il primo principio si basa sul duplice ruolo che il salario svolge in questo modello di sviluppo. Alti salari garantiscono un maggiore effetto degli investimenti sull’occupazione attraverso il consumo di massa, mentre l’istituzionalizzazione dei sindacati permette di concordare l’adeguamento del salario alla produttività, che dal singolo settore produce effetti in larga scala nell’economia incoraggiando le innovazioni. Lo Stato agisce, inoltre, come occupatore in ultima istanza, e lo fa specialmente finanziando il welfare e la corsa agli armamenti (retaggio del keynesismo militare). La mediazione tra gruppi d’interesse, il pieno impiego e la stabilità politica non bastano tuttavia a sfuggire all’inflazione importata con i beni energetici scarsi e con un mercato del consumo arrivato alla saturazione. Le previsioni kaleckiane su conflitto ed inflazione si traducono, con la crisi petrolifera degli anni Settanta, in una stagflazione che conduce lo Stato ad un necessario indietreggiamento.

La risposta alla crisi keynesiana è il neoliberismo, in un primo momento nella forma di monetarismo, che come assunti ha che la disoccupazione è in gran parte volontaria e che le fluttuazioni del salario insieme ai disavanzi pubblici sono la maggiore causa di inflazione del prezzo dei beni. Quello che ne deriva non è, tuttavia, un puro ritorno al laissez faire in quanto lo Stato cambia la forma della sua azione, ma non la sua sostanza economica. Ad agire come trainante di crescita e profitti non è più la spesa in deficit (considerata improduttiva e finanziariamente nociva) ma le esportazioni nette, in una sorta di neomercantilismo. Le politiche macroeconomiche qui favoriscono e agevolano questo cambio di indirizzo. Gli obiettivi passano così dal pieno impiego alla competitività delle imprese nazionali (eventualmente o indirettamente) benefica per l’occupazione. Per aumentare il potere delle imprese nei mercati esteri vengono inserite le riforme sulla flessibilità del mercato del lavoro, in cui si manifesta maggiormente il libero-mercatismo vero e proprio. A un primo abbassamento di salari e sicurezza sociale segue la formazione della sottoclasse lavoratrice del «precariato». La divisione politica e la disoccupazione tornano a essere lo strumento disciplinare per il lavoro, che facilita a sua volta il processo di deflazione salariale. Lo Stato retrocede attraverso le privatizzazioni nei settori strategici (comunicazioni, autostrade, energia, acciaio, etc.) tuttavia il deficit non diminuisce sia per via delle spese militari (che comportano una quota sempre meno trascurabile dei profitti aggregati) che per via della riduzione del gettito fiscale. Intanto, gli armamenti rimangono strumentali anche «nel lungo periodo», per la sopravvivenza e le eventuali espansioni economico-geopolitiche della società capitalistica quando i patti commerciali esauriscono la loro funzione.

 

Aspetti politici della produzione

Un ragionamento sulla spesa militare condotto nei termini del ciclo economico-politico kaleckiano può aiutare a chiarire alcuni recenti aggiustamenti congiunturali di politica economica. Sembrerebbe non esserci una vera e propria controversia «Stato contro mercato» sugli effetti quantitativi della spesa fatta in disavanzo, essendo quest’ultima una componente della domanda aggregata e dunque una determinante fondamentale per la formazione dei profitti. Le criticità dell’intervento pubblico non emergono nella sfera economica ma sul versante della stabilità politica delle società capitalistiche, specialmente durante le crisi o le guerre.

Quando lo Stato interviene coscientemente per aumentare l’occupazione, al salario viene concesso di crescere in direzione della produttività e la spesa viene indirizzata pertanto verso i guadagni, i consumi e i bisogni delle famiglie. Durante le fasi critiche ovvero di caduta dei profitti, lo Stato ricostituisce parte della disoccupazione dirottando la spesa, che resta in alcuni casi elevata, al fine di garantire la subordinazione del lavoro. Gli armamenti, contrariamente a quanto potrebbe provocare una produzione nazionale di beni di prima necessità o di utilità sociale (il welfare state), comportano alti profitti ma senza implicazioni sulla crescita della forza contrattuale del lavoro e un conseguente aggiustamento distributivo del reddito o della spesa.

Il keynesismo sembra dunque essere un terreno comune sul quale si manifesta, più che un conflitto distributivo, un antagonismo tra diversi orientamenti sociali della spesa statale e dunque differenti visioni sulla composizione della produzione. In altre parole, l’oggetto della questione non verte tanto sul «quanto», «come» e «in che momenti» lo Stato deve spendere, ma sull’utilizzo produttivo che viene fatto del lavoro svolto dalla collettività ovvero sul «quanto», «come», «cosa» e soprattutto «per chi» produrre.

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