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Riflessioni sulla dinamica politica attuale: Boghetta e Pastrello

di Alessandro Visalli

C 2 articolo 3145246 upiImageppDue interventi sulla dinamica politica in corso, il primo è di Ugo Boghetta[1] e si intitola “Euro5stelle e il governo uno e trino”, lo riporto integralmente:

“Con il voto per la presidentessa della Commissione Europea Von der Leyen il M5S è ufficialmente in maggioranza a Bruxelles. Questo potrebbe essere un passaggio del guado. Se così fosse, avrebbe vinto la linea Conte e, forse, dell'ineffabile Di Maio. Pure Salvini aveva pensato di votarla ma poi non ne ha fatto niente. Probabilmente ha preferito tenersi le mani libere per cercare di incassare altri aumenti elettorali. Non a caso il M5S e Conte stanno tentando, con la proposta a Commissario della Buongiorno, di legare le mani anche alla Lega. Se Salvini resisterà alla nomina di un legaiolo, apparirà come l'unico antagonista dell'Unione. Che questo contrasto sia reale o finto ha poca importanza.

In questo modo la situazione italiana si confonde ulteriormente.

Il voto dei 5S, infatti, significa che con tutta probabilità il governo avrà qualche margine di manovra in più, a parte accenni di commedia: la Von der Leyen ha già ammonito che avremo il debito monitorato. Di conseguenza la prossima Finanziaria comporterà un braccio di ferro fra M5S e Lega piuttosto che con la Commissione.

Del resto, in tempi recenti il governo ha anche accettato di ridurre un poco il deficit e congelato due miliardi su istruzione (fra le spese più basse dell'Unione) e sostegno alle imprese (nonostante la stagnazione).

In questo modo si allontana quella tensione positiva che il governo gialloverde aveva comunque prodotto l'anno scorso verso le politiche unioniste.

A tutto ciò si deve aggiungere il sì alla TAV del Presidente del Consiglio. Decisione che parla da sola. E conta poco per pentastellati il rifugiarsi in un voto parlamentare che li vede perdenti a tavolino.

La situazione del M5S è, dunque, destinata a complicarsi. Da una parte, infatti, dovrà moderare i toni verso Bruxelles (e non avere il nemico esterno è un problema, lasciarlo alla Lega è suicida). Dall'altra si avvicina pericolosamente alle posizioni piddine. Mentre Salvini continua ad avere le mani abbastanza libere anche se non è privo di difficoltà. Una di queste viene dal Presidente del Consiglio. Conte, infatti, avendo evidentemente preso gusto a fare il premier, sembra giocare una sua partita per ora e per il dopo. I cosiddetti poteri forti, più avanti, potrebbero pensare a lui come cavallo di prima scelta.

Per il M5S questo comporta una tensione elettoralistica su due fronti: rispetto alla Lega verso cui ha già perso punti e verso il PD. Ma il problema, soprattutto, riguarda l'umore che avrà quella massa (38%) che aveva votato i pentastellati e invece si è astenuta alle regionali ed alle europee.

Il M5S non sembra essere in grado di venir fuori dal cul de sac in cui si è cacciato. Non ne ha la cultura politica. Anzi, è la sua cultura politica ad essere il problema. La ricerca del consenso sondaggistico ora è suicida. Ne è una prova la riduzione dei parlamentari in modo lineare ormai arrivata al capolinea nel silenzio più totale: senza nessun vero dibattito, come fosse una misura amministrativa. Un taglio tipo spending review. Sarebbe stato meglio, ad esempio, abrogare il Senato per una semplificazione democratica. Tagliare i parlamentari in tutte e due i rami del Parlamento, invece, alza in maniera significativa e la soglia di entrata limitando la rappresentanza politica. Per altro verso, alzare la soglia con la legge elettorale vigente, crea un maggioritario che rischia di favorire l’odiato Salvini che in futuro potrebbe, lui sì, governare da solo.

In questo contesto, forse ha poco senso discutere se è meglio che il governo continui. Sembra aver esaurito la sua spinta propulsiva. Appare sempre più un ‘governo tecnico’. Certo c’è il riaffacciarsi mefitico della contrapposizione Lega/PD. Ma questo non lo si evitata abbarbicandosi ad un albero quasi secco.

Il problema, semmai, è riflettere in via ipotetica su come e su cosa sarebbe meglio cadesse. Poiché il modo di cadere non è neutro. Ci parla del possibile futuro.

Le grandi questioni aperte sono tante. Per i 5S l'occasione per prendere in contropiede Salvini è il Regionalismo Differenziato. Anche in questo caso però Conte sta preparando il papocchio. Un papocchio gravissimo perché ogni compromesso è inaccettabile stante l’enorme situazione di frammentazione dei diritti fondamentali. Al contrario, bisognerebbe mettere mano alle modifiche al Titolo V. E ricominciare, esatto, ricominciare ad attuare l’articolo 3 della Costituzione.

La situazione per certi aspetti è ottima, avrebbe detto Mao, ma la condizione dell'area sovranista-costituzional-socialista non lo è altrettanto. In primo luogo, La tensione strategica della rottura dell'Unione-euro si allontana a causa del governo gialloverde. In secondo luogo vengono al pettine carenze dovute all'approccio propagandistico noeuro e la difficoltà a trovare il bandolo della matassa in Italia. La problematica, infatti, andrebbe affrontata dal lato interno. Andrebbe posta a tema la: QUESTIONE ITALIANA. Un approccio che sembra non allettare perché richiede impegno, studio, sperimentazioni, verifiche. Serve conoscere quello che non si sa. Capire quello che non si capisce. Bisognerebbe chiedersi come riesce a stare in piedi un paese dove, apparentemente, non funziona quasi nulla sul piano economico, sociale, culturale, democratico, istituzionale. Dove c'è una crisi dei fondamentali: l'istruzione, la sanità, la giustizia, l'ambiente, i trasporti, l'acqua, i rifiuti. Dove ci sono più emigranti italiani che immigrati. E dove, a complicare il quadro analitico, i giovani emigranti sono in gran parte del centro nord e delle grandi città con alti tassi di occupazione.

Basterebbe farsi una semplice domanda: perché nonostante questa situazione in Italia non ci sono i gilé gialli?

La domanda è semplice, ma le risposte non lo sono altrettanto. Eppure bisogna cercarle!”

Il secondo articolo che vogliamo riportare è di Gabriele Pastrello[2], anche questo in forma integrale, pur nella sua lunghezza, il titolo è “A chi conviene far cadere il governo?”:

“Come si presenta oggi la situazione se qualcuno, 5S o Lega, volesse andare a elezioni anticipate?

I 5S sono in croce per aver perso il 50% degli elettori. Hanno un leverage in Parla­mento grazie al 33% di seggi, ma non nel paese. Hanno due alternative: un governo di 'unità nazionale’ col PD (e FI) - ovviamente né 5S né PD reggerebbero un governo 'politico’ insieme - per liberarsi di Salvini. Ma dato lo scarto col consenso assomiglie­rebbe a un colpo di stato. E poi cosa combinerebbero col PD? Il 'più uno’ è la sola e unica carta. Ma questa forse è la ragione per cui Zingaretti, vittima designata di un 'più uno’ data la sua cromosomica moderazione, non ne ha una gran voglia. Ma an­dare alle elezioni, certificare il crollo e poi consegnarsi comunque alla maggiore ca­pacità di manovra del PD (per lunga esperienza, anche se non per capacità eccelsa), sembra un suicidio.

Il quale PD sta litigando su due linee presunte diverse ma che hanno alla base la stessa premessa che è: riprendersi i voti dai 5S è possibile; anzi è l’unica possibilità di ripresa (i voti popolari se ne sono andati, non tornano, né interessano). La prima, moderata, cioè zingarettiana e franceschiniana, sconta che nel breve periodo gli elettori 5S non sarebbero disposti al ritorno, ma contano sull’abbraccio mortale di governo col partito, ‘à la Mitterand’, per far scattare nuovamente il ‘voto utile’. Quella di Renzi che pensa invece che bisogna prima sfasciare del tutto i 5S, e solo dopo dare la caccia ai voti. Ambedue le linee ignorano che circa solo l’1% del 33% degli elettori 5S, ha votato PD alle europee. Cioè la grandissima maggioranza, al netto di quelli tornati con Salvini, piuttosto che votare PD preferisce la coabitazione con Salvini o l’astensione. Non una premessa esaltante.

Quindi ai 5S non resta altro che tenere sotto pressione Salvini - per contenerlo, anche se ormai gli resta poco da contenere - con gli scandali che i centri liberal-europeisti anti-russi stanno montando pretestuosamente. (Bisognerebbe capire il perché di questa recrudescenza. Che la Russia possa minac­ciare la democrazia in Occidente, USA ed Europa, dall'alto della sua impotenza poli­tica globale, è semplicemente ridicolo. Però, evidentemente, come testa di turco re­siduato della psicosi della guerra fredda sedimentata in decenni pare che un po’ funzioni - invece del 'rosso sotto il letto’, 'il rosso nel computer' -, quantomeno tra le élite; dubito tra gli elettori. E questo è un problema per loro. Si ostinano in una strategia solo 'diffamatoria’ fino a qua perdente).

Quindi i 5S non sapendo cosa fare pensano meglio restare al governo (è più conveniente anche personalmente. ma io credo che questo sia un by-product non la ragione principale della scelta. Restare è bello e anche buono).

Altra musica per Salvini. Perché non va alle elezioni? la Lega tutta sbava, vede sullo sfondo circa un raddoppio di deputati, di crescita di peso, di ministeri, prebende etc. etc. Con l'alleanza con la Meloni la maggioranza assoluta è probabile. E quasi sicura­mente un pezzo di FI si staccherebbe da Berlusconi per una maggioranza numerica­mente blindata. e allora perché no?

Incominciamo dal fattore Mattarella. Pare che il presidente abbia abbandonato (quan­tomeno come piano A) l'idea di un governo istituzionale del presidente (PD-5S-FI; si direbbe a guida Conte come suggerito da Franceschini ed esplicitato da Mieli) per un governo elettorale 'di garanzia’. Cosa vuol dire ‘di garanzia’? I governi dimissionari di regola restano per l'ordinaria amministrazione e per organizzare le elezioni. In questo caso, invece, verrebbe formato un altro governo, ugualmente destinato alla sfiducia, ma che dovrebbe invece portare alle elezioni.

Di quale garanzia c'è bisogno? Non è chiaro. A meno che la garanzia necessaria non sia Salvini fuori dal Ministero degli Interni, Ministero che sta presidiando con molta determinazione. Certo che con Salvini privato di leve di controllo potrebbe succedere di tutto durante la campagna elettorale. La bufala russa potrebbe diventare un elefante. Personalmente non credo che l'elettorato salviniano ci farebbe molto caso ma le élite liberal-democratiche mondiali, dagli USA a Roma, passando per Londra restano convinte, nonostante le continue smentite elettorali, che queste strategie diffamatorie funzionino.

Comunque se Salvini le teme qualche ragione ce l'ha. Notoriamente il fango si depo­sita e difficilmente evapora. personalmente ritengo lo scandalo russo una pressoché totale bufala. Che traffichini vicini a Salvini abbiano pensato di inserirsi in grandi affari, magari promettendo riconoscenza tangibile a chi li lasciasse fare (il che sarebbe indubbiamente reato), mi pare ovvio (ne ho già viste altre di situazioni in cui arrembanti ignoti cercavano di infilarsi in affari più grandi di loro tra Italia e Russia).

Salvini è stato scioccamente incauto a negare la conoscenza di Savoini quando anche un bambino sapeva che sarebbe stata la prima cosa a saltare fuori. Pessima reazione d'istinto, negare tutto. Ma che Savoini potesse entrare in un business tra ENI e Rozneft grazie alla conoscenza di Salvini è puro dilettantismo. Salvini o Savoini avrebbero dovuto rivolgersi a Berlusconi per sapere come si fa a interpolare interessi privati in affari di stato con la Russia. Lui ne è un grande esperto. Il fatto è che un'alluvione di rivelazioni sul tema anche se poi fossero penalmente non rilevanti o solo poco, lo potrebbero costringere a una campagna sulla difensiva. E comunque qualcosa di penalmente rilevante molto probabilmente ci sarà. Anche se non quello che viene agitato.

E questo è un primo motivo per non andare alle elezioni subito. La paura di uscirne politicamente se non azzoppato comunque bruciacchiato, a danno delle sue grandi ambizioni.

Un secondo motivo è il confronto con la UE. È il momento di cominciare a definire la Finanziaria per il prossimo anno. Abbiamo evitato per un soffio la procedura di infra­zione e lo spread è calato. Ma dobbiamo ringraziare solo la crisi europea per questo.

Bruxelles aveva bisogno dei voti italiani come si è visto. Fin dall'inizio, ricatto via pressione sullo spread e richiesta di sostegno per gli equilibri della commissione, sono andati di pari passo. E, alla fine, non puoi distruggere un paese se hai bisogno dei suoi voti. Senza questo bisogno avremmo davvero visto i sorci verdi (quelli già progettati da lontano nel documento dei 5 Saggi nel 2015, nel no-paper di Schäuble del 2017 e nel progetto di riforma bancaria e unione monetaria del 2018).

Ma, per fortuna nostra, i cantori dell'europeismo anti-populisti raccontavano frottole quando entusiasticamente decretavano la fine della minaccia populista: cioè la pro­spettiva della conquista della maggioranza al Parlamento europeo da parte dei partiti ‘populisti’. Una minaccia mai esistita peraltro (come non era mai esistito - come mi disse un autorevole sondaggista - il presunto sorpasso dei 5S sul PD nelle europee del 2014; pericolo però sbandierato ossessivamente dai media, e che contribuì al 41% di Renzi). Che i partiti 'populisti’ potessero conquistare la maggioranza nel Parlamento europeo era semplicemente una favola (e se lo dicevano loro era solo la classica pro­paganda mobilitante preelettorale). Si capiva bene anche prima, dai sondaggi, che non sarebbero andati al di là del 30-35%.

La campagna anti-populista in realtà ha funzionato un po’, probabilmente, tenendoli al di sotto del 30%. Ma questo risultato, invece di segnare la fine della crisi politica europea ne ha mostrato tutta la gravità. Infatti gli elettori, pur accorsi in parte a fermare il ‘populismo’, si sono ben guardati di premiare l'asse del Bene, lo storico bastione dell'europeismo, la Grosse Koalition europea (in analogia con quella tedesca): i due partiti principi del parlamento da sempre. Partito Popolare Europeo e Partito Socialista Europeo, i quali sono invece sono passati dal 55% dei seggi al 45%, perdendo seccamente la maggioranza assoluta, da sempre perno della stabilità politica europea.

Per gli ottimisti, sarebbe bastato sommare a quel risultato i seggi dei Verdi e dei Li­berali per una nuova maggioranza del Bene europeista dell'oltre il 60%. Ma i numeri si lasciano sommare senza protestare. I partiti molto meno. La Von der Leyen non ha avuto i voti dei Verdi e dei Liberali. a dimostrazione che la crisi europea è ben più profonda delle superficiali contrapposizione europeisti-populisti. e ancora peggio non ha avuto neppure 'tutti’ i voti popolari e socialisti. Il che non preannuncia un autunno facile in Germania per la Grosse Koalition tedesca. E ha avuto invece voti dei populisti polacchi e ungheresi, più i 5S italiani, voti che possono essere sempre revocati.

Se finora il Parlamento europeo non aveva mai messo i bastoni sulle ruote della Commissione, la situazione che si apre potrebbe far venire tentazioni. Tutto ciò, sommato al fatto che Sanchez (acclamato mesi fa come l'araldo della vittoria europeista contro il populismo) non sia riuscito a fare il governo in Spagna, è un chiaro sintomo della crisi strisciante. per non parlare dello scontro sul Brexit,

Scontro che la prepotenza europea e il servilismo (nonché l’arroganza antipopolare di pretta marca liberale) di parte della ruling class britannica hanno portato vicino al punto di rottura dell'uscita senza nessun accordo. Esito quasi impensabile fino a un anno fa; ma provocato dall'imposizione di una clausola umiliante negli accordi (il cosiddetto backstop: cioè, o l'UK resta nel Mercato comune e il Brexit è solo di nome - una presa in giro del Referendum - o, se vuole davvero uscire dal Mercato comune, molla l'Irlanda del Nord). Clausola che ha provocato le dimissioni della May e una reazione di opinione pubblica che ha portato al governo un team che pare deciso a giocare a ‘va banque’ sul no-deal (i dirigenti europei non ci credono, ma se non lo facesse Johnson sarebbe finito prima di cominciare).

Ma questa crisi è tutta in fieri. non si è ancora sviluppata. E se oggi Salvini facesse cadere il governo, andasse a elezioni, magari le vincesse e diventasse Presidente del Consiglio, si troverebbe nella scomoda posizione di dover promettere di mantenere le promesse fatte (Flat-Tax, ad esempio; uno sforamento dei conti intollerabile per l’UE) avendo però davanti ancora la vecchia Commissione (piena della sua arroganza imperiale paneuropea) che volentieri si assumerebbe il lavoro sporco di mettere le premesse per umiliare l'Italia (richieste ultimative di rispetto dei parametri e esplosione dello spread) lasciando alla nuova il compito di gestire la posizione di vantaggio acquisita.

Tutt'altra situazione con il governo in carica. Non vi è dubbio che Conte e 5S abbiano aperto crediti a Bruxelles, non solo passati, ma futuri, nella misura i cui la maggioranza raccogliticcia della Von der Leyen, non è proprio il massimo della stabilità (v. polacchi e ungheresi).

E quindi un do ut des con l'Italia è pensabile. Certo un do ut des all'interno dei vincoli europei, quindi al massimo limitate flessibilità. Però neppure minacce di infrazioni che automaticamente danneggiano paese e bilancio aumentando lo spread. Certamente questi limiti, se danno respiro al governo, però tarpano le ali alle promesse di Salvini - in primis Flat-Tax - come pure alle promesse vaghe di rilancio economico del paese.

Va anche aggiunto che questa situazione può aprire conflitti dentro la Lega. Il corpaccione politico della Lega - amministratori in primo luogo, ma anche centri di potere economico collegati sistematicamente - è sommamente disinteressato ad aprire conflitti con l'Europa. A loro basta mettere le mani sui fondi per finanziare le Grandi Opere, sui fondi europei che già toccano alle regioni e sulle possibilità che un governo della Lega può aprire, senza parlare che parte della Flat-Tax potrebbero farsela da soli con la regionalizzazione differenziata.

Ma questa non può essere la linea di Salvini. Se non 'consegna’ la Flat-Tax a tutti gli elettori di tutte le regioni, e un po’ di rilancio per tutto il paese, rischia molto. Il caso 5S è un monito. Hanno promesso il reddito di cittadinanza. Hanno dato solo spiccioli e a pochi. Il consenso al Sud è crollato dimezzando il partito nazionale.

La novità di Salvini è aver trasformato la Lega in partito nazionale. Ma, se il corpo politico del Nord impone la propria visione e i propri interessi, sarà difficile mante­nere la presa politica in altre zone dell'Italia; che è quella che sta facendo la differenza tra il 15% storico della Lega (Nord), e l’attuale percentuale fino quasi il 35. E la politica sull'immigrazione potrebbe non bastare.

Quindi Salvini deve fare l'equilibrismo su una linea stretta. Perché a lui converrebbe forse tenere aperto il conflitto dentro il governo, precostituendo una linea preelettorale presentandosi come quello che vorrebbe fare di più, ma ne è impedito dall'obbedienza europeista dell'alleato, i 5S. I 5S ovviamente possono non gradire molto, ma almeno con il loro europeismo di risulta si coprirebbero dal lato PD, e comunque restano al governo, il che, data la caduta di consenso, può dare loro il tempo necessario per riorganizzarsi e prepararsi per una nuova linea. Mentre se uscissero adesso dovrebbero affrontare i contraccolpi essendo del tutto allo sbando all'interno.

Con un'elezione a primavera intanto la crisi europea potrebbe svilupparsi e rendere più chiari i termini degli equilibri. Il Brexit potrebbe aver aperto una guerra fredda con l'Europa (come da più parti ormai si dice), potrebbe essersi aperta (anzi, quasi sicuramente lo sarà) una crisi della Grosse Koalition. Con la drastica caduta di voti e sondaggi, l'SPD non può assolutamente continuare nell’appoggio subalterno alla CDU. Quantomeno ci dovrà essere una lunga e durissima ricontrattazione sul programma di governo (tenendo a mente che la CSU - junior-partner di destra della CDU - il cui candidato presidente è stato silurato, sarà un ostacolo non piccolo ad accordi). E restano le crisi spagnola, e forse anche quella francese (i ‘gilet gialli’ sono davvero estinti?).

In queste condizioni la Commissione, ma più in generale il vertice europeo, potrebbe avere problemi più impellenti che non aprire un fronte conflittuale duro con l'Italia. Per non parlare della resa dei conti definitiva con questo paese, già adombrata negli articoli dell’economista tedesco Sinn del 2011 e 2012, in cui si parlava di possibile uscita dall'euro, pensando in primo luogo alla Grecia, ma subito dopo all’Italia, poi al rapporto dei 5 Saggi che esigeva un'espulsione ‘automatica’ dei paesi fiscalmente indisciplinati (in primis Grecia, ma poi l’Italia), e poi il no-paper del 2017 e i vari progetti nel 2018 che avrebbero messo l’Italia in estrema difficoltà, se non a rischio Trojka. Un governo leghista certo non si vedrebbe fare nel 2020 ponti d'oro, ma forse neppure minacciare sfracelli, dati gli altri fronti conflittuali aperti.

Per cui, nonostante tutto, parrebbe più conveniente sia ai 5S che alla Lega, continuare questa insopportabilmente conflittuale coabitazione per aspettare tempi migliori per ambedue per andare alle elezioni.

Ma si sa l’uomo propone e Dio dispone. O magari anche manine o manone di servizi”.

I due testi partono dalla formazione della Commissione Europea e dal voto di fiducia che il M5S ha, risultando decisivo, reputato dovergli dare. Si tratta di un evento spartiacque, in quanto il ‘movimento senza forma’ (ideologica), con questo atto sceglie di assumere la forma più solida tra quelle oggi presenti sulla scena politica europea: quella dell’europeismo di governo.

Ma questo evento sembra aprire una frattura (ulteriore) tra le due forze di governo le quali se avevano qualcosa in comune era l’opposizione al governismo del centro politico, e quindi al suo europeismo.

Come scrive Boghetta, “in questo modo la situazione italiana si confonde ulteriormente”.

Ciò significherà che il governo cadrà? Né Boghetta, né Pastrello (soprattutto) lo pensano, anzi, in effetti anche se non è probabilmente una manovra concertata (in una logica “dei due forni” che richiederebbe ben maggiore controllo politico) questa divaricazione allargherà gli spazi di azione verso Bruxelles. Ma ciò non significa, ha ancora ragione Boghetta, che il polo “Lega” del governo sia meno europeista, o meno subalterno alla logica di controllo esterno (o “vincolo esterno”) che l’architettura istituzionale europea impone.

D’altra parte Pastrello evidenzia come i 5S non abbiano margini strategici per sfuggire da questo governo.

La Lega immagina di avere da guadagnare dalle nuove elezioni (probabilmente anche grazie alla riduzione dei parlamentari, che favorisce come ovvio, e sottolinea Boghetta, i partiti di maggioranza relativa nei diversi collegi). Ma c’è il rischio che le forze europeiste e il Presidente Mattarella che ne interpreta ed esprime l’orientamento impongano un “governo di garanzia” (a guida tecnica). Con l’opportuna pressione esterna (e magari un attacco dei “mercati” pilotato) qualcuno potrebbe sperare che ottenga la fiducia dal Parlamento. Pastrello non la prende in considerazione e penso abbia ragione, a nessuna forza davvero conviene intestarsi un governo debole, continuamente a rischio e pur tuttavia chiamato ad intestarsi un’altra dose di “sacrifici”[3]. Allora l’eventuale “governo di garanzia” in effetti dovrebbe solo impedire che sia Conte, con Salvini Ministro dell’Interno, a gestire le elezioni anticipate. Ma in questo caso cadrebbe per la Lega la garanzia di un controllo sugli apparati dello Stato nella delicata fase della compagna elettorale, e qualche rischio (leggi inchieste sul finanziamento russo) c’è, pur se bufala, come dice bene Pastrello.

Inoltre l’entrata del 5S nella maggioranza che sostiene il governo europeo è certa promessa di guai, se si va alla rottura.

Quindi Salvini rischia a rompere sia nella gestione delle elezioni, sia, e più, nell’eventuale governo che potrebbe formare insieme alla Meloni. Come giustamente sottolinea Pastrello la situazione europea continua ad essere sull’orlo di una crisi politica molto grave, che potrebbe scaricarsi, con il via libera degli ex soci dei 5S, su un governo chiamato a mantenere promesse elettorali mentre tutto rallenta.

Ma poiché la base sociale della Lega, in modo non dissimile da quella degli altri ‘partiti di equilibrio’, è tutto meno che antieuropeista[4], si tratta di uno scenario (restare soli a sostenere l’urto della contraddizione palese tra la politica nazionale, che impone politiche di stimolo audaci, e le logiche europee, che obbligano alla ‘austerità’ e crescente) nel quale le tensioni interne crescerebbero enormemente.

E qui si profila dunque tutta la complessità della equazione politica che ha reso possibile il momento: anche se non in modo programmato è stata ripetuta nei fatti la mossa compiuta da Berlusconi al suo esordio, unire un doppio populismo a radicamento territoriale parziale per fare una maggioranza[5], mettendo insieme due nemici strutturali che, però, avevano in comune un nemico principale nel duopolio sconfitto Partito Democratico e Forza Italia. Tuttavia la Lega aveva il problema di dover crescere verso il sud, smarcandosi dalla ridotta nordica che determinava un tetto alla crescita, e il M5S, che al sud aveva la sua roccaforte, il problema di trovare una forma. La prima, che è la cosa più vicina ad un Partito nello scenario politico italiano, era cresciuta dalle bassezze della fase Maroni grazie alla mossa del cavallo di spostare il peso della contrapposizione dalla lotta a “Roma ladrona” ed al “sud parassita” verso l’esterno (l’Europa). Complice una crisi che non passa questa mossa aveva aperto spazi di crescita sia al nord sia al centro-nord, grazie alla crisi renziana del corpo elettorale della sinistra PD. Ma ora la Lega era al governo, e doveva estendere la strategia verso sud, cercando di salire oltre il 18% ca. ad una dimensione nazionale più autosufficiente, e quindi in contatto con il “nemico” europeo.

Tuttavia l’Europa è tutto meno che un nemico per buona parte della sua base sociale tradizionale, e quindi si è cercata una mossa disperata (ma di successo nel breve termine): la “doppia distrazione” della polemica sui vincoli, ma senza mordere, e della faccia feroce sull’immigrazione. Se la seconda ha portato cospicua dote, anche grazie alle reazioni automatiche della sinistra, la prima però fa crescere le tensioni interne. E comunque sono entrambe strategie a caduta tendenziale del profitto. Fino che dura questa doppia distrazione produce il miracolo politico dello sfondamento della Lega (ex “nord”) anche al sud e quindi la speranza di poter andare al governo del paese (quasi) da sola.

Ciò è stato reso possibile, ovviamente, dal fallimento del M5S, incapace di fare politica visibile e di dare il senso di avere un progetto nel momento in cui le sue proposte-bandiera sono state svuotate.

La sostanza della politica portata avanti dalla Lega si mostra invece in politiche come la “flat tax” (che avvantaggia e fa sperare alle proprie clientele, in particolare al centro-nord) e il “regionalismo differenziato” (che colpisce direttamente il “sud parassita”), ma queste politiche sono a somma politica zero: mentre coltivano il nord scavano il consenso al sud, aumentando il rischio di volatilità della posizione di forza acquisita.

A questa fase della dinamica tuttavia l’equazione politica sembra risolta: la Lega ha mangiato il consenso al sud del M5S e ha tenuto contemporaneamente il suo al nord; tutti guardano ai “nemici esterni” e la base sociale interna aspetta i due premi lungamente attesi.

Ma, come scrive Pastrello, “Salvini deve fare l’equilibrismo su una linea stretta”. Non può davvero andare allo scontro con l’Europa, e tanto meno con la Germania, intrecciata con l’economia del nord del paese e con le sue borghesie, ma senza farlo non può consegnare alcuna “merce” (tanto più essendo all’opposizione del governo europeo, cosa alla quale è stato costretto dalla forza della sua stessa retorica elettorale). Fino a che sta al governo con un partner (ormai junior) può scaricare sui suoi numeri parlamentari ridondanti la responsabilità dell’inefficacia, ma se andasse da solo dovrebbe sciogliere il nodo e l’equazione salterebbe irrimediabilmente.

Come argomenta efficacemente Pastrello può essere allora meglio attendere e sperare che in primavera, tra brexit e crisi della “Grosse coalition” (e chi sa cosa nel quadro internazionale in evoluzione), la situazione sia tale da impedire a Bruxelles di aprire il “fronte sud” della guerra europea.

Resta il punto politico: il governo ha abbastanza chiaramente esaurito qualsiasi spinta propulsiva che gli si voleva attribuire da parte di alcuni, Boghetta lo chiama “un albero quasi secco”. E ci sono sul tavolo almeno due progetti che distruggerebbero la sostanza del paese: la riforma fiscale e il regionalismo differenziato.

Con un governo nel quale lo scontro di classe (quel che si intravedeva nel risultato di marzo) sta scivolando sul fondo, e le vecchie e storiche élite riprendono il sopravvento nell’una come nell’altra forza di governo, meglio allora tentare le urne che consentire il completamento del tradimento. Una coalizione nata per dare risposta alle tante periferie, schiacciate dal network dei poteri interconnessi alla dinamica polarizzante del progetto di potenza imperiale europeo, sta finendo per rovesciarsi in un ulteriore puntello, a causa della sua insipienza e per le sue contraddizioni strutturali.

Certo, si potrebbe dire, c’è il rischio che la caduta per sfarinamento, sotto il peso delle tante contraddizioni e delle opposte agende (diagonali alle stesse forze), della formazione governativa apra la strada a soluzioni “montiane”, o anche peggio. L’analisi condotta dai due autori sopra citati tenderebbe ad escludere l’imminenza di tale rischio; è più facile che si insedi un governo elettorale, relativamente innocuo, e poi si vada al confronto elettorale. Ciò che emergerà da questo dipenderà da come e su cosa è avvenuta la rottura, dal quadro nel quale avverrà e dall’orientamento che prenderà l’enorme massa di elettori scontenti e disillusi.

Ma soprattutto, si può temere ogni cosa ma da una sola bisogna davvero guardarsi: dalla paura. Dare la parola alla democrazia, alla fine, è la cosa giusta, davanti alla prospettiva di una lenta consunzione che continui ad allargare la forbice tra i bisogni del paese e le risposte che la politica riesce a produrre.

Boghetta propone quindi un’agenda che rifiuta la paralisi strategica creata dalla paura di ciò che potrebbe venire dopo:

1- opposizione intransigente, costi quel che costi, ai progetti della Lega (Nord) e ripresa del tema dell’attuazione dell’art 3 della Costituzione Italia; effettiva eguaglianza.

2- Ripresa del lavoro di comprensione del paese, che sembra costantemente sull’orlo di una crisi sociale e politica terminale, ma che non si muove, perché?

Sono due ottime proposte.


Note
[1] - Intervento nell’ambito dell’associazione “Nuova Direzione”.
[2] - Non pubblicato, con il permesso dell’autore.
[3] - Cantilena, quella dei ‘sacrifici’, iniziata nei primi anni settanta e mai terminata, ovviamente sempre a danno dei soliti.
[4] - Su questa analisi si veda, “Giochi di specchi ed equivoci. Il caso della Lega” e poi “Discussioni sull’Italia. Lotta nazionale e/o lotta di classe?”, eventualmente anche “Antonio Gramsci, ‘Notarelle sul Machiavelli’”.
[5] - All’epoca il Polo delle Libertà (alleanza tra Forza Italia e Lega) e il Polo del buon Governo (alleanza tra Forza Italia e Alleanza Nazionale), crearono una doppia maggioranza che trovava equilibrio solo nel ruolo per questo centrale di Forza Italia.

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