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lafionda

Il nuovo ruolo del Presidente della Repubblica, da garante della Costituzione a garante dei trattati europei

di Paolo Cornetti e Thomas Fazi

SavonaMattaCome è ormai risaputo, il 24 gennaio terminerà il mandato settennale di Sergio Mattarella e il Parlamento italiano e i rappresentanti regionali saranno chiamati allo scrutinio segreto per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica. Malgrado questo evento non abbia ottenuto grandi attenzioni al di fuori del nostro paese, la scelta che ne conseguirà sarà determinante per tutto il continente europeo.

Generalmente, si ritiene che il presidente abbia un ruolo puramente cerimoniale e simbolico, e in effetti per la maggior parte della vita repubblicana è stato effettivamente così. D’altronde dovremmo essere una democrazia parlamentare, con il governo che si regge sulla fiducia delle Camere elette dal popolo.

Eppure, nella sua veste ufficiale di “garante” o “guardiano” della Costituzione, il presidente della Repubblica detiene un potere notevole. I governi, infatti, devono ottenere la sua “approvazione”, in quanto egli nomina (o “approva”) il Presidente del Consiglio e gli altri ministri. Inoltre, tutte le leggi approvate dal Parlamento devono essere firmate dal Presidente della Repubblica, il quale ha anche il potere di sciogliere le Camere, per esempio a seguito di una crisi di governo. Ciò significa che il Colle detiene a tutti gli effetti la capacità di decidere se indire nuove elezioni o meno.

Ma i poteri presidenziali non finiscono qua, dal momento che la carica più alta dello Stato ha la facoltà di ratificare i trattati internazionali, è comandante in capo delle Forze Armate e Presidente del Consiglio superiore della magistratura. Infine, non molti ne sono a conoscenza, ma il Presidente della Repubblica può esercitare la sua influenza anche attraverso le strutture tecnocratiche del Ministero dell’Economia e delle Finanze, in particolare l’onnipotente Ragioneria Generale dello Stato e la Banca d’Italia.

Si tratta, dunque, di un potere tutt’altro che insignificante. Per quanto tale potere possa rimanere “dormiente” in tempi “normali”, in tempi di crisi, quando il sistema politico diventa incapace di fornire soluzioni praticabili, il ruolo del Presidente della Repubblica tende ad “espandersi”. E dato lo stato semipermanente di turbolenza politica ed economica in cui l’Italia è impantanata da almeno un decennio, non sorprende che oggi il presidente si sia evoluto in un vero e proprio attore politico, con il potere (e la volontà) di intervenire nel processo decisionale del paese.

Questa trasformazione è il risultato di un lungo processo, il cui inizio può essere ricondotto alla graduale integrazione dell’Italia nell’Unione europea e nell’euro a partire dai primi anni Novanta in poi. Per i paesi aderenti, infatti, soprattutto quelli subalterni, l’euro ha determinato una progressiva marginalizzazione del Parlamento e dello stesso governo, relegati sempre più a meri ratificatori di decisioni economiche, spesso impopolari, prese a livello europeo. Ciò ha inevitabilmente comportato un processo di riconfigurazione statale che ha rafforzato i poteri esecutivi e tecnocratici a tutti i livelli, compreso quello del capo di Stato, e reso sempre più irrilevante il Parlamento. In generale, questo processo è stato presentato come una precondizione necessaria per l’attuazione rapida ed efficiente delle politiche economiche imposte dall’UE: austerità, compressione salariali, liberalizzazioni e privatizzazioni.

Una volta assunta la decisione di entrare nell’euro, poi, era fondamentale evitare che questa scelta potesse essere messa democraticamente in discussione. Di conseguenza, il Presidente della Repubblica è passato dall’essere il garante della Costituzione all’essere, di fatto, il garante degli “obblighi internazionali” del paese, in particolare quelli derivanti dai trattati e dalle regole europee. Infine, il trasferimento di tutte le principali prerogative economiche all’Unione europea ha fatto sì che i partiti politici, se anche riuscivano a trovare una maggioranza in Parlamento, si ritrovassero sempre più privi degli strumenti economici necessari per mantenere il consenso sociale.

Questo ha finito per generare un sistema di instabilità sociale e politica semipermanente, creando le condizioni affinché il Presidente della Repubblica assumesse un ruolo sempre più attivo in nome della “stabilità” e della “governabilità”. In breve, l’adesione dell’Italia all’euro ha di fatto avviato un caso unico di transizione istituzionale da una forma di democrazia all’altra: da un regime parlamentare a un regime presidenziale di fatto in cui il parlamento svolge un ruolo del tutto marginale.

Questa trasformazione è diventata particolarmente evidente durante il doppio mandato di Giorgio Napolitano (2006-2015), che è coinciso con la crisi post-2008. Durante questo periodo, infatti, Napolitano è diventato il “grande mediatore” della politica italiana, al punto da essere ribattezzato “Re Giorgio”. Si ritiene, d’altronde, che Napolitano abbia svolto un ruolo cruciale nel “golpe internazionale” – che ha coinvolto tra gli altri, la Banca d’Italia, l’allora Presidente della BCE Mario Draghi, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy – che ha portato alla caduta dell’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ed alla sua sostituzione con il tecnocrate Mario Monti, scelto personalmente dallo stesso Napolitano. Lo stesso governo Monti è stato definito, per l’appunto, “governo del presidente”.

Il successore di Napolitano, Sergio Mattarella, ha poi proseguito su questa linea. Nel 2018, a seguito dell’alleanza tra Movimento 5 Stelle e Lega, i due partiti, come dettato dalla Costituzione, sottoposero al presidente la lista dei ministri scelti per il nuovo governo per la sua approvazione; il più delle volte si tratta di una mera formalità, tuttavia in quell’occasione Mattarella pose il veto al nome di Paola Savona come Ministro dell’Economia per via delle sue posizioni euro-critiche, costringendo i due partiti a ripiegare su Giovanni Tria, più incline a perseguire politiche che preservassero lo status quo.

Come notarono all’epoca gli esperti di diritto Marco Dani e Agustín José Menéndez, ciò sembrerebbe indicare l’esistenza di «una forma di “convenzione” secondo la quale i partiti politici o le coalizioni critiche nei confronti degli accordi economici e monetari esistenti all’interno dell’eurozona non possano entrare nel governo. O, più precisamente, abbiano il diritto di governare [solo] in maniera addomesticata».

Più recentemente, quando Matteo Renzi decise di staccare la spina al governo Conte II nel gennaio del 2021, Mattarella si rifiutò di dissolvere il Parlamento e di indire elezioni anticipate lavorando invece dietro le quinte per garantire la sostituzione di Conte con Draghi, proprio come aveva fatto Napolitano con Monti un decennio prima. Secondo diverse fonti, infatti, Mattarella e Draghi sarebbero stati direttamente coinvolti nei giochi di potere che hanno portato Conte a farsi da parte.

Nell’ultimo anno, poi, Mattarella ha fatto di tutto per difendere a spada tratta praticamente ogni misura del governo Draghi, comprese quelle più legalmente e costituzionalmente controverse, come l’introduzione del green pass e dell’obbligo vaccinale de facto (e adesso de jure per i cittadini dai cinquant’anni in su), nonché il mantenimento di uno stato di emergenza semipermanente e il rafforzamento della presa autoritaria e antidemocratica di Draghi sul paese. In altre parole, il presidente oggi non pretende nemmeno più di essere un arbitro neutrale della Costituzione. Non solo è scontato che svolga un ruolo profondamente politico, ma a tutti gli effetti le élite italiane si aspettano sempre più che egli usi i suoi poteri “da re” per difendere lo status quo e tenere a bada “i barbari”, siano essi euroscettici o critici in qualsivoglia maniera sulle misure sanitarie intraprese.

Alla luce di quanto detto, si può facilmente comprendere l’importanza delle imminenti elezioni presidenziali. Considerando le prossime elezioni parlamentari previste per il 2023 (e la chiara possibilità di una maggioranza di destra), la situazione sociale ed economica sempre più drammatica, la crescente opposizione alle draconiane misure “anti-pandemiche” del governo e il programma di riforme strutturali che l’UE si aspetta dall’Italia in cambio degli esigui fondi del Next Generation EU, è chiaro che assicurarsi un uomo dell’establishment nel ruolo di presidente è essenziale per le élite italiane. Da molto prima della pandemia, Draghi era considerato il naturale successore di Mattarella, ma la sua nomina a Presidente del Consiglio lo scorso febbraio ha reso più complicata e farraginosa una potenziale transizione.

Se Draghi dovesse essere eletto presidente, i partiti che compongono il governo di coalizione dovrebbero concordare un sostituto per portare a termine il governo fino alla fine della legislatura, nel 2023. Tuttavia, è opinione diffusa che senza Draghi sarebbe molto difficile garantire la sopravvivenza dell’attuale “governo di unità nazionale”, che comprende praticamente tutti i partiti tranne Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. E siccome nessuno (tranne forse la stessa Giorgia Meloni, che attualmente è in testa nei sondaggi insieme al PD) vuole andare alle elezioni anticipate – anche perché sciogliere il Parlamento prima del prossimo settembre significherebbe per i parlamentari perdere il diritto al vitalizio – nel segreto di nell’urna in molti potrebbero scegliere di votare contro Draghi.

Nell’improbabile eventualità di elezioni anticipate, è molto difficile immaginare quale potrebbe essere lo scenario: con Berlusconi ora più vicino al Partito Democratico che ai suoi alleati ufficiali, per Lega e Fratelli d’Italia assicurarsi la maggioranza potrebbe rivelarsi più difficile del previsto. Si potrebbe aprire, così, la prospettiva di un ennesimo governo “tecnico” o di “unità nazionale”, “sovrinteso” o eterodiretto da Draghi nell’onnipotente ruolo di re-presidente.

In realtà, questo scenario potrebbe realizzarsi anche nel caso in cui si arrivasse a fine legislatura. Per quei partiti che puntano sulla conquista di una maggioranza di destra alle prossime elezioni, infatti, ci sarebbe un chiaro vantaggio nell’avere Draghi alla presidenza della Repubblica: “l’approvazione” e la “supervisione” dell’ex leader della BCE si rivelerebbero essenziali per salvaguardare il governo da eventuali contraccolpi dei mercati finanziari o delle istituzioni europee, un fatto che di per sé dice molto sulle implicazioni democratiche dell’adesione all’euro.

Lo stesso Draghi ha recentemente dichiarato che sarebbe disposto a diventare presidente, e ha spiegato che i partiti non dovrebbero preoccuparsi che i futuri governi si allontanino troppo dal percorso della rettitudine neoliberista: «Il governo ha creato le condizioni perché il PNRR continui indipendentemente da chi ci sarà [alla guida del governo]», ha detto Draghi, sostanzialmente confermando che al giorno d’oggi le elezioni non contano quasi più nulla, dal momento che le decisioni determinanti vengono prese altrove, ovvero negli apparati tecnocratici dello Stato incaricati di attuare i diktat dell’UE. Resta da vedere se questo sarà sufficiente per rassicurare i parlamentari e tenere a freno i loro interessi personali e partitici. L’elezione di Draghi non è, al momento, scontata.

Un’altra opzione sarebbe che Draghi continuasse ad essere Presidente del Consiglio fino alla fine dell’attuale legislatura nel febbraio del 2023. Ciò gli consentirebbe di supervisionare l’attuazione iniziale del programma di riforme richiesto dall’UE, mentre si cerca di mettere insieme una coalizione – potenzialmente composta da PD, Movimento 5 Stelle, altri partiti minori e forse anche Forza Italia – in grado di fornire a Draghi una nuova e solida maggioranza alle prossime elezioni parlamentari. In questo caso, è difficile prevedere chi potrebbe essere effettivamente il prossimo Presidente della Repubblica. Al momento, l’unico che, violando la consuetudine, sta facendo una vera e propria campagna elettorale per il Colle è Silvio Berlusconi, che non ha mai nascosto di ambire alla massima carica dello Stato, ma allo stesso tempo risulta improbabile (anche se non impossibile visti i numeri dei grandi elettori) che una personalità così divisiva raccolga l’ampio sostegno necessario.

Alcuni hanno anche ipotizzato una soluzione “creativa” per eleggere Draghi alla presidenza della Repubblica salvando l’attuale governo: rieleggere Mattarella (o dare due anni di mandato a una personalità come Amato) fino al 2023 e poi farlo dimettere e passare la palla a Draghi. In effetti, a dimostrazione di quanto sia disperato l’establishment italiano, gli spettatori della Prima della Scala di Milano hanno recentemente salutato il Presidente Mattarella, che era tra il pubblico, con cori di «bis­», implorandolo di rimanere in carica.

Qualunque sia l’esito della prossima elezione presidenziale, una cosa è chiara: la democrazia italiana è ormai diventata appannaggio di una ristretta élite, in cui fazioni diverse dell’establishment si contendono il potere, mentre la maggioranza dei cittadini non si prende neanche più la briga di andare a votare. Non sorprende che le élite globali oggi guardino all’Italia come un modello: l’Economist è persino arrivato a incoronare l’Italia “paese dell’anno”. Molti italiani, tuttavia, si permetterebbero di dissentire.

Articolo originale uscito in inglese su UnHerd: https://unherd.com/2022/01/how-the-eu-destroyed-italian-democracy/

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