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micromega

Gli effetti redistributivi del debito pubblico

di Guglielmo Forges Davanzati

E’ evidente che ogni emissione di titoli dello Stato determina sul mercato
industriale una vera sottrazione di capitali e crea, per necessità, una classe
di oziosi. E come il debito pubblico cresce, cresce parallelamente il numero
delle persone che non fanno nulla e che vivono di rendita. Questa classe
parassitaria deprime inevitabilmente le condizioni del lavoro. Poiché lo Stato,
per mantenerla, è costretto ad attingere largamente all’imposta” (F.S.Nitti, 1894)

Nonostante dichiarazioni di segno contrario, il Governo ripropone misure di riduzione della spesa pubblica che, oltre a ridurre occupazione e crescita, aumentano il debito pubblico. Una strategia che, in assenza di monetizzazione del debito, rischia di penalizzare i percettori di redditi bassi a beneficio della rendita finanziaria. Vediamo perché

po4Il Presidente del Consiglio ha recentemente dichiarato che: “Se riusciremo a spostare l’attenzione dall’austerità alla crescita, cambiando il paradigma economico dominante di questi anni di crisi, la ricaduta sulla vita delle persone in posti di lavoro e capacità di spesa sarà evidente”, facendo propria una convinzione ormai pressoché dominante nel dibattito italiano secondo la quale le politiche di austerità hanno prodotto esclusivamente danni e, contrariamente all’obiettivo prefissato, hanno contribuito a far crescere il rapporto debito pubblico/Pil.

Non vi è dubbio che ciò sia successo, e non vi è dubbio sul fatto che esse siano assolutamente irrazionali. Ma va registrato che questo Governo continua a praticare misure di riduzione della spesa pubblica (in particolare, nei settori della formazione e della sanità[1]), in palese contrasto con le dichiarazioni – o gli auspici – di Renzi.

E va anche registrato che, almeno nelle intenzioni dichiarate, ciò che il Governo intende fare è convincere la commissione europea a rendere più “flessibili” i vincoli di finanza pubblica, così da rendere possibili politiche di spesa pubblica in disavanzo. Politiche che, nelle condizioni date, non potrebbero che essere finanziate tramite emissioni di titoli pubblici sui mercati finanziari.

Per capire se si tratta di una strategia efficace, occorre interrogarsi sugli effetti che la spesa pubblica produce sulla dinamica del debito pubblico e sulla distribuzione del reddito, in un assetto istituzionale nel quale è impedita la “monetizzazione”[2].

Va innanzitutto considerato che il debito pubblico italiano è più elevato della media europea ed è in continua crescita e che questo Governo non è fin qui riuscito a invertire la tendenza. Il rapporto debito pubblico/Pil è passato dal 103% del 2007, al 120% del 2011, all’attuale 132,3%, in un periodo nel quale la spesa pubblica è stata sempre ridotta e l’imposizione fiscale è sempre aumentata. Su questi aspetti, è opportuno porre queste considerazioni.

1) L’apparente paradosso della riduzione della spesa pubblica (e dell’aumento della pressione fiscale) a fronte del continuo aumento del debito, non solo in rapporto al Pil ma anche in valore assoluto, che l’Italia sperimenta da molti anni, può essere spiegato alla luce di un duplice effetto. In primo luogo, la riduzione della spesa pubblica, in quanto contribuisce a ridurre la domanda interna, contribuisce ad accentuare la deflazione già in atto. E la deflazione comporta un aumento dell’onere reale del servizio sul debito, così che contrazioni di spesa generano aumenti del debito attraverso aumenti dell’onere degli interessi.

In secondo luogo, la riduzione della spesa pubblica riduce la domanda interna, dal momento che l’indebitamento (pubblico e privato) è una componente della domanda aggregata[3]. Questa dinamica è accentuata dal fatto che i tagli di spesa si traducono in riduzione e peggioramento dei servizi di welfare, con effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività del lavoro, così che, anche per questa via, minore spesa può implicare più debito. Un tasso di crescita di segno negativo o nullo, protrattosi, nel caso italiano, da almeno sei anni e in assenza di aspettative di ripresa, non può che generare l’aspettativa di crescente insolvenza e, dunque, non può che costringere lo Stato italiano a emettere titoli con tassi crescenti. Il criterio convenzionalmente adottato per definire la sostenibilità del debito, per il quale esso è tale se il tasso di crescita è maggiore del tasso di interesse reale, appare, in tal senso, discutibile, dal momento che non tiene conto del fatto che le due variabili non sono indipendenti: un basso tasso di crescita tende ad associarsi a tassi di interesse sui titoli elevati.

2) Un elevato e crescente debito pubblico costituisce un problema non perché frena la crescita riducendo gli investimenti privati, ma perché ha effetti ridistributivi che danneggiano i lavoratori a beneficio dei percettori di rendite finanziarie e delle grandi imprese.

Per quanto riguarda il primo aspetto, occorre considerare che il rimborso del debito – in un assetto istituzionale, quello dell’Unione Monetaria Europea, nel quale è fatto divieto di “monetizzare” il debito (ovvero ripagarlo attraverso emissioni di moneta da parte della Banca Centrale) – può rendersi possibile solo attraverso aumenti dell’imposizione fiscale. Dato l’elevato tasso di disoccupazione e conseguentemente il basso potere contrattuale dei lavoratori, non solo nel mercato del lavoro ma anche nella sfera politica, è ragionevole attendersi (anche in considerazione di quanto si è fin qui verificato) che l’accresciuta tassazione gravi essenzialmente sul lavoro, configurando così un meccanismo di redistribuzione del reddito che trasferisce risorse dal lavoro ai detentori di titoli di Stato, e, dunque, alla rendita finanziaria[4].

Per quanto riguarda il secondo aspetto, si può rilevare che l’attuazione di politiche fiscali restrittive reca vantaggi, di fatto, alle imprese di più grandi dimensioni, orientate alle esportazioni. Ciò per le seguenti ragioni. In primo luogo, la riduzione della spesa pubblica riduce l’occupazione e, indebolendo il potere contrattuale dei lavoratori, riduce i salari, consentendo loro di recuperare competitività sui mercati internazionali attraverso compressione dei prezzi. La riduzione della domanda derivante da minore spesa pubblica e maggiore tassazione, per contro, riduce i profitti delle imprese – di norma, di più piccole dimensioni e localizzate nelle aree meno sviluppate del Paese – che vendono su mercati interni. La riduzione dei profitti delle piccole imprese (o anche il loro fallimento) consente di attuare operazioni di acquisizione. In secondo luogo, e per quanto attiene al finanziamento degli investimenti, se la riduzione della spesa pubblica comporta anche riduzione dell’emissione di titoli del debito pubblico, ciò consente loro di finanziarsi con costi minori sui mercati finanziari[5].

Queste considerazioni portano a rilevare che la gestione della politica fiscale riflette i conflitti intercapitalistici, dal momento che le imprese di piccole dimensioni hanno interesse all’espansione della domanda interna, interesse configgente con quello delle grandi imprese esportatrici, che trovano semmai possibile e conveniente reperire risorse nei mercati finanziari e vedere attuate politiche di moderazione salariale. Posta la questione in questi termini, segue che:

a) il divieto di monetizzazione del debito risulta funzionale a far crescere i guadagni speculativi di banche e imprese, tramite acquisti e vendite di titoli del debito pubblico nei mercati finanziari;

b) il divieto di monetizzazione del debito, in quanto comporta riduzioni di spesa e aumento della tassazione, porta tendenzialmente, anche in assenza di un’imposizione normativa, al pareggio di bilancio. E il pareggio di bilancio consente alle grandi imprese di reperire risorse nei mercati finanziari emettendo titoli che non entrano in competizione con quelli (con minore rischiosità) emessi dallo Stato. Ci si trova, dunque, nell’apparente paradosso di politiche (che si propongono come) liberiste che di fatto favoriscono processi di crescente concentrazione industriale[6].

Va aggiunto che la crescita del debito pubblico produce effetti ridistributivi anche su scala regionale. Su fonte Banca d’Italia si rileva che i titoli di Stato sono in larghissima misura detenuti da famiglie con alto reddito, prevalentemente residenti nelle regioni del Centro-Nord, mentre le famiglie con più basso reddito, e tipicamente le famiglie residenti nel Mezzogiorno, allocano i propri risparmi in forme più “tradizionali”, spesso in acquisto di buoni postali. La Corte dei conti registra che i trasferimenti di risorse pubbliche sono inferiori nel Mezzogiorno e che l’incidenza della pressione fiscale è anch’essa maggiore al Sud. In questo scenario, si può concludere che le famiglie meridionali (e, più in generale, le famiglie con più bassi redditi) traggono ben pochi benefici dell’espansione del debito, a fronte del fatto che comunque contribuiscono – via tassazione – al rimborso dello stesso.

Se, dunque, è vero che le politiche di austerità accrescono il rapporto debito/Pil, generando effetti redistributivi a danno dei lavoratori, può anche verificarsi un effetto esattamente simmetrico per il quale l’aumento della spesa pubblica produce i medesimi risultati. Ciò può verificarsi se la spesa viene finanziata attraverso emissioni di titoli del debito pubblico, in assenza di monetizzazione, dal momento che, anche a parità di tassi di interesse, lo Stato dovrà finanziare la spesa con emissioni aggiuntive di titoli.

Rivendicare, come fa Renzi, l’abbandono delle politiche di austerità senza (a quanto risulta) specificare quali saranno i canali di finanziamento del debito può incorrere nel rischio di generare i medesimi effetti sul piano della distribuzione del reddito.

 

NOTE
[1] Sui tagli ai servizi sanitari, si veda http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Sanita-i-tagli-distratti-della-legge-di-stabilita-27128
[2] La monetizzazione del debito consiste nell’acquisto, da parte della Banca Centrale, di titoli di Stato, che la Banca Centrale pone nel suo attivo. Ciò consente a uno Stato di finanziarsi senza necessariamente dover ricorrere ai mercati finanziari, in una condizione nella quale i tassi di interesse risultano, di norma, più bassi. Sul tema, si vedano, fra gli altri, P. De Grauwe, The European Central Bank: Lender of Last Resort in the Government Bond Markets? CESifo Working Paper No. 3569, September, 2011; A. Terzi, When good intentions pave the road to hell: Monetization fears and Europe’s Narrowing options, “Levy Economics Institute, working paper n.810, June 2014.
[3] Come scrive Steve Keen, “since the change in debt is a major component of aggregate demand, and aggregate demand determines employment, unemployment rises if the rate of change of debt falls (and vice versa)”V. S. Keen, Debunking economics, London-New York: Zed Books, 2011, p.342.
[4] Si osservi anche che la crescita dell’emissione di titoli di Stato, e l’eventuale aumento dei loro rendimenti, costituisce un rilevante incentivo alla speculazione, e che l’attività speculativa si rende tanto massimamente conveniente nelle fasi nelle quali le banche restringono l’offerta di credito. Ciò a ragione del fatto che la restrizione del credito riduce la possibilità di effettuare investimenti e spinge le imprese a cercare di ottenere profitti nei mercati finanziari.
[5] D’altra parte, la restrizione del credito è un problema essenzialmente per le imprese di piccole dimensioni. Sul tema, si rinvia, fra gli altri, a P. Sylos Labini, Oligopolio e progresso tecnico, Torino, Einaudi 1963. Come osservava Graziani: “Le grandi multinazionali, così come hanno bisogno di utilizzare la forza lavoro là dove essa costa meno, devono anche poter attingere capitali finanziari nei mercati più convenienti, senza che gli Stati risucchino la finanza disponibile per coprire il disavanzo pubblico. Per consentire alla grande impresa di mettere in atto pienamente la propria strategia mondiale occorre quindi anche portare il bilancio pubblico al pareggio e ridimensionare drasticamente la presenza dello Stato nei mercati finanziari”. Si veda A. Graziani (a cura di), La spirale del debito pubblico, Bologna, Il Mulino, 1988.
[6] Sul tema, si rinvia a R.Bellofiore e J.Halevi, La grande recessione e la terza crisi della teoria economica, http://criticamarxistaonline.files.wordpress.com/2013/06/34_2010bellofiore_halevi.pdf
 
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