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Il governo Renzi e la finanza

di Guglielmo Forges Davanzati

Il Governo Renzi annuncia un aumento della tassazione sulle rendite finanziarie (con eccezione dei titoli del debito pubblico), per provare a recuperare risorse per finanziare i provvedimenti che, nello stesso programma, dovrebbero creare le condizioni di fuoriuscita dell’Italia dalla recessione.

Le obiezioni sollevate sono molteplici e riconducibili alle seguenti. In primo luogo, non è assolutamente certo che le risorse derivanti dalla maggiorazione delle imposte sugli interessi obbligazionari e bancari dal 20 al 26 per cento saranno in grado di generare entrate di entità tali da garantire la totale copertura del taglio dell’Irap. L’aumento dell’aliquota potrebbe determinare un calo della domanda di titoli, di entità tale da generare semmai una riduzione del gettito. In secondo luogo, l’aumento della tassazione delle rendite finanziarie attuata da un singolo Stato (sebbene questo provvedimento ponga la tassazione italiana sulle rendite più in linea con quella europea) – in mercati finanziari globali pressoché totalmente deregolamentati – rischia di generare fughe di capitali e, anche per questa via, di vanificare l’obiettivo di recuperare risorse.


Vi è di più. Mentre le imprese sono favorite, da un lato, dalla riduzione dell’IRAP, l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie, dall’altro, può spingere le banche ad aumentare i tassi sui prestiti per recuperare margini di profitto, accrescendo ulteriormente le passività finanziarie delle imprese; e, per le imprese che si finanziano sui mercati finanziari, questo stesso provvedimento dovrebbe indurle a collocare i propri titoli con rendimenti più elevati. In entrambi i casi, non vi è da attendersi un aumento degli investimenti.

Ma, al di là degli aspetti tecnici della questione, occorre rilevare che questo provvedimento – se anche, nella migliore delle ipotesi, genererà maggiori entrate - resta un provvedimento minimale, che non agisce sulle cause profonde della crisi e che non modifica in modo strutturale i rapporti fra politica e finanza. Rapporti che si sono sviluppati storicamente su due snodi essenziali.

A seguito dello scoppio della crisi del 1929, venne introdotta negli Stati Uniti una normativa notevolmente stringente sull’attività bancaria (il c.d. Glass-Steagal Act), che stabilì la separazione fra banche commerciali, che potevano esclusivamente svolgere la funzione di raccogliere risparmi ed erogare finanziamenti a imprese e famiglie, e banche d’investimento, che potevano effettuare operazioni speculative nei mercati finanziari e si fissò un limite all’aumento dei tassi di interesse. La “repressione finanziaria” – come fu definita – contribuì a generare il più lungo periodo di stabilità del capitalismo. Erano gli anni nei quali Roosevelt scriveva che “il pericolo rappresentato dalla finanza organizzata è pari a quello del crimine organizzato”.

Il maggiore impulso alla totale deregolamentazione dei mercati finanziari (e l’abolizione del Glass-Steagal Act) avviene negli anni novanta per opera dell’Amministrazione Clinton. Sono anni nei quali l’idea dominante nelle Università statunitensi è che la “speculazione è stabilizzante”. Per quanto oggi questa tesi possa apparire del tutto infondata, va ricordato che essa ha di fatto legittimato la transizione a un modello di riproduzione capitalistica basato sul peso crescente della sfera finanziaria rispetto all’economia “reale”. La sua ratio risiede nell’assunto secondo il quale, essendo gli agenti economici perfettamente razionali e perfettamente informati, acquistano titoli di imprese efficienti e vendono di titoli di imprese inefficienti, così che l’attività speculativa svolge la funzione di “premiare” gli operatori maggiormente produttivi e, operando di fatto una selezione darwiniana, “punire” gli operatori meno produttivi.

Ebbene, è proprio a partire dagli anni novanta che – legittimata dall’ipotesi dei mercati finanziari efficienti – la politica economica (innanzitutto negli USA) dà spazio a un modello di riproduzione capitalistica caratterizzato da crescente “finanziarizzazione”. Su fonte Banca d’Italia, si rileva che il rapporto fra valore degli strumenti finanziari e PIL è stato pari, nel 2006, a 8 e a oltre 10 negli Stati Uniti, a fronte di un rapporto circa pari a 3 all’inizio degli anni ottanta: ciò a dire che, nel momento in cui viene effettuato uno scambio nell’economia “reale”, si effettuano 10 transazioni nella sfera finanziaria. Più in generale, l’evidenza mostra che, in tutti i Paesi OCSE (con maggiore accentuazione negli Stati Uniti), il rapporto fra attività finanziarie detenute dai residenti in un Paese e il corrispondente valore del PIL degli stessi anni è costantemente aumentato.

La finanziarizzazione deriva dal combinato di misure di deregolamentazione della sfera finanziaria e di riduzione della quota dei salari sul PIL in tutti i Paesi OCSE. L’OCSE riferisce, a riguardo, che, negli Stati Uniti, i salari reali medi nel settore privato si sono quasi dimezzati nel corso dell’ultimo ventennio. E’ palese che, in questo contesto, le imprese tendono a disinvestire, dal momento che la produzione e la vendita di beni diventa sempre meno conveniente a ragione della caduta della domanda di beni di consumo, e, per contro, trovano sempre più conveniente destinare quote crescenti dei profitti accumulati all’acquisto e alla vendita di titoli.

In tal senso, la finanziarizzazione delle imprese è causata dal peggioramento della distribuzione del reddito, ovvero dalla riduzione dei consumi conseguente alla riduzione dei salari. D’altra parte, il fatto che la speculazione diventa sempre più conveniente rispetto alla produzione di beni e servizi è anche il risultato del fatto che, finanziarizzandosi, le imprese ottengono profitti in tempi più rapidi, dal momento che la produzione richiede tempo e che è invece possibile accedere ai mercati finanziari su scala globale in ogni momento[1]. La riduzione della domanda, infatti, riducendo i mercati di sbocco delle imprese, ne riduce i profitti, generando aspettative negative sull’andamento dei profitti futuri. Ciò induce le banche a ritenere sempre più probabile il rischio di insolvenza delle imprese e, dunque, a ridurre i finanziamenti erogati.

Contrariamente alle previsioni, la speculazione si è rivelata niente affatto stabilizzante, essendo, per contro, uno dei principali fattori all’origine della crisi in corso. Ciò per le seguenti ragioni.

1) Chi opera nei mercati finanziari non si comporta in modo “razionale”. I mercati finanziari sono dominati da ondate di ottimismo e di pessimismo del tutto imprevedibili, da fenomeni di “esuberanza irrazionale”, da incertezza radicale, da effetti imitativi, così che i piccoli risparmiatori formano uno “sciame” che segue le decisioni delle più grandi Istituzioni finanziarie, assegnando a queste decisioni una patente di razionalità che, nella gran parte dei casi, non sussiste. Peraltro, quelli che vengono chiamati mercati finanziari sono niente altro che aggregazioni collusive composte da poche grandi Istituzioni finanziarie (Goldman Sachs, Lloyds, innanzitutto).

2) In un regime nel quale imprese e banche destinano quote crescenti dei profitti accumulati per attività speculative, gli investimenti si riducono, generando un circolo vizioso di caduta della domanda aggregata, riduzione dell’occupazione e dei profitti, ulteriore incentivo alla finanziarizzazione e riduzione del tasso di crescita.


Se gli anni della c.d. repressione finanziaria – ovvero di una incisiva regolamentazione dei mercati finanziari – sono stati gli anni di maggiore stabilità, agire con la leva fiscale per provare a contenere gli effetti perversi della finanziarizzazione appare inutile e per certi versi controproducente. Ciò al netto del vantaggio politico di presentare questo Governo come il Governo che, in discontinuità con i precedenti, non è il “Governo delle banche”.

NOTE

[1] A ciò si aggiunge la c.d. finanziarizzazione bancaria, ovvero la crescente propensione delle banche a restringere l’erogazione di credito a imprese e famiglie, e a destinare quote crescenti dei loro profitti sui mercati finanziari. Come nel caso della finanziarizzazione delle imprese, anche la “finanziarizzazione bancaria” deriva dalla caduta della domanda conseguente alla riduzione dei salari e, dunque, dei consumi.
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