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eticaeconomia

Inflazione da profitti o profitti da inflazione?

di Andrea Boitani e Roberto Tamborini

Andrea Boitani e Roberto Tamborini si occupano del rapporto tra inflazione e profitti, distinguendo i casi in cui si realizzano profitti da inflazione da quelli in cui l’inflazione è innescata (anche) da un aumento dei margini di profitto. I due autori sostengono che, quando il caso è quest’ultimo, affidarsi solo alla politica monetaria ha costi troppo elevati in termini di disoccupazione mentre occorrerebbe un accordo generale sulla dinamica dei redditi, accompagnato da incisive politiche pro-concorrenziali e fiscali

181233 sdL’analisi via via più dettagliata dei dati aggregati, e soprattutto settoriali, relativi all’inflazione post-pandemica – in atto su scala globale dalla seconda metà del 2021 – ha messo in luce una significativa crescita dei margini di profitto. Il fenomeno è presente da tempo nella maggior parte dei paesi avanzati e dei settori produttivi, anche se appare più marcato in alcuni paesi (Stati Uniti e Regno Unito ad esempio) e in alcuni settori (agroalimentare, energetico, costruzioni, ristorazione, turismo). Il grafico tratto da un recente intervento di Fabio Panetta riassume i dati per l’Europa tra il IV trimestre del 2019 e il IV trimestre del 2022. Panetta afferma che “i profitti unitari hanno contribuito per più di metà della pressione inflazionistica interna nell’ultimo trimestre del 2022”, annotando anche che “la resilienza dei profitti cominciò ad essere visibile durante la pandemia, quando vi fu una recessione eccezionalmente profonda con un incremento dei profitti unitari (contrariamente a quanto accaduto nelle recessioni precedenti), mentre il sostegno fiscale assorbiva lo shock economico”.

Come sempre, in presenza dell’andamento congiunto di due variabili, i profitti e l’inflazione, la domanda è se siamo in presenza di un’inflazione da profitti (dove l’aumento dei profitti è una delle concause dell’aumento dei prezzi) o in presenza di profitti da inflazione (l’aumento dei prezzi porta con sé anche un aumento dei profitti). La risoluzione dell’enigma ha, naturalmente, conseguenze importanti, per ragioni distributive, equitative e per l’impostazione di una corretta politica antinflazionistica. Purtroppo, l’enigma è intricato e difficile da risolvere in maniera generale. Qui proviamo a fornire alcuni elementi che possono aiutare a mettere in ordine le idee.

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Per cominciare, ci sono tanti modi di misurare il profitto di un’impresa, e occorre mettersi d’accordo su quale sia la misura appropriata del fenomeno di cui stiamo parlando. La base di calcolo è naturalmente la differenza tra ricavi (prezzo unitario × quantità venduta) e costi (lavoro, energia, altri beni intermedi), corrispondente (circa) al cosiddetto margine operativo lordo (MOL). Se costi energetici e prezzi di vendita crescono entrambi dell’x% e l’impresa continua a vendere la stessa quantità, anche il suo MOL aumenta di x%. Questo è il caso (più semplice) di trasferimento integrale dei costi sui prezzi. Possiamo dire che l’aumento del MOL di questa impresa causa l’inflazione? Ci sono due ragioni per dire di no. La prima è che l’impresa sta trasmettendo al prezzo non più dell’aumento di costi che subisce. La seconda è che il valore reale del suo MOL rimane uguale. In questo caso, dunque, dovremmo parlare di profitti da inflazione, non già di inflazione da profitti. Quindi un test a conferma di questa ipotesi sarebbe la costanza dei profitti in termini reali (rispetto all’indice generale dei prezzi o all’indice di settore, controllando che non ci siano altri fattori che spiegano l’aumento o la diminuzione dei profitti reali).

C’è, però un altro punto di vista che può portare alla conclusione opposta. Consideriamo i lavoratori della suddetta impresa, e supponiamo che riescano a spuntare aumenti di salario al tasso dell’x%, lo stesso dei costi energetici (dopotutto, anche i lavoratori pagano la bolletta del gas). Dunque, come l’impresa anche i lavoratori stanno “solo” trasferendo sul loro prezzo di vendita l’aumento di costo (della vita) che subiscono, lasciando invariato il valore reale del loro reddito. Tuttavia, questo meccanismo, noto come spirale prezzi-salari, viene considerato assai nocivo in quanto concausa dell’inflazione, tant’è che si parla di inflazione da salari. Siccome l’impresa e i suoi lavoratori stanno utilizzando lo stesso meccanismo, cioè l’indicizzazione del proprio reddito all’inflazione, o sono entrambi assolti o entrambi colpevoli di procurata inflazione. Nota al margine (ma mica tanto): come già sapevano gli economisti classici del XIX secolo, in questa economia indicizzata al 100% i prezzi possono aumentare senza limite, ma profitti e salari rimangono invariati in termini reali, per cui l’inflazione non ha effetti redistributivi o equitativi (né effetti su produzione e occupazione).

Nel racconto precedente c’è un’ipotesi cruciale: l’invarianza della quantità venduta dall’impresa, dopo l’aumento di prezzo e costi. Questa ipotesi rimanda a una questione fondamentale: qual è la struttura del mercato in cui opera l’impresa? Infatti, perché le vendite non risentano dell’aumento del prezzo occorre che il mercato sia quello “ideale” di concorrenza perfetta; cioè, l’impresa ha una quota di mercato trascurabile e non è in grado di fissare un prezzo maggiore di quello “di mercato”, pena l’azzeramento delle vendite. Nel caso esaminato, la singola impresa può aumentare il prezzo perché tutte le imprese subiscono lo stesso aumento di costo e tutte reagiscono allo stesso modo (o almeno così ciascuna pensa …).

Nella realtà la gran parte delle imprese mira a creare e difendere quote di mercato non trascurabili – il concetto di concorrenza che hanno in mente gli imprenditori in carne ed ossa. La conseguenza principale è che, se l’impresa intende massimizzare il profitto, determinerà quantità da produrre e prezzo di vendita in maniera coerente, cioè tenendo conto della relazione che esiste tra prezzo e domanda del proprio prodotto (elasticità della domanda), ma anche del numero di imprese concorrenti, che cioè vendono lo stesso prodotto o prodotti simili (e quindi sostituibili). Tanto più rigida è la domanda e tanto minore il numero dei concorrenti, tanto maggiore è il potere di mercato di un’impresa e il mark-up o margine che essa è in grado di applicare sui costi. In questo tipo di mercati due fattori possono far aumentare parallelamente costi, prezzi e profitti: un aumento della domanda al netto dell’aumento del prezzo o un aumento del potere di mercato e quindi del mark-up stesso. Cosa osserviamo a tal proposito?

In primo luogo, il potere di mercato è assai diverso nei diversi settori dell’economia e scaturisce da storie passate molto diverse. In alcuni settori, quelli regolati (come l’energia o i trasporti pubblici) il mark-up è controllato (e garantito) proprio dal regolatore pubblico con vari strumenti, dalla limitazione all’entrata di nuove imprese (concessioni) alle formule per l’adeguamento dei prezzi alle variazioni dei costi, ecc. L’aumento aggregato dei mark-up documentato da Jan Eeckhout per tutto il mondo tra 1980 e 2018 è compatibile con andamenti settoriali molto differenziati. Ma soprattutto può dare origine a una inflazione da profitti.

La bassa inflazione sperimentata almeno a partire dagli anni ’90 del secolo scorso – proprio in concomitanza con l’aumento dei margini – è spiegabile considerando che, in quel periodo, il progresso tecnologico e la moderazione salariale avevano consentito una riduzione dei costi di produzione che, senza l’aumento dei margini di profitto, avrebbero molto probabilmente condotto a un’inflazione ancora più bassa, se non negativa. Cioè, avrebbero obbligato le banche centrali a politiche monetarie ancora più espansive di quelle fatte per tenere l’inflazione vicina all’obiettivo del 2%.

Con la pandemia e la guerra in Ucraina sono aumentati i costi di materie prime, energia e prodotti intermedi, e si sono avute interruzioni dell’offerta, con ricadute eterogenee sui vari settori, provocando squilibri di entità differente da settore a settore tra la domanda (in ripresa dopo la pandemia) e l’offerta. Inoltre, la domanda si è trasferita dai settori a offerta bloccata a quelli dove l’offerta poteva con minori difficoltà soddisfare la domanda. E tutto questo senza che la domanda aggregata eccedesse il trend storico, e quindi l’offerta aggregata potenziale in contrasto con il tanto parlare di inflazione da eccesso di domanda aggregata (come hanno documentato J. Stiglitz e I. Regmi “The causes of and responses to today’s inflation”, Industrial and Corporate Change, 2023).

Tuttavia, come detto, possono esservi settori dove l’aumento della domanda è sufficientemente ampio in relazione a cambiamenti nella composizione del consumo o dove, semplicemente, si produce un eccesso locale della domanda sull’offerta o, ancora, dove l’elasticità della domanda al prezzo del settore è bassa (energia) oppure non è costante ma prociclica. Quest’ultimo è il caso di buona parte dei beni alimentari di prima necessità: via via che il prezzo aumenta le famiglie fanno sempre più fatica a ridurne la domanda sostituendoli con altri prodotti; quindi, la domanda si irrigidisce e il margine ottimale perciò aumenta. In presenza di costi reali che non scendono (come avveniva fino al 2019) ma anzi salgono e di eccessi settoriali di domanda su un’offerta vincolata, l’accresciuto potere di mercato e il connesso aumento dei mark-up di cui s’è detto possono tradursi, in quei settori, in aumenti dei prezzi superiori a quello dei costi. Si avrà così un’inflazione settoriale da profitti che, con ritardi variabili, si trasmette attraverso la matrice input-output agli altri settori dell’economia (e da questi indietro a quelli dove si è originata), facendo aumentare l’inflazione complessiva.

Da queste considerazioni consegue che per verificare l’ipotesi dell’inflazione da profitti occorre utilizzare non il MOL in assoluto ma un indicatore del mark-up, come ad esempio il rapporto MOL/Costo unitario di produzione (CUP). Glover et al. (“How much have record corporate profits contributed to recent inflation?”, 2023) trovano che negli Stati Uniti il contributo alla dinamica dei prezzi finali dell’aumento dei mark-up così definito è stato del 50% nel 2021, ma è diminuito nel 2022. Va notato, tuttavia, che l’indicatore utilizzato da questi autori è aggregato e quindi non coglie le diverse dinamiche settoriali che, come si è visto, possono generare inflazione complessiva. L’indicatore usato dalla BCE nel suo Bollettino Economico di marzo 2023 e nel citato intervento di Panetta è invece il rapporto MOL/Valore aggiunto (VA), che però non coglie esattamente il punto suddetto perché indica se e quanto la dinamica costi-prezzi ha modificato la quota del profitto d’impresa rispetto al reddito del lavoro sul totale del valore aggiunto. L’aumento del MOL/VA non deve stupire visto che come ben noto i redditi da lavoro stanno crescendo meno dei prezzi, mentre le imprese sono in grado di “proteggere” il MOL trasferendo l’aumento dei costi sui prezzi. A quanto ci consta, il tema dell’inflazione da profitti e, in particolare, degli aumenti dei margini in Europa non sollecita molta ricerca né riceve attenzione da quelle forze politiche (specialmente di sinistra) da cui sarebbe forse naturale aspettarsela.

Se, però, l’inflazione che stiamo vivendo ha le caratteristiche sopra tratteggiate appare molto difficile riportarla sotto controllo solo con gli aumenti del tasso di interesse. Questi operano attraverso la riduzione della domanda aggregata, quindi creando disoccupazione o facendo crescere meno l’occupazione. Aumentare i tassi è fondamentale per abbassare le aspettative di inflazione, drenare la liquidità in eccesso e, quindi, contrastare eventuali eccessi di domanda aggregata. Ma quando l’inflazione è, in misura significativa, dovuta a squilibri settoriali e potere di mercato (quindi nasce dal lato dell’offerta), se, per riportare l’inflazione al livello desiderato, ci si affida solo all’aumento dei tassi il costo in termini di produzione e occupazione perduta sale a livelli troppo elevati.

Si è molto parlato di tassazione dei profitti straordinari dei produttori di energia. Ciò può servire a finanziare gli sconti per i consumatori più in difficoltà e può quindi contribuire a una politica con effetti equitativi non disprezzabili, ma non riduce la pressione inflazionistica. Si richiede invece un accordo tra tutti i soggetti che già oggi spingono l’inflazione (le imprese con i loro margini crescenti, i governi con l’Iva e la regolazione) o che potrebbero cominciare a spingerla per recuperare il potere d’acquisto perduto (sindacati e lavoratori). Dunque, una politica dei redditi ma non solo per tenere a freno l’inflazione salariale (oggi, in Europa, ancora inferiore a quella generale). Si richiede un accordo multilaterale, in cui le imprese si impegnino a tenere fermi o meglio ridurre i margini e i governi, da un lato, accrescano l’efficacia delle politiche pro-concorrenziali (in particolare rafforzando i poteri delle autorità antitrust), riformando la regolazione di alcuni settori, specie se permette troppo generosi passthrough dei costi e dall’altro prevedano aliquote Iva inversamente correlate ai costi di produzione nei settori dell’energia, dei carburanti e dei prodotti alimentari. Si tratta di ripensare (in maniera innovativa) a quanto suggerito da Richard Kahn e ripreso già trenta anni fa da Ignazio Visco e Fabrizio Barca con riferimento all’Italia, nonché all’intuizione di Ezio Tarantelli, secondo cui una politica dei redditi generalizzata contribuisce ad abbassare le aspettative di inflazione e coadiuva la politica monetaria.

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