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Progresso, fede e censura nell’analisi politica della sinistra italiana

di Giulio Gisondi

immagine giornale 1 scaledDue tratti che caratterizzano l’analisi e la retorica dell’odierno militante di sinistra e del campo della sinistra italiana sono racchiusi in una forma di fede, spesso inconscia e profonda, nell’ideologia liberal-liberista di individuo, di società, di politica ed economia, accompagnata a una forma di censura di ogni critica che mini la struttura teorica e materiale di quel modello. Come se esistesse uno spazio di legittimità dell’analisi e del discorso politico, come se vi fosse un limite a ciò che può essere sottoposto a riflessione e discusso al suo interno.

 

1. Progresso

Ma di quale sinistra parliamo? Se ci riferissimo al solo posizionamento parlamentare, potremmo definire sinistra quello spazio politico compreso tra Liberi e Uguali nelle sue varie declinazioni, Articolo Uno, Sinistra Italiana e Possibile, e le diverse correnti del Partito Democratico. Né più né meno di quello che dal 1996, sotto diverse forme e con l’aggiunta di Rifondazione Comunista, ha composto la variegata coalizione dell’Ulivo, poi rinnovatasi nel 2005 con l’Unione. A queste, molte altre realtà si affiancano, tra partiti e associazioni extraparlamentari o della cosiddetta sinistra radicale. A questa definizione possiamo aggiungerne una seconda, che, nonostante le differenze di posizionamento, si esprime in una stessa distorta idea di progresso, marcatamente liberal-liberista. Una religione del progresso che riconosce una forma di modernità nel superamento e nello svuotamento della sovranità popolare e costituzionale, nel nomadismo obbligato e indotto degli individui e di interi popoli, in una libertà civile slegata da ogni aggancio ai diritti sociali. In altre parole, l’idea che il mondo globalizzato incarni una realtà in cui tutto va necessariamente meglio di ieri: «una certezza così profondamente radicata nell’inconscio dell’uomo di sinistra che», come ha osservato Jean-Claude Michéa, «costituisce una vera e propria forma a priori del suo modo di pensare e alla quale egli non potrà rinunciare senza rinunciare a sé stesso»[i].

È la sinistra liberalizzata, quella che, se da un lato, si batte per il popolo Curdo, dall’altro, legge l’idea di Stato, di patria e di nazione, non come la cornice in cui affermare i diritti sociali, ma come elementi di destra se non, addirittura, fascisti. Una sinistra che combatte i cambiamenti climatici, ma che non mette in discussione il modello economico e produttivo che li determina e su cui potrebbe agire. Una sinistra che invoca orwelliane commissioni contro l’odio politico e l’antisemitismo, ma che tace, da un lato, sulle cause materiali dell’odio politico, sociale o di classe; dall’altro, sull’invasione militare dei territori palestinesi da parte d’Israele. Una sinistra che concede identità e permessi di soggiorno ai lavoratori immigrati, in cambio del loro sfruttamento nel settore agricolo, o che non si pone domande sugli 816000 italiani emigrati negli ultimi dieci anni. Una sinistra che denuncia la precarietà, il lavoro nero, la disoccupazione, il basso livello dei salari, ma che non s’interroga sugli avanzi primari, sui pareggi di bilancio, sulle politiche deflattive e sulla svalutazione salariale che l’appartenenza alla moneta unica impone. Una sinistra che tace sulla natura dei trattati europei che vincolano l’Italia a politiche di austerità, persino nella peggiore crisi sanitaria ed economica dal 1929 ad oggi. Una sinistra che si dice pronta alla svendita del patrimonio pubblico[ii], che invoca il ricorso dell’Italia al MES vincolando il paese a decenni di ulteriori politiche di tagli. Ma da dove ha avuto origine quest’atteggiamento bipolare, fideistico e censore, quest’incapacità di analisi non dogmatica dei processi politici e materiali?

La sinistra italiana ha subito negli ultimi trent’anni una metamorfosi antropologica riscontrabile nel patrimonio di idee liberal-liberiste erette a valore: la meritocrazia, la competizione, la rivendicazione delle libertà civili sganciate da un supporto ai diritti sociali, la totale libertà di movimento dei capitali e delle merci, la difesa di una forma d’impresa slegata da garanzie di tutela dei lavoratori e dell’interesse della collettività, la scomparsa dello Stato dalla regolazione dei processi politico-economici e sociali. Alla liberalizzazione dei mercati ha fatto seguito la liberalizzazione della sinistra stessa, spostandosi dalla difesa dei diritti del lavoro a quella dell’interesse del capitale. Basti osservare la composizione del voto nelle recenti tornate elettorali, per comprendere come la preferenza per i partiti della sinistra sia composta in misura determinante da redditi alti e medio alti[iii].

 

2. Fede: il sogno europeo

Si tratta di una trasformazione profonda che affonda le sue radici nella cosiddetta svolta europeista compiutasi nei primi anni Ottanta a partire dall’accettazione del Partito Comunista Italiano del progetto d’integrazione europea come di un destino a cui pareva impossibile opporsi. Non mancarono inizialmente forti opposizioni, almeno fino alla fine degli anni Settanta, in quell’intervallo di tempo che separò la fine degli accordi di Bretton Woods dall’imporsi del paradigma economico neoliberista: come quelle espresse contro l’introduzione del Sistema Monetario Europeo, il regime di cambi fissi antenato dell’euro, formulate nel 1978 all’interno del PCI e in Parlamento da Giorgio Napolitano, Luciano Barca, Luigi Spaventa e del segretario Enrico Berlinguer[iv]. La contrarietà allo SME del PCI risiedeva nella consapevolezza delle storture che un sistema di cambi fissi avrebbe comportato per l’economia italiana[v]. Inutile osservare che quelli di Napolitano, Barca, Spaventa e Berlinguer rappresentano gli stessi argomenti tecnici di chi oggi denuncia le storture della moneta unica, del suo costituire un cambio troppo debole e vantaggioso per i Paesi dell’Europa del Nord e, viceversa, troppo forte per le economie dei Paesi del Sud, in cui s’interviene comprimendo i salari e abbattendo la spesa e gli investimenti pubblici.

Ma perché quella sinistra che allora denunciava i problemi di un sistema di cambi fissi, valutandolo come l’applicazione di un vincolo esterno nella competizione con gli altri Stati, ha poi accolto quella logica economica e monetaria, rinnegando gli esiti delle proprie analisi? La risposta va ricercata nella svolta che portò il PCI, negli anni immediatamente successivi, dal sogno socialista a quello europeista. L’adesione del PCI al progetto di Altiero Spinelli segnò non soltanto l’accettazione del progetto d’integrazione europea, ma anche l’abbandono di ogni sua forma di resistenza. Si trattava di una resa, di indietreggiare nella resistenza al progetto d’integrazione economica per adeguarsi al mutare degli scenari internazionali e alla necessità di restare in vita come partito nonostante la scissione con l’URSS. Di fronte alla crisi del comunismo sovietico, occorreva ricollocare politicamente e culturalmente il PCI all’interno dell’orizzonte della famiglia socialista europea e porre al centro della retorica di partito il progetto d’integrazione europeo. Il PCI abbandonava l’analisi e la critica marxista al modello di comunità europea e ai trattati, che lo aveva caratterizzato sin dagli anni Cinquanta. L’accettazione del carattere sovrannazionale della UE, a scapito dell’idea d’internazionalismo, segnava un punto di non ritorno che avrebbe condotto progressivamente il più grande partito della sinistra italiana a farsi portavoce della retorica europeista come nuovo tema dominante, allontanandosi da quello originario della difesa dei lavoratori[vi]. In quella svolta erano già condensati i primi sintomi del fideismo europeista che si tradurrà negli anni a venire in una forma di d’incomprensione del disegno e dell’ideologia liberista tout-court, accompagnata alla censura di ogni critica e messa in discussione di quel modello. Erano qui poste le fondamenta per il processo di liberalizzazione che accompagnerà il PCI dalla mutazione europeista fino alla svolta della Bolognina del 1989, abbandonando non soltanto i simboli della tradizione comunista, ma anche il suo patrimonio metodologico e teorico. Non erano, tuttavia, quel patrimonio e quell’analisi ad essere obsolete. Quelle due profonde svolte, o fratture, non furono dettate da un’incomprensione dei processi politici ed economici che si registravano in quegli anni, quanto piuttosto dall’incapacità del PCI a far fronte ad essi e a tradurre in azione politica i risultati di quelle analisi, a porre una resistenza all’imporsi dell’ondata liberista europea e internazionale.

Anziché rinnovarsi opponendosi a quel processo di deregolamentazione dei mercati e dei capitali, la sinistra ha nel corso degli anni Novanta fatto suo quel verbo, in maniera a volte inconsapevole, assumendo in positivo le categorie politiche, economiche e sociali del liberismo e operando una rimozione di quelle su cui si era sempre fondata la propria analisi: il conflitto tra capitale e lavoro. Una mutazione questa che l’ha condotta a lasciarsi ammaliare da forme di propaganda come quella racchiusa nelle parole di Romano Prodi che, nel 1996, commentando la vendita del patrimonio industriale, aziendale e bancario pubblico italiano da lui gestita a capo dell’IRI, si definiva «il re delle privatizzazioni», rimproverando gli italiani di non possedere «la cultura della libertà, dell’antimonopolio, del rispetto del singolo piccolo operatore economico»[vii]. È esattamente in quella direzione che si è mossa la propaganda liberista di cui è stata vittima e, al tempo stesso, portavoce la sinistra italiana negli ultimi vent’anni. Stridono oggi le parole di Prodi, alla luce delle politiche di privatizzazione dei servizi pubblici e strategici del paese. Come ancora ancora stridono le parole di chi proprio di Prodi fu ministro dell’economia tra il 2006 e il 2008: Tommaso Padoa-Schioppa, il quale nel 2003, dalle pagine del Corriere della Sera, affermava la necessità di attuare nell’Europa continentale «un programma completo di riforme strutturali […] nei campi delle pensioni, della sanità, del mercato del lavoro, della scuola […]», poiché occorreva «attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità»[viii]: questo doveva essere l’obbiettivo delle scelte economiche e monetarie da attuare, scelte che hanno avuto l’effetto di vincolare la politica alle logiche della finanza, nonché di assestare un colpo mortale ai diritti sociali conquistati nel corso del Novecento.

 

3. Censura

Al fideismo e al dogmatismo si è accompagnata l’inevitabile censura della riflessione e dell’analisi politica non soltanto se proveniente da destra, ma ancor più violenta se interna alla sinistra stessa. Il rispolvero di vecchie e datate categorie dispregiative, come quella storica di populista, o la produzione di nuove quale sovranista, costituisce un’abile e antica tecnica di delegittimazione e di censura. Il suo scopo non è soltanto quello di delegittimare l’interlocutore politico, che sia interno o esterno al proprio campo di appartenenza, ma di disinnescare ogni messa in questione, ogni analisi critica della realtà, che possa suscitare una riflessione individuale e collettiva. Ciò ha come risultato quello di cristallizzare il dibattito e l’opinione pubblica in un recinto di legittimità, costringendo all’uso di un linguaggio e di argomenti percepiti come socialmente e politicamente accettabili, immobilizzando ogni tentativo di ripensamento di una realtà distorta e contraddittoria.

Ripercorre l’origine e la storia di queste categorie ci consente di osservare come esse costituiscano parole chiave di forme di retorica e di propaganda, esercitate delle classi dirigenti sia attraverso i media, sia attraverso certa produzione scientifico-accademica, al fine di chiudere a tentativi di resistenza, opposizione e trasformazione culturale, sociale, politica ed economica. L’uso del termine e della categoria di populista, ad esempio, nasce con un’accezione dispregiativa già nella Russia della seconda metà del XIX secolo, ad indicare i movimenti socialisti di rivolta popolare anti-zarista; allo stesso modo, il termine inglese populist, coniato in quegli stessi anni negli Stati Uniti, venne impiegato sempre in senso dispregiativo sia da parte del partito Repubblicano sia Democratico, per definire i membri del People’s party nato nel 1891 e composto da operai e contadini del Midwest e del Sud che si facevano portavoce d’istanze socialiste e si opponevano alle grandi concentrazioni di potere politico, industriale e finanziario. Sia nel caso russo, che in quello statunitense, secondo una tendenza ravvisabile anche in Europa, le classi dirigenti ricorrevano a questa retorica dispregiativa, trasformando ‘popolare’ in ‘populista’, per definire i movimenti socialisti che non rientravano nelle tradizionali correnti dello scontro politico tra aristocrazia possidente e borghesia industriale. La riflessione sulle origini del termine e sulla sua comparsa ci aiuta a comprendere la dinamica del suo utilizzo anche nel nostro tempo.

La tendenza a costruire una retorica e una propaganda dispregiativa, che s’impone sia nel linguaggio politico e mediatico, sia in quello quotidiano della dimensione pubblica, costituisce un elemento dominante dei nostri tempi di crisi, segno di una debolezza delle élites nazionali e di una difesa della realtà mediaticamente propagandata. In altre parole, quella forza politica che non rientra nel recinto di legittimità, ma costituisce un elemento di rottura dei tradizionali blocchi di potere, diviene immediatamente populista. L’accezione di una forza politica come populista è, in un primo momento, sempre eterodiretta, nella misura in cui essa non rientra nel campo di una politica intesa come scienza specialistica e tecnica, esercitata da tecnici e da competenti, ma facente leva esclusivamente sulla costruzione di un forte consenso popolare. Tecnica e popolo, esercizio del governo come disciplina tecnica e consenso popolare assumono due direzioni differenti e opposte tra loro, non conciliabili, ma in cui la prima per potersi esprimere pienamente ed efficacemente deve essere slegata dalla seconda. Il voto come momento della partecipazione democratica costituisce, in tal senso, un impedimento e un pericolo all’esercizio della tecnica, apparentemente neutrale e scientifica, del governo. L’idea che il popolo possa esprimersi democraticamente in merito a questioni che impattano sulla vita di tutti i cittadini, ma mediaticamente rappresentate come complesse, non decifrabili e non comprensibili dalla massa, si è sempre più imposta negli ultimi dieci anni, divenendo un elemento pregnante di quel carattere di censura politica esercitata a sinistra. Ne è un esempio il voto del 2016 sulla Brexit, o ancora il referendum greco del 2015 sull’accettazione delle misure di austerità. Il momento del voto, come ogni tentativo di partecipazione e di opposizione democratica, mette in crisi il principio di una politica intesa come esercizio di una tecnica di governo scientifica e neutrale, la quale per poter essere efficace non deve rispondere alla volontà popolare: il popolo non conosce, non può conoscere ed è incapace di conoscere quale sia il suo bene. Meglio, dunque, svuotare il campo politico da ogni possibilità di influenza ed espressione della sovranità popolare, demandando a tecnici, task force ed esperti il ruolo di decisori sulla gestione in materia di politica, economia, sanità, istruzione e così in ogni campo della vita collettiva. L’opposizione al governo dei ‘tecnici’, al discorso dei ‘competenti’, portatori di un sapere sempre più specializzato e analitico e sempre meno interdisciplinare e umanistico, incontra immediatamente una forma di doppia censura in seno alla società: da un lato, istituzionalizzata e mediatica esercitata verticalmente; dall’altro, orizzontale e collettiva immersa, in maniera pressocché implicita e inconscia, ai diversi livelli della vita pubblica e privata.

Allo stesso modo e secondo la stessa tecnica di delegittimazione, la recente costruzione della categoria di sovranismo, con il conseguente corredo scientifico, tende a chiudere a ogni serio tentativo di analisi su di un tema cruciale della storia europea e repubblicana italiana quale quello della sovranità popolare sancita nel primo articolo della Costituzione. Mistificare la sovranità con il sovranismo ha come effetto non soltanto quello di cristallizzare il dibattito pubblico, ma ancor più di provocare dei pericolosi passi indietro nella riflessione collettiva, di rendere incapaci a fronteggiare i momenti di crisi del Paese, in cui il tema della sovranità popolare e nazionale dovrebbe costituire il nucleo centrale a partire dal quale assumere decisioni politiche. È propriamente questo uno dei risultati della costruzione di queste categorie dispregiative, nonché dell’atteggiamento fideista e censore di cui è stata vittima e portavoce la sinistra italiana, quello di aver interrotto ogni concreta e profonda riflessione, ogni produzione di discorso capace d’interpretare la realtà sociale, politica ed economica in forme rinnovate ed efficaci. Occorrerebbe finalmente decostruire questa religione di un progresso distopico, quest’atteggiamento di fede in una realtà in cui, nonostante i figli vivano peggio e con peggiori prospettive di vita dei genitori, continuiamo a credere, nonché abbandonare le forme di censura elaborate dalla propaganda liberista per tornare a studiare in maniera critica e non dogmatica quanto viviamo. Ma per farlo bisogna elaborare un lutto, individuale e collettivo, rimettere in discussione le categorie con cui la sinistra ha analizzato nella sua retorica la realtà del nuovo mondo liberalizzato e globalizzato per recuperare il problema del conflitto tra capitale e lavoro.


Note
[i] J. M. Michéa, Le complexe d’Orphée. La gauche, les gens ordinaires et la religion du progrès, Paris, Champs essai, p. 16
[ii] Cfr. G. Vitale, Un progetto per il dopo Il tesoriere del Pd Luigi Zanda, La Repubblica, 28 marzo 2020, p. 11
[iii] Cfr. C. Monti, Classi sociali nelle elezioni 2018 e 2019: un’analisi bayesiana del voto, in https://www.centrostudiargo.it/classi-sociali-nelle-elezioni-2018-e-2019-unanalisi-bayesiana-del-voto/ ; cfr. L. De Sio, Il ritorno del voto di classe, ma al contrario (ovvero: se il PD è il partito delle élite), in https://cise.luiss.it/cise/2018/03/06/il-ritorno-del-voto-di-classe-ma-al-contrario-ovvero-se-il-pd-e-il-partito-delle-elite/.
[iv] Cfr. M. Palombi, Euro. Quando Giorgio Napolitano era contrario alla moneta unica, Il fatto quotidiano, 19 maggio 2014.
[v] G. Napolitano, Intervento alla Camera dei Deputati del 13 dicembre 1978, in Atti Parlamentari, Deputati, VII Legislatura, Discussioni, http://legislature.camera.it/_dati/leg07/lavori/stenografici/sed0383/sed0383.pdf, p. 24995
[vi] Cfr. C. Lanieri, Il Pci di Enrico Berlinguer e le elezioni europee attraverso la lettura della stampa comunista (1979-1984), in «Diacronie. Studi di Storia Contemporanea», 32, 4/2017
[vii] Romano Prodi, Intervista a Mixer di Gianni Minoli 1996, https://www.youtube.com/watch?v=WdCkSg60K1c
[viii] T. Padoa Schioppa, Da Berlino e Parigi ritorno alla realtà, Corriere della Sera, 26 agosto 2003, p. 1

 

Comments

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Francesco Zucconi
Thursday, 04 June 2020 00:18
Concordo in pieno!
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