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La concertazione è finita

Per una discussione su sindacato, lotte e organizzazione

∫connessioni precarie

La concertazione è finita«La concertazione è finita». Nonostante lo scandalo – acceso ed effimero come un fuoco di paglia – provocato a luglio da queste parole, pronunciate non a caso davanti ai banchieri riuniti, Mario Monti si è limitato a registrare un dato di fatto. L’approvazione dell’obbligo costituzionale del pareggio di bilancio e la riforma del mercato del lavoro stabiliscono le condizioni materiali della fine di una lunga stagione di politica economica e di relazioni industriali. Con tecnica chiarezza, Monti ha aggiunto che la concertazione è alla radice di tutti i mali presenti, soprattutto delle difficoltà che, a causa delle colpe concertative dei loro genitori, incontrano i figli e i nipoti di lavoratori e lavoratrici quando cercano un lavoro. Avendo così chiarito i fondamenti ultimi della crisi dei rapporti tra generazioni, Monti ha potuto stabilire che la concertazione non è altro che un moltiplicatore della spesa pubblica da cancellare con un tratto di penna assieme a una buona parte di quella spesa. La concertazione è soprattutto un ostacolo presente alle politiche di investimento, e dunque alla produzione di profitto. Le parti sociali sono solo parti, alle quali il potere pubblico non è tenuto a trasferire in outsourcing responsabilità politiche e che perciò devono, con logica e letterale evidenza, farsi da parte.

Si può persino capire lo sgomento di chi per due decenni ha legittimato la propria azione politica e sindacale sulla base del fatto che c’era qualcosa da concertare. Si può capire la rabbia di chi legge giustamente nelle parole di Monti la delegittimazione di ogni difesa organizzata degli interessi dei lavoratori, siano essi precari, operai, migranti o impiegati pubblici.

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I disperati

nique la police

Il grandissimo Elias Canetti parlava della disperazione come dell’unica forma disinteressata di esistenza. Insomma, un sentimento così profondo da superare, in importanza, l’interesse e il potere. Si trattava di un modo di esistenzializzare la disperazione. Come se fosse esclusivamente legata alla viva percezione della mortalità e al deperimento, alla caducità del senso del proprio agire. Nell’Italia della politica istituzionale la disperazione è invece legata al mantenimento, ad ogni costo, di ciò che si pensa essere interesse e potere. Persino a prescindere dal fatto che, una volta portato a compimento un piano, interesse e potere ci siano davvero. La disperazione rappresenta così i tratti complessivi di una antropologia del declino della ragione strumentale della politica mainstream, sedimentatasi nell’Italia dell’ultimo trentennio, quella dove le forme di soggettivazione si riproducono solo in tattiche di potere senza visione e senza uscita. Infatti, come non definire un disperato Mario Monti che parla di uscita dalla crisi entro pochi mesi?

Le revisioni delle stime del Fmi sull’Italia, che si presume conosca, proiettano al ribasso sia la recessione del 2012 che quella del 2013. Non solo: almeno due fattori globali, il rallentamento della “crescita” cinese (ai tassi più bassi dall’inizio degli anni ’90) e il fiscal cliff americano (la fine delle agevolazioni fiscali alla “crescita”, pari al 4% del Pil, entro il 2012) fanno capire che, a differenza di altri periodi anche recenti, la stagnazione non è solo italiana ma riguarda le locomotive economiche globali.

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Fermo immagine Napolitano

Il rischio dissoluzione delle autonomie locali in Italia

nique la police

L’Italia è un paese curioso: il presidente della repubblica va in televisione nel fine settimana e parla, di nuovo, di cessione di sovranità e nessuno lo cita o lo riprende. Il segretario del Pd non trova di meglio che passare la domenica a farsi riprendere presso la pompa di benzina di Bettola, in provincia di Piacenza, un tempo di proprietà del padre. Per sottolineare che la politica istituzionale è entrata in una sorta di X-Factor permanente, tra primarie ed elezioni, dove conta quindi la sola promozione del personaggio. C’è da chiedersi quanto conterà, nell’Europa che si è formata, un ceto politico del genere. Il resto è occupato dalle cronache di un saccheggio dissennato e, a suo modo, creativo dei beni pubblici dalla Lombardia alla Calabria. Ma quando Napolitano parla di cessione di sovranità, come abbiamo evidenziato in questo articolo non costruisce mai passaggi casuali. Tantomeno nel discorso di fine settimana.

Stavolta si tratta di capire le implicazioni del discorso di Napolitano non sulle mutazioni, per certi versi clamorose, della forma stato del paese. Si tratta piuttosto di capire meglio le trasformazioni promosse dal discorso di Napolitano in materia di enti locali. Anche perchè l’abolizione delle province, nonostante la sostanziale indifendibilità del ceto politico che le abita, ha rappresentato il cavallo di Troia per una più complessiva ristrutturazione delle autonomie locali italiane.

Intanto, due parole sullo scenario. Mentre media e stampa nazionali si scatenavano su Fiorito e Formigoni, alimentando più che altro avanspettacolo, sul Guardian e sulla Frankfurter Allgemeine campeggiava in prima pagina la notizia di una bozza di progetto sulla ristrutturazione del bilancio Ue. Nel senso che undici paesi dell’area euro, tra cui l’Italia, hanno preparato una bozza d’accordo che prevede che, a livello continentale, si allarghi il budget comunitario.

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Dove stiamo andando

di Sandro Moiso

Per un errore di interpretazione di un testo latino che attribuiva agli amalfitani l’invenzione della bussola, per secoli si è dimenticato che la scoperta dell’asse magnetico terrestre è da attribuirsi ai cinesi e ai vichinghi, mentre è da attribuire agli arabi la diffusione della bussola nel Mediterraneo.
Al massimo l’amalfitano Flavio Gioia l’avrebbe perfezionata, rendendola più stabile.

E’ la solita storia italiana: nazione di eroi, santi, navigatori, inventori e falsificatori.

Certo la bussola della politica italiana, dalla nascita dello stato nazionale in avanti, un’importante modifica l’ha subita.
L’ago è stato sostituito da un manganello che, a seconda delle epoche, può variare lunghezza, dimensione e materiale di cui è fatto, ma non la sua funzione: quella di indicare dove stanno andando l’economia e la società nazionali.

Se gli operai provano a chiedere : ”Dove stiamo andando? Che fine faremo? Che avverrà del nostro lavoro e del nostro salario?” La risposta esatta è: cariche e manganellate.
Se gli studenti e i giovani chiedono: “Dove stiamo andando? Che fine farà l’istruzione pubblica? Che ne sarà del nostro futuro?” Ancora una volta la risposta sarà data dalle manganellate e dalle cariche della polizia.

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Primarie centrosinistra, parte la brigata del niente

nique la police

Risulta praticamente impossibile prendere sul serio commentatori, alcuni con curriculum prestigioso e buona produzione scientifica, che affermano che il “Pd ha un programma innovativo” oppure che “Bersani ha superato lo scoglio delle regole sulle primarie”. Si possono comprendere le dinamiche di posizionamento, sottintese a queste affermazioni, ma si deve evidenziare anche che in certi commentatori è ormai conclamata l’incapacità di capire che è finito un mondo. Quello in cui in cui, assieme al posizionamento entro il più importante partito dello schieramento progressista, si potevano negoziare spazi di autonomia politica e personale. Ricordando che, effetto dei tagli sull’onda dell’antipolitica e del potere reale sull’Italia che passa tra Bruxelles e Berlino, si stanno esaurendo anche i margini concreti per i posizionamenti di carriera tramite la politica istituzionale. 

 Ma che altro dire degli intellettuali mainstream della sinistra istituzionale italiana? Da moltissimi anni, del numero si è persa la memoria, hanno accettato di buon grado di vivere un percorso intellettualmente docile in una Italia controriformata. Moriranno quindi con quel mondo ammesso che siano ancora intellettualmente vivi. E che dire, a questo punto, delle primarie del Pd? Che possiamo descriverle come nelle vignette di Riccardo Mannelli, il più interessante disegnatore di convention, convegni, eventi pubblici, di situazioni da nonluoghi in Italia da almeno un paio di decenni. Mannelli, che ha disegnato per diverse testate italiane, ha il pregio di mantenere un doppio equilibrio di rappresentazione: disegnare volti e corpi in primo piano senza perdere il senso della folla e sempre all’interno una fisiognomica del grottesco, che non è solo caricatura, che è anche informazione sulle relazioni sociali,sui codici simbolici, sulla cifra antropologica di una parte di paese alla deriva.

L’atteggiamento che si deve avere con le primarie del centrosinistra, per estrarci qualcosa di cognitivamente utile, è proprio quello dell’equilibrio presente nelle vignette di Mannelli.

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La futura classe dirigente? "Allineata e coperta"

di  Dante Barontini

La trappola della "legalità" e l'uso reazionario degli scandali. Il governo delinea per legge le caratteristiche della "classe dirigente" nei prossimi anni

Il problema della selezione della classe dirigente è antico quanto l'organizzazione umana. Ma il modo più stupido e reazionario di risolverlo è quello che vieta la candidabilità a chi sia stato condannato “in via definitiva”. Sappiamo di dire una cosa impopolare, in tempi di forconi levati contro i Batman di turno, ma è bene ragionare sempre per non ritrovarsi infilzati dalle idiozie di moda che ci sono sembrate per un momento accattivanti. Perché nella società della comunicazione le mode cambiano, e anche spesso, ma le conseguenze restano. Ed anche a lungo.

Venti anni di populismo virato sul tema della “legalità” hanno partorito prima 20 anni di Berlusconi (e nessuno si rassegna a cogliere questo esito solo apparentemente paradossale), poi un anno di “montismo” che aspira a dominare per anche più di un ventennio.

Che cosa è infatti la “legalità”? Sono le leggi esistenti, in vigore in questo momento in un territorio delimitato da confini certi, e fatte rispettare da una serie di istituzioni ed apparati (magistratura e polizie di vario tipo). Anche un asino dovrebbe dunque sapere che una cosa è la legge e tutt'altra la giustizia.

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La sinistra e l’inferno della “tecnica”

di Alberto Burgio

Evviva Monti! La sua autocandidatura - una sorpresa soltanto per gli ingenui - fa chiarezza nella palude italiana e mette allo scoperto l'unica seria iniziativa politica di questa fase. La crisi organica del berlusconismo ha costretto i suoi mandanti a inventare un grande centro all'altezza dei tempi. Ed eccolo lì, con tanto di capo carismatico e benedizione vaticana, l'embrione della nuova Dc, ombrello protettivo per finanzieri e industriali assistiti, postfascisti e grandi palazzinari. Sbaglieremo, ma la vera novità che sembra profilarsi è l'implosione dello schema bipolare, camicia di forza imposta a un paese strutturalmente tripartito. Bisogna riconoscerlo, quella che il padronato ha realizzato in questi vent'anni è un'operazione geniale.


Il «centro» del potere

L'ingloriosa fine della prima repubblica, travolta dal malgoverno e dagli scandali, avrebbe potuto (e dovuto) sbloccare il sistema politico e avviare un processo di trasformazione in senso democratico. Al contrario, grazie al maggioritario e al bipolarismo, abbiamo avuto Berlusconi, governi «tecnici» garanti dei poteri forti, e la confluenza di gran parte delle forze postcomuniste in un partito a dominanza moderata. Questo processo giunge ora al suo approdo naturale con la rinascita di un centro riveduto e corretto secondo i dettami del dispotismo finanziario, cioè con un più di tecnocrazia e di chiusura oligarchica. In campo moderato c'è consapevolezza del fine e lungimiranza. Dietro Monti si riorganizzano in tempo reale le energie del capitale, smaniose di incassare i dividendi di una campagna moralizzatrice fondata sulla diffamazione del pubblico (ridotto a sinonimo di spreco e malcostume) e sull'apologia del privato (pretesa garanzia di eccellenza e onestà, di merito, produttività ed efficienza).


La disfatta progressista

E l'avversario? Il fronte progressista? Attraversato da tensioni crescenti, il centrosinistra sembra in bambola, incerto su tutto.

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marx xxi

La (vera) lotta di classe prossima ventura

di Pasquale Cicalese

Copione già visto: rapinatori contro ladri. Sai quanti dossier ci sono in giro tra le forze dell’ordine?

Basta tirarne fuori qualcuno e il gioco è fatto, polli da spennare c’è ne sono a iosa, in questo paese definito dall’Ocse tra i più corrotti al mondo. Che ci possiamo fare? Questo offrono la borghesia italiana e il blocco dominante. Ma per il resto non vedo grandi differenze tra “er Batman” e l’offerta di 45 milioni fatta da Mediobanca a Ligresti per vendere Fonsai al (fu) mondo della cooperazione. E allora, cosa sta succedendo? Negli ultimi vent’anni, parte della classe dirigente se ne è accorta con notevole ritardo.., il blocco dominante ha fatto emerite cavolate, non più sostenibili nella tempesta della crisi di sovrapproduzione che attanaglia parte del mondo e soprattutto il nostro paese. Una di queste è la riforma del Titolo V della Costituzione, preceduta dal decreto legislativo n° 112/98 (cosiddetto Bassanini bis).


E che è successo? Un autentico delirio: la politica energetica, infrastrutturale, industriale e le sovvenzioni alle imprese sono state tutte regionalizzate, una parcellizzazione delle risorse che ha provocato un autentico cortocircuito. Metteteci la formazione professionale, fatta da quegli autentici enti parassitari, compresi dei sindacati ufficiali, che sono gli enti di formazione, metteteci pure che per stabilire se un cittadino ha diritto all’invalidità passa da strutture regionalizzate, metteteci poi la spesa sanitaria e la politica agraria, anch’esse regionalizzate, e il deliro è servito.

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Ma l'Italia affonda per «er Batman» o per Monti «il Salvatore»?

di Leonardo Mazzei

Le pecore ladre e i lestofanti al governo

Ecco un tema scabroso, al quale i più si sottraggono. Eppure è proprio lì che ci vogliono inchiodare. Secondo la vulgata, questa sì populistica, la situazione sarebbe la seguente: una classe politica inqualificabile sarebbe l'unica responsabile del disastro attuale e, conseguentemente, solo un prolungato «governo dei tecnici» potrà salvarci da una catastrofe ancora più grave.

Da una parte «er Batman», al secolo Franco Fiorito, capogruppo del Pdl alla Regione Lazio, un personaggio che avrebbe fatto felice Cesare Lombroso; dall'altra l'«incoronato dai mercati» e dalla Casa Bianca che non si candida ma si «offre» per la prossima legislatura. Due personaggi diversissimi, ma quanto può essere utile il primo al secondo!

Secondo il linguaggio dominante coloro che si oppongono al pensiero unico e al governo unico delle banche sono «populisti», cioè gente che vezzeggia il popolo andando incontro ad un comune sentire per sua natura «semplicistico». Mentre solo loro, classe eletta, conoscendo la complessità delle cose, sono abilitati a discernere quel che è possibile (eh!, le famose compatibilità sistemiche) da ciò che è impossibile, improponibile, irrealizzabile, rigorosamente proibito, certamente «populista».

Bene, in un precedente articolo ci siamo divertiti a dimostrare l'inattendibilità dei cosiddetti «tecnici», anche sul terreno che gli dovrebbe essere più congeniale. Costoro hanno rivisto in 5 mesi (cinque) il debito atteso al 2015 di una quisquilia pari a 142,8 miliardi di euro.

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Ancora un tradimento dei chierici?

di Marino Badiale

Per dare un po' di concretezza al nostro discorso sulla cultura contemporanea, discutiamo un esempio specifico: questo articolo di Etienne Balibar, pubblicato sul “Manifesto” qualche giorno fa.

Balibar non ha certo bisogno di grandi presentazioni: allievo di Louis Altusser, coautore di un testo classico del marxismo degli anni Sessanta come “Leggere il Capitale”, è davvero un “grande intellettuale di sinistra” se mai ve n'è uno.

Ebbene, cosa  ha da dire un simile personaggio sul tema, oggi così pressante, dell'UE e della sua crisi? Nella sostanza, nulla. Leggendo l'articolo, si vede che il punto fondamentale del discorso di Balibar è la richiesta di un'Europa che sia capace di maggiore democrazia, addirittura maggiore di quella dei singoli Stati nazionali. E chi potrebbe opporsi a una simile lodevole invocazione? Solo che a questa nobile concione manca completamente l'esame delle forze reali in campo. Chi mai realizzerà questa democrazia europea, visto che l'attuale antidemocratica UE è l'espressione dei ceti dirigenti europei, che non solo non intendono rendere più democratica l'UE, ma anzi stanno usando la crisi come clava per espropriare gli Stati di quel poco di democrazia che ancora esprimono? A questa domanda Balibar non può rispondere, perché non c'è risposta. Balibar si rende vagamente conto del problema, cioè del fatto, più volte ricordato in questo blog, che non c'è un “popolo europeo” che possa lottare per una maggiore democrazia  nella UE, nel modo in cui i vari popoli europei hanno lottato in passato per una maggiore democrazia nei diversi Stati.

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Fallimento morale e antropologico

di Alberto Burgio

La governatrice del Lazio ha rassegnato le dimissioni. Tanto doverose quanto insufficienti per sanare una democrazia ferita. Al punto che l'idea stessa di rappresentanza suona ironica. Oggi la casta è sinonimo di separatezza, oltre che di corruzione. Nei suoi comportamenti si manifesta la malattia terminale di un sistema politico in sfacelo. Fallimentare sul piano dei risultati materiali e impresentabile sul terreno morale e «antropologico».

È un fenomeno talmente grave, che il discorso morale non basta più. Talmente organico che ricondurlo al solo profilo (im)morale dei protagonisti sarebbe riduttivo. Assodata l'esigenza di punire il malaffare, restano aperte altre questioni. Se l'impressione che in Italia la corruzione politico-amministrativa abbia passato il segno ha fondamento, occorre riflettere su due fattori: la qualità della «classe politica» e le occasioni che le vengono offerte di abbandonarsi a comportamenti indecenti. Si tratta di aspetti connessi perché nessuna tentazione potrebbe fare breccia in un incorruttibile e perché gran parte di quelle tentazioni sono generate in piena autonomia da quanti ad esse cedono. Come dire che qui Sant'Antonio è il diavolo stesso.

Le tentazioni sono troppe. Per cui «fare politica» è ormai, per molti, una carriera: il mezzo per conquistare uno status e fare bella vita, tra case di lusso e vacanze pagate, vitalizi e tesoretti in banca.

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Napolitano e l’ipotesi di golpe bianco

Cronache delle mutazioni istituzionali

nique la police

Quando Giorgio Napolitano fu eletto presidente della repubblica nella primavera 2006 nell’elettorato di centrosinistra, e là dove si fabbrica opinione pubblica, prevalsero due convizioni. La prima, all’epoca prevalente,  che era stato eletto un vero guardiano della costituzione. La seconda è che l’indirizzo della presidenza, dopo Ciampi e Cossiga, sarebbe stato meno monetario e più politico (dopo il periodo Ciampi, ex presidente della Banca d’Italia) più legato alla continuità delle forme istituzionali e meno ai momenti di rottura (visto il periodo Cossiga, quello del “picconatore”). Nonostante sia stato votato  quasi esclusivamente dal centrosinistra Napolitano era un candidato presidente apprezzato anche dal centrodestra. Riporta il Corriere della Sera dell’epoca: “Dal centrodestra sono venute molte esplicite dichiarazioni di apprezzamento per Giorgio Napolitano, tali da far pensare che la divisione degli schieramenti sul suo nome sia molto più formale che sostanziale”. Va considerato che a suo tempo, fine anni ’80 la corrente milanese di Napolitano nel Pci riceveva pubblicamente, per la propria rivista, finanziamenti da Publitalia ricambiando con articoli sulla “modernizzazione” (testuale) del modello di impresa berlusconiano. Ma è storia vecchia, solo per far capire che l’apprezzamento del centrodestra per Napolitano (l’unico che difese nel Pci, anche qui pubblicamente, Craxi contro la linea berlingueriana delle mani pulite) aveva comunque radici lontane. E anche per far comprendere che Napolitano è un soggetto politico apparentemente statico. Nella continuità, della indigeribile retorica istituzionale che lo contraddistingue, metabolizza continuamente le trasformazioni.

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Il fiscal compact cancella la sinistra

di Alfonso Gianni

Desta enorme stupore la clamorosa rimozione del tema del fiscal compact, e delle conseguenze che ne derivano in termini di politica economica, dal dibattito sulle future scelte elettorali della sinistra italiana. Naturalmente se ne parla in convegni economici, da ultimo quello di Sbilanciamoci. Ma quando entrano in scena gli attori politici scende il silenzio.

Non credo si tratti solo del tradizionale provincialismo che affligge la politica nel nostro paese, per cui tutti si dichiarano europeisti e poi se ne scordano quando le elezioni si avvicinano. Né che siamo soltanto di fronte alla deleteria separazione della cultura economica dalla politica che è all’origine della tecnicizzazione della prima e dello svuotamento della seconda. Qui c’è qualcosa in più e di più grave.

Vi è l’introiezione più o meno confusamente consapevole, ma fortemente condizionante, che in fondo non c’è null’altro da fare; che i vincoli posti dalle elites economico finanziarie europee sono ineludibili, almeno nei tempi programmabili; che la reazione dei mercati al solo annuncio di deviare da questi sarebbe mortale; che dunque, nel migliore dei casi, si tratterebbe di ritagliarsi un piccolo spazio di manovra al loro interno. Il tutto connesso con la speranza o di aggiustare qualcosa, all’italiana, mettendosi d’accordo con la Commissione europea, fingendo di dimenticare la sua composizione, i suoi precedenti e soprattutto il fatto che il mancato rispetto delle norme di rientro dal deficit e dal debito prevedono nel nuovo trattato immediate sanzioni automatiche.

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Debunking Mani Pulite. By “La Stampa”

di Piotr (Пётр)

1. Su La Stampa.it nei giorni scorsi è apparsa una sorta di stranissima inchiesta a puntate sulla stagione di Mani Pulite:

- un’intervista all’ex ministro socialista Rino Formica (31 agosto), intitolata “Usa, che errore puntare tutto su Berlusconi, Fini e D’Alema”;

- un’intervista all’ex ministro socialista Gianni De Michelis (1 settembre), dal titolo “La Seconda Repubblica figlia di diplomatici e Fbi”;

- un’intervista all’ex ministro democristiano Cirino Pomicino (2 settembre), dal titolo “Ho sempre pensato che Tangentopoli fosse pilotata dalla Cia”.

Tutti potentissimi politici dell’ancien régime travolti dalla famosa inchiesta giudiziaria iniziata nel 1992.

Interviste rilasciate ai giornalisti della Stampa a seguito di quella in qualche misura clamorosa rilasciata prima di morire dall’ex ambasciatore americano in Italia Reginald Bartholomew alla medesima testata, intitolata: “Così intervenni per spezzare il legame tra Usa e Mani pulite”.

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L'antifascista

di nique la police

Pensare che le dichiarazioni di Pierluigi Bersani sul fascismo di Grillo appartengano esclusivamente ad un catalogo, oltretutto piuttosto ristretto, di banalità non significa solo trascurare l’importanza che ha la produzione di parole sui media. Anche se già qui sarebbe come pensare che Facebook è uno strumento banale, e non una complessa infrastruttura di reti sociali, solo perchè non è raro trovarci delle banalità. Bisogna piuttosto leggere le dichiarazioni di Bersani come una modalità di funzionamento della politica istituzionale. Un dispositivo da smontare piuttosto che qualcosa da ignorare o da insultare.

In questo senso l’accusa di “fascismo”, poi vedremo in che modo, lanciata da Bersani sostanzialmente contro Grillo e Di Pietro è qualcosa che merita un livello minimo di analisi. Facciamo un passo indietro: da tempo circola un video, commentato da Grillo e Di Pietro, dove Bersani, assieme ad altri protagonisti della politica istituzionale, è raffigurato come uno zombie. E qui bisogna vincere la voglia di affermare la verità, e cioè che Bersani e gli altri non sono solo dei morti viventi ma ne rappresentano l’epifania, e guardare alle reazioni del segretario del Pd.  Bersani ha infatti accusato chi dà dello zombie ai dirigenti del Pd di essere un “fascista”, anzi un “fascista del web” che sta cercando di riproporre al paese una nuova stagione diciannovista. Tutte la categorie usate meritano attenzione. Vediamo come.

L’uso dell’accusa di fascismo all’interno della sinistra, e poi del centrosinistra, è vecchio più o meno quanto le camice nere. A lungo, entro modi e linguaggi molto diversi, l’accusa di fascismo è servita per indicare un pericolo esterno (il fascismo, appunto, in molteplici forme) ma anche quello di un forte autoritarismo interno alla sinistra (ed è qui che l’accusa di fascismo è stata scambiata, poi sostituita, con quella di stalinismo).