Print Friendly, PDF & Email

kriticaeconomica

Politica, miti e realtà delle privatizzazioni in Italia

di Matteo Di Lauro

Ciampi Amato 1200 1024x538Il milieu ideologico delle privatizzazioni

Dagli anni ‘90 il clima culturale si è fatto ostile alle ideologie politiche e alle posizioni di parte. La democrazia non andrebbe più intesa come scontro tra ideali diversi, ma si ridurrebbe a un presunto “governo dei migliori”, dove le uniche qualità che contano sono la competenza e l’onestà.

Inutile dire che una persona può essere competente ed onesta, fermo restando il carattere politico delle sue idee. Dietro una scelta squisitamente tecnica si nasconde comunque una visione del mondo, degli obiettivi di lungo periodo e una qualche gestione di parte del conflitto distributivo.

Come sappiamo, in economia politica non esistono scelte squisitamente tecniche, ma sempre delle policy a favore o a sfavore di una certa classe sociale. In politica non esistono scelte neutre: è per questo che il tentativo, sia mediatico sia accademico, di ricondurre qualsiasi presa di posizione politica ad un presunto criterio tecnico scientifico ha fatto degenerare profondamente il dibattito pubblico in questo paese.

Ne è un esempio la riforma dell’IRPEF di Draghi, che, per quanto vanti un carattere tecnico scientifico, nasconde dietro di sé intenti chiaramente politici: una politica di classe.

Per questo, applicare un criterio puramente tecnico all’analisi delle riforme ha poco senso, senza prima aver esplicitato la propria posizione circa i possibili conflitti distributivi che scaturiscono dalla riforme stesse. Da qui, l’impossibilità di avere un esito win-win: qualcuno ci perde sempre.

Inoltre, si constata in modo del tutto singolare che, da quando la politica ha iniziato ad essere pervasa dal mito dell’onestà e della competenza, chi ha perso di più sono state le classi subalterne. Strano. Non sarà mai che gli onesti e competenti alla Draghi siano classe dominante e seguano una propria agenda politica a difesa dei propri interessi?

 

La fase storica

Questo clima culturale ha delle radici profonde: inizia a prendere forma durante la Prima Repubblica, per poi entrare prepotentemente nel dibattito politico di questo paese con il superamento del sistema partitico e la fase di privatizzazioni e liberalizzazioni degli anni ’90.

Ad ogni modo, anche volendo vestire i panni del tecnocrate senza preferenze politiche ed utilizzare un criterio puramente analitico, l’analisi costi-benefici delle privatizzazioni è particolarmente difficile.

Ad esempio, la variazione del livello di produttività delle aziende privatizzate e il livello dei prezzi al consumo può dipendere da fattori assolutamente indipendenti dalle privatizzazioni in sé, come ad esempio shock esogeni della domanda, oppure cambiamenti radicali nella disponibilità di tecnologie. Perciò un’analisi in cui si tenga conto di un solo fattore, come i prezzi al consumo, è sempre insufficiente ai fini delle valutazioni delle privatizzazioni (Florio, 2007).

Questi sono alcuni dei motivi per cui è fuorviante parlare di successo o di fallimento delle privatizzazioni, perché pressoché ogni processo di riforma politica ha dei vincitori e dei vinti. Nel caso specifico, il processo di riorganizzazione del nostro sistema produttivo ha avuto certamente degli effetti positivi: minimi e trascurabili sui consumatori e lavoratori, enormi sul volume di affari della finanza, sui salari dei manager, sull’aumento delle diseguaglianze.

L’impatto delle privatizzazioni sul livello dei prezzi e sulla produttività delle imprese è stato positivo, ma molto piccolo, tanto da far ipotizzare che potrebbe essere paragonabile a quello che avviene in qualsiasi altro processo di riorganizzazione aziendale, ad esempio quando un’azienda acquisisce un’altra azienda o quando un’azienda viene nazionalizzata (Florio, 2007).

 

L’agenda politica

Il governo italiano aveva una specifica agenda politica nello svolgere le privatizzazioni: come dichiarato nel “Libro verde sulle partecipazioni dello stato”, l’idea alla base del progetto italiano di privatizzazioni era quella di: “i) aumentare la competitività del sistema produttivo

ii) promuovere lo sviluppo dei mercati finanziari

iii) aumentare l’internazionalizzazione delle imprese in prospettiva della globalizzazione e della maggiore integrazione europea” (Bortolotti, 2005).

Più in generale, si voleva creare un ambiente economico più competitivo tra aziende, eliminando i cosiddetti monopoli pubblici e riducendo la supposta inefficienza delle imprese pubbliche. L’idea era quella di creare, dallo smantellamento delle industrie pubbliche, 10 o 12 gruppi industriali in grado di competere a livello europeo (Barucci, 2007). La competizione tra aziende avrebbe portato a maggiore efficienza, alla fuoriuscita dal mercato delle aziende inefficienti e ad un calo dei prezzi per i consumatori.

Sicuramente abbiamo assistito ad una crescita del volume di affari nella finanza e ad una maggiore internazionalizzazione delle imprese, ma in questi anni non abbiamo assistito né a benefici evidenti per i lavoratori, né a un chiaro vantaggio per i consumatori, specie per quanto riguarda il settore delle utility, dove per il consumatore mediano non vi è stato un vantaggio dal processo di privatizzazioni (Florio, 2014). Inoltre, la competitività delle aziende italiane è stagnante proprio perché il processo di liberalizzazioni non ha aumentato gli investimenti come invece si pensava avrebbe fatto.

Purtroppo, in questi processi si è spesso dimenticata una nozione economica elementare: non tutti i mercati sono perfettamente concorrenziali. Se da un lato potrebbe avere senso liberalizzare un settore con libero accesso delle imprese al mercato, dall’altro è opinabile la liberalizzazione di un settore dove non si farebbe altro che passare da un monopolio/oligopolio pubblico ad uno privato.

Il compito di un monopolio pubblico, specie dove non vi è libero accesso delle aziende al mercato, come nel settore dell’energia, è quello di generare dei prezzi bassi per il consumatore, e, ancora più importante, stipulare con i colossi dell’energia dei contratti favorevoli ai consumatori. Inutile specificare che tutto ciò non ha nulla a che fare con la libera concorrenza (Florio, 2012).

 

Alla radice

Come siamo arrivati a questo punto? Negli anni ’80 si impose, nei paesi anglosassoni e poi in tutti i paesi occidentali, l’idea per cui facendo agire spontaneamente il mercato si sarebbe raggiunto un equilibrio economicamente efficiente.

In Europa occidentale il processo di privatizzazione e liberalizzazione seguì di pari passo quello di integrazione europea e di integrazione monetaria. Infatti, fu proprio l’apertura al mercato internazionale e la liberalizzazione dei capitali che impose un’agenda di politica liberista.

Le stesse direttive della Commissione europea vietavano di sussidiare le aziende di Stato, in quanto queste avrebbero avuto una posizione di privilegio rispetto alle altre aziende, distorcendo in questo modo il naturale funzionamento del mercato. Veniva chiesto all’Italia di rinunciare al sistema economico che l’aveva portata a passare nel giro di 40 anni da un paese prevalentemente agricolo alla seconda manifattura d’Europa, in quanto considerato inefficiente e particolarmente incline a fenomeni di corruzione e ingerenze della politica nell’economia.

La maggior parte delle privatizzazioni in Italia avvenne negli anni ’90, in particolar modo dopo gli attacchi speculativi alla lira, l’entrata dell’Italia nel trattato di Maastricht, le stragi di mafia e Tangentopoli. Un periodo di assoluto caos politico, in cui la fiducia nelle istituzioni era molto bassa e si credeva che il mercato e il vincolo esterno avrebbero finalmente disciplinato l’economia italiana.

La fede nel mercato era una convinzione estremamente diffusa nell’opinione pubblica italiana: basti guardare il risultato del referendum sull’abolizione del Ministero delle partecipazioni statali, in cui una schiacciante maggioranza del 90% votò a favore dell’abolizione del Ministero. È questo il periodo, precisamente dal 1992 al 2000, in cui l’Italia si colloca al primo posto nella classifica delle privatizzazioni (Privatization Barometer, 2005).

 

Quello che era prima

Ma facciamo un passo indietro. Prima della fase di liberalizzazioni e privatizzazioni, in Italia vigeva un sistema economico misto, in cui lo Stato era proprietario di gran parte del settore bancario (3/4) e circa di 1/3 delle 50 più grandi aziende di proprietà pubblica.

Tre grandi holding detenevano le aziende pubbliche italiane: ENI, IRI e EFIM. Le infrastrutture, i servizi pubblici, la manifattura, l’energia, le banche e le assicurazioni erano di buona parte di proprietà statale. In questo sistema, il controllo era svolto da manager autonomi con pieni poteri di controllo (Barca, 2015).

Come scrive Ugo Pagano, “il capitalismo italiano si presenta nel dopoguerra con un ampio settore di grandi imprese pubbliche che garantiscono una separazione estrema fra proprietà e controllo” (Pagano, 2019).

 

La narrazione

Ma come si consolidò la ferma convinzione che il sistema economico italiano fosse un sistema fallimentare e da riformare completamente? Come si arrivò alla sicurezza di dover smantellare le aziende pubbliche nel giro di così pochi anni?

Veniva ripetuto in molte sedi che l’Italia, per giocare alla pari con le altre potenze europee, doveva seguire le regole di integrazione europea, una ricetta fatta di privatizzazioni, liberalizzazioni e flessibilizzazione del mercato del lavoro.

Veniva anche ripetuto come il sistema misto italiano fosse inefficiente, ed in particolare le aziende private italiane fossero più produttive di quelle pubbliche.

Molti dei dati forniti a sostegno di questa tesi sono un aggregato sugli utili e sulla produttività delle aziende pubbliche rispetto a quelle private. Questo dimostra molto poco, ma comunque ci porta a riflettere sul fatto che le imprese pubbliche non nascono unicamente con il compito del profitto, ma anche con finalità di tipo sociale e sono portate ad operare al fine di erogare servizi ai cittadini laddove il mercato non riesce a farlo.

Inoltre, i loro azionisti di riferimento sono tutti i cittadini, a differenza di un’impresa privata, dove gli azionisti di riferimento sono pochi privati. Quindi anche se il paragone “naïve” tra produttività di aziende pubbliche e aziende private fosse motivato da considerazioni metodologiche, comunque non terrebbe conto del fatto che le aziende pubbliche alle volte devono operare in condizioni di utili negativi. Senza contare l’enorme varianza di produttività tra diversi settori pubblici in Italia: infatti, in alcuni ci vantavamo delle eccellenze in ambito internazionale, in altri casi aziende poco competitive erano mantenute in vita.

In questa prima parte dell’analisi abbiamo descritto brevemente il funzionamento del sistema economico italiano pre-privatizzazioni e le finalità politiche ed economiche delle privatizzazioni, mentre nella seconda parte metteremo luce sulla differenza tra gli esiti reali delle privatizzazioni in Italia e le mistificazioni operate dalla stampa mainstream sulle privatizzazioni.

 

“L’Italia è un Paese statalista”

È un’opinione ancora estremamente diffusa che l’Italia sia un Paese profondamente statalista e che molti dei suoi problemi siano riconducibili a questo. Per crescere dovremmo dunque ridurre l’ingerenza dello Stato, come negli altri Paesi europei. Tuttavia, questa narrazione non è esatta.

Secondo l’Istituto Bruno Leoni, un think tank di orientamento liberista, l’Italia si colloca sesta su ventotto Paesi dell’Unione Europea nell’indice delle liberalizzazioni, superando di netto molti Paesi considerati virtuosi, come la stessa Germania. Un risultato notevole, il quale conferma che il mito per cui l’Italia è un Paese con un enorme settore pubblico inefficiente e dove lo Stato esercita un controllo invasivo sull’economia è privo di fondamento fattuale.

Quello che possiamo dire con certezza è che il nuovo modello economico adottato dall’Italia a partire dagli anni ’90, fatto di flessibilizzazione del mercato di lavoro, privatizzazioni delle aziende pubbliche, liberalizzazioni e compressione dei salari, non ha portato i risultati sperati in termini di crescita.

Purtroppo, i risultati raggiunti, come la maggiore internazionalizzazione delle imprese, l’aumento del giro di affari dei mercati azionari, la maggiore finanziarizzazione dell’economia e la riduzione del debito pubblico nella fase delle privatizzazioni non sono riusciti a migliorare la condizione complessiva del Paese né tantomeno quella dei lavoratori.

 

“In Italia non si è privatizzato abbastanza”

Si potrebbe ribattere che in Italia si è privatizzato sì, ma solo in modo fittizio. Infatti, lo Stato, attraverso la golden share, controlla ancora buona parte dell’economia italiana. Dunque, occorrerebbe spingere ancora di più il pedale delle privatizzazioni e liberalizzazioni.

In realtà, abbiamo privatizzato molto più di Francia e Germania. Come riporta l’Osservatorio per i conti pubblici, il valore delle partecipazioni pubbliche in percentuale al PIL nel 2019 è circa la metà di quello di tali Paesi. D’altro canto, se guardiamo nello specifico cosa è avvenuto allo strumento della golden share durate la fase delle privatizzazioni, questo potere di controllo senza proprietà dell’azienda è stato estremamente depotenziato.

 

Il caso delle banche

Per quanto riguarda il comparto bancario, esso è stato sottoposto fin da subito ad una privatizzazione più radicale rispetto agli altri settori e con la legge del 30 luglio 1994, “viene a cessare ogni vincolo di controllo sulle imprese bancarie risultanti dalla trasformazione delle banche pubbliche”, ovvero il cosiddetto golden share (Cassese, 1997). La nostra proprietà di banche pubbliche si è pressoché azzerata, mentre Francia e Germania hanno ancora una certa parte del settore bancario di proprietà pubblica.

Le intenzioni del legislatore erano quelle di mantenere una presa maggiore sulle società con partecipazione pubblica in via di privatizzazione: a tal proposito, la legge del 30 luglio 1994 chiariva che lo Stato doveva mantenere dei poteri speciali che consistevano nel “veto alle delibere di scioglimento, trasferimento, fusione, scissione, trasferimento della sede all’estero, cambiamento dell’oggetto sociale; nomina di almeno un amministratore o di un numero di amministratori non superiore a un quarto dei membri del consiglio e di un sindaco.” (Cassese, 1997).

Dunque, la legge del 30 luglio 1994, in combinazione con l’articolo 2449 del Codice civile, permetteva allo Stato di avere ancora un certo controllo sulle società con partecipazione pubblica attraverso la golden share. Tuttavia, questo combinato disposto contrastava con l’ex art. 56 CE (art. 63 TFUE) per cui “sono vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi”.

A seguito di una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, il combinato della legge del 30 luglio 1994 e dell’articolo 2449 venne ridimensionato, riducendo così il potere dello Stato nelle partecipate, in quanto giudicato dalla Corte sproporzionato rispetto alla sua partecipazione azionistica. In seguito, l’articolo 2449 del Codice civile è stato modificato con la Legge n. 34 del 25 febbraio 2008, introducendo un criterio di proporzionalità e depotenziando notevolmente i poteri di controllo senza proprietà che lo Stato deteneva.

 

“Le privatizzazioni hanno reso più efficiente il sistema”

Se gli effetti positivi delle privatizzazioni sono dubbi, esse sono state almeno attuate in modo trasparente e a un prezzo equo per lo Stato, generando maggiore efficienza?

No. Come evidenzia la Corte dei Conti, le procedure di privatizzazione sono state in larga parte eseguite in modo poco trasparente e a prezzi bassi, a danno della crescita del nostro sistema economico. Tale danno si è tradotto sia in termini di mancato incasso da parte dello Stato, sia, ancor peggio, nel fornire un incentivo agli investitori ad acquistare un’azienda ad un prezzo molto basso non pagando il cosiddetto premio di controllo, trasformando così, come sostiene Fabrizio Barca, i capitalisti da innovatori a rentier, non avendo più incentivo economico ad innovare un’azienda che possono rivendere ad un prezzo molto più alto.

 

Conclusione

Tutto questo ci insegna quanto sia estremamente ideologizzato l’approccio all’analisi delle privatizzazioni in Italia, e quanto lavoro ci sia da fare per consegnare al nostro Paese una narrazione veritiera di quanto accaduto in quegli anni. È importante valutare gli esiti delle privatizzazioni rispetto agli interessi della classe lavoratrice, che dal processo di privatizzazione non ha avuto pressoché alcun beneficio.

Le valutazioni delle policy hanno sempre un carattere di classe, per questo è del tutto naturale che buona parte del sistema dei media e della politica, espressione diretta degli interessi della classe dominante, tessa lodi delle privatizzazioni: sanno che le élite finanziarie ci hanno guadagnato enormemente e si rallegrano del fatto che la sparuta minoranza che domina il nostro sistema economico abbia vinto. Per tutti gli altri, non vi è nulla di cui rallegrarsi.

Pin It

Add comment

Submit