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Fuga o protesta?

di Mauro Boarelli

05.1 goya T 1 1320x988Cosa dicono i numeri (e cosa non dicono)

La previsione si è avverata. Il partito (post)fascista è stato quello più votato alle ultime elezioni politiche. Per la prima volta nella storia del dopoguerra il governo sarà guidato da una personalità proveniente da una cultura politica antitetica a quella che ha dato origine all’Italia repubblicana, una cultura avversata nella lotta politica, nelle carceri e al confino, nella guerra partigiana da tutte le correnti di pensiero che hanno cooperato nella scrittura della Costituzione. Un mutamento di paradigma sintomo e causa al tempo stesso della lunga crisi del sistema politico e rappresentativo che giunge ora a un punto di svolta.

Certo, il dato elettorale va contestualizzato. L’affermazione della destra non è così netta come emerge dalla distribuzione dei seggi. La coalizione, infatti, ha ottenuto circa 150.000 voti in più rispetto alle elezioni precedenti, un incremento molto modesto. L’effetto valanga è dovuto unicamente a una legge elettorale che distribuisce un numero rilevante di seggi in modo del tutto abnorme rispetto al reale peso elettorale, una legge targata Pd e concepita da un ceto politico incapace e irresponsabile. La maggioranza parlamentare (e di conseguenza la composizione del governo) sarebbe stata diversa se gli strumenti della democrazia rappresentativa fossero stati usati tenendo fermi i principi costituzionali, ma in ogni caso l’espansione impressionante di Fratelli d’Italia (che aumenta del 410% i propri voti) è un segno inequivocabile del mutamento culturale in atto.

L’altro aspetto centrale del mutamento è l’astensionismo.

L’affluenza al voto è in costante declino dal 2006, quando i non votanti erano circa 7.400.000. Oggi sono poco meno di 17 milioni. Nell’arco di quattro tornate elettorali il loro numero ha subito un incremento del 125%. Le ultime elezioni hanno registrato il saldo negativo maggiore, con una perdita di circa 4.400.000 elettrici ed elettori rispetto al 2018.

La fuga dalle urne è generalizzata, ma al sud è ancora più accentuata: se la media nazionale dei votanti è di poco inferiore al 64%, nelle regioni meridionali oscilla tra il 51% e il 59%.

Alle elezioni amministrative va anche peggio. Nei cinque capoluoghi di regione chiamati all’elezione del sindaco nel 2021, l’affluenza è oscillata tra il 42% e il 51%.

Questi dati possono essere letti in controluce anche guardando quelli relativi ai voti raccolti dalle maggiori coalizioni. Nelle elezioni del 2006 la coalizione di centrosinistra e quello di destra si equivalevano: entrambe raccoglievano circa 19 milioni di voti. Alle ultime elezioni politiche la coalizione di centrosinistra ha ottenuto circa 7.400.000 voti, quella di destra circa 12.300.000. Anche la destra ne ha persi molti, moltissimi, nell’arco di un quindicennio, ma in misura minore rispetto ai suoi avversari e dimostrando una capacità di ripresa (più marcata nel 2018, quando recuperò oltre 2.200.ooo voti, molto modesta – come abbiamo visto – nell’ultima tornata). Il centrosinistra, invece, perde costantemente. Anche per il Pd, partito principale della coalizione, si tratta di una emorragia inarrestabile: nel 2008 (le prime elezioni sotto questo simbolo) aveva raccolto poco più di 12 milioni di voti, ora si ferma poco al di sotto di 5.400.000. Dalla fondazione ad oggi ha perso il 55,7% del proprio elettorato.

Nel mezzo c’è stata l’irruzione sulla scena politica del Movimento 5stelle (circa 8.700.000 voti nel 2013 e 10.700.000 nel 2018), che scompaginò il disegno di un sistema bipolare riuscendo ad attrarre elettori da entrambi gli schieramenti e che oggi, nonostante il crollo verticale (poco più di 4.300.000 voti), continua a rappresentare un punto di riferimento per gli elettori di sinistra delusi, divisi tra questo “rifugio” e l’astensione.

Alla sinistra del Pd i risultati sono estremamente deludenti, sia per chi ha scelto di stare dentro la coalizione (l’Alleanza Verdi e Sinistra raccoglie poco più di un milione di voti e ne perde circa 100.000 rispetto a quelli ottenuti dalla sola formazione di Liberi e Uguali nel 2018), sia per chi ha scelto di starne fuori (Unione Popolare mette insieme circa 400.000 voti, solo una manciata in più rispetto a quelli raccolti cinque anni prima da Potere al Popolo).

L’astensionismo ha una doppia faccia. Da un lato investe la società nel suo complesso, mostrando una progressiva disarticolazione della democrazia rappresentativa, minata anche dalla sottrazione di poteri al Parlamento. Nell’indifferenza generale, l’organo esecutivo ha di fatto assunto i poteri legislativi: la più grave modifica della Costituzione è stata realizzata senza dichiararla.

Dall’altro lato, l’astensionismo investe in maniera più massiccia un segmento della società, quello che fa riferimento alla sinistra ed è rimasto privo di rappresentanza.

 

Defezione

I dati vanno interrogati, e il modo migliore per farlo è allontanarsene e poi avvicinarsi di nuovo. Al contrario, la dimensione prevalente del dibattito post-elettorale (e del dibattito politico in generale) è sempre schiacciata sul presente, senza memoria del passato e senza slanci verso il futuro, e quindi rimane imprigionata dentro schemi che spiegano ben poco di quanto accade.

Un piccolo e prezioso volume di tanti anni fa può aiutarci in questo distanziamento critico. Nel 1970 Albert Hirschman pubblicò uno dei suoi lavori più importanti, tradotto in Italia agli inizi degli anni ottanta con il titolo Lealtà defezione protesta. Studioso “irregolare”, esploratore degli intrecci tra discipline diverse, Hirschman indaga i comportamenti messi in atto dai cittadini insoddisfatti delle organizzazioni cui fanno riferimento, sia nell’ambito economico sia nella sfera pubblica, e individua tre categorie interpretative. La prima categoria è la defezione (exit), meccanismo tipico dell’economia e del mercato: il cittadino abbandona l’azienda o l’organizzazione che non soddisfa più i suoi bisogni o le sue aspettative, e non solo per ragioni legate ai prezzi. La protesta (voice), al contrario, è un meccanismo politico che si attiva quando i cittadini tentano di cambiare lo stato di cose anziché eludere i problemi. In realtà le due opzioni sono intrecciate e – secondo Hirschman – la loro separazione arbitraria indebolisce sia l’analisi economica – alla quale sfuggono la dimensione non-economica delle scelte dei cittadini e la correlazione con più ampie dinamiche sociali – sia quella politica, incapace di leggere la defezione nelle sue implicazioni più profonde e orientata a ridurla a diserzione o tradimento.

A collegare ed equilibrare le due opzioni sta la terza categoria: la lealtà (loyalty). La lealtà non va confusa con la fede, perché – a differenza di quest’ultima – presuppone la possibilità di un cambiamento di terreno, concretamente misurabile su una scala temporale ristretta. La lealtà argina la defezione – pur fondandosi sulla sua minaccia – e attiva la protesta. In assenza di sentimenti di lealtà – scrive Hirschman – la defezione risulterebbe un’opzione priva di costi, e i cittadini sarebbero meno consapevoli della loro possibilità di influire sulle scelte dell’organizzazione. La lealtà ristabilisce quindi un equilibrio perché, elevando il costo della defezione, “spinge a scegliere la linea di azione alternativa, creativa, di fronte a cui normalmente la gente indietreggia”.

Ciò che ha caratterizzato per tutto il corso degli anni ’90 fino ad oggi il rapporto tra la società ed il principale partito del centro-sinistra (le altre formazioni ad esso alternative sono fuori gioco da tempo) è l’erosione della lealtà. Non potrebbe essere altrimenti. La totale impermeabilità del Pd a qualsiasi cosa si muova nel tessuto sociale, l’incapacità di leggere la crisi e i mutamenti, l’arroganza e l’autoreferenzialità di un ceto politico privo di qualsiasi processo di selezione e avvitato in un circuito finalizzato all’auto-riproduzione l’hanno compromessa in modo irreversibile. Se la protesta non ha alcuna possibilità di ottenere ascolto, non resta che la defezione.

 

Depoliticizzazione e conformismo

La defezione è anche il risultato di un lungo processo di depoliticizzazione della sfera pubblica che ha agito attraverso la combinazione di fattori diversi, e tra questi hanno giocato un ruolo cruciale la banalizzazione del discorso pubblico e l’approccio tecnocratico, accomunati dalla semplificazione delle dinamiche sociali.

Il discorso pubblico degli ultimi anni è stato costruito prevalentemente intorno a binomi apolitici. L’opposizione italiani/stranieri – chiave di volta dell’azione leghista – ha sollecitato e incanalato le pulsioni xenofobe e razziste di una parte della popolazione. La contrapposizione noi/loro e lo sglogan né di destra né di sinistra che hanno accompagnato la parabola ascendente del Movimento 5stelle incarnando la promessa di una palingenesi del sistema politico hanno mostrato presto la loro inconsistenza, ma non hanno smesso di insinuarsi nelle pieghe della società. Nel Pd, la direzione renziana ha rappresentato la fase parossistica del ricorso a contrapposizioni elementari, grezze e rudimentali: nuovo/vecchio, conservazione/cambiamento, giovani/anziani. Ma anche il “nuovo” corso ha mantenuto intatto lo schema di base, che torna ben visibile nella fiacca e banale campagna elettorale costruita intorno all’imperativo Scegli, che proponeva – tra le altre – le alternative no vax/scienza e vaccini e con Putin/con l’Europa.

La pandemia e la guerra in corso hanno accelerato e drammatizzato l’uso politico di contrapposizioni schematiche e pericolose che fanno tabula rasa di ogni tentativo di analisi critica (chi si ostina a proporne viene immancabilmente messo all’indice) e irresponsabilmente mettono pezzi di società l’uno contro l’altro. Il conflitto è derubricato a scontro tra individui e deformato mediante la creazione artificiale di nemici, persone che non abitano più uno spazio comune dove si lotta per affermare diverse visioni del mondo. In fondo a questo degrado della ragione, gli slogan non rappresentano più la semplificazione di un discorso complesso ma coincidono con il discorso stesso, ormai privo di spessore e profondità.

L’ideologia tecnocratica agisce invece su un duplice livello. Il primo è quello esplicito, che prende la forma dei governi “tecnici” ed esibisce l’inadeguatezza della politica, che sarebbe efficace solo se affidata ad “esperti”. Il risultato elettorale ha mostrato che l’ideologia della competenza “neutrale” non sembra aver fatto breccia, a dispetto della rappresentazione fornita dagli organi di informazione, autori di una imbarazzante agiografia di Draghi. Infatti, il voto – quello espresso e quello in fuga nell’astensione – penalizza maggiormente le forze che hanno sostenuto il governo. Ciò non toglie che la tecnocrazia continui a rappresentare l’orizzonte di pensiero di entrambi gli schieramenti politici, ugualmente attratti dall’idea di sottrarre la governabilità al conflitto sociale.

Ma c’è un livello più nascosto nel quale l’ideologia tecnocratica agisce con più efficacia, ed è quello che governa le molteplici forme di valutazione diffuse nelle scuole, nelle università, nei luoghi di lavoro, e ora diffuse anche attraverso i sistemi di rating sociale che si stanno affacciando in maniera pericolosa – al riparo da qualsiasi dibattito pubblico – nella vita quotidiana. Questa ramificazione nell’articolazione sociale è più insidiosa perché meno visibile e, soprattutto, perché si realizza attraverso la complicità (in gran parte involontaria, ma appunto per questo più pericolosa) delle cittadine e dei cittadini, cioè di coloro che dalla depoliticizzazione hanno tutto da perdere. Ciascuno di essi partecipa in questo modo alla costruzione di un conformismo diffuso, uno dei prodotti più inquietanti della depoliticizzazione, elemento essenziale per la costruzione di una sfera pubblica addomesticata nella quale si possa generalizzare l’omologazione che il mercato ha già realizzato nella sfera privata attraverso la standardizzazione dei consumi.

Il conformismo agisce anche sulla competizione elettorale. Il ceto politico erede della tradizione della sinistra, ormai privo di una propria cultura politica, lo utilizza apertamente come strumento di manipolazione del consenso, invocando il “meno peggio” – una passione triste priva di slancio e convinzione – e il voto “utile”, definizione che altera profondamente i principi della democrazia in quanto pretende di stabilire l’esistenza di un voto “inutile”.

 

Dove posare lo sguardo

Nel testo proposto come griglia di lettura di alcuni degli aspetti più gravi della crisi della democrazia rappresentativa, Hirschman ci ricorda che “l’individuo […] è a un tempo stesso produttore e consumatore di beni pubblici […]; ebbene, può smettere di produrli, ma non già di consumarli”. Tra i beni pubblici include la politica e i partiti. Quindi il cittadino non smetterà di interessarsi alla qualità dell’organizzazione abbandonata, perché è consapevole che questa continuerà a produrre scelte che avranno effetto sulla società nel suo complesso. “Uscire significa così dimettersi contro la propria volontà e, in generale, biasimare e combattere l’organizzazione dall’esterno invece di promuovere il cambiamento dall’interno”.

In altri termini, la defezione non annulla la protesta, ma la colloca altrove. Ma dov’è questo “altrove”? Il conflitto non si estingue per volontà dei soggetti politici che siedono in parlamento e pretendono di farne a meno, decretando in questo modo la propria irrilevanza. Il conflitto esiste ed esiste il dissenso, ed entrambi si esprimono in molte forme, estremamente frammentate e disperse. Per stare e agire nel proprio tempo occorre costruire una geografia e un’antropologia dell’“altrove”, nella consapevolezza che la protesta dall’esterno non chiede ai soggetti politici tradizionali di rifondarsi, domanda piuttosto di rifondare la politica come bene pubblico.


Ho ripreso qui alcune riflessioni intorno a Hirschman da un articolo che avevo scritto per “Lo straniero” (n. 154/2013) in occasione un altro commento post-elettorale. Le intuizioni contenute nel suo saggio mi sembrano più che mai valide e attuali, alla luce di quanto sta accadendo.
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