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ilponte

Sovranismo e nazionalismo

di Luca Michelini

SovranismoSe avessimo una stampa degna del nome, potremmo conoscere la situazione politica e sociale francese. Purtroppo non è così e stentiamo perfino a capire la situazione del nostro paese, che ogni volta, infatti, consegna sorprese politiche di ogni genere. Se avessimo, poi, investimenti pubblici nell’istruzione pubblica di ogni grado e livello degni del nome, anche la capacità di lettura e di governo della realtà sarebbe ben maggiore di quella attuale. Stante la situazione disastrosa nella quale viviamo, non possiamo che dare il peso appropriato alla televisione pubblica e privata, che ancora esercita un’influenza notevole sui costumi anche politici della nazione.

Ebbene, una rinnovata Rete 4, cioè quella rete che ora Berlusconi ha deciso di distaccare dal leghismo montante per proporre un più moderato liberalismo, ha trasmesso (il 9 ottobre) un’interessante intervista e confronto politico-giornalistico con Marine Le Pen. Ad affrontarla c’era un aggressivo Bersani e altri giornalisti, anch’essi più o meno antinazionalisti e antisovranisti.

La prima cosa che colpisce ascoltando la Le Pen è la sua caratura politico-intellettuale: ben diversa e senz’altro superiore a quella dei politici italiani, anche di quelli che con lei vorrebbero allearsi. Non ha avuto alcun timore del confronto, che è stato libero e sereno, e ha sempre argomentato con precisione e calma, alla fine avendo la meglio di interlocutori che partivano già dalla presunzione di avere comunque la ragione dalla loro parte.

Uno dei concetti che ha espresso Bersani è che il sovranismo in effetti è nazionalismo, il che ha una pesante responsabilità storica, quella di aver portato per secoli la guerra sul suolo europeo. Sono ormai numerosi i politici italiani che si aggrappano a questo tipo di ragionamento. Anche Cuperlo lo propone all’interno del Pd.

Naturalmente, ha avuto facile gioco la Le Pen nel sottolineare come sia proprio questa Europa a sollevare i conflitti interstatali, come comprova il caso greco. E a questo proposito potremmo aggiungere il caso molto significativo del conflitto franco-italiano sulla Libia (e non solo, invero), che nulla ha a che vedere con i sovranisti in senso stretto, ma anzi ha avuto fautori francesi che a parole si dicevano, e si dicono, europeisti e pacifisti.

La Le Pen ha poi sottolineato come sia questo tipo di Europa che sta portando la guerra sociale al proprio interno. La Le Pen, insomma, è contro le politiche di “austerità”, un termine che ha utilizzato esplicitamente. Sentirsi dire da persone che per anni hanno avuto in mano le sorti del paese e dell’Europa, cioè sentirsi dire da Bersani, che solo un’Europa politica può essere la soluzione alla crisi europea attuale, fa veramente male. Infatti è stato il neoliberismo di sinistra italiano a promuovere questo tipo di Europa, trovando ascolto in altrettanti liberismi-di-sinistra europei; salvo poi accorgersi, quando era troppo tardi, che questo tipo di Europa provocava una destabilizzazione economica pericolosissima, sia sul piano sociale sia su quello politico. E a certificarlo non sono difficili letture intellettuali, ma lo spuntare dirompente in termini elettorali in tutta Europa di forti partiti sovranisti.

E sentire Bersani affermare, contro la Le Pen che stigmatizza il fenomeno incontrollato dell’immigrazione, che è una fortuna che ci siano gli immigrati, altrimenti nessun italiano andrebbe a lavorare negli altoforni, fa ancora più male: perché significa avere proprio una certa idea neoliberista del mercato, e di quello del lavoro in modo particolare. Perché una sinistra che si rispetti dovrebbe avere a cuore, cioè avere come fondamentale obiettivo, che il lavoro negli altoforni cessi di essere un lavoro abbruttente, destinato per forze di cose agli ultimi dell’umanità. Non può che venire in mente, a questo proposito, la penosa situazione dell’acciaieria di Taranto, incancrenitasi proprio sotto gli occhi del vario neoliberismo italiano, del resto all’origine della sua privatizzazione. Mi domando: siamo diventati a tal punto filocapitalisti e liberalborghesi di “primo Ottocento”, da riempirci la bocca sul progresso tecnologico solo quando si tratta di investimenti 4.0 da scontare fiscalmente? Ben vengano le badanti italiane, dice Bersani, sol che ci fossero: è dunque questo il modello sociale della cosiddetta sinistra? Fermare l’emigrazione è come fermare l’acqua con le mani, dice Bersani: e dunque non rimane che appiattirsi, assecondando, o al massimo smorzando in dosi omeopatiche, le semovenze oggettive e naturali del capitalismo mondiale attuale, che a modello ha preso le semovenze del capitalismo inglese di primo Ottocento? E, del resto, basta aggirarsi per le cittadelle che avrebbero dovuto rappresentare i modelli della socialdemocrazia italiana (Livorno, Bologna, Rimini e tante altre città) per accorgersi come in effetti un tentativo di creare una società almeno un po’ diversa da quella del capitalismo più selvaggio sia sostanzialmente fallita, forse addirittura mai nemmeno tentata. Un giorno vi sarà chi studierà i discorsi di Bersani e si accorgerà che la sua quasi totale incomprensibilità, fatta di immagini, di non detti, di tutta una serie di contorsioni linguistiche e fisiche e metaforiche, sta semplicemente a significare la perdita totale di una anche minima filosofia sociale e della storia.

Ma ciò che ritengo sia più importante sottolineare è un altro aspetto del dibattito odierno tra sovranisti e antisovranisti. Un aspetto ben messo in luce dalla Le Pen. Gli antisovranisti oggi dicono che il sovranismo è nazionalismo e dunque, in ultima analisi, bellicismo interstatale. Già ho detto del caso francese, ma forse si potrebbe ricordare anche il caso di Tony Blair, il padre del neoliberismo di sinistra, che ha portato il suo paese in una guerra che – lo ha dovuto ammettere – non aveva alcuna ragione democratica. Nulla dicono, invece, gli antinazionalisti a proposito del modello sociale di riferimento di questi sovranisti. L’unica cosa a cui accennano è la xenofobia e l’immigrazione, che lascia trasparire chiare semovenze autoritarie.

Ora ciò che distingue il sovranismo dal nazionalismo classico è il suo appello a favore alla democrazia rappresentativa. Sovranismo significa appunto ritorno alla sovranità degli Stati rappresentativi. L’avversario, se non il nemico da abbattere, ora sono le istituzioni sovranazionali, quelle europee, quelle finanziarie e forse industriali, che per proprio esclusivo tornaconto vogliono andare contro la sovranità popolare e le politiche degli Stati sovrani.

È bene ricordarsi che il nazionalismo, soprattutto quello italiano che innervò il fascismo, che a sua volta era una dottrina e una politica di portata europea e mondiale, era antidemocratico: temeva la democrazia rappresentativa, le masse organizzate, riteneva l’estensione del suffragio il veicolo principale della rivoluzione sociale e socialista. Solo lentamente, e non prima di aver distrutto sul piano sociale e squadristico-militare la democrazia e il movimento operaio, il nazionalismo ha imparato che le masse potevano essere inserite in uno Stato gerarchico e tendenzialmente totalitario. Fin da subito, del resto, questo nazionalismo ebbe una componente di sinistra, sindacale, talvolta anche eversiva e destinata ad alzare la testa nei momenti più drammatici della storia. Solo lentamente il nazionalismo si accorse che le masse potevano portarlo al potere grazie alle istituzioni democratiche, come in Germania.

Oggi il sovranismo non bisogno di portare un attacco profondo alle pratiche della democrazia. E il motivo è assai semplice, anche se tragico: queste pratiche sono state in gran parte minate e fatte a pezzi dai vari neoliberismi che si sono alternati al potere in Europa. Oggi, poi, il mondo del lavoro non rappresenta più alcun pericolo sociale-rivoluzionario, tanto meno riformatore. Un tempo il problema dei nazionalisti era quello di incanalare in modo autoritario le organizzazioni dei lavoratori. E questo proprio in virtù delle politiche svolte dalla cosiddetta sinistra. Oggi, addirittura, il mondo del lavoro deve sentirsi difendere proprio dalla destra sovranista, assai meno timida della sinistra nell’abbozzare qualche provvedimento di natura sociale. E quando questi provvedimenti sociali sollevano la dura reazione dei “mercati”, ecco che la cosiddetta sinistra si fa baluardo di questi mercati, ben oltre il realismo necessario per affrontarne la potenza e prepotenza.

C’è il sostrato xenofobo, naturalmente, che è del tutto funzionale a stabilizzare proprio quella manodopera sottopagata cui si riferisce Bersani; ma a stabilizzarla in posizione di inferiorità, controllandone l’inserimento politico nella società con una politica della cittadinanza molto prudente e ricattatoria. C’è la sudditanza a un certo tipo di capitalismo, quale quello con il quale il sovranismo nostrano è stato alleato per un ventennio e che possiamo ritrovare nella recente vicenda delle concessioni autostradali. C’è l’esigenza di favorire il ceto della piccola e media impresa e dei ceti medi professionali, con i condoni e con la flat tax. Certo, c’è tutto questo: che poi altro non è che un tentativo di ricostruire almeno un germe di comunità nazionale, almeno un germe di interclassismo, di coesione sociale, almeno un piccolo argine all’implosione nel caos di un capitalismo selvaggio post-sovietico. Di fronte a questa politica, che ha un consenso crescente e probabilmente straripante, la sinistra non ha da opporre alcun tipo di ragionamento. Semplicemente, non esiste più.

Già: perché forse qualcuno vorrebbe farci credere che la cosiddetta sinistra non è stata succube della cultura xenofoba per un ventennio? Forse essa ha cercato di modernizzare il capitalismo italiano, allontanandolo dalle secche dell’intreccio indissolubile con la rendita di origine politica? Forse questa sinistra non ha rincorso disperatamente il ceto della piccola e della media impresa? Forse non ha contribuito a disarticolare l’asse portante della scuola pubblica e dei servizi sociali che sono, di fatto, l’unica forma attraverso la quale prende effettivamente corpo il principio della progressività del sistema fiscale? Forse ha difeso il mondo del lavoro? Forse non è ricorsa a varie forme di condono? Forse che alle parole che invocavano una moderna forma di egualitarismo, quello dei punti di partenza, non ha fatto corrispondere uno dei periodi storici di più accentuato disegualitarismo? E mentre l’Europa dell’austerità torna a ricattarci sul debito pubblico, nemmeno si vede l’ombra di un’analisi dei rapporti di forza europei che sottendono questo ricatto. Il mercato rimane un meccanismo perfetto a cui affidare le sorti sociali e politiche della nazione. Parlare di “piano B” è un’eresia; il reddito di cittadinanza una burla per fannulloni; le preoccupazioni fondate del presidente della Repubblica, una scusa per giocarsi le sorti delle elezioni e non per trovare i meccanismi istituzionali ed economici per impedire la deriva del paese. Elezioni che però saranno implacabili all’appuntamento, anche grazie alla propaganda pro-sovranista che svolgono tutti i mass-media schierati contro i sovranisti. Le elezioni vedranno la vittoria straripante del sovranismo. Unica speranza: che questo sovranismo non sia all’altezza del momento storico che si avvicina e che si diventi preda, un’altra volta nella storia, degli appetiti coloniali di civiltà superiori. Tanto peggio, tanto meglio: questa la filosofia sociale a cui invita quella che ancor oggi si presenta come sinistra italiana.

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