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linterferenza

I buoni e i cattivi (e i migranti nel mezzo)

di Norberto Fragiacomo

Riceviamo e volentieri pubblichiamo questa interessante riflessione di Norberto Fragiacomo, di Risorgimento Socialista, pur non condividendo alcuni passaggi

berardiIl manicheismo dell’entertainment sistemico contemporaneo (informazione+politica irreggimentata) taglia con l’accetta, fra le altre, la delicata questione dei migranti: da una parte i «cattivi» che, animati da pessime intenzioni, vorrebbero chiudere ogni pertugio, dall’altra i «buoni» e accoglienti, che propugnano il c.d. diritto di migrare; sullo sfondo masse di diseredati africani ed asiatici che, oppressi da indigenza e privazioni (e sollecitati dalle paterne esortazioni di presunti filantropi, ma questo appartiene al non detto), si spostano verso il continente «bianco» a rischio della propria vita.

E’ una storia veridica quella che ci raccontano? Prima di stabilirlo tocca esaminare la situazione.

Ispezioniamo anzitutto il campo dei cattivi, ove han piantato le tende i caporioni della destra «razzista, sovranista, populista e xenofoba», che vanno da Orban a un ministro bavarese accostabile addirittura all’AfD, passando per l’eterna perdente Marine Le Pen. In Italia il loro campione è Matteo Salvini, un razzista impenitente che, essendo il vero dominus del Governo Conte – così ci ripetono quotidianamente – trascina con sé pure i 5Stelle (incasellati nell’estrema destra anche se le loro prime proposte di governo profumano di diritti sociali, dopo 30 anni di restaurazione liberista: vabbé, è un dettaglio, al pari delle accuse di «comunismo» seguite al varo del Decreto Dignità).

Cos’ha promesso lo stregone leghista al suo elettorato (in costante crescita, malgrado Repubblica)? Che gli immigrati irregolari verranno espulsi e che non ne verranno accolti di nuovi; che prima di pensare agli ultimi arrivati l’esecutivo si occuperà dei tanti italiani in difficoltà.

La coerente (con le premesse) gestione del caso Aquarius e di quello del barcone quasi-olandese ha però suscitato indignazione a sinistra e in Europa: il vicepremier e i suoi accoliti grillini avrebbero dato prova di cinismo disumano e messo in crisi, con la loro condotta, l’ordinato funzionamento delle istituzioni comunitarie (le stesse che hanno umanamente strozzato la Grecia). E’ davvero un peccato scuotere questa «Europa» formulando minacce credibili?

Al quesito ho già risposto (negativamente) migliaia di volte; mi domando, ora, se parole e opere di Salvini siano fin qua quelle di un razzista e fascista – visto che come tale viene dipinto.

Mettiamo da parte la vicenda Aquarius, che ha suscitato l’eco voluta (parlare di cinismo politico è più che legittimo, ma perlomeno non è morto nessuno, e un fascista doc avrebbe affrontato la faccenda in modo ben più sbrigativo!), e poniamoci un banalissimo quesito: che cos’è il fascismo? Anzitutto non è un’iperuranica categoria dello spirito, bensì un fenomeno politico storicamente determinato.

«Creato» da un ex leader socialista il 23 marzo 1919 come movimento reducista, patriottico, repubblicano e di estrema sinistra[1] alla prima campagna elettorale va incontro a un cocente flop: manco un eletto. Prende a spadroneggiare più tardi, quando sposa quello che sarà in una prima fase il suo blocco sociale di riferimento: gli agrari, che sono nel loro comparto – per così dire – al vertice della catena alimentare. Il giovane partito fascista mette al loro servizio le sue attitudini militari per schiacciare i mezzadri e – soprattutto – i braccianti imbevuti di socialismo. Anche la grande impresa nazionale, scottata dall’inconcludente biennio rosso, offrirà ben presto il suo appoggio condizionato al fascismo, accettandone il sostegno economico (con Mussolini al governo) ma mai la guida: l’assenza di coordinamento della produzione bellica (l’esempio dei pochi aerei da combattimento prodotti a fronte della pletora di imprese produttrici è illuminante!) ne è la riprova. Al fascio littorio si accosterà timidamente anche la piccola borghesia, spaventata dai presunti eccessi operai, ma a tener su il regime, dopo averlo innalzato, sarà una porzione maggioritaria delle classi egemoni italiane, in un’epoca che precede di decenni la globalizzazione: per conto loro i fascisti intraprenderanno una lotta di classe dall’altro contro il basso, vincendola grazie a un uso spregiudicato della violenza fisica che si somma al velleitarismo degli avversari (mal) organizzati.

E’ riconducibile il leghismo salviniano a questo modello? Finora, per fortuna, di violenza pianificata non se n’è vista, e spacciare certe rodomontate via Twitter per incitamenti pare eccessivo a chi abbia conservato un minimo di equilibrio.

Inoltre il blocco sociale su cui si fonda il successo della Lega ha caratteristiche ben diverse da quello appena descritto, e non soltanto perché tempora mutantur et homines in illis. La differenza principale sta nel fatto che quest’elettorato – che, tradizionalmente formato da piccolissimi imprenditori e operai del Settentrione, si è poi aperto alla media impresa non solo padana delusa dal berlusconismo – è composto da perdenti, costretti sulla difensiva. Non alludo soltanto a manovali, vittime delle delocalizzazioni e partite IVA fasulle: anche l’impresario brianzolo si sente oggidì un pesce fuor d’acqua nell’oceano popolato da squali sovranazionali e finanzieri da preda che, avendo denti ben più aguzzi dei suoi, possono ridurlo sul lastrico in un istante, con un clic.

Questa moltitudine, pur eterogenea perché formata da benestanti, gente che fatica e miserabili, nel mondo odierno sta in basso e il «nazionalismo»/antieuropeismo che esprime sa tanto di chiusura difensiva, ricorda i borghi murati del medioevo piuttosto che l’impeto conquistatore degli antichi romani. Alla stessa maniera l’avversione verso i migranti è dettata – se si escludono frange estreme e minimali di razzisti fanatici – non da senso di superiorità ma da timor panico. Contrabbandare slogan manco troppo originali come «prima gli italiani» per un revival del 1938 significa non capire nulla delle dinamiche in atto o (ed è ben peggio) far propaganda a beneficio del Capitale: se leghismo e fascismo hanno qualche tratto in comune (es. la difesa dell’identità nazionale) è perché sono germogliati entrambi nel medesimo continente e nello stesso Paese in situazioni caratterizzate da insicurezza economico-sociale e torbidi. Gli eredi – come ruolo – del fascismo stanno semmai altrove, e vestono con molto più gusto di un Salvini o di una Meloni che comunque, malgrado le opportunistiche profferte di amicizia, restano senz’altro nostri avversari, poiché la loro visione del futuro è antitetica rispetto alla nostra.

Al momento, dunque, la «cattiveria» dei sovranisti di casa nostra va relativizzata: al più è mancanza di generosità e scarsa propensione ad accogliere chi sta peggio, miste a fiuto elettorale.

Coi «buoni» (o buonisti) invece come la mettiamo?

Fatuo domandarsi se siano sinceri o in malafede: anche qua, come dall’altra parte, c’è gente di tutte le risme, dal sacerdote di strada al sordido profittatore che si riempie la bocca di buoni propositi e le tasche di soldi pubblici. La questione che voglio sottoporvi è un’altra: siamo/siete sicuri che quella di trasferirsi in massa in Europa sia l’opzione prediletta dalla maggioranza dei migranti d’inizio millennio?

Millenni di Storia umana suggeriscono di adottare un’altra prospettiva: nella generalità dei casi le migrazioni costituiscono un trauma frutto di altri traumi, come l’inaridimento di un territorio, un mutamento climatico (il nostro pianeta ne ha sperimentati parecchi, anche negli ultimi due millenni), la spinta inarrestabile di altre popolazioni (goti e longobardi non vennero in Italia per turismo!). Fanno parzialmente eccezione i nomadi, abituati a spostarsi da tempo immemorabile (ma poi non sempre restii alla sedentarietà: si pensi a mongoli e manciù nell’agognata Cina) – un’eccezione peraltro non più attuale, dal momento che il nomadismo come fenomeno di massa è pressoché svanito.

E’ verissimo che esistono individui o gruppi di individui che per inquietudine spirituale, spasmodico desiderio di conoscere, educazione, sete di ricchezza ecc. non sopportano di vivere a lungo in uno stesso posto, ma la generalità degli esseri umani è affettivamente radicata nel luogo di nascita, attraente o meno che sia ad occhi estranei, e desidera viverci e morirvi e – se lontana – tornare «a casa».

Se conducessimo un’indagine statistica scopriremmo – ne sono certo – che la quasi totalità dei maliani, siriani, afghani ecc. in movimento ritiene di essere stata costretta o almeno indotta ad abbandonare la terra natia e che, a fronte di condizioni divenute impossibili o insopportabilmente dure in patria, considera il periglioso viaggio per mare e per terra e il successivo precario stabilirsi in Europa «un male minore».

Dietro il c.d. diritto di migrare – che personaggi à la page ipocritamente vantano come una conquista di civiltà e che è invece il figliastro del diritto di delocalizzare – si celano drammi inimmaginabili nei salotti progressisti e dolorose separazioni: voler davvero bene a questa gente, riconoscerli come fratelli (e non come testimonial per una meschina battaglia polemico-mediatica) equivale ad augurar loro di poter prosperare nei rispettivi Paesi e a far molto di più, impegnandosi affinché il mondo possa cambiare direzione.

Guerre, carestie, miseria, esche socio-culturali e persino (in parte) il cambiamento climatico in atto non sono ineluttabili disgrazie, bensì logiche conseguenze della globalizzazione capitalista che come una piovra (perché tale è!) allunga i suoi bramosi tentacoli ovunque. Provare a recidere questi tentacoli dovrebbe essere il nostro impegno, incominciando da quel «Primo mondo» (il nostro), dove ad una crescita fantasmagorica delle risorse disponibili corrisponde una disparità distributiva sempre più marcata che alimenta giustificatissime paure e, in via indiretta, i c.d. populismi.

Solamente un’Europa capace di superare in via definitiva il modo di produzione capitalista avrebbe i mezzi per intervenire efficacemente altrove, sostituendo alle odierne politiche di predazione accordi convenienti per tutti i contraenti e rimuovendo alla radice le cause scatenanti di questo esodo biblico, devastante per chi arriva e per chi timoroso lo aspetta. Non è la carità pelosa dell’«aiutiamoli a casa loro», che quando non resta flatus vocis si traduce in magri finanziamenti che vanno ad ingrassare le èlite locali: quello che dobbiamo fare è «semplicemente» cambiare il pianeta, iniziando quest’autentica rivoluzione a casa nostra.

Utopia? Certamente: ma è un’utopia (made in Hollywood) anche questa felice e armoniosa fusione di stirpi ed etnie fra loro diversissime che illustri e altezzosi soloni buonisti danno spocchiosamente per scontata – quegli stessi, sia detto fra parentesi, che nonostante la quotidiana esibizione di buoni sentimenti ad uso del pubblico televisivo nulla trovano da ridire sulla progressiva trasformazione della povera vecchia Grecia in un Lager a cielo aperto.

Salto apparentemente di palo in frasca per poi concludere: quale atteggiamento dovremmo tenere, in Italia, nei confronti del famigerato governo giallo-verde?

Rispondo così: un atteggiamento vigile e critico, ma depurato da stolide ostilità preconcette.

Dovremmo incalzarlo sulle promesse «progressiste» (perché non rimangano lettera morta), avversarlo in quelle – come la flat tax – che beneficiano soltanto chi sta già bene; non augurarci, tuttavia, una sua repentina caduta sotto i colpi di maglio dell’establishment euro-atlantico, che ha già un Cottarelli di riserva.

Questo esecutivo, questa strana maggioranza non sono anticapitalisti, ma rappresentano per l’èlite una seccatura e una minaccia, per il semplice motivo che – magari al di là delle loro stesse intenzioni – stanno mostrando ai cittadini che uscire dai binari tracciati dal pensiero unico globalista è possibile. Se ci pensate non è poco: un mutamento di percezione da parte delle masse equivarrebbe a una svolta epocale, ma già il suo annuncio costituisce una novità sorprendente.

Sbarazzarci del «politically correct» sarebbe una conquista e un punto di partenza, perché quello marxista è il progetto politicamente scorretto per antonomasia, e nella gabbia mentale che ancora ci imprigiona non è manco concepibile.


Note
[1] Il richiamo ai Fasci siciliani di fine secolo non può essere casuale.
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