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linterferenza

Di Maio, Almirante e Berlinguer

La post-ideologia “postmoderna” del M5S

Matteo Luca Andriola

Luigi Di Maio cita Berlinguer Almirante e la DC e lironia si scatena in reteDurante una diretta a Porta a Porta Luigi Di Maio, candidato in pectore del MoVimento 5 Stelle a premier e Vicepresidente della Camera, ha detto: “Portiamo avanti i valori di Berlinguer, di Almirante e della Dc”. Detta così, su due piedi, la cosa mi ha fatto francamente ridere. Scomodare i leader di due fra più importanti partiti protagonisti della sinistra e della destra italiana, il PCI e il MSI, uno di sinistra e uno neofascista, e addirittura la Democrazia Cristiana, che ha governato l’Italia ininterrottamente dal dopoguerra al 1992, forse è troppo, ma la scelta non è stata affatto casuale, dato che Il Fatto Quotidiano – che guarda a tale area da quando è diretto da Marco Travaglio – riportava che è stato «Un modo per ribadire che con i Cinquestelle si superano le ideologie del passato.» Perché se da una parte abbiamo la necessità di elaborare in modo distaccato e dialettico la storia del Novecento, un bisogno di analisi storiografiche che apra a nuovi campi d’indagine, qui avviene l’esatto contrario. De Maio non si limita, qualunquisticamente, a mettere sullo stesso piano Enrico Berlinguer, Giorgio Almirante e uno dei più importanti partiti centristi di area cattolica, ma eleva l’oblio della memoria storica a paradigma, usando l’indistinzione come metro di misura per rapportarsi col passato, magari non tutto da buttare.

Il MoVimento 5 Stelle, che non è affatto un partito fascista, checché ne dicano i benpensanti, pesca dall’elettorato deluso di sinistra, centro e destra, e questa uscita non è affatto casuale, ma denota l’ideologia del partito/movimento del comico-blogger genovese, Beppe Grillo. Il sincretismo di Di Maio – che scomoda addirittura Berlinguer, Almirante e la vecchia Balena Bianca democristiana – è al contempo figlio e reazione alla post-modernità, e non va liquidato, come fanno alcuni, con la sua ignoranza (si veda la gaffe su Pinochet in Venezuela), ma è l’essenza stessa dell’identità pentastellata, che gli osservatori, i politologi di oggi, quelli che vanno per la maggiore e che commentano sui principali giornali, non ha capito o compreso, e che è figlia delle trasformazioni della società postindustriale terziarizzata.

 

Il post-ideologico come ideologia della post-modernità capitalista

Partiamo da una domanda legittima: «Le ideologie hanno davvero esalato l’ultimo respiro?». Guardando il M5S e i principali attori della politica italiana e non solo – ergo, il problema non è solamente Di Maio – non possiamo che annuire. Ci hanno indottrinato, a partire dal 1989, con la fine del socialismo reale, con mantra predicati da ogni pulpito, dalle cattedre universitarie alle Tv passando per gli editoriali dei quotidiani, che le ideologie sono morte. Le nomenklature, pressate dalla necessità di sopravvivere alle macerie di quel Muro crollato, si inventarono svolte e riposizionamenti epocali che, proprio perché epocali, avevano bisogno di tempo per essere assimilati, ma che li legittimerà per entrare nella “stanza dei bottoni”. “Svolta della Bolognina” a sinistra o “svolta di Fiuggi” a destra, tutte portavano quei soggetti – il PCI e il MSI – a scomparire archiviando ogni modello di sviluppo diverso da quello liberale. Tangentopoli fece il resto, mise da parte il travaglio interno del PCI-PDS a sinistra, legittimò a destra soggetti come Lega Nord e MSI e spazzò via un’intera classe politica come se fosse stata l’unica responsabile dei mali d’Italia – e che non aveva privatizzato l’economia di Stato – , accreditando la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto (il fronte dei “Progressisti”, antenata di tutti gli ulivismi, vecchi e nuovi) spianando la strada verso vittorie infinite se non fosse intervenuto lo stop di Silvio Berlusconi nelle elezioni del 1994. E anche se la Seconda Repubblica inizierà con gli eterni e inutili scontri sotterranei incarnati da una sorta di referendum fra comunismo e anticomunismo, di fatto in Italia e in Europa, nel giro di pochi anni, i principali soggetti portatori di istanze e di weltanschauung forti e di chiavi di lettura del passato e del presente hanno cambiato casacca e sposato tutti l’ideologia del mercato, dell’europeismo, del multiculturalismo e della panacea della globalizzazione, che avrebbe unito il mondo in un’unica fratellanza… ma di consumatori. E anche a destra le cose non sono diverse, dato che o si fa l’elogio del mercato come se fosse l’unico modello esistente o si tende interpretare il fenomeno della globalizzazione, o come viene definito a destra, “mondialismo”, come una porta girevole, da tenere chiusa quando sono in discussione i diritti degli immigrati – buoni solo a fornire manodopera a costo pari a zero e a fare da capro espiatorio – e la tutela delle identità nazionali o etno-culturali (localistiche e non, poco importa), da tenere spalancata quando sono in gioco gli affari, l’economia, e quando essa sembra andar bene. Il minimo comun denominare dell’ideologia dominante, checché ne dicano i protagonisti, è sempre lui, il mercato, a cui va aggiunta l’ideologia politicamente corretta.

La cosa è stata spacciata come post-ideologica (non essendoci più grandi narrazioni storiche, anche se poi la cosa risulta esser falsa quando si usano tali idee per esportare il modello dominante… ), anche se ora era questo pensiero dominante ad essere il pensiero, sostituendo tutto quello che sapeva di Novecento, dal comunismo al fascismo, dalla socialdemocrazia al cattolicesimo popolare, ora ritenute “limitanti”, “obsolete”, “vetuste”, “vecchie”. Questo, perché qualcuno che “dettava legge” dai pulpiti sopra citati aveva decretato che Marx ed Engels andavano messi in soffitta, che la forma-stato era vecchia e che il nostro futuro era in un grande continente unito dal mercato, dal consumo e che solo così avremmo avuto felicità, e che la sinistra si sarebbe dovuta distinguere dalla destra solo per questioni sovrastrutturali come i diritti civili per le minoranze sessuali, la liceità della diffusione delle sostanze stupefacenti ecc. mentre nessuno, e dico nessuno, da Matteo Salvini a Laura Boldrini passando per Mario Monti, Matteo Renzi e il M5S, mettono in discussione la “struttura”, per citare Marx, cioè il modello di sviluppo economico. Ma questa “assenza di ideologia” è intrinsecamente essa stessa ideologia! «Immaginate se il popolo dell’Unione Sovietica non avesse mai sentito parlare del comunismo. L’ideologia che domina la nostra vita non ha, per la maggior parte di noi, nessun nome. Menzionalo in una conversazione e sarai ricompensato con un’alzata di spalle. Anche se i vostri ascoltatori avessero sentito il termine prima, si fatica a definirlo. Neoliberismo: sai di cosa si tratta?»., si domandava sul periodico brittannico The Guardian il giornalista George Monbiot, sostenendo – e non su un giornale dell’estrema sinistra marxista-leninista, ma su uno dei giornali più “in”, che «il suo anonimato è sia un sintomo sia la ragione del suo potere. Esso ha svolto un ruolo importante in una notevole varietà di crisi: la crisi finanziaria del 2007-8, lo spostamento off-shore di ricchezza e potere, di cui i Panama papers ci offrono solo un assaggio, il lento crollo della sanità e dell’istruzione pubblica, la rinascita della povertà infantile, l’epidemia di solitudine, il collasso degli ecosistemi, l’ascesa di Donald Trump. Ma noi rispondiamo a queste crisi come se emergessero indipendentemente, a quanto pare senza sapere che sono state tutte catalizzate o aggravate dalla stessa coerente filosofia; una filosofia che ha – o ha avuto – un nome. Quale maggiore potere ci può essere dall’agire senza avere un nome? Il neoliberismo è diventato così pervasivo che raramente persino lo riconosciamo come un’ideologia

Ed ecco che un liberale dice quello che dovrebbe dirci un marxista, ovvero che da quando si è affermato il modello di produzione vigente, esso – o meglio, i “suoi agenti”, il ceto dominante – ha fatto un ottimo lavoro di costruzione di un’egemonia culturale, facendo credere ai più che tutto quello che ci circondava era ed è “normale”, e che se non ti adegui alla new economiy, al precariato, alla flessibilità, il problema sei tu che non ti adegui e sogni paradisi artificiali di “giustizia sociale”, e non il sistema. Come spiegava Karl Marx in molti suoi scritti sociologici (come la Sacra Famiglia, 1845; Miseria della Filosofia, 1847 o l’Ideologia Tedesca, 1845), tutte le teorie filosofiche, politiche, morali, religiose attorno a noi non sono affatto autonome ma, essendo prodotti umani, sono tutte vincolate alle condizioni di vita degli uomini; per cui appaiono autonome solo in una società dove, nei rapporti (Verkehr) di produzione, i mezzi per produrre e il loro uso sono divisi tra classi. In sintesi, e la cosa calza a pennello con l’idea mercatista, l’ideologia non è altro se non il modo di vedere la realtà della classe sociale dominante, e non è affatto “neutrale”, ma veicola sempre un messaggio, una «concezione del mondo» per citare il Gramsci dei Quaderni del carcere (che la usa anche in accezione positiva, purché essa non sia il risultato di astratte teorie individuali, ma strumento di organizzazione delle masse, utile a raggiungere un compromesso tra interessi storici contrapposti), una “metanarrazione” . Marx usa il termine “ideologia” anche nel suo significato letterale derivato dalla parola tedesca Ideenkleid, cioè «vestito d’idee», per cui ideologica è ogni concezione che voglia rivestire di idee e principi astratti la concreta realtà dei fatti materiali, mascherandoli e dandone una surrettizia giustificazione.

E visto che ogni modello di produzione abbisogna di una sua ragion d’essere, ergo di un’ideologia, il vigente modello di produzione globalizzato, il postfordismo – caratterizzato dalla delocalizzazione delle industrie dall’occidente ai paesi del secondo e del terzo mondo, dove la produzione è meno costosa, dalla relativa deindustrializzazione e dalla riconversione dell’economia da industriale a terziarizzata e fondata sui servizi –, basandosi sul culto della globalizzazione, che non si discute, ha bisogno di una forma-mentis a lei adeguata, di una sua specifica ideologica che giustifichi il movimento di capitale divenuto sempre più fluido, con gli stati nazionali ormai significativamente estraniati dalla sfera economica. Questo “pensiero unico” è l’omologante pensiero unico postmoderno, che rende i due schieramenti teoricamente contrapposti del tutto simili. Contro le ideologie moderne e le “utopie illuministe”, la post-modernità ne dichiara la fine, proponendo la necessità di una reinterpretazione della storia libera da ogni finalismo ideologico, rifacendosi in ambito creativo non tanto ad un nuovo stile quanto alla ripresa di forme estetiche del passato ritenendo degne di considerazione allo stesso modo le opere eminenti e quelle della cultura di massa. Seconda modernità per Ulrich Beck, surmodernità secondo Marc Augé, o la famosa “modernità liquida” di Zygmunt Bauman, la postmodernità è la forma-mentis della «perenne contemporaneità», col tempo divenuto come una sorta di «fattore indipendente»,[1] che ben si adegua al vigente modello di produzione “liquido”. In questa visione del mondo prevalgono l’abbandono delle visioni totalizzanti, “statolatriche” e “limitanti”, delle legittimazioni forti e assolute, dei fondamenti ultimi a favore di visioni molteplici, deboli e soprattutto relativiste; l’affermazione dell’esperienza della fine della storia, come predicato da Francis Fukuyama, il tramonto del modo storicistico di pensare la realtà, per il politologo nippo-americano, per via del trionfo della democrazia liberale sul comunismo, e il rifiuto di concepire la temporalità in termini di superamento.[2] La post-modernità presuppone il rifiuto dell’idea di emancipazione attraverso la ragione e di compimento attraverso la storia e la filosofia, con prevalenza di visioni legate all’incertezza e alla provvisorietà; il passaggio dal paradigma dell’unità al paradigma della molteplicità con consapevolezza della pluralità e della polimorfia. Da qui le pratiche culturali della rottura, frammentazione, regionalizzazione, dissociazione, ibridazione. Per dirla con Bauman, «La modernità è il tempo nell’epoca in cui il tempo ha una storia».[3] Analizzando la postmodernità, essa si caratterizza per la “privatizzazione”, cioè la delega all’individuo della gestione di ogni aspetto della sua esistenza, non perché l’individuo è libero di autodeterminarsi, dato che è pur sempre sovradeterminato dalle necessità della società del consumo, ma perché la responsabilità ricade interamente sulle sue spalle; egli non trova il sostegno di istituzioni sociali e di una comunità di riferimento ma deve contare esclusivamente sulle proprie risorse. Per usare l’efficace e sintetico motto di Ulrich Beck, è indotto a trovare “soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche”.[4] Il secondo aspetto è la sparizione di un fine collettivo, di un telos, un mutamento storico conseguibile nel futuro. Esiste anche un terzo aspetto legato ai primi due, sviluppato dai pensatori postmodernisti, e cioè di quelle che Lyotard chiamava “metanarrazioni storiche”, cioè delle chiavi di lettura della storia umana, frutto delle precedenti mentalità ‘totalizzanti’ moderne o ideologiche. Sviluppatosi, per periodizzare il fenomeno, nel 1989, facendola simbolicamente coincidere con il crollo del Muro di Berlino e del socialismo reale, la post-modernità comincia ad affermarsi dalla fine degli anni ’70 del ‘900 (La condizione postmoderna di Lyotard è del ’79). La data simbolo della “vecchia” modernità, invece, è il 1789, ovvero il crollo ufficiale dell’Ancien Regime (ma potrebbe essere fatta risalire all’inizio del ‘700, o anche, come per molti, nei primi del ‘500, con la nascita dello Stato moderno e delle monarchie nazionali; una questione nella quale non intendiamo addentrarci in questa sede). In questi duecento anni si compie il destino di questa fase del moderno che infine trascolora (o, come direbbe Bauman, si liquefa) nel postmoderno, una forma-mentis (se applichiamo le categorie marxiane di “struttura” e “sovrastruttura”) che si adatta al modello di produzione neoliberista globalizzato.

 

M5S: la post-ideologia funzionale al sistema entro un sistema post-moderno

Soggetti politici come il PD renziano, il centrodestra e il M5S farebbero della liquidità dottrinaria una risorsa da sfruttare nella ricerca machiavellica del voto. Ecco perché citare Almirante e Berlinguer come referenti del M5S, ed ecco perché inseguire l’elettorato di destra con l’opposizione allo jus soli, dopo aver flirtato con l’elettorato progressista orfano della sinistra radicale fino a poche settimane fa. Questo perché soggetti come il M5S, che si autoproclamano “post-ideologici”, sono figli di tale società post-moderna e sono quindi incapaci di uscire dalle gabbie di tale pensiero, limitandosi ad archiviare ogni lettura “moderna” (in tal caso “l’ideologia”) come le vecchie narrazioni ideologiche novecentesche, percepite ormai come “reazionarie”, “vetuste” o “limitanti”. Qui Bauman ci aiuta, perché il M5S è un “movimento” liquido in tutto e per tutto. Prima di tutto perché tale è la caratteristica dei movimenti, lontanissimi dal modello di partito l’archetipo del quale è l’SPD tedesca nata nella seconda metà dell’Ottocento, e poi perché non richiede l’adesione ad una “ideologia” – è infatti post-ideologico – capace di coprire tutti gli ambiti della politica.

Il M5S, nato come reazione al ceto politico lontano dai cittadini, imprigionati da un’Unione e da una Repubblica che vedono come una “gabbia” o come una grossa torta che i politici, indifferentemente dallo schieramento d’appartenenza, si spartiscono, è l’evoluzione di un vuoto interiore che il paese s’è portato appresso assieme alla disillusione di una Tangentopoli mai veramente conclusa, sotterrata dal duo Polo-Ulivo, un vuoto che è risorto più volte come un fiume carsico in movimenti come i Girotondi ad esempio, o con l’Italia dei Valori del p.m. Antonio Di Pietro. E’ da qui che parte Grillo, dalla disillusione post-Tangentopoli e dalla certezza, rafforzatasi spettacolo dopo spettacolo, che ormai i due poli, differenti solo a parole, su questioni personali e di interesse lobbistico, si assomigliano sempre di più, costituendo una casta inviolabile e distante dal cittadino. A queste suggestioni, abbastanza spendibili a livello politico e che hanno favorito il movimento, si sommino quelle eco-decresciste, il culto per la e-democracy, l’idea di permettere al cittadino di fare politica direttamente partendo dai consumi o appropriandosi del territorio e della sua sovranità, e  abbiamo il M5S bello che fatto. Insomma, esagerando, il M5S l’hanno creato i politici della “casta”, e non Grillo o Casaleggio, che hanno solo riempito un vuoto.

Esiste però una contraddizione, che alla lunga salta agli occhi, dato che le contraddizioni di classe emergeranno inevitabilmente, e questo – qualora il M5S arrivasse a governare il paese, è assai improbabile perché non esistono i “cittadini” astratti con interessi identici, che si dividono in “onesti” e “disonesti”, ma persone che hanno – e qui Marx ed Engels hanno ragione – interessi di classe, che sono abissalmente distanti. Con chi staranno Grillo e Casaleggio domani? Con l’operaio e e il cittadino onesto o con l’imprenditore, magari anch’egli onesto e schifato da FI e dal Pd, ma che ha comunque una visione simile a questi riguardo ai rapporti di produzione, ai rapporti sociali e sulle “riforme” da applicare al Welfare State e che ritiene debba essere privatizzato, così come debbono essere tagliati i “famigerati” costi della politica? Ottenuta la tanto agognata e sperata “sovranità nazionale e monetaria” – qualora porti avanti tale discorso e non diventi l’ennesimo Tsipras – , il M5S manterrà inalterata la struttura socioeconomica del paese non mettendo in discussione il modello di sviluppo vigente o farà delle riforme di struttura a favore dei ceti dominati? Insomma, non dimentichiamo che il M5S nasce da una rete di liste civiche nate attorno ad un blog, e le liste civiche, di solito, nascono per amministrare il locale: un conto è gestire un piccolo comune, asfaltare le strade, gestire la nettezza urbana in maniera onesta ecc., un altro è governare una metropoli (e Roma mi pare la cartina al tornasole, non dimenticando Torino, con l’Appendino che ha buoni rapporti con l’entourage della Fiat) o uno Stato. La frase del qualunquista Giannini secondo cui per governare un paese basta un ragioniere per la durata di un solo anno è una visione della politica, per l’appunto, qualunquista e “aziendalista”, identica a quella di FI, dei settori “rottamatori” del Pd e di molti esponenti nel M5S, che parlano sempre dell’ideologia “del fare”. E la fine delle ideologie, come detto, consiste nel predominio di una di esse, l’ideologia liberal-liberista e borghese, che vede nello Stato una macro-azienda da cui ricavare un profitto e nei cittadini, termine usato a livello interclassista, degli utenti/consumatori, che per il M5S – a differenza di PD e FI – devono essere “onesti”.

Quindi, se alcuni soggetti – pensiamo al cosiddetto fenomeno del “rossobrunismo”, i neofascisti o la Nouvelle droite ecc. – reagiscono alla crisi della modernità, alla relativa crisi ideologica e all’avvento della post-modernità, non con l’archiviazione delle ideologie tutte (appunto la “neo-ideologia post-ideologica” fondata sul pensiero unico mercatista)  con la “nuova sintesi”, ripescando quanto di più utile vi è dal loro punto di vista nel (loro) bagaglio ideologico del ‘900, altri come il M5S – ergo, non darei mai una patente fascistoide, rossobruna o neodestra a Di Maio e al M5S, che con un Mussolini, un Hitler ma addirittura con un Alain de Benoist non c’azzeccano nulla – hanno invece un approccio post-ideologico, sostituendo le vecchie metanarrazioni ideologiche novecentesche con mantra mercatisti come l'”#onestaaaà“, “#dalliallacastaaaaa“, “#cihailvitalizio” ecc., del tutto funzionali al sistema neoliberale e alla società liquida.

Ma non è che a sinistra si riescano a trovare alternative a chi si è presentato come un’alternativa. La sinistra tutta è schiava del post-modernismo. Il filosofo marxista Stefano G. Azzarà, nel libro Democrazia cercasi (Imprimatur, 2014, pp. 301), nota come la categoria “post-moderna”, applicata alle politiche della sinistra di governo – ma anche di quella radicale –, ha accompagnato, negli ultimi lustri, una «sconfitta organica di sistema che va dal politico all’economico sino all’immaginario». Una sconfitta che ha coinvolto persino il linguaggio, come mostra la trasformazione «di due termini centrali del nostro lessico politico, quali quello di “democrazia” (svuotata di ogni contenuto economico-sociale egualitario e di ogni riferimento alla partecipazione attiva dei gruppi sociali e ridotta a un formalistico rito elettorale) o di “riforme” (un termine che significa oggi l’esatto opposto di ciò che significava in origine e cioè non redistribuzione ma accentramento delle risorse a esclusivo favore dei ceti dominanti)».

Il PD, inoltre, non è più un partito di “sinistra” da molti anni, e se l’asse novecentesco “destra/sinistra” sembrano non funzionare più per l’interpretazione della politica italiana, in Francia nel libro di Jack Dion (Le mépris du Peuple. Comment l’oligarchie a pris la société en otage, LLL, 2015 cioè Il disprezzo del popolo. Come le oligarchie hanno preso la società in ostaggio”) leggiamo che «Centrodestra e centrosinistra difendono gli stessi precetti, quelli del neoliberismo», cosa evidente dalla vittoria di Macron, nato nel PS. E Dion introduce, sulla scia di Laclau (e, aggiungo io, McCormick) una categoria, quella di “populismo”, che potrebbe diventare lo strumento euristico per la comprensione della metamorfosi della politica in atto in molti paesi. Tratti populistici presenti nell’esperienza di di Podemos e ne La France insoumise, il movimento del candidato della sinistra radicale Jean Luc Mélenchon, e sono diventati laboratori di quello che potremmo definire come “populismo di sinistra”, che ha acceso un dibattito nella sinistra europea. Se negli Usa Judith Butler ne parla come reazione a Donald J. Trump e per creare una «democrazia radicale» che dia voce agli “screditati”, Ernesto Laclau che nel 2005, ne La ragione populista, attraverso il pensiero di Gramsci rovescia la prospettiva dei più e spiega che il populismo fino a oggi non è solo stato degradato, ma è stato proprio denigrato, condannato moralmente a esser appiattivo alle ragioni “della destra” per screditate le masse. Per Laclau esso è un metodo, non un’ideologia o una mentalità, che rende equivalenti posizioni politiche che non lo sono, e crea una polarità, una divisione che prima non esisteva, cioè fra “dominanti” e “dominati”. Laclau avanza una interpretazione originale di Gramsci e dei suoi concetti di egemonia, di blocco storico e di guerra di posizione, per affermare una visione non essenzialista del “politico”. Non ci sarebbe per Laclau nessuna relazione diretta tra condizione sociale e posizione politica, ma la politica sarebbe il frutto di un’attività soggettiva di costruzione di un Noi da contrapporre a un Loro, grazie anche alla capacità di definire parole d’ordine che raccolgono e sintetizzano le tante rivendicazioni parziali che scaturiscono dai conflitti nella società.

Contro il “razzismo sociale” denunciato da Owens Johns in Chavs, the demonization of working class, un’ostilità di certi settori progressisti non più contro i padroni, gli sfruttatori, i ricchi, ma contro i chavs, i “coatti”, gli sfruttati, la classe operaia, temuta o sbeffeggiata per la sua progressiva marginalità sociale e i suoi modi popolari, Laclau elogia invece il socialismo popolare – ripreso tra l’altro da leader come Iglesias o Jeremy Corbyn, da movimenti come Nuit Debout o dal citato Mélenchon – che può consegnare lo strumento con il quale tracciare una divaricazione essenziale per la nascita di un populismo di sinistra credibile, assente nella scena italiana, non più radicale nelle posizioni e incapace di individuare l’avversario, non il “populismo” ( che è una causa), ma la crisi di sistema, e spesso contigua a certa sinistra liberale e capace di fare suoi, invece, il giustizialismo, specchietto per le allodole di una sinistra che strategicamente riproponeva la stessa logica della destra liberista. Venuto meno l’avversario di comodo, Silvio Berlusconi, si è scoperto con Renzi che ormai il re è nudo, che le masse popolari vanno da tutt’altra parte, e che ci si può alleare col vecchio nemico in una “Grosse Coalition” politicamente corretta e benedetta dai “poteri forti” della Troika. Con buona pace – questa volta sì – delle vecchie narrazioni novecentesche.

Ed ecco perché Almirante non ha problemi a esser citato con Berlinguer.


Note
[1] «Il tempo è diventato una funzione di potenzialità meccaniche, di qualcosa, cioè, che gli uomini poterono inventare, costruire, possedere, usare e controllare, e non più di capacità umane inevitabilmente limitate […]. Allo stesso modo, il tempo è diventato un fattore indipendente dalle inerti e immutabili dimensioni delle masse terrestri o acquatiche. Il tempo venne a differenziarsi dallo spazio perché, diversamente da questo, poté essere cambiato e manipolato». (Z. Bauman, Modernità liquida, Roma-Bari, Laterza, 2002, p. 125).
[2] Cfr. F. Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992. Il testo di Fukuyama derivava da The End of History?, un saggio pubblicato su «The National Interest» nell’estate 1989 (quindi prima della caduta del Muro di Berlino), in risposta all’invito a tenere una lezione sul tema della fine della storia presso la cattedra di filosofia politica all’Università di Chicago.
[3] Z. Bauman, Modernità liquida, cit., p. 124.
[4] U. Beck, La società del rischio, Carocci, Roma, 2000, p. 137.
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