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Autonomia differenziata. La revisione dell’ordinamento statale

di Giovanni Dursi

Roma sede regione Lazio foto Esposito 1920x991Il 2 Febbraio 2023 il Consiglio dei Ministri, su iniziativa del Ministro per gli Affari regionali e Autonomie Roberto Calderoli, atta a provocare l’inizio di un inerente procedimento attuativo, ha approvato il Disegno di Legge che codifica l’assetto della cosiddetta “autonomia differenziata”. Il DdL citato si situa nel solco interpretativo dell’art. 116, comma 3, della Costituzione della Repubblica italiana [1], che consente alle Regioni a statuto ordinario interessate di stipulare, sulle ‘materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 [2] e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), intese con lo Stato per l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni di autonomia’.

Questo è il primo di tre interventi che Mentinfuga proporrà, il primo dei quali rappresenta una ricognizione storico-politica a) sulle sollecitazioni che l’ordinamento statale repubblicano ha recepito e subito nel recente passato (fine Novecento) e che oggi (terza decade del XXI secolo) sta registrando e b) sugli esiti, ancora del tutto controversi, che s’intravedono con riguardo alla cosiddetta “autonomia differenziata”.

Seguiranno un articolo di disamina tecnico-giuridica e politica dell’orientamento che l’attuale compagine governativa intende dare all’attuazione della cosiddetta “autonomia differenziata” ed un testo di valutazione finale con particolare riguardo al profilo che risulterebbe significativamente modificato – qualsiasi sia la mediazione raggiungibile tra le subculture politiche che hanno partecipato, tutt’ora confrontandosi, alla revisione del dettato costituzionale in merito – di “cittadinanza”, il cui rango odierno pare soggiacere più ad una logica gerarchica d’assoggettamento dei diversi territori (rif. tipico alla questione del “residuo fiscale” [3] che corrispondere al godimento di diritti in modalità universalistica esprimendo un correlato e consolidato vincolo d’appartenenza allo Stato italiano.

Nell’ordinamento statale repubblicano italiano, l’autonomia è configurata come aspetto fondamentale di autorità legislativa, originariamente caratteristica delle Regioni a statuto speciale, trasferibile dal 2001 anche alle Regioni a statuto ordinario sulle competenze che, secondo l’articolo 117 della Costituzione, appartengono alla legislazione concorrente con lo Stato. Va ricordato che il Titolo V della Costituzione della Repubblica è stato riformato con la Legge costituzionale 3/2001, dando piena attuazione all’art. 5 della carta costituzionale, che riconosce le autonomie locali quali enti esponenziali preesistenti alla formazione della Repubblica. I Comuni, le Città metropolitane, le Province e le Regioni sono enti esponenziali delle popolazioni residenti in un determinato territorio, tenuti a farsi carico dei bisogni delle stesse popolazioni. L’azione di governo si svolge a livello inferiore e più vicina ai cittadini, salvo il potere di sostituzione del livello di governo immediatamente superiore in caso di impossibilità o di inadempimento del livello di governo inferiore (rif. a “principio di sussidiarietà verticale”). La riforma è stata ritenuta necessaria per dare piena attuazione e copertura costituzionale alla riforma denominata ‘Federalismo a Costituzione invariata’ (Legge 59/1997).

Alle Regioni è stata riconosciuta l’autonomia legislativa, ovvero la potestà di dettare norme di rango primario, articolata sui tre livelli di competenza: esclusiva o piena (le Regioni sono equiparate allo Stato nella facoltà di legiferare); concorrente o ripartita (le Regioni legiferano con leggi vincolate al rispetto dei principi fondamentali, dettati in singole materie, dalle leggi dello Stato); di attuazione delle leggi dello Stato (le Regioni legiferano nel rispetto sia dei principi sia delle disposizioni di dettaglio contenute nelle leggi statali, adattandole alle esigenze locali). Allo Stato compete solo un potere esclusivo e pieno, circoscritto alle materie di cui all’elenco del secondo comma dell’art. 117 della Costituzione. Il terzo comma dell’art. 117 individua i casi di potestà legislativa concorrente tra lo Stato e le Regioni. Per tutte le altre materie, non conformi e non rientranti in quelle indicate nei commi 2° e 3° dell’art.117, le Regioni hanno potestà legislativa piena.

Verificata una risorgente ed accentuata velleità politico-istituzionale novecentesca, confermata nella prima decade del XXI secolo dai partiti nazionali anche di recente nascita ed affermazione elettorale, è basilare connettere tali soggettive volontà delle formazioni politiche alla storia del Paese. Ciò è necessario per evitare derive meramente propagandistiche, messe in campo al fine di proditoria conquista di consenso spicciolo, basate esclusivamente sull’autoreferenzialità e sui peculiari propositi egemonici, trascurando la cura dei rapporti con la consistente e variegata realtà economico-sociale italiana, peraltro incastonata nel costante divenire geopolitico multipolare e nelle conseguenti ridefinizioni in itinere degli assetti organizzativi, più o meno efficaci, di entità sovranazionali.

Storiograficamente, infatti, non bisogna sottoporre ad oblio la conoscenza relativa al concetto di “autonomia” che s’afferma in Italia tra l’XI e il XII secolo d. C., cioè diversi secoli prima del Risorgimento e della nascita del Regno, con il fiorire in “pieno Medioevo” degli ordinamenti comunali, corporativi e monarchici. Essi erano parte di un organismo politico più vasto (la respublica christianorum) e i loro ordinamenti giuridici (ius proprium) presupponevano le norme generali (ius commune) dell’ordinamento universale.

Dall’origine di una lenta, plurisecolare edificazione statuale, in Italia l’articolazione territoriale politico-giuridica dell’attività dello Stato e la sua pertinenza amministrativa si è contraddistinta nella dislocazione di poteri e/o di funzioni tra i diversi soggetti e organi della pubblica amministrazione, al fine di raccordare le esigenze della collettività agli enti a essa più vicini. Tale processo che, a ragione, può essere definito di “decentramento amministrativo[4], è elemento caratterizzante, da tempo, della vicenda politico-istituzionale nazionale. Pertanto, il “decentramento amministrativo” italiano – oggettivo risultato di una sommatoria di decentramento burocratico od “organico”, “autarchico” od istituzionale e per servizi [5]– si è nei fatti contrapposto al fenomeno dell’accentramento, verificatosi in altri Paesi europei ed extraeuropei, assumendo connotazioni diverse a seconda della soggettività istituzionale a cui, di volta in volta, sono state trasferite le funzioni. È tale complessa opera di “devoluzione” a rendere riconoscibile l’organizzazione amministrativa italiana, agendo come corollario della configurazione rappresentativa dell’assetto statale sul territorio, riconducibile soprattutto all’idea di regolari ed uniformi disposizioni e/o funzionamenti validi per tutti i cittadini, ovunque essi risiedano. Si tratta, quindi, di un ordinamento strutturalmente “democratico”, essendo finalizzato a realizzare l’adesione effettiva della cittadinanza all’esercizio egualitario e alla cura degli interessi pubblici condivisi, assolvendo al compito precipuo d’erogazione universalistica delle risorse e delle funzioni amministrative.

Storicamente, il “decentramento amministrativo” è conclamato come principio fondante della comunità nazionale dall’art. 5 della Costituzione, approvata dall’Assemblea Costituente il 22 Dicembre 1947 e promulgata dal Capo provvisorio dello Stato il 27 Dicembre 1947, in base al quale «la Repubblica italiana, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali e attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento». Va menzionato anche l’art. 97, comma 2, in quanto specifica che «nell’ordinamento degli uffici sono determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari». Il principio del “decentramento” è altresì previsto agli art. 114-133, Titolo V, parte II della Costituzione, laddove si descrive l’assetto organizzativo della Repubblica.

Probabilmente, le deformazioni interpretative della storia del Paese e, successivamente, dello stesso dettato costituzionale, le strumentalizzazioni semantico-lessicali di molti esponenti delle formazioni partitiche tra di loro contrapposte che si sono impadronite della quaestio, le immotivate ansie pseudoinnovatrici, i pronunciamenti giuridici, spesso inopportuni, provenienti ex cathedra, tanto sussiegosi quanto perentori, certamente avulsi da una doverosa considerazione dell’autentica gerarchia esigenziale della società civile, hanno trovato, nello scorrere invano del tempo circa le intenzioni riformatrici, l’occasione per avviare forzature politiche. Forzature tali da tradurre la legittima rivendicazione del “decentramento amministrativo” in una eterodiretta imposizione dell’“autonomia differenziata”, che sembra oggi essere sostenuta più da processi generati dalle convulsioni dell’economia globale che da interni, immanenti e coerenti bisogni di passaggio ad un sistema istituzionale improntato allo sviluppo, non solo tecnico e/o produttivo, bensì civile.

Per onestà intellettuale non si può sottacere, infatti, che la dimensione sovranazionale ha generato un impatto condizionante per il ridisegno complessivo – normativo e dell’architettura istituzionale – della fisionomia degli Stati-nazione, nello “spazio” europeo in modo particolare, dai primi anni del XXI secolo. In Italia, ad esempio, nel corso della seconda parte della XVI Legislatura, in concomitanza con l’acuirsi delle tensioni sui debiti sovrani dell’area dell’Euro, è emersa a livello comunitario l’esigenza di prevedere negli ordinamenti nazionali ulteriori e più stringenti regole per il consolidamento fiscale e, in particolare, di introdurre, preferibilmente con norme di rango costituzionale, la “regola aurea” del pareggio di bilancio. Con Legge costituzionale 20 Aprile 2012, n. 1 è stato pertanto introdotto nella Costituzione, in coerenza anche con quanto disposto da accordi internazionali quali il cosiddetto Fiscal compact, il principio dell’equilibrio strutturale delle entrate e delle spese del bilancio. Tale operazione, definibile come una sorta di pittoresco ventriloquio secondo una sequenza ben identificata FMI-UE-Stati-nazione, ha il suo precedente preparatorio (Marzo 2011) nel Patto EURO PLUS teso a favorire il coordinamento più stretto delle politiche economiche per la competitività e la convergenza, approvato dai capi di Stato o di Governo della zona euro, iscrivendosi nella linea della governance economica dell’UE irrobustendola, assumendo l’ulteriore obbligo di recepire nelle Costituzioni o nella legislazione nazionale le regole del “Patto di stabilità e crescita” (six pack e two pack).

A questo proposito, oltre a menzionare la conseguente, esemplare “tragedia greca”, si desidera riportare alla memoria alcuni scorci del dibattito pubblico che, a metà degli anni ’90 del secolo scorso, vide Kenichi Ohmae, senior partner della McKinsey & Company, nonché consulente molto apprezzato di governi e multinazionali – un vero alto funzionario del capitale – principale protagonista. Ohmae scriveva [6] che gli Stati-nazione erano oramai diventati «unità di business artificiose, o addirittura inammissibili, in un’economia globale». Al posto loro si ergevano i nuovi “Stati-regione”, di cui il Kansai attorno ad Osaka e la Catalogna erano due study cases. Inoltre, lo stesso Ohmae si chiedeva che senso avesse «pensare all’Italia come un’entità economica coerente all’interno della UE» quando «esistono invece un Nord industriale e un Sud rurale, che differiscono profondamente in ciò che sono in grado di dare e in ciò di cui hanno necessità».

Secondo una prospettiva tecnocratica, quindi, si dovrebbe realizzare un vero e proprio new design cartografico [7], oltre all’abbattimento – con beneficio per l’economia capitalistica – dei confini diventati virtuali e alla ricerca dell’unione tra regioni forti – “le aree omogenee di business” -. Infatti, più o meno nello stesso periodo, quello che anni dopo sarebbe diventato l’arcigno Ministro delle Finanze del Governo tedesco, Wolfgang Schäuble, lanciò, assieme a Karl Lamers, il progetto di un’Europa limitata a un nucleo forte centrale, la Kerneuropa, escludendo i paesi e le economie periferiche. Un progetto ricorrente, permanente, come un trabocco trasformativo nelle sembianze dell’Europa “a due velocità”.

Può essere aggiunto che da anni l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel mezzogiorno (SVIMEZ), nei suoi Rapporti annuali, fa riferimento [8] ad un “doppio divario”: quello tra il Nord e il Sud Italia e quello tra l’Italia e l’Europa. Conseguentemente, se oggi è fondamentale avere una visione della “quistione meridionale” non più soltanto di tipo nazionale per il suo inevitabile intreccio con le politiche regionali e le strategie macroregionali europee, così la teoria della “locomotiva” economico-finanziaria, tanto cara ai liberisti, non si può vedere sganciata dal contesto europeo che dopo il 24 Febbraio 2022 ha avuto una forte spinta alla meridionalizzazione in seguito all’accelerazione di processi geopolitici che, seppur già in atto, hanno avuto una prima intensificazione con la crisi pandemica.

In piena sintonia con le analisi citate, il Nobel statunitense Paul R. Krugman, sin dal 1991, ha individuato una tendenza alla “mezzogiornificazione dell’Europa” che oggi, però, non è più concentrata soprattutto nei Paesi del Sud Europa – i PIGS -, ma si va progressivamente estendendo all’insieme del continente a partire dalla Germania, la nota “locomotiva” UE, che maggiormente risente delle conseguenze negative in termini di competitività e produttività del proprio sistema economico per l’attuale crisi internazionale.

In definitiva, la Legge costituzionale 20 Aprile 2012, n. 1 ha introdotto nell’ordinamento un principio di carattere generale, secondo il quale tutte le Amministrazioni pubbliche devono assicurare l’equilibrio tra entrate e spese del bilancio e la sostenibilità del debito, nell’osservanza delle regole dell’Unione europea in materia economico-finanziaria. È altresì evidente che tale normativa induce Governo e Parlamento a confezionare su ampia scala un’inedita architettura istituzionale che, in modo sistemico, rimoduli tutto quanto sia attinente ai principi o agli aspetti fondamentali della “macchina Stato”, rendendola subalterna e inadatta ad essere congiunta alla “Nazione”, esattamente come molti autori da tempo hanno sostenuto e che trova nelle 93 pagine del libro di Judith Butler e Gayatri Chakravorty SpivakChe fine ha fatto lo Stato-nazione ?[9] una proficua trattazione delle problematiche conseguenti alla drammatica condizione dell’”essere senza Stato” in un mondo ormai globale che, con la sua identità monolitica, sembra destinato a un progressivo tramonto.

Il focus razionale è il seguente: interrogandosi sulle forme e sulle esperienze di appartenenza a uno Stato, al di là del rigido confine territoriale, a quale “soluzione” porta la nuova articolazione dello Stato quale “potere” che lega, rinforzando i vincoli di prossimità? Porta ad una “soluzione” inclusiva oppure dota i citoyens di una cittadinanza solo “differenziale e selettiva?

Di fronte allo sviluppo dello “Stato manageriale”, rimodellato sulle esigenze del selvaggio mercato globale capitalista, ed agli irreversibili processi aporetici economico-politici derivanti dalla rimozione definitiva delle barriere tra le fragili potestà nel campo delle politiche economiche degli Stati e il fragoroso, bellicoso incedere del capitale internazionale, si sta assistendo, dietro allo stonato canto in primo piano sull’”autonomia differenziata”, all’archiviazione definitiva dei residui keynesiani novecenteschi, laddove nessuna opzione politica continua a sostenere l’intervento dello Stato in materia monetaria e fiscale al fine di incrementare l’occupazione.

Tanto meno risulta all’ordine del giorno dell’agenda governativa sull’”autonomia differenziata” il conseguente consolidamento del Welfare State nel terzo millennio, in grado di modificare in modo deliberato e regolamentato la distribuzione dei redditi generata dalle forze del mercato stesso, in modo tale da assicurare a tutte le categorie sociali (per mezzo di servizi pubblici, prestiti, benefici fiscali, controllo del mercato immobiliare e lavorativo) un tenore di vita minimo, la sicurezza di sopravvivenza in situazioni di emergenza (catastrofi naturali, guerre e simili) e, soprattutto per categorie particolarmente disagiate, l’accesso ai servizi fondamentali (istruzione e sanità), seguendo i principi dell’uguaglianza tra i cittadini e di diritto per tutti alle pari opportunità.

In effetti è nell’ambito del diritto contemporaneo che la nozione di “autonomia” assume una pluralità di significati, spesso contrastanti tra loro, di ambigua “lettura” tanto da far parlare alcuni autori di una crisi del concetto stesso. Secondo uno dei suoi principali studiosi nel Novecento, Massimo Severo Giannini, colui che ha maggiormente contribuito alla conoscenza del diritto amministrativo e al suo sviluppo, nonché a forgiare gli strumenti concettuali del suo studio, la nozione può alludere a diversi aspetti. In primo luogo all’autonomia normativa, intesa cioè come potere di un soggetto a cui l’ordinamento sovrano riconosce la facoltà di darsi regole proprie. In secondo luogo all’autonomia istituzionale, a cui vengono riferite una serie di relazioni diverse (dal rapporto tra Stato e Chiesa cattolica alla teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici et allii). In terzo luogo all’autonomia organizzatoria, che costituisce un rapporto giuridico di organizzazione intercorrente tra due figure soggettive.

Tale concezione è stata incardinata, nello studio dello Stato effettuato da Giannini mentre la cultura giuridica era prevalentemente suggestionata dalla considerazione dello Stato-persona, in un apprezzamento dello Stato a partire dalla sua composizione reale, osservando che il suo principale mutamento è prodotto dall’allargamento del suffragio che consente la rappresentanza di più classi e più territori sospingendolo a diventare «Stato sociale» (formula, peraltro, da lui criticata), a causa della progressione della legislazione di protezione sociale richiesta dalle classi subalterne e socialmente emarginate, una volta che queste hanno avuto accesso alla dimensione democratica della loro rappresentanza nel consesso pubblico ed istituzionale. Lo Stato, per Giannini, abbandona anche la forma dell’organizzazione compatta, per assumere quella dell’organizzazione disaggregata, dovuta alla penetrazione di nuovi interessi pubblici, ognuno affidato a una diversa autorità.

È a quest’ultimo profilo che si riferisce la Costituzione italiana, quando si tratta dell’autonomia (appunto nell’art. 5): si ha autonomia organizzatoria, infatti, quando i rapporti organizzatori tra figure di un medesimo genere vengono disciplinati in deroga alla regola generale, così da attribuire a una delle figure poteri più ampi di quelli attribuiti alle figure consimili. Un caso peculiare di autonomia organizzatoria è rappresentato dagli enti territoriali, ovvero Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni (ex art. 114, comma 1). Le prime hanno anche autonomia normativa, ma non vi è dubbio che il loro tratto fondamentale sia l’autonomia dell’indirizzo politico-amministrativo, cioè il fatto che essi derivino l’indirizzo politico-amministrativo non dallo Stato, ma direttamente dalla propria popolazione di riferimento costituita in corpo elettorale.

Senza dover assumere una posizione difensivistica ad oltranza (rif. alla tesi secondo la quale c’è necessità di proteggere lo Stato come «struttura astratta minimale» nella sua funzione redistributiva, J. Butler e G. C. Spivak [10], Giannini offre un’idea forte osservando che la Costituzione italiana agisce come garanzia contro le turbative politiche dell’amministrazione, ponendola al servizio della nazione e separando il Governo dall’Amministrazione.

Per quanto finora esposto, il Disegno di Legge del Governo Meloni, come ne discende logicamente in modo chiaro, consiste in un provvedimento che, da un lato, rischia di incidere in maniera significativa sugli equilibri istituzionali, economici e sociali complessivi del Paese; dall’altro, rischia di pregiudicare in modo irreversibile il “decentramento amministrativo” d’ispirazione solidaristica, a cui obiettivamente bisogna fare riferimento (l’art. 116 della Costituzione). Il proponimento dell’attuale Governo è dagli esiti prevedibilmente nefasti perché, oltre alla potestà legislativa per le materie di legislazione concorrente e per eventuali altre tre quelle di competenza esclusiva dello Stato, con il DdL Calderoli si mette mano al trasferimento di risorse secondo il principio che le imposte dirette ed indirette debbano rimanere quasi totalmente nel territorio in cui sono esigibili.

L’effetto di un simile smontaggio del dettato costituzionale è che le Regioni che stipuleranno le intese, quelle economicamente più floride [[11]], saranno notevolmente avvantaggiate a scapito degli Enti regionali economicamente più deboli. Gli ulteriori effetti negativi saranno di sistema, giacché verranno indeboliti i principi di uniformità ed uguaglianza così come costituzionalmente previsti.


Note
[1]Rif. TITOLO V LE REGIONI, LE PROVINCE, I COMUNI, art. 116, comma 3: «Ulteriori forme e condizioni particolari da autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei principi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata». Articolo così sostituito con l’art. 2, comma 1, della Legge costituzionale 18 Ottobre 2001, n. 3.
[2]Per utile consultazione, link all’art. 117.
[3]Come è noto, il “residuo fiscale” va considerato come una stima, non come un dato oggettivo, ed è compiuta sottraendo dalla spesa pubblica complessiva riferita ad un territorio l’ammontare del gettito fiscale generato dai contribuenti residenti nello stesso territorio.
[4]In questa sede, rinviando altre considerazioni a successivi approfondimenti, si ricorda che il principio del “decentramento amministrativo” ha iniziato ad avere attuazione nel 1970, con il trasferimento alle Regioni a Statuto ordinario delle funzioni amministrative a esse attribuite sulla base degli art. 117 e 118 della Costituzione e di funzioni proprie dello Stato (L. n. 281/1970, e D.P.R. 1 Novembre 1972). Successivamente si è avuto un ampliamento delle funzioni regionali con il D.P.R. n. 616/1977 (L. delega n. 382/1975).
Negli anni ’90 l’attività legislativa è tornata sulla materia con la L. n. 142/1990 (confluita nel D.lgs. n. 267/2000), che ha dettato il nuovo ordinamento delle “autonomie locali”, e con la L. n. 81/1993, relativa all’elezione diretta del Sindaco e del presidente della Provincia. È soprattutto dal 1997, nell’ambito della riforma della Pubblica Amministrazione e dell’opera di semplificazione dell’attività amministrativa, che si è avviata una politica di decentramento, attraverso la L. n. 59/1997.
[5]Ci si riferisce – rispettivamente – alla traslazione di competenze da organi centrali a organi periferici appartenenti allo Stato (le Prefetture et alii), al conferimento di compiti pubblici a enti territoriali separati dallo Stato (enti locali et alii) e all’attribuzione di compiti specializzati e funzioni a soggetti (spesso creati appositamente) non territoriali, separati dallo Stato (enti pubblici e aziende, agenzie autonome et alii).
[6] Rif. a La fine dello Stato nazione e la crescita delle economie regionali, Dalai Editore, 1996.
[7] Nello specifico, cfr. Paul R. Krugman in Geografia e commercio internazionale, 1991, pubblicato in italiano dalla Garzanti nel 1995.
[8] Cfr. Rapporto SVIMEZ 2020, pag. 10.
[9] Judith Butler e Gayatri Chakravorty Spivak, Che fine ha fatto lo Stato-nazione ?, Meltemi, 2009.
[10] Op. cit., Che fine ha fatto lo Stato-nazione ?, Meltemi, 2009.
[11]I dati disponibili circa la ripresa post pandemia rilevano quanto segue. Rispetto al 2019, anno pre-pandemia, nel 2023 si rileva un recupero del PIL che è superiore dell’1,3% sempre grazie al Centro-Nord che cresce dell’1,8% mentre il Mezzogiorno è in ritardo, mostrando un calo dello 0,7%. Crescite doppie rispetto alla media per Lombardia (+4,4%), Emilia-Romagna (+4,1%) e Trentino-Alto Adige (+3,6%) seguite da Friuli-Venezia Giulia (+2,4%) e Marche (+2,0%). Per le altre maggiori regioni si rileva una crescita dell’1,7% per il Veneto e dell’1,4% per il Piemonte mentre il Lazio diminuisce dello 0,3%.

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