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Privatizzazioni italiane

Una storia di insuccesso da portare a termine

Mario D’Aloisio

Riceviamo e nuovamente pubblichiamo una interessante riflessione di Mario D’Aloisio

svendesi-257x300Messa in archivio la partita del Colle, Matteo Renzi torna ad occuparsi di economia, e lo fa organizzando a Roma un raduno di due giorni coi principali investitori internazionali per mettere sul piatto quel che rimane della grande impresa pubblica italiana (Eni, Enel, Poste Italiane, Ferrovie dello Stato, Finmeccanica) in cambio di denaro liquido. A scriverlo è Bloomberg , secondo cui alla conferenza, patrocinata da UniCredit, saranno presenti anche emissari del Tesoro e della Cassa depositi e prestiti. L’obiettivo ufficiale del Governo italiano, condiviso con Bruxelles, è quello di accelerare il processo di privatizzazioni per raccogliere fondi destinati alla riduzione del debito pubblico, in conformità col patto di stabilità e crescita. Questa dunque la notizia, da tempo nell’aria. A questo punto sembra tuttavia doveroso un cenno a quel che hanno rappresentato le privatizzazioni italiane, condotte “da sinistra”, a partire dalla firma del Trattato di Maastricht e negli anni a seguire, soltanto per comprenderne la natura ambigua, oltre che gli effetti del tutto negativi in termini di opportunità economica. In quanto leader del Partito Democratico Renzi ha soltanto imboccato una strada già battuta dai sui predecessori. Vediamo di capire come.

 

La sinistra dopo Maastricht

Gli anni che seguirono al Trattato di Maastricht inaugurarono in Europa la stagione del socialiberismo, cioè del capitalismo camuffato sotto la falsa identità socialista. I governi della sinistra europea che gestirono il periodo della transizione furono i veri promotori a livello nazionale di un “modello di globalizzazione finanziaria e deregolarizzata” (Bloomfield) assai poco conciliabile coi valori tradizionali della socialdemocrazia.

In Italia Tangentopoli servì a spazzare via un’intera classe politica che, pur commettendo molti errori, si era costantemente opposta all’idea di liquidare in modo sistematico l’apparato industriale del paese. L’impeto giustizialista ed antistatalista che investì l’opinione pubblica durante l’inchiesta determinò il consolidarsi di convinzioni sempre più liberiste, ostili dunque a qualsiasi tipo di intervento pubblico nell’economia. Il risultato elettorale dell’aprile del 1992 sancì la sconfitta dei partiti storici, inaugurando l’esperienza dei governi tecnici Amato e Ciampi (sostenuti dal centrosinistra, da Confindustria e dagli stessi sindacati), con cui ebbe inizio la grande stagione delle privatizzazioni. La leggenda narra che il 2 giugno del 1992, sul panfilo della Corona d’Inghilterra Britannia, alla presenza di Mario Draghi, al tempo direttore generale del Tesoro, di Carlo Azeglio Ciampi, governatore della Banca d’Italia, oltre che di un centinaio di rappresentanti della finanza angloamericana (tra cui emissari di Warburg, Barings, Barclays e Goldman Sachs) e degli ambienti industriali e politici italiani, vennero stabilite le condizioni della svendita del patrimonio pubblico del paese. Qualche mese più tardi, esattamente il 13 settembre, dopo un estenuante quanto inutile tentativo di difesa da parte del Governo italiano del cambio lira/ECU a seguito degli attacchi speculativi di Soros (che portò la Banca d’Italia a polverizzare in una sola estate riserve per ben 48 miliardi di dollari), il Presidente del Consiglio Giuliano Amato annunciò la svalutazione della lira e la successiva uscita della valuta italiana dallo SME. In conseguenza di ciò le oligarchie finanziarie estere ottennero l’immediato vantaggio di poter acquistare asset pubblici italiani a prezzi assolutamente stracciati, sfruttando anche il preventivo lavoro del Governo italiano, che aveva provveduto a trasformare in S.p.A. gli enti pubblici economici (Iri, Eni, Enel ed Ina), collocandone le azioni sul mercato. Sono cose che sappiamo, ma è meglio ricordarle.

 

Privatizzazioni: un insuccesso annunciato

Sospinte dall’urgenza di fare fronte agli impegni assunti a Maastricht, nonché dalla finalità di realizzare una progressiva liberalizzazione delle attività economiche che favorisse la libera concorrenza, le privatizzazioni italiane intraprese da Amato e Ciampi proseguirono con il Governo Prodi fino all’ottobre del 1998 (con la sola interruzione del Governo Berlusconi del 1994), ma con risultati poco soddisfacenti. Gli obiettivi prefissati dagli esecutivi della sinistra italiana si rivelarono infatti di lì a pochi anni assolutamente illusori. Se da un lato il debito pubblico si contrasse nel breve periodo di appena il 7,92%, la perdita nel medio termine da parte dello Stato di cospicue entrate di cassa, assieme alla rinuncia definitiva a quella che fu la colonna portante dell’economia pubblica e del sistema di welfare che in parte si reggeva su di essa, rappresentarono l’epilogo di una gestione della liquidazione pubblica assolutamente disastrosa, che di fatto ridusse di ben 13 punti percentuali il contributo al PIL da parte delle aziende partecipate dall’amministrazione centrale. Inoltre l’obiettivo di dare impulso alla libera concorrenza ebbe come risultato più significativo quello di consegnare a monopoli privati il management di attività e servizi in precedenza pubblici, comportando una trasformazione delle stesse, da funzione sociale a funzione esclusivamente indirizzata alla redditività economica. Il processo di riforma realizzato determinò l’azzeramento della proprietà pubblica nelle banche italiane, modificando in maniera sensibile il panorama bancario italiano, portando le quote di mercato dei cinque maggiori gruppi bancari privati dal 34 al 54%. Chi ci guadagnò furono soprattutto le numerose società di consulenza finanziaria che condussero i processi di privatizzazione, ottenendo ricchi compensi attraverso molteplici ruoli (advisor, valutatore, intermediario, collocatore e consulente): si trattò, fra le altre, di Societè Generale, Rotschild, Credit Suisse First Boston, JP Morgan, Merril Lynch, Lehman Brothers, ovvero del gotha finanziario a livello internazionale.

 

Da Maastricht al TTIP, passando per Goldman Sachs

Il processo di deregulation della grande impresa pubblica italiana, a cui proprio in questi giorni il governo Renzi intende dare una nuova e decisiva accelerata, non fu dunque intrapreso per motivi di inefficienza, ma ebbe origine da un preciso impulso liberista, di cui gli esponenti della sinistra italiana si fecero i maggiori promotori. Le liberalizzazioni in Italia determinarono in pochi anni un aumento del livello dei prezzi, l’abbassamento del numero degli occupati, la riduzione dei fatturati delle piccole e medie imprese, la concentrazione del capitale nelle mani di pochi gruppi di potere. Gli stessi uomini che guidarono la trasformazione economica italiana degli anni ’90 ebbero forti legami con Goldman Sachs, una delle holding bancarie che da tale metamorfosi trasse i maggiori benefici. Se Romano Prodi fu presente sul libro paga della banca d’investimento americana in qualità di advisor, Mario Draghi ne rivestì la carica di presidente per ben quattro anni. Anche Mario Monti e Gianni Letta occuparono posti di consulenza per il colosso finanziario definito dal Nobel dell’economia Paul Krugman come “l’anticamera per un posto di primo livello in politica”. Per capire bene la portata di un simile rapporto di connivenza tra politica ed economia è opportuno evidenziare il ruolo che Goldman Sachs ed affini hanno ricoperto negli anni a livello globale, con particolare riferimento all’attività di lobbying, esplicitata dal fenomeno delle revolving doors o porte girevoli, grazie a cui determinati individui passano da responsabilità pubbliche a ruoli di varia natura all’interno della banca d’affari e viceversa, con interscambio continuo e in pieno conflitto di interessi. Un sistema ammesso dalla stessa Goldman Sachs e adottato dalle principali holding bancarie americane (come il caso di JP Morgan Chase che nel 2008 assunse l’ex premier britannico Tony Blair per consulenze politiche e strategiche). L’intreccio tra gli interessi delle lobby americane ed europee è divenuto nel corso degli anni via via sempre più fitto. I negoziati tra Stati Uniti ed Europa per la messa in opera di un mercato transatlantico (TTIP), a cui Renzi tiene particolarmente, proseguono senza sosta. In questo senso l’impegno politico delle istituzioni comunitarie e del Governo americano si sta traducendo progressivamente nel tentativo di estendere e rafforzare la libera concorrenza, favorendo l’iniziativa di multinazionali e grandi holding finanziarie, incentivando la fusione di grosse aziende a discapito della piccola e media impresa, demolendo quel che rimane della presenza pubblica nell’economia. In questa prospettiva i servizi pubblici essenziali, come la sanità, la cultura, il welfare, l’insegnamento, corrono il serio rischio di rimanere fagocitati da quel sistema economico del tutto deregolamentato che ricevette un grosso stimolo in Europa e in Italia proprio con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht e con le conseguenti politiche intraprese dai governi per la sua messa in atto. Governi di sinistra, s’intende. E Renzi ,per quanto riguarda il nostro paese, è sulla buona strada per concludere il lavoro.

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