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liberazione

A Giavazzi e a Ichino dico: i vostri dati non convincono

di Emiliano Brancaccio

Il dibattito su flessibilità e occupazione tra liberisti e sinistra

neoliberismoIn questi giorni i lettori di Liberazione hanno avuto più di un motivo per rallegrarsi. Il giornale è stato infatti teatro di un confronto inedito sui reali effetti delle politiche di precarizzazione del lavoro. Pietro Ichino e Francesco Giavazzi hanno cavallerescamente accettato la sfida da noi lanciata il 1° settembre scorso, e sono quindi intervenuti su queste colonne in difesa della cosiddetta "flessibilità". Ma la vera notizia è che, con l'avanzare del dibattito, è emerso lampante il dato di fondo: i "liberisti del lavoro" non dispongono di evidenze attendibili in grado di supportare le loro tesi. In quel che segue, rispondendo a Giavazzi, forniremo gli ultimi elementi a sostegno di questa sorprendente conclusione.

Dopo l'intervento di Pietro Ichino pubblicato martedì scorso, giovedì è poi toccato a Francesco Giavazzi calcare le scene del giornale comunista. L'economista della Bocconi si è innanzitutto premurato di sostenere che in realtà non vi sarebbe alcun dissenso tra lui e Ichino in merito agli effetti della precarietà sulla disoccupazione. Giavazzi ritiene cioè che il giuslavorista condivida la sua idea secondo cui una minore protezione dei lavoratori garantirebbe una riduzione del tasso di disoccupazione. Personalmente non frequento le sinapsi di Ichino e quindi non me la sento di giudicare questa ardita esegesi. Mi limito solo a constatare che nel suo intervento Ichino ha insistito sul fatto che, a differenza di Giavazzi, egli non è si è mai sognato di scrivere che la precarietà riduce la disoccupazione, e addirittura ha esplicitamente "sfidato" chiunque a dimostrare il contrario.

Ora, se il professor Giavazzi ritiene che questa possa esser considerata una manifestazione di consenso verso le sue tesi, allora alzo le mani: contento lui, contenti tutti. Egli tuttavia mi perdonerà se resto della mia idea: la discussione ha mostrato che il fronte dei "liberisti del lavoro" appare oggi più confuso e più sfaldato di un tempo, e questo rappresenta un fatto di una certa rilevanza politica. Giavazzi è quindi passato al merito della questione citando uno degli studi che, a suo avviso, dimostrerebbero l'esistenza del legame da lui avanzato tra maggiori protezioni dei lavoratori e maggiore disoccupazione. In tutta franchezza, devo dire che il riferimento di Giavazzi mi ha stupito.

Ero infatti già a conoscenza dello studio in questione (di Fiori, Nicoletti, Scarpetta e Schiantarelli, che nella sua versione definitiva è stato pubblicato come discussion paper dell'IZA di Bonn), e sapevo bene che in esso non vi era la benché minima evidenza a sostegno del legame tra precarietà e disoccupazione evocato dal professore. Anzi, proprio nel medesimo articolo si riconosce che, preso isolatamente, l'indice EPL di protezione dei lavoratori calcolato dall'OCSE risulta privo di correlazioni significative anche con l'altro tasso, quello di occupazione. Ma soprattutto, all'interno della letteratura di riferimento citata dall'articolo, è possibile trovare un'autorevole smentita dei presunti effetti della flessibilità sulla disoccupazione. La smentita è contenuta in una ben nota rassegna di Olivier Blanchard, un economista del MIT di Boston con il quale guarda caso lo stesso Giavazzi ha lungamente collaborato (il titolo è "European unemployment: the evolution of facts and ideas, Economic policy 2006). In questo scritto, dopo un'ampia ricognizione della letteratura, Blanchard giunge ad una conclusione secca: "le differenze nei regimi di protezione dell'impiego appaiono largamente incorrelate alle differenze tra i tassi di disoccupazione dei vari paesi". Ebbene, a meno che Giavazzi non intenda anche in tal caso imbarcarsi in una temeraria esegesi alternativa, mi pare che le parole di Blanchard siano inequivocabili.

Faccio presente una cosa molto importante, indice della forza delle nostre argomentazioni: finora abbiamo smentito i "liberisti del lavoro" usando sempre e soltanto le loro stesse fonti, e senza mai fare riferimento ai contributi eterodossi sul tema. Faccio inoltre notare che abbiamo pure evitato di mettere la questione nei termini a noi più agevoli: quelli di una disputa teorica tra analisi ortodossa e analisi marxista. E questo sebbene l'assenza di correlazioni tra maggiore precarietà e minore disoccupazione possa esser letta come una implicita messa in discussione dei modelli neoclassici che l'analisi empirica prevalente si ritrova di solito a testare (infatti, sia nelle versioni puriste originarie che in quelle imperfezioniste recenti, questi modelli giungono sempre alla conclusione che minori salari - offerti o anche solo richiesti - dovrebbero determinare una minore disoccupazione). Insomma, abbiamo finora sempre accettato di giocare la partita nel campo avversario. Ciò nonostante, come abbiamo potuto verificare, la posizione dei liberisti risulta in ogni caso estremamente fragile. Non meraviglia dunque la mossa del cavallo che Giavazzi ha tentato di compiere nel suo intervento di giovedì. Egli infatti sembra aver scelto proprio lo studio pubblicato dall'IZA poiché in esso viene spostata l'attenzione dal legame diretto tra precarizzazione del lavoro e riduzione della disoccupazione - che non trova riscontro, e vede quindi i liberisti continuamente sulla difensiva - ad una relazione molto più indiretta e tortuosa: quella tra le liberalizzazioni dei mercati dei beni e dei servizi e la riduzione della disoccupazione, il tutto mediato dai regimi di protezione dell'impiego. Facendo di questo ben diverso legame il suo nuovo appiglio, Giavazzi sceglie dunque di abbandonare la strada impervia dell'attacco all'articolo 18 da cui aveva fatto iniziare questa disputa, e giunge più modestamente ad augurarsi che Liberazione sostenga gli interventi del ministro Bersani a favore delle deregolamentazioni dei mercati dei servizi.

Naturalmente il mio auspicio è che questa volta Giavazzi stia facendo un discorso generale e non si stia riferendo solo ai tassisti, ai quali qualche tempo fa pareva quasi volesse affidare le sorti del paese. Sia come sia, la nuova esortazione politica del professore merita due righe di approfondimento. Essa sembra costituire un arretramento, ma forse lo è solo in apparenza. Segnalo infatti che nello studio da lui citato, e più in generale in questa nuova letteratura dedicata alle liberalizzazioni dei mercati dei beni e dei servizi, l'unica evidenza empirica sufficientemente robusta è che queste riforme vengono solitamente accompagnate da salari più bassi e da successive deregolamentazioni del mercato del lavoro. I dati ci dicono insomma che in varie circostanze la liberalizzazione dei mercati dei beni e dei servizi ha agito come cavallo di Troia per un successivo attacco ai salari e ai diritti del lavoro. Una possibile spiegazione è che la maggiore apertura dei mercati delle merci inasprisce lo scontro inter-capitalistico, contribuisce a lungo termine alla concentrazione dei capitali, e può quindi facilmente tradursi in una maggiore pressione contrattuale e normativa sui lavoratori. In base a queste evidenze dobbiamo ritenere che le "lenzuolate" di Bersani e più in generale i provvedimenti di apertura dei mercati siano di per sé deleteri? La mia personale idea è che la sinistra dovrebbe sempre guardare in chiave costruttiva ai processi di apertura e concentrazione capitalistica. Facendo tuttavia attenzione a una cosa: questi processi possono considerarsi "moderni" solo se le forze della sinistra sono in grado di sviluppare le lotte sociali e le iniziative politiche al medesimo ritmo di sviluppo dei capitali. Se invece questi provvedimenti vengono gettati senza contromisure, e in contesti in cui il capitale nazionale sia debole e la forza dei lavoratori sia modestissima, le conseguenze potrebbero essere molto negative. Ecco perché ritengo che le "lenzuolate" andrebbero strettamente associate non a uno smantellamento del contratto nazionale, delle tutele dei lavoratori e dell'intervento pubblico negli assetti proprietari, ma ad un loro significativo rafforzamento, anche attraverso una diversa gestione del debito pubblico (si veda il sempre valido www.appellodeglieconomisti.com ). Ed ecco perché, a titolo puramente personale, sostengo che se dalla manifestazione del 20 ottobre non usciranno risposte chiare sul tema della precarietà, sarà difficile trovare motivi logici per sostenere gli altri provvedimenti del governo.

Mi rendo conto di precedere in direzione esattamente opposta a quella del professor Giavazzi, ma a questo riguardo mi permetto di rivolgergli la stessa domanda che in sede di Comitato Industria 2015 del Ministero dello Sviluppo avevo rivolto a Bersani: non crederemo mica che le lenzuolate siano in grado da sole di rimediare alla crisi competitiva del paese? Molto più probabilmente, se accompagnate da provvedimenti di apertura anche internazionale dei mercati, esse serviranno piuttosto a favorire le acquisizioni estere. E proprio a questo riguardo, in un confronto in televisione di qualche mese fa, Giavazzi mi attaccò sostenendo che quello della nazionalità della proprietà del capitale è un falso problema. Come ebbi modo di replicare all'epoca, dico che forse sarà così per lui. Io ritengo invece che a sinistra, se non vogliamo lasciarci sedurre dalle simmetriche sirene dei liberisti e dei negriani, quel problema lo si debba tenere bene in conto. Non per mettere in discussione l'Europa unita ma per tentare finalmente di incidere sulla sua costruzione politica.

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