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L’inflazione e i tassi di interesse: un’impasse che riguarda tutti

di Vincenzo Comito

Più volte le banche centrali hanno sbagliato previsioni circa il tasso di inflazione e le politiche adottate per abbatterlo non stanno funzionando. Ma davvero, per farlo, bisogna passare per una recessione?

man g84c698b9b 1920 1536x1024Nel testo che segue affrontiamo soltanto alcuni aspetti di un tema molto complesso, quello dell’aumento recente dei tassi di inflazione in Occidente e delle politiche portate avanti dalle banche centrali, in primis dalla Bce, nonché dai vari governi, per combattere il fenomeno. Molti gli interrogativi che restano senza risposte adeguate.

 

Gli errori di valutazione delle banche centrali

Sul fronte dei prezzi i dati recenti non spingono certo all’entusiasmo: nel settembre del 2022 nell’area euro il tasso di inflazione su base annua ha raggiunto il 9,9%, in rialzo rispetto al 9,1% di agosto e al 3,4% del settembre 2021; nell’ottobre poi esso è salito al 10,7% contro il 4,1% dell’ottobre 2021. Come è noto, era da diverse decine di anni che non si registravano cifre simili. Al momento, si prevede che l’aumento dei prezzi al consumo rimarrà al di sopra del target della Bce del 2,0% fino al 2024; per tale anno le previsioni dell’Unione Europea stimano comunque, secondo noi molto ottimisticamente, un tasso di inflazione al 2,6%.

Negli Stati Uniti, intanto, il dato del settembre 2022 è ancora all’8,2%, di nuovo fissando il record degli ultimi quaranta anni, anche se i dati di ottobre sembrano permettere qualche sospiro di lieve sollievo, con la registrazione di un valore del 7,7%.

Ricordiamo comunque, incidentalmente, che c’è un’area del mondo, la Cina, dove miracolosamente il tasso di inflazione si colloca attualmente al 2,1%, dato su base annua dell’ottobre 2022.

Le banche centrali occidentali hanno ripetutamente del tutto sbagliato le loro previsioni sull’inflazione e rischiano di farlo ancora, perdendo così molta credibilità. Così la Federal Reserve statunitense nel dicembre del 2020 stimava che l’aumento dei prezzi al consumo si sarebbe mantenuto nei due anni seguenti al 2%; ma più o meno lo stesso errore, con lo scarto di qualche decimale di punto, hanno fatto a suo tempo anche la Bce e il Fondo monetario internazionale. Questo mentre qualche autorevole economista come Larry Summers faceva invece da Cassandra. L’errore delle banche centrali si ripeteva l’anno seguente, quando, pur in presenza di un tasso di inflazione che viaggiava già intorno al 5% e più, sempre la Fed stimava per il 2022 un valore del 2,6%. E di nuovo la banche centrali sono state apparentemente sorprese nel constatare, ancora nell’ottobre 2022, che l’inflazione non scendeva, se non leggermente negli USA, e che anzi c’erano qua e là delle spinte a una ulteriore crescita (The Economist, 2022, a). Speriamo che esse non sbaglino ancora nel valutare, come hanno fatto di recente, che nel 2023 essa si ridurrà, seppure di poco. Così mentre l’OCSE stima per il 2022 un tasso di inflazione all’8,2% e del 6,5% nel 2023, il Fondo monetario internazionale parla a sua volta di un 8,8% per il 2022 e di un 6,5% per il 2023.

 

Gli interventi delle banche centrali

Il lungo periodo dei tassi di interesse molto bassi sembra definitivamente tramontato. Come tutti si aspettavano, la Fed il 2 novembre 2022 li ha ancora aumentati dello 0,75% portandoli tra il 3,75% e il 4%. È ormai la sesta volta, da marzo, che li fa crescere, avvisando inoltre che ci saranno altri aumenti, nelle attese un ulteriore salto in su a dicembre tra il 0,50% e il 0,75%. Jerome Powell, capo ella Fed, ha poi annunciato che il cammino per vincere l’inflazione sarà lungo e doloroso, dichiarando nella sostanza che, rispetto alle stime di qualche tempo fa, il picco dei tassi di interesse sarà più elevato del previsto, che esso durerà più a lungo e che si scenderà più lentamente, d’accordo in questo con i suoi omologhi europei che hanno invocato la necessità di sacrifici per la popolazione.

Intanto la stessa Bce ha deciso di innalzare di 0,75 punti base i tre tassi di interesse di riferimento; si tratta del terzo aumento consecutivo, per un totale complessivo del 2,0%. Per le banche, il costo del denaro sale così in ultimo dall’1,25% al 2,0%, livello massimo dal primo trimestre 2009. Si pensa che nel 2023 ci saranno ulteriori aumenti sino almeno al 3,0%.

Abbiamo aumentato i tassi base e prevediamo di aumentarli ancora, afferma parallelamente Christine Lagarde, almeno fino a quando verrà assicurato il ritorno dell’inflazione all’obiettivo di riferimento del 2,0%.

Brutte notizie intanto per i mutui: da noi i detentori di un debito immobiliare a tasso variabile vedono gli interessi superare il 4% e dopo l’ultimo rialzo della Bce si prevede che essi saliranno a breve oltre la soglia del 5%. I nuovi mutuatari a tasso fisso, poi, si troveranno corrispondentemente di fronte a valori che si negozieranno ormai intorno al 7%. Ovviamente si dovrebbe assistere come conseguenza a una riduzione dell’acquisto di nuovi appartamenti. Altrettanto ovviamente aumenteranno ancora i tassi sui crediti al consumo.

 

Perché l’inflazione doveva scendere e invece non è scesa

La teoria monetaria tradizionale spiega molto chiaramente perché l’aumento dei tassi di interesse dovrebbe far scendere l’inflazione. La cosa dovrebbe avvenire per diversi canali (Couppey-Soubeyran, 2022). Intanto quello delle anticipazioni: gli investitori, vedendo che le banche centrali intervengono, saranno spinti a ridurre le loro anticipazioni di aumento dei prezzi e ad agire così modificando i loro comportamenti. Poi c’è il canale del credito bancario: diventando più caro, esso dovrebbe ridursi, limitando così la quantità di moneta in circolazione. Essendo poi i tassi di interesse più elevati, si dovrebbe anche ridurre l’emissione di nuovi titoli e aumentare invece la vendita di quelli vecchi sul mercato. E ancora vale la pena di ricordare che il valore dei titoli si riduce man mano che i tassi salgono e che i detentori, sentendosi meno ricchi, consumeranno quindi di meno. Infine con l’aumento dei tassi di interesse aumenta anche il tasso di cambio, ciò che porta a una riduzione del prezzo delle merci importate.

La costruzione teorica descritta appare molto articolata e convincente – peccato che, almeno al momento, non sembra funzionare. La realtà attuale appare in qualche modo non seguire gli schemi convenzionali. In effetti sino ad oggi, nonostante aumenti consecutivi dei tassi, il livello di inflazione non sembra scendere significativamente.

Si potrebbe d’altro canto arguire che se le grandi banche centrali fossero intervenute molto prima di quanto abbiano in realtà fatto a suo tempo, sulla base di previsioni sbagliate, avrebbero potuto più facilmente raggiungere l’obiettivo di ridurre i livelli di inflazione. Ma alcune analisi recenti, centrate su alcuni paesi che lo hanno fatto tempestivamente (Brasile, Ungheria, Nuova Zelanda, Norvegia, Corea del Sud, Perù, Polonia), mostrano che in realtà tali misure non sarebbero comunque riuscite a tagliare il livello di inflazione, che sarebbe rimasto a livelli molto elevati (The Economist, 2022, b).

Mentre tale constatazione ci porta a ritenere che il problema è molto complesso da affrontare, ci si può comunque chiedere perché le politiche portate avanti in tali paesi abbiano fallito. Vengono a tale riguardo avanzate dagli studiosi alcune ipotesi (The Economist, 2022, b) anche se se ne potrebbero elencare altre.

La prima fa riferimento al fatto che tra la decisione di alzare i tassi e la riduzione dell’inflazione scorre un lasso di tempo piuttosto lungo. Staremo a vedere. D’altra parte appare difficile controllare l’inflazione quando tutte le monete si vanno deprezzando contro il dollaro, rendendo i prodotti di importazione più cari. Ma questa ipotesi, in effetti, contrasta con la circostanza che l’inflazione è molto alta anche negli Stati Uniti. Poi forse le banche centrali avrebbero dovuto alzare in maniera ancora più aggressiva i tassi di interesse. E ancora, si sostiene, i governi avrebbero dovuto fare di più, aumentando le tasse e riducendo la spesa pubblica. Ma questo, in un periodo di difficoltà, sarebbe molto impopolare. E poi forse l’inflazione è semplicemente più difficile da fermare di quanto chiunque avrebbe potuto prevedere un anno fa.

 

Il caso inglese

Per quanto riguarda una delle ipotesi citate, vogliamo ricordare il caso inglese, che appare anche una buona introduzione alle politiche adottate dalle banche centrali e dai governi per lottare contro l’inflazione.

Come scrive Larry Elliott sul Guardian (Elliott, 2022) in Gran Bretagna l’economia sta andando all’indietro, con il Pil che è inferiore a quello di prima della pandemia, mentre i prezzi del mercato immobiliare stanno cominciando a calare, le famiglie stanno aumentando il livello dei loro risparmi in anticipazione dei tempi duri che le attendono, i livelli di vita si stanno riducendo perché i salari non ce la fanno a seguire l’aumento dei prezzi (tra l’altro, già oggi il 22% della popolazione del paese, 14,5 milioni di persone, vive in una situazione di povertà relativa), le bollette dell’energia sono il doppio come importi rispetto a quelle di un anno fa, il sistema sanitario nazionale ha un arretrato di 7 milioni di pazienti nelle liste di attesa, e le banche alimentari, infine, esplodono sotto l’ondata di chi cerca di sfamarsi in qualche modo. E in questa situazione la Bank of England continua ad aumentare i tassi di interesse, perché ha paura, come da dichiarazioni ufficiali, della spirale prezzi-salari. Ma non c’è in realtà nessun segno di un sovrariscaldamento dell’economia, sottolinea Elliott. Intanto il nuovo Cancelliere dello Scacchiere si prepara ad aumentare le tasse in maniera indiscriminata e a tagliare la spesa pubblica (si sta persino accarezzando l’idea di un taglio dei salari degli impiegati pubblici); per lui è necessaria una nuova era di austerità. Così la disoccupazione e la povertà aumenteranno, mentre i tagli agli investimenti ritarderanno ancora gli interventi sulle infrastrutture ormai decrepite del paese.

Questa situazione ha anche attirato l’attenzione dell’Onu. Il suo inviato per la povertà Olivier de Schutter ha dichiarato (Booth, 2022) di essere scioccato dalla situazione britannica e ha attirato l’attenzione sul fatto che in particolare i tagli alla spesa pubblica violano i diritti umani e aumentano la fame e la malnutrizione, chiedendo invece al Governo di aumentare le tasse ai ricchi.

 

Le politiche delle banche centrali

A proposito delle politiche delle banche centrali, non si rischia forse di tornare alla strategia negli USA di Paul Volckler della fine degli anni 70 del Novecento che portò certo al ritorno della stabilità monetaria, ma insieme a una lunga recessione e a una riduzione della crescita a medio termine? Stagnazione e inflazione insieme?

Intanto le ultime previsioni della Commissione europea valutano che ci sarà una recessione nell’ultimo trimestre del 2022 nella maggior parte degli Stati membri e che anche il primo trimestre dell’anno dovrebbe essere negativo.

C’è in ogni caso l’evidente rischio di una doppia crisi, economica e finanziaria. Quest’ultima potrebbe venire per molte vie; se la Bce aumenta fortemente i suoi tassi di interesse, la più evidente riguarda una crisi del debito pubblico di certi paesi periferici della zona euro, a partire ovviamente dall’Italia. Anche se la Bce si limitasse ad arrivare ad alzare i tassi di riferimento sino al 4%, questo farebbe aumentare quelli italiani sino al 5,5%, ponendo in gravi difficoltà il bilancio del paese. Ma la crisi potrebbe essere aggravata da altri fattori quali le conseguenze sulla situazione del settore delle assicurazioni sulla vita e su quella dei fondi di investimento (Artus, 2022, a). Comunque, mentre ci si interroga più in generale su di una nuova crisi della zona euro che toccherebbe in particolare i paesi ad alto debito pubblico e a bassa crescita, come l’Italia e la Grecia, si levano molte voci per affermare che essa appare al momento improbabile (ad esempio, in proposito, si veda ancora Artus, 2022, b).

Ma qualcuno appare molto più pessimista. Così l’Elliott Management Fund, uno dei più importanti fondi di investimento, avvisa che il mondo sta andando verso la peggiore crisi finanziaria che si sia vista dalla fine della seconda guerra mondiale (Patel, 2022). Il mondo per la Elliott è sulla strada di un’iperinflazione che potrebbe portare perfino al collasso globale delle società e a conflitti interni o internazionali. Il fondo se la prende con le banche centrali per l’attuale situazione affermando che esse sono state disoneste sulle vere ragioni dell’inflazione, facendo riferimento alle rotture nelle reti di fornitura causate dalla pandemia invece di citare le politiche molto accomodanti imposte due anni fa durante il picco del Covid.

Ma si può pensare con il premio Nobel per l’economia 2021 David Card (Il Fatto Quotidiano, 2022) che le strette sui tassi di interesse varate dalle banche centrali per contenere l’inflazione puntano a tener fermi gli stipendi e ridurre i consumi, perché recessione e perdita di potere di acquisto sono l’unico modo che conoscono per raffreddare i prezzi. Ma questo comporterà una perdita dei salari reali e un rilevante aumento dei livelli di disoccupazione.

Ancora più dure, anche se sulla stessa linea di fondo, le considerazioni di un altro commentatore (Fazi, 2022). In un suo intervento recente l’autore afferma che gli aumenti dei tassi di interesse non hanno niente a che fare con la lotta all’inflazione, visto che la crescita di quest’ultima non ha a sua volta a che fare con una domanda in eccesso o con aumenti eccessivi dei salari; essa è invece spinta da fattori dal lato dell’offerta che sono completamente fuori dal controllo delle banche centrali. Quello di cui si preoccupano veramente le stesse banche è che in un futuro prossimo le economie occidentali dovranno affrontare dei mercati del lavoro strutturalmente più stretti, ciò significherà un più grande potere di negoziazione dello stesso fattore lavoro, segnalando un mutamento significativo rispetto a un passato degli ultimi cinquanta anni nel bilanciamento tra lavoro e capitale; così gli aumenti dei tassi di interesse servono in realtà ad aumentare i livelli di disoccupazione contribuendo così a ridurre il potere contrattuale dei lavoratori.

Le tesi di Card e di Fazi sembrano condivisibili, anche se, a nostro parere, quelle di Fazi possono forse sembrare molto rigide.

 

Cosa devono fare i governi

Non ci sono soltanto gli interventi delle banche centrali per sostenere l’economia, anche se la politica sembra spesso dimenticarlo, preferendo nella sostanza affidarsi completamente alla loro azione. Ovviamente, le prospettive dell’economia dipendono molto dalle scelte dei governi.

In questo momento quelli occidentali si pongono almeno apparentemente l’obiettivo di conciliare la lotta contro l’inflazione con una risposta forte alla crisi energetica e con le domande sociali di un mantenimento dei redditi dei cittadini, il tutto in un contesto di grandi incertezze internazionali. Ma si tratta di una missione sostanzialmente impossibile (Boyer, 2022), ammesso che essa sia sincera, in una situazione in cui si è anche assistito negli ultimi anni ad una rilevante crescita dei deficit pubblici. In particolare appare problematico lottare contro l’inflazione e contemporaneamente non cadere in una rilevante recessione.

In ogni caso la stessa Christine Lagarde esorta i governi dell’area euro affinché, di fronte al rallentamento dell’economia e alla compressione dei redditi reali, la politica di bilancio assuma un orientamento più espansivo.

Ma i governi della zona euro (con qualche eccezione), e in particolare quelli del Sud-Europa, sono già molto impegnati finanziariamente su molti fronti e appare difficile inventarsi in qualche modo una politica espansiva.

Una strada almeno parziale ci sarebbe, come suggerisce l’inviato dell’Onu già citato (Booth, 2022), quella di aumentare le tasse per i ricchi e per le società. Ma appare improbabile che da noi l’attuale governo voglia intraprendere tale percorso: piuttosto, cerca di fare l’esatto contrario, secondo una linea economica e sociale – togliere ai poveri per dare ai ricchi – che del resto appare sostanzialmente inalterata da diverse decine di anni. Né si può pensare, d’altro canto, che con il PD o con il cosiddetto Terzo Polo le cose sarebbero destinate ad andare molto diversamente.

L’ideale a questo punto sarebbe certo, come qualcuno propone, un intervento di Bruxelles che avviasse un’iniziativa finanziaria forte sul tema sullo stile del Pnrr; ma da quelle parti spira un’aria sostanzialmente ostile, mentre la Germania, il socio di maggioranza dell’Unione, sembra prendere la strada di una sempre maggiore autonomia e di disinteresse nei confronti degli altri paesi.

L’avvenire non appare al momento molto brillante. Possiamo sperare soltanto, a questo punto, in una qualche imprevedibile giravolta della Storia. A volte succede.


Testi citati nell’articolo
– Artus P., Les cinq risques à venir sur les marchès, Le Monde, 30-31 ottobre 2022, a.
– Artus P., Pourquoi l’euro peut éclater, Les Echos, 4-5 novembre 2022, b.
– Booth R., UN poverty envoy tells Britain this is «worst time» for more austerity, The Guardian, 2 novembre 2022.
– Boyer R., La tempete britannique pointe les contradictions des politiques économiques, Le Monde, 30-31 ottobre 2022.
– Couppey-Soubeyran J., La hausse des taux pourrait provoquer une crise financière, Le Monde, 30-31 ottobre 2022.
– Elliott L., The UK economy is to be thrown into a black hole – by its own government, The Guardian, 2 novembre 2022.
– Fazi T., The central bankers’ class war, www.thomasfazi.net, 9 novembre 2022.
Il Nobel per l’Economia Card: “Le banche centrali vogliono recessione e perdita di potere d’acquisto. I governi non riducano i sussidi”, Il Fatto Quotidiano, 8 novembre 2022.
– Patel A., Hedge fund giant Elliott warns looming hyperinflation could lead to «global societal collapse», Market Watch, 7 novembre 2022.
– Why inflation refuses to go away, The Economist, 22 ottobre 2022, a.
– Trouble in Hikelandia, The Economist, 29 ottobre 2022, b.

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